Il
rione del Lido
Ricordi tripolini
di Domenico
Ernandes |
Capitolo 1°
Leila, la fattucchiera e la pianta di
Tripoli
La sera del 3 aprile del 2006, dopo aver
appreso dalla televisione
la notizia
sulla condanna a
Vanna
Marchi, alla figlia
Stefania
Nobile
ed al «mago»
Mario Pacheco Do Nascimento,
mi è venuto in mente un episodio, legato al mondo della pratica
magica, che mia madre mi raccontava
quando ero piccolo. La
notizia mi faceva riflettere sui tempi che cambiano, sulla
tecnologia che avanza, sul benessere sociale che, se pur a macchia
di leopardo, sta migliorando,
e che, nonostante tutto, le debolezze e le paure irrazionali umane, congenite nell'uomo, permangono ancora
tutte. Nel
passato sono esistite, anche sotto forme diverse, tante persone
come Vanna Marchi ed il suo mago, che hanno plagiato ed imbrogliato
altre persone deboli ed ingenue. Ritengo che nel futuro le cose non
cambieranno e, forse con sistemi e modalità diverse, continuerà a succedere la stessa cosa. Sembra essere una regola
connaturata nel nostro
DNA
umano, dalla quale non riusciamo assolutamente a
liberarcene. Secondo questa regola i nostri nipoti
continueranno a ripetere pedissequamente per i secoli a
venire gli stessi errori che sono stati commessi anche dai loro genitori e dai loro
nonni nel presente e nei tempi passati.
Anche mia madre considerava se stessa una vittima della
manipolazione di persone di questo tipo. L'episodio che mi
raccontava era avvenuto a
Tripoli, proprio nel rione del Lido, nel 1944, quattro anni prima
che io nascessi. Mi diceva che, dopo sposata, aveva
cominciato a soffrire spesso di forti coliche, che a detta
dei medici che aveva consultato, erano dovute a dei
calcoli formatisi nella sua
cistifellea. La diagnosi di questi
medici era corretta, il vero problema consisteva nel fatto
che non riuscivano a trovare il rimedio giusto per non farla
soffrire, cioè asportarli intervenendo chirurgicamente.
Purtroppo a
Tripoli, in quel periodo, lo standard qualitativo della medicina
ufficiale non era tra i migliori. Mia madre aveva anche
un altro importante problema di carattere psicologico: era ormai
sposata da oltre sei anni e fino ad allora non aveva avuto ancora figli.
Provava un certo disagio nel constatare di non poter godere
della gioia della maternità, che ogni giovane sposa desidera.
Mentre mio padre era al lavoro nella sua officina, ubicata di fronte alla
Stadio, a qualche
centinaio di metri da casa mia, mia madre si occupava delle faccende
domestiche. Molte sue amiche del vicinato l'andavano spesso a trovare a casa per farle visita e
per aiutarla nei lavori di casa, specialmente nei
momenti che soffriva di queste coliche. Tra queste amiche, mia
madre si fidava in
particolar modo di una. Questa amica si
chiamava
Felicetta ed abitava nella
stessa palazzina, in Sciara Camperio numero 10, nell'appartamento al
piano di sopra. Erano così tanto amiche che mia madre le aveva
affidato un duplicato delle sue chiavi di casa, che le potevano
servire nel caso lei fosse stata colpita improvvisamente da
una di queste coliche. Visto
che i medici non erano ancora riusciti a trovare la cura giusta, Felicetta le aveva proposto
di ricorrere ad una anziana fattucchiera araba, che a detta della
gente del luogo, era
considerata anche una brava guaritrice. Questa donna, il cui nome
era
Leila, non
si era mai sposata ed abitava da sola in
una
zeriba, all'interno
del rione, nella zona limitrofa del
Maccabi.
Felicetta aveva suggerito a mia madre di non dire niente a mio padre
e che tutto ciò doveva restare un segreto tra donne. Mia madre, che era ancora
giovane e purtroppo anche ingenua, aveva accettato quella
strana proposta e aveva tenuto mio padre all'oscuro della
cosa. All'inizio era così timorosa che preferiva andare dalla
fattucchiera accompagnata dalla sua amica, poi, quest'ultima, forse
per non attirare troppo l'attenzione del vicinato, aveva deciso di
non scortarla più. L'anziana fattucchiera vestiva
tutta di nero e, contrariamente all'usanza locale, aveva dei lunghissimi capelli
bianchi coperti parzialmente da uno scialle nero. La sua
fronte era ampia ed i suoi occhi nerissimi, grandi e
magnetici, sembravano paralizzare le persone con il suo sguardo. I suoi
lineamenti erano regolari e mostravano segni di una antica
bellezza ormai cancellata dall'età. L'ambiente dentro la zeriba
era pervaso da una coltre densa di fumo che usciva da alcune
pagliuzze, collocate ai lati della zeriba. Queste pagliuzze bruciavano lentamente ed emanavano un profumo
dolce ed inebriante, che piaceva tanto a mia madre. Dentro la
zeriba la poca luce veniva dal tenue luccichio di alcuni lumicini,
simili a quelli che si vedono nei cimiteri. Durante la seduta
l'incerto tremolio di questa luce rischiarava appena il viso della
fattucchiera, la quale, tenendo le braccia conserte, batteva con
cadenza i suoi piedi scalzi sul nudo terreno della zeriba ed
emetteva degli strani lamenti. La
fattucchiera non teneva nella suo zeriba pentoloni
fumanti,
sfere di cristallo,
talismani contro
il malocchio o
corni rossi. In compenso aveva un repertorio che sorprendeva i suoi clienti
perchè, con grande loro sorpresa, citava loro tanti particolari che appartenevano alla sfera
della loro vita privata e li stupiva nel dir loro tanti piccoli
particolari di casa sua. A mia madre diceva in quale
posto dell'armadio si trovasse un suo cappotto con la
pelliccia o quando aveva avuto l'ultima colica o addirittura cosa ci
fosse scritto nella
lettera di suo
cugino Fortunato,
disperso in guerra, che mia madre teneva gelosamente nascosta in uno dei cassetti del
suo comò. In questa prima fase del rapporto con la fattucchiera, mia
madre era stata talmente plagiata da Leila che credeva
veramente che la vecchia possedesse davvero dei poteri soprannaturali.
Leila, per guarire le coliche di mia madre poneva le sue mani
sul ventre e sulla parte dolorante.
Ai bordi della sua zeriba
Leila
faceva crescere alcune piantine necessarie per preparare i suoi
filtri oppure raccoglieva quelle selvatiche nei campi limitrofi. Una
volta le aveva preparato una pozione semiliquida, piuttosto amara, a
base di aglio e basilico, e le aveva consigliato di berla
prima dei pasti. Stranamente era
anche a conoscenza del problema della sterilità di mia madre ma
l'aveva rassicurata dicendole che nel suo destino c'era scritto che
un giorno sarebbe diventata madre. Una volta le aveva
dato una boccetta con un filtro che asseriva fosse magico, fatto di
uno strano colore, che doveva bere solo quando c'era la luna piena.
Mia madre non aveva difficoltà a capire cosa le diceva Leila, perchè
aveva imparato a conoscere bene la lingua araba locale. Le diceva spesso che molti dei
suoi problemi venivano dal fatto che avesse il malocchio, che lei
riusciva a vedere. Si vantava di sapere come individuare
subito se una persona avesse o no il malocchio, perchè le persone col malocchio
avevano attorno a sè un'
aura
rossastra,
che li accompagnava ovunque e che lei avesse il dono di riuscire a
vederla. Per toglierle il
malocchio
di dosso, la faceva sedere su una sedia e le stringeva la testa
con le sue mani. Poi cominciava a salmodiare delle parole
incomprensibili anche in arabo, come fossero la nenia di un rosario. Le
appoggiava sulla testa una rozza tazza d'argilla riempita d'acqua
e spruzzava alcune gocce d'olio d'oliva sull'acqua. L'olio, essendo più
leggero dell'acqua, galleggiava e assumeva delle strane forme, a cui la
vecchia sapeva dare una sua interpretazione ed un suo significato.
Proprio dalle forme che prendeva l'olio capiva se il malocchio veniva
da una persona di sesso maschile o femminile e quale fosse la sua
intensità. Per toglierle il malocchio la vecchia prendeva un
grosso pugno di sale da un sacco di juta e lo metteva dentro la
tazza. Andava fuori dalla zeriba portandosi dietro la
tazza. Quando era fuori urlava al vento alcune parole arabe
incomprensibili, poi scavava una piccola buca e vi rovesciava il
liquido della tazza. Ricopriva la buca con la sabbia e ritornava
dentro la zeriba con la tazza vuota. Prendeva un altro pugno di
sale dal sacco e, con gesto rituale, lo lanciava nel vuoto
da dietro le sue spalle. Questo gesto completava la prima parte del
rito contro il malocchio. Il malocchio, vero e proprio, veniva
stroncato completamente solo quando Leila emetteva un suono
vocale, continuo e liberatorio, tramite la sua
lingua. Quando mia madre mi descriveva questa scena, sapeva
imitare abbastanza bene questo suono, che assomigliava
molto a quello che fanno generalmente le donne arabe in segno di
augurio e di gioia durante un matrimonio o una festa. Questo
suono si chiama in arabo zahroutah. Dopo
quest'urlo liberatorio, mia madre diceva di
sentirsi meglio e anche più sollevata, come se si
fosse liberata internamente da un forte peso allo stomaco. Quella volta che mia madre mi raccontava questo episodio,
le avevo chiesto: "Mamma, perchè non ti
facevi
accompagnare da papà in quel posto? Non avevi paura ad andarci da sola?".
Mia madre mi aveva risposto che prima di tutto aveva commesso il grosso
errore di nascondere la cosa a mio padre e che
certamente un po' di paura l'aveva sempre avuta. Inoltre era
rimasta così soggiogata dal potere magnetico della vecchia che si
sentiva attratta e desiderosa di andarla a sempre a trovare. Tra
l'altro mia madre riteneva che quelle pozioni, a base di aglio e
basilico, che la vecchia le aveva preparato e consigliato di
bere, sembravano avere l'effetto di farla a soffrire di
meno. In quel periodo mio padre aveva cominciato a notare alcune
stranezze in mia madre, che continuava a chiedergli più soldi per la
spesa giornaliera, mentre in realtà questi soldi erano gli oboli che
mia madre dava alla vecchia fattucchiera. Mio padre era troppo preso
dal suo lavoro in officina e non aveva avuto il tempo per soffermarsi a
considerare quale fosse il vero motivo della richiesta di tutti
quei soldi. Erano passati quasi due mesi da quando mia madre aveva
cominciato a frequentare la zeriba della fattucchiera, quando
finalmente venne il giorno in cui era accaduto un episodio, che aveva
dato finalmente una svolta a tutta la vicenda e che avrebbe
poi risolto tutti questo groviglio di problemi. Quel giorno
l'anziana Leila appariva diversa agli occhi di mia madre: era stanca e
provata ed il suo volto rugoso sembrava ancora più vecchio di
prima. Durante il solito rito contro il malocchio, la vecchia
sembrava essere andata in trance. Si era rivolta a mia madre, con una
voce roca e quasi maschile che non sembrava sua, e le aveva urlato
in arabo di stare molto attenta ad una "rumia"
(un'italiana). Questa "rumia", che abitava proprio vicino a lei,
era posseduta dal diavolo (in arabo shatan).
Mia madre sul momento non aveva compreso cosa la vecchia volesse dire
con quelle strane parole legate al diavolo. Inoltre si era molto
impressionata per quello strano tono di voce che usciva dalla
bocca della vecchia, che sembrava più un tono di voce maschile
che femminile. Finito il rito mia madre se ne era tornata a casa
piuttosto confusa e per la prima volta dubbiosa. Poi, come se si fosse
svegliata da un profondo torpore, aveva cominciato a riflettere su ciò
che la vecchia le aveva detto e contemporaneamente aveva cominciato ad
intuire che cosa intendesse dire in realtà. Ora che la sua mente si era
liberata da un velo che copriva tutta la verità, capiva perchè la
vecchia sapesse tante cose su di lei. Per prima cosa aveva
iniziato a sospettare che Felicetta, avendo il duplicato delle chiavi
di casa che le dava libero accesso, non faceva altro che curiosare
tra le cose di casa sua per riferire tutto alla fattucchiera.
Colta da questi contrastanti sentimenti e da questi dubbi, mia
madre si era decisa finalmente a confessare a mio padre l'intera
faccenda. Gli aveva chiesto perdono
per aver nascosto per così tanto tempo la verità. Lui, che le voleva
bene e che conosceva la sua giovanile ingenuità (tra mio padre e mia
madre c'erano dieci anni di età di differenza), l'aveva dapprima
perdonata e poi consolata. Inoltre mio padre, che per indole non era
un litigioso, non voleva intervenire direttamente in una questione
tra donne. Aveva solo suggerito a mia madre di pazientare. Anzi
prima di rovinare un'amicizia, doveva essere completamente sicura di
questi sospetti, cogliendola sul fatto. Cosa che in effetti avvenne. Mia
madre, qualche giorno dopo la sua confessione a mio padre, aveva sentito bussare
alla sua porta. Avendo capito che era
Felicetta
non le aveva intenzionalmente risposto. Malgrado Felicetta continuasse
a bussare ed a chiamarla, mia madre aveva seguitato a non rispondere e
silenziosamente si era chiusa a chiave nel bagno. Felicetta aveva
continuato per qualche minuto a bussare alla porta e a chiamare mia
madre, poi convinta che in casa non ci fosse veramente alcuno, era
entrata, usando il duplicato delle chiavi in suo possesso. Una volta
dentro, forse per maggiore precauzione, aveva continuato a chiamarla,
ma mia madre imperterrita non le rispondeva. Felicetta, sentendosi
ormai sicura di essere sola in casa, aveva cominciato a rovistare nei
cassetti del comò della camera da letto. Sentendo i rumori
dei cassetti mia madre era uscita di soppiatto dal bagno e aveva colto
Felicetta sul fatto, come una ladra sorpresa nell'atto di
rubare. Vedendo mia madre, Felicetta era sbiancata in viso;
ormai convinta che in casa ci fosse solo lei. Era rimasta quasi
paralizzata dalla sorpresa, e mia madre, con un guizzo, ne aveva
approfittato per strapparle di mano il duplicato delle sue chiavi di
casa. Presa dalla vergogna, Felicetta se ne era andata via, a capo
chino, senza dire una parola, confessando, con il suo atteggiamento, la
sua colpa. Da allora per un bel pezzo non si erano più parlate. Dopo
qualche anno avevano cominciato a
scambiarsi qualche freddo buongiorno e buonasera. Quattro anni dopo,
nell'agosto 1948, qualche giorno dopo la mia nascita, Felicetta si era presentata a casa nostra
accompagnata da suo marito Giovanni Costa. Avevano portato un regalino
propiziatorio per me, il nuovo erede maschio, e si erano
congratulati con i miei genitori per il lieto evento. Poi Felicetta, sciogliendosi in calde lacrime, aveva abbracciato
mia madre e le aveva chiesto scusa per tutto quello che era successo
tra di loro in passato. Da allora
mia madre e Felicetta
si erano rappacificate e negli anni successivi i miei genitori avevano
cercato di dimenticare quel negativo episodio successo anni
addietro. Personalmente ho un ricordo positivo di Felicetta e di
suo marito Giovanni. Per me sono sempre stati una coppia
simpatica. Non avevano figli e mi portavano spesso dei giocattoli
in regalo. Uno di questi apparteneva a quella categoria dei giocattoli
dell'infanzia che non si dimenticano mai. Era una
trottola,
tutta disegnata con delle stelle, degli scoiattoli e degli strani
omini, che quando girava emetteva il suono di una sirena. Felicetta mi prendeva spesso fra
sue braccia
come fossi suo figlio,
come si vede in alcune vecchie fotografie. Io penso che lo facesse
per supplire al fatto che loro che non avevano figli.
Giovanni Costa,
suo marito, era un uomo semplice e bonario. Aveva dapprima
gestito il Bar Apollo, che si trovava in centro
città,
in Sciara Ar-Rashid, una larga strada perpendicolare a Corso Sicilia, proprio di fronte a
quel palazzo che veniva
chiamato da tutti il
Colosseo,
per la sua forma tondeggiante. Poi,
insieme alla moglie, aveva acquistato per un certo periodo di tempo uno
dei due generi alimentati presenti nel rione del Lido. Con i loro
risparmi, Giovanni e Felicetta avevano
acquistato una porzione di villetta con giardino ed un albero di fico, a
Collina Verde. Spesso con i miei genitori andavamo a trovarli per
fare insieme un picnic all'aria aperta.
Una
volta avevo chiesto a mia madre perchè una persona, che io consideravo
buona come Felicetta, potesse essere stata un tempo così cattiva. Mia
madre mi aveva risposto che Felicetta in realtà non era cattiva, ma in
quel particolare momento, circa quattro anni prima, era stata
posseduta dal diavolo. Mia madre credeva al diavolo e la
giustificava perchè era convinta che Felicetta si fosse comportata
male indipendentemente dalla sua volontà. Quando aveva
commesso quelle brutte cose non era stata veramente lei a farle,
ma il diavolo. Quando parlava del diavolo sapevo che io avevo un po' di
paura e così aggiungeva che io non avevo motivo di preoccuparmi
perchè ormai tutto era tornato ad essere tranquillo. Secondo mia madre
tutta quella vicenda si era risolta bene, grazie alla sacra
intercessione di
Santa Rita da Cascia. Lei si
rivolgeva con devozione a questa Santa, protettrice dei casi
difficili ed aveva sempre pensato che, attraverso le sue
preghiere, la Santa era intervenuta con forza benigna su questa
vicenda. La Santa con il suo potere divino, superiore ad ogni altro
potere, anche quello del maligno, aveva costretto la fattucchiera a parlare e a svelarle la
verità. Poi quella spiacevole vicenda si era sistemata da sola. Da
grande e con più esperienza ho sempre giudicato mia madre come una
persona buona ma anche ingenua, che credeva, in maniera
esagerata, nella bontà del prossimo, senza alcuna discriminazione.
Quando era in vita non ho mai osato contraddirla in questa sua
filosofia, che io non ho mai condivisa e continuo tuttora a non
condividere. Per esempio, l'effetto benefico delle pozioni di basilico
ed aglio sulle coliche di mia madre è scientificamente spiegabile
dal fatto che
le
foglie e le sommità fiorite del basilico vengono utilizzate
per preparare degli infusi che hanno azione sedativa, antispastica
delle vie digerenti, stomachica e diuretica, antimicrobica. Inoltre
il basilico è utilizzato contro l'indigestione e come vermifugo
dalla medicina omeopatica. Il consumo di aglio dà un generale senso
di benessere all'organismo per la sua azione anti batterica quindi
anti infettiva. Il
malocchio, come la superstizione, sono antiche credenze dell'uomo,
che ancora oggi lo affliggono. Forse queste credenze sono
dettate dall'ignoranza o dalla paura che assale l'uomo quando non
riesce a spiegare logicamente alcuni fenomeni che gli si presentano.
Personalmente credo che ci sia una spiegazione razionale a tutto e quando non
riusciamo a capire ci rifugiamo nel soprannaturale. Il
teorema teologico del diavolo è un
argomento così vasto e complesso che non me la sento di affrontare
in questa sede. Credo di essere un credente,
ma sono anche una persona razionale ed uno scettico
all'ennesima potenza. Spero che il Signore non me ne voglia per
questo mio modo di essere e che, quando verrà il mio momento, mi
accetterà così come sono.
In contemporanea alla notizia di
Vanna Marchi ho ricevuto una
pianta di Tripoli per
posta elettronica da un amico tripolino,
Salvo Rapisarda,
un pensionato con la passione del computer, che ora vive con la sua
famiglia a Brescia. Salvo, agevolato dalla sua conoscenza dell'arte grafica, è stato il
primo dei tripolini a costruire un
sito dedicato al
ricordo dei suoi amici e agli anni trascorsi da noi italiani
in Libia. Questo sito è corredato da tante foto, da commenti sonori
e da una varietà di racconti interessanti, scritti dai suoi amici
tripolini e da lui raccolti con una grafica tecnologicamente
avanzata. Questa pianta disegnata durante il periodo coloniale
italiano, quando ancora le sue strade erano denominate con i vecchi
nomi italiani è stata stampata dall'Istituto Geografico De Agostini di Novara,
trasformata con lo scanner in una foto in
formato Jpeg. Questa foto ha anche una discreta dimensione di memoria, che la rende
sufficientemente chiara e leggibile anche zoomandola, tanto che ho
deciso di inserirla come foto principale di questo periodo
nella mia
homepage.
Ingrandendola si può notare sul bordo in basso, probabilmente sgualcito dagli anni, la scritta
in inglese di un timbro che tradotto in italiano dice così: "Collezione di mappe della
biblioteca dell'Università di California - USA - 31 Luglio
1978 - Alfred H. de Vries". Sulla parte in alto a sinistra
della cartina c'è
un'altra pianta più piccola, denominata "Tripoli e dintorni"
su scala 1 a 200.000, cioè ogni centimetro misurato sulla
pianta equivale a due chilometri reali. Così , oltre a quello di
Tripoli, si possono leggere i nomi di Gargaresh, Gurgi, Ain Zara,
Suk el Giuma e Tagiura e vedere i simboli delle Carovaniere, dei
Cimiteri, dei Punti d'acqua, delle Moschee e dei Marabutti. Sul
resto della carta c'è stampata la pianta di Tripoli su scala più
dettagliata, 1 a 20.000, cioè che ogni centimetro misurato
sulla pianta equivale a duecento metri reali. Sul lato sinistro
della carta c'è una leggenda dei posti d'interesse come il Monumento
dei Caduti italiani, dell'Arco
di Marco Aurelio, della
Moschea di Gurgi, di quella dei
Caramanli
e di Sidi Hamuda, della
Cattedrale,
della
Sinagoga, del
Teatro Miramare, della Banca
d'Italia, del
Palazzo delle Poste , di Giustizia e quello del
Governatore, del Municipio, del
Grand Hotel, della
Fiera Campionaria
Permanente e dell'Idroscalo.
Nel dopoguerra, esattamente
il 24 Dicembre 1951,
la Libia,
come altri paesi africani, arrivava ad essere indipendente con un
governo di tipo monarchico ed aveva nel
re Idris I Senussi
il suo
rappresentante. Da allora
una buona parte dei nomi delle
strade erano stati giustamente cambiati da quelli dedicati
alla storia italiana a quelli nuovi, che erano intitolati al giovane
ed indipendente paese libico. Nel rione del Lido, così come in altri
rioni di Tripoli, alcuni nomi delle vie non erano stati rimossi,
tanto che, anche dopo il 1951, si potevano ancora leggere
sulle targhe delle strade ancora quelli di alcuni famosi
esploratori del periodo coloniale italiano, come Manfredo
Camperio, Vittorio Bottego, Gustavo Bianchi, Arnaldo Fraccaroli,
Gaetano Casati, Guido Cora e Romolo Gessi. L’unica variazione
apportata rispetto al periodo coloniale era che davanti al
nome della via c’era scritto il nome arabo “sciara” anziché via,
o "zenghet" se la strada era
stretta come un vicolo. Così subito incuriosito di rileggere quei nomi, che mi riportavano
indietro nel tempo con la mia memoria, ho fatto una zoomata sulla zona del Lido.
Proprio la mia zona,
quella in cui
sono nato, il 26 agosto 1948, e dove ho vissuto, sempre nella stessa casa, per ben ventidue anni, fino
a quando nel 1970, noi, come tutte le famiglie italiane, siamo stati costretti
ad abbandonare Tripoli. Il rione del
Lido
Vecchio, venendo da
Piazza Italia, poi Maidan Ashiuhada, e percorrendo
Corso Sicilia,
poi Giaddat
Omar el Muktar,
si trovava oltre la
Fiera Internazionale
e veniva così chiamato perchè ad ovest costeggiava
proprio lo stabilimento balneare del Lido Vecchio, ad est era
delimitato da Corso Sicilia, a nord dallo Stadio
Principale di calcio e a sud dallo stabilimento balneare del
Lido Nuovo.
>>>
Capitolo
2°
Le famiglie
italiane del rione ed il mito americano
<<<
ll rione del Lido a Tripoli, dove sono nato nel 1948 e poi vissuto
per ventidue anni, era abitato da circa una settantina di famiglie
italiane. La maggior parte di esse apparteneva al ceto medio della
comunità italiana residente a Tripoli. Quasi tutte erano giunte in
Libia nei primi anni venti e più della metà provenivano dalla
Sicilia e dal Veneto. Ciò lo si può verificare analizzando uno ad
uno le origini di questi nomi. Alcune di queste coppie, che
formavano una famiglia, erano chiamate miste solo perché a
sposarsi erano state due persone che provenivano da due regioni
italiane diverse. Questo fatto era considerato allora un esempio di
cambiamento e di trasgressione rispetto a quella che era la comune
usanza di quei tempi. Il detto: moglie e buoi dei paesi tuoi
è l’emblema della mentalità di quel periodo. Il resto delle altre
famiglie veniva dalla Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Toscana,
Emilia e Romagna. La
mia famiglia era formata dai miei genitori e da me, figlio unico. I
miei genitori era entrambi siciliani: mio padre si chiamava Giuseppe
Ernandes ed era nato a Favignana, un’isola delle Egadi e mia madre
Francesca Salmeri invece era nata a Marsala. Entrambi i paesi sono
in provincia di Trapani. Favignana fa parte delle Isole Egadi,
mentre Marsala è famosa per lo sbarco dei Mille e per il suo vino. I
miei genitori hanno vissuto per tanti anni, ancora prima che io
nascessi, con queste famiglie italiane nel tranquillo rione del
Lido, in Sciara Manfredo Camperio. Sembra che, dalle ultime
informazioni pervenutemi, ora questo rione di periferia non esista più.
Ho avuta questa conferma qualche anno fa, visitando on line su internet
il programma
Google Earth.
Fonti attendibili dicono che qualche decennio fa questo rione sia stato
raso completamente al suolo ed oggi al suo posto sono state
costruite nuove case e nuove strade. Proprio per questo motivo
dedico questo articolo al ricordo di queste famiglie ed ad alcuni
personaggi, probabilmente oggi scomparsi. Proprio loro, anni addietro,
hanno partecipato alla vita di questo rione e hanno contribuito
con le loro azioni a lasciarmi alcuni meravigliosi ricordi della mia
infanzia.
Cito i nomi di queste famiglie in stretto ordine alfabetico:
Aharonian (di origine armena), Altomare, Annino, Arena, Avola, Badalucco, Barabani,
Basile, Bellodi, Berardi, Bessi, Bordiga, Braga, Branciamore,
Calandra, Cannucci (diverse famiglie), Capuana, Carbone, Casadio,
Cassar, Cassarino,
Chiarelli, Cicero,
Ciciliano, Costa, Covato, Cristoforo, Cubisino, D’Alba,
D’Agostini, D’Amico (anche
loro diverse famiglie imparentate tra loro),
D’Anna-Veri,
De Marchi, Durano, Frisone, Galea, Gallo, Gaudio, Greco,
Guarrasi, Imperatore, Infantolino, Lenci, Longo, Mariotti, Marra,
Martines, Mazzocca, Montalbetti, Montale, Moschetti, Nobile, Nuzzo,
Palazzolo, Paolillo, Pipitone, Piva, Pozzati, Presta, Rossi, Russo,
Salemi, Sanfilippo, Santagati, Sapuppo, Schembri, Sciuto, Scolari,
Spallina, Spera, Taliana, Teodoro, Trapani, Zocco e naturalmente Ernandes. Probabilmente
avrò dimenticato di scrivere qualche cognome e me ne dispiace. Se
qualcuno leggendo queste righe me lo facesse notare, gliene sarei veramente grato. Dopo vari anni
di stretta vicinanza, oltre che a conoscersi, per nome o di vista,
erano sorti dei legami di vera amicizia e sincera affezione con
alcuni di loro.
Tra la mia famiglia e quella degli Zocco, dei Badalucco e dei
Salemi si era venuta a creare un particolare legame di reciproca
simpatia. In alcune domeniche invernali, quando il tempo era bello,
la famiglia Salemi, composta dal marito
Michele, da sua moglie
Anna,
e da due figli Corrado e Mario ci invitavano a fare un giro nella
loro macchina, una
Hillman
bianca e rossa. La macchina la guidava il signor Michele (Emilio per
gli amici) e generalmente eravamo in cinque: io con i miei genitori
ed i due Salemi. I loro due figli Corrado e Mario, più grandi di me
di circa sei anni, erano liberi di andarsene in giro con i loro
amici. Io, che allora avevo appena 10 anni, invece ero costretto a
stare insieme ai mio padre e mia madre. Nel pomeriggio quando si
partiva con la loro macchina, andavamo in alcuni posti di interesse
vicini a Tripoli. Ricordo Zavia e Sorman. A proposito di Sorman ho
letto su una rivista di attualità che ultimamente vi è stato girato
un film intitolato
Le Rose del
deserto. Il film è stato diretto dal famoso regista
italiano
Mario Monicelli
con gli attori
Michele Placido
ed
Alessandro Haber.
Il romanzo che ha ispirato il film è stato quello di Mario Tobino,
Il deserto della Libia. Alcune volte andavamo nella
vicina Tagiura per cenare, con pizza ed olive siciliane, nel
rinomato locale del Signor Moncada. Se invece partivamo al mattino
presto e vedevo mia madre indaffarata a preparare un pranzo speciale
per un picnic, ciò significava che quel giorno la nostra gita in
macchina aveva una destinazione più lontana. Se gli adulti
decidevano di andare verso ovest significava che la nostra meta
ultima era Sabrata, se invece si andava verso est, voleva dire
visitare, Leptis Magna. Sia mio padre che il signor Salemi amavano
ritornare a visitare queste due antiche e interessanti città romane.
Molti lettori tripolini sicuramente avranno visitato, anni
addietro, sia Sabrata che Leptis Magna, famose per le loro statue e per
alcune costruzioni rimaste miracolosamente indenni attraverso i
secoli, ma in questa sede preferirei non dilungarmi nel descrivere
la loro inestimabile bellezza, fiore all'occhiello del turismo
libico. Se si andava verso sud, all'interno del paese, quindi dalla
parte opposta al mare, i luoghi che visitavamo erano generalmente
Tarhuna
e
Garian.
A Garian esisteva allora una costruzione, utilizzata durante
l'ultima grande guerra dalle autorità tedesche per rinchiudere
alcuni prigionieri di guerra della parte avversa. Su un muro
all'interno del campo era rimasto disegnato un murales, che
raffigurava una donna nuda, che veniva chiamata la
Lady of Garian.
La
parte superiore del corpo della donna, sdraiata su un lato, era
stata disegnata simile ai contorni geografici della costa
nordafricana. In alcuni punti salienti delle parti anatomiche della
donna erano segnati i nomi di alcuni città del Nord Africa. Si dice
che a disegnare questo murales fosse stato un prigioniero
americano, un certo
Clifford Saber,
che si era proposto come autista volontario con l'ottava Armata
Britannica. Lo stesso Saber, durante il lungo periodo di prigionia
si dilettava a tenere su il morale dei suoi commilitoni, disegnando
i loro ritratti. Dopo il suo ritorno in patria si era anche
affermato come un pittore di grande talento.
Oltre che con i Salemi, altre volte ci riunivamo, dopo cena, a casa
della famiglie Zocco o Badalucco. Si facevano quattro chiacchiere,
si trascorreva in buona compagnia una serata tranquilla e, nelle
serate calde, si beveva della birra ghiacciata o del tè freddo alla
menta, prima di andare a dormire. Durante la stagione estiva, una
volta alla settimana, sempre dopo cena, ci davamo appuntamento,
all'angolo di Sciara Camperio con Corso Sicilia, per andare a vedere
la proiezione di un film in un cinema all'aperto. Avevamo solo
l'imbarazzo della scelta perchè c'erano ben tre cinema ubicati non
lontano da casa nostra. Il cinema più vicino al nostro rione era
quello dentro lo stabilimento balneare del Lido Nuovo, sul lato
destro dell'ingresso. Peccato che la sua apertura sia durata così
poco, poichè è rimasto in funzione solo per un paio di anni. Un
altro cinema, il Rivoli, era ubicato in Corso Sicilia, subito dopo
la Fiera, quasi di fronte al Palazzo Tascone. Il terzo cinema,
l'Astra, stava in Sciara Canova, una traversa delimitata tra Sciara
Michelangelo e Sciara Giotto. Il Rivoli era il cinema che
frequentavamo con più assiduità, perchè proiettava, in “prima
visione” sul circuito tripolino, film romantici come "Poveri
ma belli", con
Renato Salvatori, Lorella De Luca,
Alessandra Panaro, Maurizio Arena e
Marisa Allasio, quelli
della fortunata serie della "Principessa
Sissi" con
Romy Schneider, quelli strappalacrime come "Marcellino
pane e vino", interpretato dal piccolo
Pablito Calvo
o i film western, che vedevano come principali protagonisti
John Wayne ed
Glenn Ford. Si arrivava a piedi sino al cinema Rivoli in meno
di mezzora. Parlando e scherzando perdevamo la cognizione del tempo
ed il tragitto ci sembrava breve. Al termine della proiezione dei
film, specialmente quando l'ora era tarda, ci prendevamo il lusso
di tornarcene a casa con le carrozze anzichè a piedi. Le carrozze
tripoline erano trainate da un solo cavallo con un cocchiere
seduto a cassetta e si distinguevano per le loro colorazioni
brillanti. Alcune carrozze sostavano in corso Sicilia, proprio di
fronte all'uscita del cinema, in attesa di clienti. Prima di salire
in carrozza, dovevamo aspettare che avvenisse la solita
contrattazione del prezzo della corsa tra il cocchiere e mia madre,
che parlava e capiva la lingua araba molto bene. Trovato l’accordo
sul prezzo ci accomodavano sul comodo sedile di pelle sul lato
posteriore della carrozza. Se il tempo era bello il tetto della
cappotta restava completamente giù, altrimenti se pioveva o tirava
vento, il cocchiere lo tirava su e noi eravamo parzialmente riparati
dalla cappotta.
Il mercoledì era il giorno della settimana prescelto per andare al
cinema, ma non era detto che si andava tutte le volte. Durante la
cena del mercoledì, seduto a tavola, scrutavo il viso mio padre per
capire, dalla sua espressione, se per lui era stata una dura e
faticosa giornata di lavoro in officina oppure no. Quando era
stanco, come se fosse a conoscenza della mio stato d’ansia, con
aria amareggiata, mi diceva : "Mi dispiace, stasera credo che
l'unico film che andremo a vedere è "La
fuga del cavallo morto", che stava a significare, con
mio grande dispiacere: niente cinema e tutti a letto presto. C'era
poco da discutere perchè rispettavo mio padre e sapevo che il suo
lavoro di fabbro era molto faticoso. Quando ero piccolo, per
parecchio tempo, avevo trovato così odiosa quella frase. In cuor
mio pensavo che fosse una frase che non avesse senso, inventata mio
padre. Invece ultimamente ho scoperto che "La
fuga del cavallo morto" esiste davvero. E' il titolo
di un libro scritto dallo scrittore
Gianfranco
Manfredi, pubblicato nel 1993.
Quando in inverno i pomeriggi si facevamo miti e gradevoli qualche
volta andavo a piedi con mia madre, in compagnia della signora
Ninetta Zocco, di sua figlia
Rosaria, della signora
Giovanna Badalucco e di sua
figlia
Pina, nel deposito di Barda in
Sciara Cannizzaro.
Questa strada iniziava a partire da Sciara Dante, dove all'angolo
c'era il grande negozio di vendita di ferro di Haddad. Poi
costeggiava uno dei lati del rettangolo di gioco dello Stadio, e
prima di arrivare al Cimitero Israelitico si arrivava al grande
deposito di abbigliamento usato di Barda. Questi era un
avveduto ed esperto commerciante, che come Haddad, faceva
parte di una numerosa comunità ebraica tripolina, la quale viveva in
prosperosa armonia con quella italiana. All'interno del vasto
deposito di Barda c'erano degli alti e voluminosi capannoni, dove
erano stipati all'inverosimile migliaia di capi di abbigliamento
usati, che sembravano nuovi di zecca, appena usciti dalla fabbrica.
La gente del nostro quartiere accorreva numerosa per acquistare
questi capi di vestiario, sopratutto perchè erano a buon mercato e
non si trovavano nei negozi di abbigliamento del centro. Tutti
questi capi di vestiario provenivano dalla vicina base americana del
Wheelus Field. C'era
blue jeans
in abbondanza, così come giacconi a vento per uomini, pesanti
cappotti militari, giacconi di lana per donne ed altri vari articoli
di abbigliamento femminili. Era quella l'epoca in cui tutto ciò che
era americano era "beautiful", andava di moda. Non solo, ma
andava di moda tutta la musica pop e country americana, le camicie,
le giacche e gli stivali alla cowboy di
Roy Rogers,
la pettinatura di
Elvis Presley
col suo tipico ricciolo sulla fronte. In quegli anni l'attore
comico,
Alberto Sordi,
con il suo celebre film
Un americano a
Roma, dipingeva, con pungente ironia, il vezzo degli
italiani di voler imitare a tutti costi lo stile americano.
Comprando quei vestiti americani da Barda noi, italiani, andavamo a coronare
una parte di quei sogni del mito americano.
Entrando in quei capannoni mi piaceva annusare nell'aria il pungente
odore di
naftalina
sparsa sugli abiti, accatastati uno sull'altro, in un ordinato
disordine. Lì incontravamo altre famiglie del Lido che
erano venute come noi per fare acquisti. Mentre le nostri madri
gironzolavano indecise fra i banchi in cerca di qualche capo di
abbigliamento di loro gradimento, noi bambini ci divertivamo a
giocare, nascondendoci dietro quelle montagne di abiti.
Quando ero stanco di giocare, mi fermavo ad ascoltare come
avvenivano le contrattazioni tra le nostre madri e quei commessi
ebrei che si occupavano delle vendite dei capi di abbigliamento. Il
dialogo che scaturiva da queste contrattazioni era formato da un
linguaggio curioso per la sua forma e simpatico per il suo
contenuto. Alcune donne italiane parlavano tranquillamente in
siciliano, senza curarsi di essere capite, mentre i commessi ebrei,
che erano molto perspicaci, rispondevano con un loro linguaggio,
tutto particolare, che era composto da un misto di italiano
scadente, con l'aggiunta di qualche parola inglese ed araba. Veniva
fuori un dialogo di questo tipo.
“Quantu voi pi chissa giacchettazza?”
chiedeva una
signora siciliana, usando furbescamente il dispregiativo per
cercare di sminuire il valore del capo d'abbigliamento che voleva
comprare.
"Signova, cosa tu dive? Questa esseve bella ciacca e costave
solo tvedici piastve", rispondeva il commesso, un giovane ebreo
con una forte "r" arrotata e una cadenza cantilenante.
"Ma chi stai ricennu? Ma quali tririci i tririci! Ma che fa
babbii? Accussì cara è? ", lo aggrediva la signora, ma anche
se il prezzo fosse stato meno costoso la sua risposta sarebbe stata
comunque aggressiva.
"Haidunei
(perbacco), signova, cosa voi? Dimmi, voi io ti vegalo la
giacca? Dillo, allora io ti vegalo la giacca", piagnucolava il
commesso,
"No,no, ma quali rigalu i rigalu! Sta giacchettazza pi mmia vali
mancu cincu piastre. Chi li voi cincu piastre? " la signora
rilanciava la sua offerta per quella giacca con una cifra ridicola e
molto inferiore al suo reale valore.
"Cosa? Tu schevza, signova? Haidunei, ti giuvo io ci pevdo."
rispondeva l'altro con aria afflitta e rassegnata.
"Iamuninni, nun ciaiu u tempu pi babbiari" e faceva finta di
andarsene via.
"Signova, non vai via. Io puro aveve piccoli filli da manteneve.
Dai bvava signova, va beni novi piastve? Così tutti amici, nè io nè
tu. Fifti, fifti. Haidunei, bvendi o lasci?" diceva il commesso
afferrando dolcemente la signora per un braccio per non farsela
sfuggire. Con quella mossa la donna sapeva ormai di aver raggiunto
il suo obiettivo e continuava a fare la gnorri "Ma chi ddici? ma
chi sunnu sti fifti, fifti? Ahh! Chi ffai parli inglisi? Lassa stari
ch'è mmegghiu. Vabbeni accussì. A stu prezzu, sta giacchetta, quasi
quasi, mi l'accattu."
Intanto la giacca non era più una giacchettazza, come
era stata definita da lei all'inizio della contrattazione, ma, con
l'affare appena concluso, era diventata una bella giacchetta.
Comunque ancora prima che venissero tirati fuori i soldi dal
portafoglio la sceneggiata continuava. La donna rivoltava nuovamente
la giacca dentro e fuori, alla ricerca di qualche difetto, e, per
sentirsi ancora più tutelata, prima di pagare, la metteva al sicuro
dentro il suo borsone. Era una gara di psicologia, a chi era più
scaltro. Forse assomigliava di più ad una partita a poker , in cui
tutti e due giocatori era bravi e capaci di bleffare e che in
entrambi era innato il talento della contrattazione.
Per tutti noi bambini il tempo trascorreva sereno durante l’intero
pomeriggio. Noi giocavamo a nascondino, le nostri madri
continuavano a contrattare a comprare, cercando di risparmiare sul
prezzo. All'imbrunire, prima che facesse buio, facevamo ritorno a
piedi alle nostre case. Sulla via del ritorno eravamo più numerosi
che all'andata, perchè insieme al nostro gruppo se ne aggregavano
altri che abitavano nel nostro stesso rione. Mi ricordo quelli come i
momenti più sereni della mia infanzia. Noi piccoli eravamo felici di
aver trascorso un sereno pomeriggio giocando spensierati tra di
noi. Le nostre mamme si preparavano mentalmente a mostrare alle loro
amiche più intime ed ai loro mariti i capi di abbigliamento che avevano appena
comperato. Qualcuna già in strada si vantava di essere stata brava a
trattare e di essere riuscita a ridurre il prezzo al minimo. Le più
taciturne non parlavano, forse pensavano a cosa preparare per cena
ai loro mariti, che tornavano stanchi dal loro lavoro.
Sia mio padre che mia madre avevano dei buoni rapporti con quasi
tutte le persone del nostro vicinato. Mio padre, per sua natura, era
un mite. Adottava la filosofia del "vivi e lascia vivere",
partendo dal presupposto che tutti sono liberi di vivere a modo loro
senza infastidire il prossimo. Mia madre si distingueva per la sua
semplicità e la sua bontà d'animo. Aveva purtroppo il difetto di
fidarsi troppo di tutte le persone in genere, prendendo per oro
colato tutto quello che le dicevano.
La famiglia D'Agostini abitava al pian terreno nel palazzo di fronte
al nostro. Le loro finestre erano molto vicine alle nostre, perchè a
dividerle c'era solo una stradina sterrata, larga circa sei metri, un
cul de sac, una strada senza uscita. In fondo alla stradina
c'era il giardino dell'abitazione della famiglia Trapani. Vedevo
spesso mia madre affacciarsi alla nostra finestra per parlare con la
signora
Maria D'Agostini,
che a sua volta le rispondeva stando affacciata alla finestra di
fronte.
La famiglia D'Agostini, oltre che dalla signora
Maria, era composta
dal marito
Adelino,
dai figli
Liliana,
Dorina,
Aldo e
Rosina.
Liliana
era la figlia maggiore ed era sposata con
Catello Imperatore,
dalla cui unione erano nati
Mario e
Roberto. Dorina aveva sposato
Pino Iavasile da cui erano nate Marisa e
Nadia. Aldo Aveva sposato
Anna Maria Della Rosa e dalla loro unione
erano nati Sandra, Noemi e Roberto. Infine Rosina aveva sposato
Franco Pasquariello e, dopo che erano emigrati in America, avevano
avuto due figlie, Katia e Nadia.
La
famiglia Chiarelli
abitava nell'appartamento del piano di sopra a quello dei
D’Agostini. Il capofamiglia si chiamava Raffaele,
la moglie
Francesca
e i figli
Lucia,
Paolina,
Pina,
Michelino,
Giulietto
e
Silvana.
I miei genitori avevano un buon rapporto di vicinato con tutte le
altre famiglie, ed in particolare con quelle degli Imperatore, dei
D'Amico, degli Arena, dei Marino, dei Braca, dei Costa, dei
Santagati, dei Basile, dei Pipitone, dei Rossi, dei Cannucci che
abitavano a due passi da casa nostra.
>>>
Capitolo 3°
Mabruka e la famiglia
di Hamid
<<<
Nel nostro rione del Lido abitavano anche delle famiglie libiche con
cui noi, in special modo mia madre, che masticava il dialetto arabo
locale, intratteneva degli ottimi rapporti di vicinato. Alcune
volte, da bambino, all'età di sei o sette anni, andavo insieme
a lei a prendere il tè nella modesta ma graziosa casa di
Hamid, il simpatico
custode dell’acquedotto rionale, che era a due passi da casa mia. Se era bel tempo stavamo fuori
nel loro giardino, al fresco di un pergolato, mentre quando pioveva
o c'era freddo si stava al caldo della loro casa. Questa era
composta da un grande monolocale, dove Hamid viveva con la sua famiglia. Appena dentro si avvertiva subito
una gradevole fragranza di spezie orientali mista ad un odore acre
ma buono di carbonella bruciata. Il locale era una grande stanzone
rettangolare piastrellato, suddiviso in due parti da un tenda colorata che
scendeva dal soffitto fino al pavimento, come un separè. Da una
parte c'era la zona notte, con la loro camera da letto, e dall'altra
il soggiorno, dove tutti componenti della famiglia vivevano
durante tutto il resto della giornata.
Qui cucinavano, mangiavano, intrattenevano i loro ospiti e lavoravano. Infatti In un angolo
della locale c'era un
telaio di legno per
tappeti, con i fili dell'ordito tesi a terra, fra due pali fissati a
dei picchetti.
Qui dopo aver terminato le faccende domestiche le donne lavoravano
al telaio creando i loro tappeti. Addossato ad una parete al muro c'era un grande
divano, che era poco usato, se non nelle grandi occasioni, al contrario di alcuni cuscini,
allineati a muro, spesso utilizzati per
rendere più confortevole l'appoggio sul pavimento, che era quasi tutto coperto da varie piccole stuoie
di paglia intrecciata. Il bagno, con il
vaso alla turca,
era un piccolo stanzino esterno alla casa. A questo
rito
del tè, oltre ad Hamid, erano presenti sua
moglie Salma, forse trentenne, i loro due figli
Freg,
e Mohammed, più o meno miei coetanei,
Jamila, la sorella
maggiore di Salma, con i suoi figli Hussein, e
Mabruka. Tutti stavano seduti a terra su dei cuscini, con le gambe
incrociate, attorno ad una basso tavolino di legno circolare. Appena
entrati noi (mia madre ed io) salutavamo gli ospiti presenti con un
Assalam aleikum
, allora tutti si voltavano verso di noi,
e senza alzarsi si rivolgevano educatamente a noi con un segno di
saluto, portando
la loro mano destra sul petto e dicevano in coro Ua
alikum assalam. Hamid , con un gesto gentile della
mano, ci invitava a sederci, gams, attorno al tavolino. Per
ricambiare la cortesia dell'invito mia madre portava in dono una scatola di zucchero
di canna,
che loro usavano molto. Altre volte portava dei barattoli di
gustosa marmellata, fatta con una qualità di arance dalla scorza
spessa, chiamate calabresi, che lei stessa preparava in casa.
Hamid, forse per la mancanza
di alcuni dei suoi denti davanti, sembrava più vecchio della sua
età, che doveva essere attorno alla quarantina. Era un persona buona e
tranquilla, che in qualità di custode dell'acquedotto, oltre ad allo
stipendio, aveva il diritto a vivere nel locale attiguo a quella dei
macchinari della centrale idrica. Mi ricordo che la sua fronte era
stranamente segnata da tanti piccoli tagli fatti con la lametta da barba, che
loro usavano per l'estrazione del sangue, come rimedio contro il mal
di testa. Freg aveva forse un anno più di me ed era un
ragazzo intelligente e spiritoso. Era sempre alle prese nel fare
quiz o indovinelli del tipo
"Quale animale
restò fuori dall’Arca di Noè?" oppure "Qual'è
quella cosa con cui è meglio non discutere tanto ha sempre l'ultima
parola?". ll secondogenito Mohammed, anche se più piccolo
d'età, era già in grado di disegnare dei bei ritratti. Quando era a sedere con noi
parlava poco, perchè era sempre occupato a riempire di disegni
e di schizzi un blocchetto di carta. Prediligeva ritrarre volti umani
servendosi di un semplice lapis.
Hussein,
il cugino, aveva circa diciotto anni ed era considerato dai
suoi zii un ragazzo modello; studiava con grande applicazione ed
ottimi risultati come perito elettrico presso la
Scuola d'Arti e
Mestieri, in Sciara 24 Dicembre e prometteva di diventare un
provetto
elettricista.
Mabruka,sorella minore di Hussein era bella e
disinvolta. Anche se vestiva tutta coperta da indumenti orientali,
si avvertiva, dal suo portamento, che sotto quelle vesti ci
doveva essere un corpo sodo e ben formato. Diceva di avere solo
quattordici anni, ma col suo seno maggiorato e la sua figura
attraente, ne dimostrava di più.
Pur vivendo in un ambiente arabo faceva trapelare una certa
ammirazione per mia madre e per il tipo di vita che lei conduceva da
donna occidentale. Si faceva prestare da lei alcuni
fotoromanzi o
riviste italiane tipo
Luna Park,
Sogno,
Grand Hotel
o
Bolero,
magari per guardare solo le figure, perchè la scrittura italiana non la
conosceva per niente. Purtroppo in quel periodo a Tripoli per le
donne arabe gli usi e
costumi locali erano piuttosto restrittivi.
Infatti a loro non era permesso di comportarsi e di vestirsi nella
stessa maniera
disinvolta che era consentito alle donne italiane. Sua madre
Jamila aveva i lineamenti
belli come quelli della figlia, ma il suo corpo con l'età si era
appesantito, tanto da diventare piacevolmente grassa. Jamila si
considerava una brava cuoca. Il suo argomento preferito quando parlava con mia madre era
quello sulle ricette
di cucina italiane e su come cucinare quelle libiche, quali il
cuscus con
l'agnello o la
sharba. Nelle giornate
ventose, quando la nostra casa era sottovento rispetto alla
loro, sentivamo giungere il gradevole odore
della legna bruciata e poi quello più intenso di cipolla
soffritta. Allora sapevamo che Jamila aveva messo lasua pentola sul
kanun.
Salma
la moglie di Hamid, aveva un viso con dei bei lineamenti, anche se
vestita si poteva intuire un seno robusto, una vita stretta ed un
posteriore largo ma sodo, da
danzatrice del ventre,
esattamente come piace agli uomini arabi. Quando usciva di
casa, si copriva interamente con un
rdé (un
barracano da donna) di lana
lavorata, lasciando libera solo una piccola fessura davanti ad un
solo occhio. Qui, invece, all'interno di casa sua, lontana da
sguardi indiscreti, indossava una elegante e leggera stoffa di
morbida seta disegnata a strisce colorate. Il suo viso era
completamento scoperto, i suoi capelli neri erano lunghi e lisci,
lucidi di olio di seme di lino, i suoi occhi truccati di nero con
il kohl, mentre le sue caviglie dei piedi
erano tatuate
con un unguento rossastro, la
henna. Portava ai polsi alcuni rigidi e rotondi
braccialetti argentati, e sul petto un ciondolo con la forma di
mezzaluna. Salma, accovacciata come una matrona su un grosso
cuscino, presiedeva al
rito del tè, (scià-hi), del pomeriggio. Accanto a lei
c'era un kanun riempito di sabbia e di carbonella
accesa con sopra una
barrada grande, una teiera piena
d'acqua che bolliva e di tè rosso, ben
sistemata dentro la brace. Di lato c'erano una barrada più
piccola con dentro un pò di zucchero ed una grande tazza di
alluminio. Entrambe le barrade erano in ferro smaltato, blù scuro
all'esterno e bianco all'interno. Il kanun invece era un fornello di
terracotta, delle dimensioni di una piccola pentola, alto circa
venticinque centimetri e largo venti, con dei fori a tre
quarti per permettere al carbone acceso di respirare e con tre
punte sul bordo in cima, che servivano per appoggiare la pentola per
cucinare. Salma con un mano assestava meglio la barrada
grande dentro il carbone acceso e con l'altra mano
faceva vento con un ventaglio a banderuola, fatto con le palme dei
datteri, che serviva ad alimentare il fuoco. Travasava
il tè bollito dalla barrada alla tazza di alluminio, e viceversa, da
un'altezza di circa mezzo metro, per creare una densa schiuma, tipica
del tè arabo. Poi riempiva accuratamente tutti i bicchierini
dei presenti, pieni fino all'orlo. Riusciva a farlo senza mai farne
travasare una
sola goccia. Sembrava quasi un'acrobazia. Per loro quello era un
gesto del tutto ordinario, normale, mentre per me ha ancora un
fascino tanto particolare che spesso fa parte integrante della mia
idea di “Oriente”. Serviva sempre per prima mia madre, che
considerava
l'ospite d'onore. Il primo tè che veniva servito aveva un colore molto scuro, con un sapore forte
e deciso, con tanta schiuma ma non eccessivamente dolce. I
bicchieri
erano piccoli e tutti di vetro. Quando finiva il primo giro, tutti i
bicchierini venivano accuratamente lavati in una bacinella già
riempita d'acqua e subito asciugati con un panno. Il secondo
bicchierino di tè aveva un colore intensamente più chiaro, molto
ricco di schiuma, con un gusto leggermente più debole ma più
zuccherato rispetto al primo. Dopo che i bicchierini erano stati
nuovamente lavati e puliti, veniva servito il terzo bicchierino di
tè, con dentro delle buonissime noccioline tostate, la
cacawuia. Anche
noi contribuivamo alla cerimonia sbucciando noccioline. Era compito
di Hamid abbrustolirle al punto giusto dentro una
padella bucherellata. Il terzo tè, quello con le
noccioline era quello che a me piaceva di più. Il solo inconveniente
era che, dopo averlo finito di bere
quasi tutto,
alcune noccioline restavano incollate sul fondo del bicchierino
e per poterle staccare occorreva usare le mani. Per pulirsele c'era una brocca fatta d'argilla
colma d'acqua fresca, che noi italiani chiamavamo
gargoletta.
Ognuno versava l'acqua sulle proprie mani appiccicose del tè
zuccherato, all'interno di un'ampia bacinella. Io trovavo la gargoletta
così pesante che dovevo farmi aiutare da mia madre, per non sprecare
molta acqua. Al ritorno a casa, molte volte mia madre si
intratteneva a parlare lungo la strada ancora con Mabruka, poichè
la giovane ragazza veniva a casa nostra due volte alla settimana per
aiutarla nelle pulizie domestiche. Entrambe stavano bene insieme e
provavano una reciproca simpatia. Le sentivo spesso ridere e
scherzare fra loro mentre pulivano la casa. Ogni tanto a tavola mia
madre parlava con mio padre sulle confidenze di Mabruka.
Diceva che Mabruka era innamorata
di un giovane libico, di nome
Giuma, che abitava lì vicino.
Purtroppo per lei, suo padre aveva avuto una buona offerta di matrimonio da
parte di una famiglia libica benestante, che non si poteva
rifiutare. Questa famiglia libica voleva che il
primogenito di ventidue anni, Fadi, sposasse Mabruka. A Mabruka,
Fadi
non piaceva perchè era
basso e mingherlino e in più aveva i denti guasti ed ingialliti con
un alito così cattivo che le faceva schifo avvicinarsi. Il suo amore
era per
Giuma, che aveva solo sedici anni, ma era
forte ed aitante. Purtroppo non aveva ancora un mestiere ma era solo un misero venditore di sbule,
senza soldi e orfano di padre. Mabruka sapeva che il suo desiderio di sposare Giuma non contava
proprio niente contro il potere assoluto del padre
Suleiman.
A Mabruka non restava che sperare in sua madre, Jamila, che era la sola
persona che, con le sue grazie civettuole e femminili, teneva in
pugno l'autorevole marito Suleiman. Quantunque Jamila considerasse
veramente bello il giovane ragazzo, anche lei pensava non fosse
conveniente per sua figlia sposare un ragazzo
povero, molto giovane e per giunta orfano di
padre. Per Mabruka l'ultima ancora di salvezza era mia
madre, che considerava una cara amica ed una preziosa confidente.
Sperava di ricavare dal suo buon senso di donna più matura un consiglio
utile a risolvere questa situazione così intricata. Non ho mai
saputo cosa mia madre abbia suggerito di fare a Mabruka, ricordo
solo che lei, al termine di tutta questa vicenda, non
sposò ne Fadi e neppure Giuma. Dopo varie tribolazioni e litigi con
il padre, sposò un altro giovane, di nome
Fuad.
Questi era un bravo e posato ragazzo di ventiquattro anni, portava gli
occhiali da vista, ed aveva un'aria da intellettuale.
Economicamente era discretamente sistemato perchè era diplomato ed
aveva un impiego come maestro di scuola elementare presso una
scuola araba del centro città.. La regola che assegnava
esclusivamente al padre la scelta dello sposo questa volta non
aveva funzionato. Questa soluzione finale pur essendo stata
contraria a tutte le regole arabe locali conosciute in fatto di
matrimonio, in un certo qual modo aveva accontentato tutti. Non
c'erano state vittime, nè vincitori nè vinti. In questo
caso specifico per arrivare allo scopo era servite, la giovanile
ostinatezza della ragazza e la segreta collaborazione di mia
madre. Come atto di amicizia e di affezione nei confronti di mia
madre, ogni tanto, Mabruka ci portava da casa sua un
abbondante, odoroso e piccante piatto di cuscus, di colore giallo per
lo zafferano, colmo di ceci, zucca rossa,
patate e pezzetti di montone, cucinato da sua madre Jamila. Infine
mi sembra giusto riferire quanto mia madre mi aveva confidato qualche
tempo dopo riguardo a quanto era avvenuto alla vigilia della nostra
partenza definitiva da Tripoli, nel 1970. Con sua grande
commozione, Salma, Jamila e Mabruka erano venute a casa nostra a salutarla ed
abbracciarla con le lacrime agli occhi.
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Capitolo 4°
Tipici
personaggi del rione
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Oltre alla famiglie italiane ricordo alcuni personaggi un po'
particolari che bazzicavano il rione del Lido. La maggior parte di
questi personaggi erano arabi , ma tra questi personaggi c’erano
pure degli italiani.
Quando avevo sette anni facevo parte di una combriccola di ragazzi
del rione formato da
Michelino
Chiarelli,
Bruno Cubisino, Franco Santagati e Aldo e Nicola Vieri, Ninni Arena,
Mario Imperatore e Gianfranco Mazzocca. Quest'ultimo, il più grande
d'età, si era proclamato capo-banda. Quando ci proponeva di fare delle
cose audaci ma con un rischio calcolato lo seguivamo volentieri. Se
invece lanciava alcune delle sue molteplici idee bizzarre e
rischiose io non gli davo retta e preferivo andarmene per conto mio.
Una volta mi era capitato di prendere parte a una di queste avventure
rischiose. L'obiettivo era di entrare di nascosto nello stabilimento
balneare del Lido Vecchio, evitando così di pagare il biglietto
d'ingresso. Aiutandoci a vicenda avevamo fatto un buco nel rete di
confine, per poterci passare. Il recinto era formato da rami secchi
ricavati dalle palme di datteri, sostenute tra loro da un filo spinato.
Rischiavamo di bucarci le mani e la schiena, strisciando come serpenti
sulla sabbia sotto il filo spinato, per entrare clandestinamente
dentro lo stabilimento. Una volta dentro il gioco era fatto perché
sarebbe stato facile confondersi con gli altri bagnanti. Quella
volta eravamo in cinque e successe che le cose non andarono per il
verso giusto. Il custode ed il factotum dello stabilimento era
Shami,
un libico alto e robusto dai capelli neri e riccioluti, sulla quarantina,
che sapeva parlare bene l'italiano. Da giovane Shami era stato, per
alcuni anni, campione nazionale libico di nuoto. Aveva anche
partecipato, con dei buoni piazzamenti, ad alcune gare di fondo
internazionali che si erano svolte in Egitto lungo il fiume Nilo.
Proprio lui quella volta ci aveva beccato mentre uno di noi era
rimasto impigliato con il costume nel filo spinato e non riusciva a
staccarsi. Per solidarietà nei confronti del nostro amico non lo
avevamo lasciato solo ma eravamo rimasti accanto a lui per aiutarlo
a liberarsi. Purtroppo eravamo stati notati da qualcuno e da quel
momento erano cominciati i nostri guai. Shami era accorso sul posto
e non aveva faticato molto ad intimidirci con le sue enormi mani da
nuotatore, le cui dita sembravano grosse come salsicce. Ci aveva
scortati in un locale semivuoto dello stabilimento e ci aveva tenuti tutti e
cinque bloccati per una decina di minuti bloccati dentro questo locale. Da fuori
lui ci urlava che avrebbe avvertito la polizia per farci arrestare.
Naturalmente non aveva fatto nulla di tutto questo ma era riuscito
lo stesso ad intimidirci. Dopo una solenne ramanzina, ci aveva fatto
uscire dal locale e addirittura non aveva preteso neppure i soldi
del biglietto. Da allora io non mi ero più arrischiato a riprovarci
ed avevo sempre pagato il biglietto d’ingresso.
Hag Latif,
era l'anziano proprietario arabo non solo della nostra casa ma dell'intera palazzina. Davanti
al suo nome, che era
Latif,
noi aggiungevamo l'appellativo di "Hag",
in segno di rispetto. L'appellativo di Hag si dava a tutti quelli
quelli che erano stati almeno una volta in pellegrinaggio alla Mecca.
Essendo ricco e proprietario di varie case e palazzi ubicati a Tripoli,
si diceva che discendesse da una antica famiglia libica benestante.
Ricordo che superava la settantina ed aveva un aspetto distinto.
Portava una lunga barba bianca ed il suo viso aveva sempre una
espressione di serenità e pacatezza. Sembrava che niente lo potesse
fare agitare e raramente perdeva la sua compostezza. Indossava in
maniera molto dignitosa una
taghia rossa
ed un barracano di lana pregiata. Era una persona gentile, proprio
come il significato del suo nome Latif, che in arabo significa gentile. Non solo era gentile ma anche generoso. Ogni volta
che veniva a trovarci per riscuotere l'affitto di casa, ci portava
in regalo una piccola scatola rotonda di latta di alluminio con la
helua, che è un dolce arabo. Altre volte ci portava un
cartoccio con dentro pezzi di
baklawa,
un altro dolce arabo fatto a base di pasta sfoglia, mandorle,
pistacchi, noci, cannella, chiodi di garofano, burro, zucchero, tanto
miele e succo di limone. Mia madre lo invitava gentilmente a sedersi
nel nostro salotto per prendere un tazzina di caffè espresso,
fatto con la moka, che lui accettava di buon grado. Prima di andarsene
mia madre gli porgeva una busta con dentro i soldi dell' affitto
mensile, che lui prendeva, senza neppure contarli. Forse lo
faceva in segno di rispetto e di stima nei nostri confronti della
nostra onestà. Riponeva la busta chiusa con le banconote dentro ad un
grande portafoglio, legato ad una catenina dorata che usciva
dall'interno del suo ampio barracano. Contemporaneamente consegnava a
mia madre la ricevuta del pagamento dell'affitto, che lui aveva
compilato in precedenza. Prima di andarsene, ci salutava in arabo
con un fi-amen-Allah, e si
metteva la mano destra sul petto, come usano fare gli arabi con i
loro amici.
Mohammed e
Giuma,
potevano avere un po' meno di venti anni e lavoravano, in proprio,
nella rione del Lido. Entrambi gestivano due piccoli negozietti, una
accanto all'altro, in Corso Sicilia, proprio di fronte alla Ferrovia,
confinanti col gruppo di case dove abitavano le famiglie
D'Anna-Veri, Galea e Montalbetti. Mohammed, il più giovane, riparava
biciclette, metteva le toppe alle gomme bucate e successivamente si era
specializzato nel riparare motorini. Credo che quasi tutti i ragazzi
del Lido, proprietari di una bicicletta o di un motorino, siano
passati da lui per farsi riparare i freni o mettere le toppe nelle
camere d'aria delle gomme bucate.
Il secondo, Giuma, aveva il negozio accanto, che era più piccolo di
un bugigattolo. Eppure con la sua fantasia, utilizzando anche un po’
dello spazio esterno, riusciva a rendere quel poco spazio così
capiente che riusciva a mettere in mostra tante cose tra cui
carbone, petrolio per lumi, spiritiere, vari tipi di
spezie
orientali, zucchero,
carrube
e caramelle.
C'erano altri personaggi che frequentavano il nostro rione. Alcuni
di loro erano venditori ambulanti che ogni mattina percorrevano in
lungo ed in largo le strade del rione cercando di vendere la loro
merce, vantandone la bontà con voce tenorile. Tra questi c'era
Mustafà,
un uomo anziano, dal viso rugoso cotto dal sole. Aveva gli occhietti
furbi del commerciante avvezzo alla trattativa. Portava una taghia
rossa e sotto un bianco barracano indossava sempre un vecchio
giubbotto. Erano anni che glielo vedevo addosso e a me sembrava che
fosse sempre quello. Questo giubbotto, pesante e robusto, ormai
liso dal tempo, era di un colore ramato, quasi simile al colore
della sua pelle. Era piuttosto difficile capire dove finiva il
giubbotto e dove cominciava il collo, tanto i colori
erano così uguali. Questo giubbotto rappresentava per lui un
oggetto importante nel disbrigo del suo lavoro. Esso conteneva
tasche e taschini sia al suo interno che all'esterno, che lui
ordinatamente aveva trasformato in scompartimenti, così che lo
utilizzava come un rudimentale registratore di cassa. Sembrava
quasi che alla fine della transazione potesse uscire fuori dalla
sua bocca uno scontrino. Va detto che gli spiccioli era da un
millesimo, due millesimi, cinque millesimi o mezza piastra, da uno
e due piastre. Dieci millesimi facevano una piastra mentre cento
piastre erano una sterlina. I taschini più capienti contenevano
spiccioli di metallo, di cui se ne serviva per dare il resto ai
clienti. Erano
monete
di lega bronzea, da 1, 2 e 5 millesimi, che erano quelle che
valevano meno. In due altri taschini, non meno piccoli, c'erano le
monete
di lega argentata, da 1 e 2 piastre, di valore leggermente
superiore. Le banconote minori erano le cinque piastre, le dieci e le
venticinque; si proseguiva con la mezza, una, cinque e dieci
sterline. All'interno del suo giubbotto c'erano altri taschini, da
cui, Mustafa, come un abile prestigiatore, tirava fuori le sue
monete
di carta da 5, 10 e 25 piastre. Portava un copricapo, che era
un'unta
taghia bianca,
che, a modo suo, la utilizzava come un portafoglio per tenerci le monete di carta. Forse più che un
portafoglio sarebbe meglio dire una cassaforte. Prima di togliersi
la taghia bianca dal capo, si guardava attorno con aria furtiva,
assicurandosi che non ci fosse nessuno a guardarlo. Quando si
toglieva la taghia dal capo vi inseriva o toglieva banconote del
taglio più grosso, quelle da mezza, da una sterlina e, qualche
volta, anche da 5 e 10 sterline. Quest'ultime banconote erano tenute
insieme da un robusto elastico, che lui legava rigidamente con tre
giri. Mustafa trasportava sul retro della sua vecchia e pesante
bicicletta un piccola gabbia, a forma di cubo, costruita
personalmente da lui con canne di bambù, dove era stivati dentro
sette o otto polli vivi. Teneva una
coffa
(cesta) di paglia attaccata al manubrio, con dentro delle uova
avvolte con cura in una stoffa di lana, sicuramente ritagliata da un
barracano. Si fermava vicino ad una delle nostre finestre,
appoggiava delicatamente la bicicletta al muro perchè non scivolasse
giù, e con voce grave, da basso, diceva "Saniura, voi ova ?"
Mia madre gli chiedeva sempre se le uova fossero fresche, e lui di
rimando rispondeva: "Uallai (ti giuro), Saniura , ova
frishhh...ki, frishhh...ki" e si metteva la mano destra sul
petto ad indicare che non mentiva. Cosi iniziava il dialogo, o per
meglio dire, le scaramucce, prima che cominciasse la trattativa
vera e propria sul prezzo delle uova o dei polli. In genere lui
partiva da un prezzo di dieci e mia madre rilanciava con uno di
quattro. Dopo alcune schermaglie raggiungevano un accordo non
scritto, a mezza strada, per arrivare a sette. Tutto era bene
quello che finiva bene. Mia madre comprava qualche hara di uova (quattro uova), e due polli con uno sconto del trenta per cento.
Mustafa vendeva la sua merce facendoci il suo onesto guadagno. Alla
fine entrambi sembravano soddisfatti di come avevano condotto la
loro trattativa, ed ognuno pensava a suo modo di aver appena
concluso un affare. Comprare o vendere senza prima mercanteggiare era inconcepibile per la loro filosofia di vita.
Tra questi personaggi c'era anche un lattaio siciliano. Costui
passava sotto le finestre di casa nostra con il suo
calesse,
tirato da un ronzino e carico di bidoni di latte, che vendeva col
sistema del porta a porta alle famiglie del rione. Si chiamava
Michele Moscuzza e
diceva di essere nato a Siracusa.
Moscuzza che portava la barba incolta, i capelli spettinati e
parlava solo in dialetto siciliano stritto, si comportava alla
stessa stregua di tutti gli altri suoi colleghi arabi. Speso quando
eravamo affacciati alla finestra di casa nostra e lo vedevamo
passare col suo calesse, lui chiedeva a mia madre:"Signura Ciccina (Francesca in siciliano) chi
bboli na rricotta bbona?". Mia madre, imitando il suo forte
accento siracusano gli chiedeva " Muscuuu...zza, sicuru chi sta
ricotta è bbona?" e lui di rimando "Signura mia bedda, ma
chi ffa, babbia? Chi pparla ammatula? Cririssi a mmia, sta manu
m'avissi a ccariri, ciaiu 'na rricotta qu è a fini du munnu,".
Così, alla stessa maniera del vecchio Mustafà, anche lui si metteva
la mano nel petto per ribadire che diceva la verità. Il suo latte
era in effetti buono e gustoso ed in tanti quegli anni non ci aveva
mai creato problemi di digestione. Sulla superficie del latte si
formava naturalmente un leggero strato di panna, tanto che, il mio
amico di rione,
Michelino
Chiarelli, mi diceva che lui quella panna se la gustava,
spalmandola zuccherata sul pane, a colazione.
Nel
nostro rione c'era anche Leone Genovese, un signore veneto
completamente calvo, sulla cinquantina, che, abitava con la sua
famiglia in un'altra zona della città, ma che veniva per lavoro nel
nostro quartiere. In qualità di tecnico era addetto al controllo diurno
dell'acquedotto del nostro quartiere. Dopo il suo normale orario
di lavoro, quando capitava, si arrangiava anche a fare
l'imbianchino per arrotondare il suo stipendio. Genovese era originario
di un piccolo paesino del Veneto, di cui non ricordo il nome e parlava
un con un forte accento veneto. Una volta ogni due anni a mia madre
piaceva biancheggiare la nostra casa, così quando vedeva Genovese
passare sotto casa nostra lo prenotava per tempo. "Signor Genovese, c'è l'ha un po’ di tempo per
biancheggiarmi la casa?". Genovese, che era anche un buon
bevitore, rispondeva: "Sicuro, Siora Franca, basta che oltre a
pagarme la me daga anche on bicerin de vin". Poi aggiungeva "Mi
go du santi in paradiso che me protege, uno ale San Buca e l'altro
se ciama San Giovese e nissun ga de tocarmeli ". E lì giù
risate. Quando rideva sembrava avesse il singhiozzo, forse perchè il
suo labbro inferiore sporgeva su quello superiore in maniera
anomala, tanto da assomigliare un po' a
Popeye.
Leone Genovese mi stava simpatico perchè mi permetteva di
prenderlo in giro per il suo nome, senza che si offendesse. Quando
lo vedevo lo chiamavo col suo nome di battesimo e poi gli facevo il
verso del leone. Lui sorrideva con quel suo sorriso buffo e di
rimando, emetteva un ruggito, simile a quello di un vero leone.
Bashir
faceva il fruttivendolo ambulante. Ogni mattina tirava a mano il
suo
carretto
colmo di ortaggi e frutta, che cercava di vendere alle donne del
nostro rione. Intonava con voce da tenore la solita litania, tanto
da farsi sentire da tutto il rione: "Sbaracelli, ndivia, batati,
cibolli, bumudori, biselli", e "Saniura, veni fori, gumbrare,
gumbrare, saniura, iu brizzu bonu, tuttu bonu". Poi, tutto ad
un tratto, si vedevano le casalinghe italiane, col grembiule da
cucina legato ai fianchi, sciamare fuori dalle loro case. Si
accostavano al carretto di Bescir, pronte a tastare la merce con le
loro mani ed ad acquistare non senza aver mercanteggiato prima sul
prezzo. Bashir per pesare la merce usava una bilancia di ferro, una
basculla,
con i pesi, ed un vassoio di rame per metterci la frutta e la verdura.
Sapeva usare la bilancia con molta destrezza, per cui credo che barando
sul peso si poteva anche permettere di fare dei buoni sconti alle
massaie, che trovavano la merce di Bashir a buon mercato. Verso fine
ottobre, quando ormai il ghibli era passato da poco ed il caldo
aveva già fatto maturare i datteri, considerati il più tipico
frutto libico. Bashir li vendeva a caschi. Questi
datteri,
un po’ aspri di sapore ma gustosissimi, avevano un bellissimo
colore giallo tendente al rosso. Gli arabi li chiamavano bleh.
Proprio questi sono sempre stati i datteri che io ho preferito e che
mi piacerebbe gustare di nuovo. I
datteri
che si trovano oggigiorno negli scaffali dei supermercati non mi
piacciono granchè perchè troppo maturi e troppo dolci.
Conoscevo un altro
Giuma,
un simpatico ed allampanato ragazzo, che seppur quindicenne
sembrava un adulto, perchè era molto alto. Giuma abitava in una
zeriba, vicino all'officina dei D'Alba, nella zona del Lido. Sapendo
che era orfano di padre e che da solo doveva mantenere la sua
famiglia, mia madre gli regalava alcuni abiti smessi di mio padre.
Nei pomeriggi d'estate, all'angolo di Sciara Camperio con Corso
Sicilia, Giuma vendeva ai passanti, diretti alla spiaggia, le sue
sbule
abbrustolite sulla carbonella per solo una piastra. Era sempre
indaffarato a fare qualcosa. Il suo assillo era di assistere al
sostentamento della sua famiglia, formata da lui, da sua madre ed da
una sorella più piccola. Nelle mattine d'estate bussava alla nostra
finestra di buonora e ci mostrava il suo recipiente di latta colmo
di spinosi frutti di
ficodindia.
Probabilmente si era alzato all'alba ed era andato a
raccoglierli in qualche campo vicino a casa sua. Dato che non era
una cosa facile sbucciarli, era diventato molto esperto nell'eseguire
questa operazione. Per sbucciarli utilizzava un coltello a
serramanico. Era così bravo che riusciva a non farsi pungere dalle
sottili ed insidiose spine della buccia dei fichidindia. "Siniur Bibbinu, saggia, saggia sta
figurigna, duci, duci cumi u zuccuru", diceva nel suo stentato
ma comprensibile italiano, venato da un leggero accento siciliano.
Poi porgeva a mio padre un ficodindia già pulito, come assaggio,
per fargliene gustare la bontà. Mio padre era ghiotto di questo
frutto che gli ricordava tanto la sua Sicilia, e nello stesso tempo
aveva anche simpatia per Giuma. Senza contrattare sul prezzo
mio padre si comprava tutta lattina piena di ficodindia ed
aggiungeva anche una piccola mancia per Giuma. Qualche anno dopo,
mio padre, vedendo che Giuma andava spesso a trovarlo nella sua
officina e lo vedeva molto interessato al suo lavoro di saldatura,
lo aveva assunto nel suo organico come operaio semplice. Col tempo
gli aveva insegnato a saldare ad elettrico e ad ossigeno, tanto che
Giuma, che era anche un ragazzo sveglio e veloce ad imparare, era
diventato uno dei migliori operai saldatori dell'officina di mio
padre.
Quando succedeva di uscire tardi dal cinema estivo all'aperto e ci
capitava di prendere la carrozza del nostro amico
Yusef,
io ero contento. Yusef era un vecchio timido con i capelli bianchi,
lo sguardo malinconico ed il viso rugoso, cotto dal sole. Stava
seduto a cassetta un po’ ingobbito e, non so per quale ragione, ogni
volta che vedevo quel suo viso triste mi faceva tanta
tenerezza. Con lui non c'era assolutamente bisogno di contrattare
sul prezzo prima di salire sulla carrozza, perchè si accontentava di
poco. Chiedeva sempre una tariffa inferiore a quella degli altri
suoi colleghi e non sembrava molto attaccato al denaro. Al termine
della corsa, dopo che mio padre lo pagava, metteva i soldi in tasca
senza neppure contarli. Quando c'era poco traffico, Yusef mi
permetteva, con mia grande gioia, di sedermi a cassetta accanto a
lui, facendomi tenere in mano le redini del cavallo. Lui non
parlava molto se non per dare, di tanto in tanto, qualche fiacco
ordine al suo anziano cavallo o per incitarlo ad aumentare
l'andatura. Ora che ci penso il vecchio Yusef, oltre
ad avere lo stesso nome di mio nonno Giuseppe, aveva un paio di
occhi celesti proprio simili a quelli di mio nonno. Purtroppo dopo
che nel 1955 mio nonno materno aveva lasciato definitivamente la Libia ed
era rimpatriato in Italia non avevo avuto più modo di vederlo, ma
quando vedevo Yusef era come se lo incontrassi di nuovo.
Quando ancora a Tripoli c'erano pochissimi frigoriferi ma
tantissime ghiacciaie, esisteva il mestiere, forse ora scomparso, di
venditore di ghiaccio. Durante l'estate,
Said,
un arabo dagli occhi azzurri e e dai capelli color rame,
probabilmente di origine berbera, trasportava, su un grosso carro
tirato da un cavallo, pesanti blocchi di ghiaccio. Ogni blocco di
questo ghiaccio aveva la forma di un parallelepipedo, lungo circa
un metro e largo circa 20/25centimetri. Il suo robusto cavallo
baio era un cavallo un po’ focoso. Said non sempre riusciva a
fermarlo con facilità. Oltre a tirare con forza le redini e ad
usare il frustino, doveva gridargli ripetutamente "Ah... Ah...
uquf hsan!!".
Il cavallo sentendo la voce stentorea del suo padrone, che gli ordinava
di fermarsi, dapprima rallentava la sua marcia, scivolando per un po’
sull'asfalto cogli zoccoli, poi con un potente nitrito arrestava la sua
marcia. Ancora con le redini tirate, il cavallo continuava a
recalcitrare e a battere i suoi zoccoli sull'asfalto, quasi
facesse un balletto, mentre il ticchettio degli zoccoli
rimbombava con armonia sull'asfalto. Said, dopo essersi assicurato
che il cavallo fosse fermo e tranquillo, con una grossa e
tagliente accetta spezzava, su richiesta dei clienti, il blocco di
ghiaccio nella misurata desiderata. Poi il pezzo di ghiaccio
veniva riposto nella nostra ghiacciaia per la conservazione del cibo.
Una piccola parte di ghiaccio invece, dopo essere stato macinato in
pezzi ancora più piccoli, veniva usato per prepararci le granite.
C’era un filo comune che accomunava questi personaggi, anche se
diversi per le loro differenti caratteristiche fisiche e
caratteriali. Questo filo comune che li univa era il loro senso di
onestà ed il forte desiderio di voler lavorare e produrre. In fin
dei conti era stato il loro lavoro che li aveva portati a
frequentare il nostro rione. Erano diventati nostri amici e noi li
rispettavamo perchè con il loro lavoro creavano un servizio utile
alla comunità del rione. Non so se anche oggi esistono ancora a
Tripoli quei caratteristici carretti tirati a mano con i venditori
che reclamizzano a voce alta la loro merce. Forse dovrei chiederlo a
Roberto Longo, che quest'anno è stato in Libia ed in particolare
anche a Tripoli insieme a sua moglie ed al suo amico tripolino De
Gennis e che su questo numero dell'OASI riporta la prima parte del
resoconto del suo viaggio in Libia.
>>>
Capitolo 5°
La nostra casa,
vicina al mare, in Sciara Camperio n. 10
Fortunato, il soldato disperso e
l'operazione alle tonsille
<<<
A Tripoli la famiglia Ernandes, la mia
famiglia, era composta da tre persone: mio
padre Giuseppe, mia madre Francesca e me,
"purtroppo" figlio unico. Dico purtroppo perchè,
da bambino, avevo sempre desiderato avere un
fratellino con cui giocare, ma questo fratellino
non era mai arrivato. Sono nato in una delle
sale operatorie dell'Ospedale Centrale di
Tripoli il 26 Agosto 1948. Era un mercoledì
pomeriggio e mi hanno detto che faceva tanto caldo. Sul mio corpo
porto ancora i segni di questo travagliato parto
podalico: un leggero schiacciamento cranico ed
una profonda cicatrice sul mio fianco sinistro,
lasciatami dal forcipe con cui sono stato
prelevato all'interno dell'utero di mia madre. I miei genitori abitavano in un
appartamento al piano terreno di una
palazzina, sita in Sciara Manfredo Camperio al
numero 10, a circa centro metri dalla spiaggia dello stabilimento balneare che era chiamato Lido Vecchio per non confonderlo con quello accanto che invece si chiamava Lido Nuovo.
In questo appartamento ci ho vissuto un po' più di 21 anni , fino al
novembre del 1969, quando partii per andare a Londra. Nel 1970 poi, in
seguito al colpo di stato di Gheddafi, tutti gli italiani
residente in Libia furono costretti ad abbandonare ogni cosa e
tornarsene in Italia. Ma questa è un'altra storia. Mia madre mi
raccontava che ad undici mesi avevo già imparato
a camminare e che a quattordici ero riuscito ad
eludere la sua sorveglianza ed ero scappato da
casa. Mi aveva ritrovato subito dopo lungo
la spiaggia del Lido Vecchio, a pochi passi dal mare,
mentre mi trastullavo tranquillamente con la
sabbia sulla battigia. Forse questo era già un
segno del mio destino. Sin da piccolo ho amato
il mare ed ho sempre avuto il desiderio, a
livello epidermico, di starci vicino.
Probabilmente saranno i miei geni ancestrali che
reclamano questa mia appartenenza al mondo
marino. Mio padre mi diceva spesso di aver
scelto di abitare in questa nostra casa
principalmente perchè era ubicata molto vicina
al mare. Come dargli torto, considerando il
fatto che anche per lui, nato a Favignana, un
isola dell'arcipelago delle Egadi, vivere
vicino al mare era diventato quasi un bisogno
fisico. Del resto lo era anche per mia madre.
Sia il mio nonno materno, Giuseppe Salmeri, che
le famiglie dei miei antenati materni, i Salmeri
e gli Anselmi erano stati marinai o pescatori
da lontane generazioni.
Sin da piccolo
ho sempre provato piacere ad ascoltare i rumori del mare, il suo
cullante sussurrio, ad ammirare la sua forza, a
sentire la sua brezza, ad assaporare il suo
odore e a trarre un benefico influsso sia
spirituale che fisico dal suo contatto. Quando
entro in mare per fare il bagno difficilmente
rabbrividisco come fanno alcuni, al contrario
ne provo piacere. Ho sposato Joanne, una
nord-irlandese di Belfast e durante tutti questi
anni insieme a lei ho trascorso una buona
parte delle mie ferie in questo splendido
Paese. Non mi sono mai tirato indietro quando è
mi capitata l'occasione di nuotare anche nelle
acque gelide del Mare del Nord. E' tradizione che il
giorno di Natale, a Newcastle (County Down), dove vivono i
parenti irlandesi di mia moglie, per raccogliere soldi a scopo
benefico, chi vuole può immergersi in mare. Bene io l'ho fatto. Una ventina di
anni fa, quando il mio tono muscolare era ancora
in buono stato, mi divertivo a solcare le onde
di questo mare su una leggera tavola da
windsurf, non lontano dalla riva. Forse pecco
di presunzione se dico di sentirmi, in qualche
modo, "un figlio del mare".
D'inverno, a Tripoli, quando il vento era forte ed il
tempo cattivo, dalla mia stanza ascoltavo affascinato il mugghiare del
mare in tempesta. E' una musica che mi ha sempre affascinato.
Quando in concomitanza del mare mosso c'era l'alta marea, l'acqua
superava la spiaggia, le cabine di legno dello stabilimento
ed arrivava quasi a lambire il cancello verde d'ingresso del Lido
Vecchio. Adiacente al cancello c'era un piccolo locale in muratura, che
serviva da botteghino per riscuotere il biglietto d'ingresso allo
stabilimento. Sin dai primi anni cinquanta in questo locale ci viveva
un libico di nome Shami, che faceva il custode dello stabilimento.
La
nostra palazzina in Sciara Camperio era simile a tante altre costruite
in altre zone del centro cittadino. Anche la nostra era dipinta
esternamente di bianco ed era formata da quattro appartamenti divisi
due per piano, due a piano terreno e altri due al primo piano. Il tetto
della palazzina era piatto e coperto da una terrazza piastrellata,
grande quanto la superficie dei due appartamenti sottostanti. Questa
terrazza normalmente serviva da lavanderia e area per stenderci i
panni. La nostra palazzina era stata costruita dall'impresa edile di
Corrado Salemi, nonno dei miei amici Corrado e Mario Salemi, che
abitavano nella villetta di fronte a noi in Sciara Camperio. I quattro
appartamenti erano simili tra loro ed erano composti da due camere da
letto, una sala da pranzo, una cucina, un bagno e da due corridoi, uno
più piccolo e l'altro più lungo, che si univano fra loro a forma
di una "T". Il portone dell'ingresso condominiale della palazzina
era alto e pesante ed era stato costruito con un legno di noce e
verniciato di marrone scuro. Per la prima volta all’età di sei
anni, mia madre mi aveva dato le chiavi del portone e, con mia grande
soddisfazione, ero riuscito ad aprirlo da solo. Mentre con le chiavi
riuscivo ad aprire il portone ricordo di aver provato una
piacevole sensazione, in quel momento credevo di essere diventato
anch'io un adulto.
Superata la
soglia del portone c'era uno spazioso ingresso
condominiale dove appoggiavamo le nostre
biciclette su due lati delle pareti. In una di
queste due pareti erano state ricavate due
piccole nicchie quadrate, chiuse da due pannelli
di legno pitturato con lo stesso colore delle
pareti, in cui erano stati inseriti i contatori
della luce, del gas e dell'acqua di tutti e quattro gli
appartamenti. Io sapevo che, salvo quando
c'erano le letture dei contatori, gli sportelli
non venivano mai aperti. Pertanto avevo
utilizzato quelle due nicchie per un mio uso
privato, erano diventate il mio nascondiglio
segreto. Lì riponevo le mie fionde, le mie
carabattole e tutte quelle piccole cose che mia
madre mi proibiva di portare in casa. Mia
madre, forse in maniera un po' esagerata, aveva la "manìa" della pulizia e dell'igiene
della casa. Tutto doveva essere pulito ed in
ordine. Anche la porta d'ingresso del nostro
appartamento era robusta anche se non tanto
quanto il portone. Era stata costruita in legno
massello di castagno chiaro. Aveva due serrature
esterne, mentre all'interno mia madre aveva
voluto che venisse aggiunto un chiavistello di
ferro per maggior sicurezza. L'appartamento era
molto luminoso perchè in ogni stanza c'era una
finestra. Ogni finestra si apriva e si chiudeva
con il sistema delle persiane avvolgibili a
scorrimento. Sul lato destro di ogni finestra
c'era una cima piatta che scorreva sia sulla
parte superiore che su quella inferiore,
distanti circa due metri e mezzo sotto su due
rotelle. Tirando o allentando questa corda si
apriva e si chiudeva la persiana della finestra.
Dal corridoio
più lungo, che partiva dall'ingresso, si
accedeva in senso antiorario alla mia camera. La stanza successiva era quella dei miei
genitori. In fondo al corridoio, c'era la sala
da pranzo, che si usava solo nelle occasioni
speciali, come quando alcune domeniche avevamo
degli ospiti a pranzo, a Natale e a Pasqua, altrimenti generalmente noi tre pranzavamo e
cenavamo in cucina. A seguire c'era la porta del
bagno e poi c'era il corridoio più piccolo. In
fondo a questo corridoio c'era una finestra,
mentre a metà circa si accedeva alla cucina.
Questo piccolo corridoio ha sempre rappresentato
per me qualcosa d'importante, tanto che a volte
me lo sogno ancora. Da piccolo, quando i
bambini credono ancora alle favole, mio padre
mi aveva aiutato a fare un piccolo buco (circa
due centimetri di diametro) con un cacciavite
nella parte di questo corridoio. Questo buco
nel muro serviva da ricettacolo per i miei
dentini. Ogni volta che mi cadeva un dentino lo
raccoglievo e lo mettevo lì dentro. I miei
genitori mi avevano detto che
San Nicola, il Santo protettore dei
bambini, (San Nicola è un santo protettore di
tante cose), portava via il mio dentino,
lasciando al suo posto qualche soldino. Quando
mettevo il mio dente dentro quel buco recitavo
questa filastrocca ad alta voce :"Santo
Nicòla, Santo Nicòla, u mmi santu cu l'aeròla,
pigghiati i denti, tutti cadenti, portami sordi
e teniti i denti". Era una piccola
filastrocca siciliana in rima che mi aveva
insegnato mio padre e che forse se l'era
inventata lì per lì. Recitare questa filastrocca
era importante perchè serviva per ringraziare il
Santo e fargli ricordare di portare dei soldi al
posto del mio dentino. Ricordo come ero felice
quando, svegliandomi al mattino, al posto del
dente, trovavo il mio soldino! Nominavo San
Nicola anche quando vicino a me vedevo una
coccinella. Allora recitavo un'altra
filastrocca: " San Nicola, vola, vola,
pigghiati 'u pane e vattinni a scola", e
soffiandoci sopra volevo che la coccinella
volasse via libera nell'aria.
La nostra cucina
non era molto grande, però c'era uno spazio
sufficiente per un tavolo, tre sedie, un
frigorifero. C'era anche un armadio laccato di
bianco con una vetrina, dove riponevamo i
bicchieri, i piatti, le pentole, le padelle e
tutte le stoviglie. C'erano dei fornelli a gas
per cucinare posati su un piano di marmo bianco, con delle leggere venature nere.
Nell'angolo in fondo, sul lato sinistro della
finestra, c'era un acquaio.
La mia camera si
affacciava sul corridoio più lungo ed era
sobriamente arredata. Nell'angolo sinistro di
fronte all'entrata c'era una piccola scrivania
in metallo, composta da vari cassetti. Usavo
questa scrivania per studiare, per scrivere e
fare i miei compiti di scuola. Accostato alla
parete sul lato della scrivania c'era un armadio
guardaroba per riporci i miei vestiti, il mio
impermeabile, il mio cappotto; c'erano anche due
cassetti dove riponevo la mia biancheria
intima. C'era un letto, un baule per i miei
giocattoli, un paio di scaffali fissati al muro
da mio padre, dove riponevo i miei libri di
racconti, i miei fumetti ed i libri di scuola. Sul lato opposto all'entrata c'era una
grande finestra. Da lì, affacciandomi e
guardando verso destra, vedevo il mare. Il
pavimento di questa stanza era formato da
piastrelle quadrate, venti centimetri per venti,
di color verde chiaro. Nel centro della stanza
c'erano alcune mattonelle gialle, delle stesse
dimensioni di quelle verdi, che formavano un
rettangolo, due metri per uno.
Fino all'età di
quattro anni, i miei genitori avevano la loro
camera da letto accanto alla mia, poi, avevano
creduto più opportuno, per la loro privacy,
trasferirsi nella camera più lontana. La loro
ex-camera da letto era stata trasformata nel
nuova sala che fungeva da salotto e da sala da
pranzo. Nel centro di questa stanza c'era un pesante tavolo di legno
allungabile, color noce, che usavamo solo nelle
grandi occasioni come quando avevamo ospiti a
pranzo, che
lei ripuliva e conservava con cura. Il tavolo era corredato da sei pesanti
sedie fatte con lo stesso legno e tappezzate
di cuoio. Anche in questa stanza c'era una
grande finestra che dava su Sciara Camperio. Su
una delle pareti, quella al lato della
finestra, c'era un mobile a quattro ante, anche
questo di noce, sormontato da una elegante
vetrinetta, dove mia madre riponeva alcuni suoi
ninnoli, Esposti, in
bella mostra, nella vetrina c'erano dei sottili
bicchieri di vetro, a forma di coppa, che
usavamo solo per brindare nelle grandi
occasioni.
Di fronte alla
porta del salotto, dall'altro lato del
corridoio, c'era quella del bagno, in cui c'era
una vasca di dimensioni standard, un
bidet, un vaso, ed un lavandino con alla parete un
armadietto con specchiera. Negli ultimi tempi
mia madre aveva trovato il posto anche per una
lavatrice di marca Rex. La carta igienica è
stata un'invenzione del dopoguerra. Fino al 1954
nel nostro bagno non c'era ancora la carta
igienica, ma al suo posto, attaccati al muro
ad un chiodo vicino al vaso, usavamo dei pezzi
di carta di giornale. Generalmente
erano giornali quotidiani che avevano un tipo di
carta più morbida al contattato rispetto alle
riviste. Mia madre aveva il compito di squadrare
e tagliare con cura i pezzi di giornale. Ogni
tanto aiutavo anch'io mia madre a tagliare della
carta di giornale, poi mi perdevo a guardare le
figure e a cercare di leggere quello che c'era
scritto.
Al termine del
corridoio più grande c'era la porta della camera
che per vari anni era stata la camera da letto
dei miei genitori. Questa camera era quella che
aveva le dimensioni più grandi rispetto alle
altre. Anche questa, come le altre, era
arredata in maniera molto semplice. Il pavimento
era fatto di mattonelle chiare larghe venti
centimetri per venti. C'era un letto con una
spalliera in legno di rovere scuro. Sopra la
spalliera, appeso alla parete, c'era un
quadro, che raffigurava una Madonna col
volto sereno, che indossava un vestito verde
chiaro, coperta da un mantello rosa, con in braccaia il
bambino Gesù. Entrambi, madre e figlio,
erano cinti da un'aureola in testa. Questo
quadro mi dava un senso di pace e di
tranquillità. Su una delle pareti c'era un comò,
con alcuni soprammobili. Ricordo bene una
grossa
conchiglia di mare, regalataci da mio
nonno materno Giuseppe. Accanto a questa
conchiglia c'era una
scatola portagioie, in legno laccato,
intarsiata con schegge di madreperla con dentro
un carillon, con il brano musicale del Danubio
Blu un famoso valzer di Johann Strauss. Sempre
su questo comò c'era una
statuetta della Madonna alta appena
venti centimetri, fatta di granito, che cambiava
colore con il cambiare delle condizioni del
tempo. Era un piccolo barometro rudimentale a
cui mia madre dava molta importanza. Anche il
comò era fatto in legno di rovere scuro, con
quattro cassettoni usati esclusivamente dai
miei genitori. Sulla parete, accanto alla porta,
c'era un armadio a quattro ante, dello stesso
tipo di legno del letto e del comò, con
all'interno vari cassetti, un grande specchio ed
un'asse di legno su cui appendevano i loro
vestiti con delle grucce. Al lato di questo
armadio, quello vicino alla finestra, sul
pavimento c'era una mattonella che se uno ci
camminava sopra faceva un rumore strano. Sotto
questa mattonella i miei genitori ci avevano
fatto un buco profondo trenta centimetri e sopra
con precisione millimetrica era stata appoggiata
sopra una mattonella simile alle altre. Pochi
erano a conoscenza di questo nascondiglio
segreto. Subito dopo la guerra erano ancora
pochi a Tripoli coloro che usavano le banche per
depositare i propri risparmi. Molti non si
fidavano e preferivano mettere i propri soldi
all'interno del proprio materasso o sotto una
particolare mattonella. Quasi tutti i miei
parenti portavano i loro soldi a casa nostra e
li davano in custodia a mia madre, che li
prendeva in consegna e li metteva dentro una
busta, scrivendoci sopra il nome del parente e
poi li nascondeva nel buco sotto quella
mattonella. Ricordo che questo viavai di parenti
che portavano i loro soldi in casa mia è durato
fino alla fine degli anni cinquanta.
Successivamente per alcuni motivi, i miei
genitori, come gli altri miei parenti, scelsero
di depositare i loro risparmi presso il Banco di
Napoli, la banca che era ubicata quasi di
fronte alla Galleria De Bono. Negli anni
successivi i miei genitori si erano serviti
anche dei servizi bancari del Banco di Roma, che
era ubicato in Piazza Italia all'angolo con
Corso Sicilia.
Fortunato Anselmi, il soldato
disperso
Nel
corridoio più grande di casa mia c'era l'impronta di un foro di
un proiettile sopra la cornice della porta della camera da letto
dei miei genitori. Questo foro ha una sua storia. Ricordo che mio
padre, non so se per scaramanzia , non aveva mai voluto che quella
parte della parete dove c'era l'impronta di quel proiettile venisse
restaurata. Voleva che restasse memoria di un fatto avvenuto anni
addietro, come in effetti, con questa mia testimonianza, sta
succedendo. Mia madre mi raccontava che, nel Settembre del 1942,
durante la seconda guerra mondiale, un suo primo cugino della parte
materna, che si chiamava Fortunato Anselmi, figlio dello zio materno
Niccolò, era stato richiamato alle armi per la campagna di Russia. Alla
vigilia della sua partenza per il fronte Fortunato era passato da casa
loro per salutare i miei genitori, con cui intratteneva dei rapporti
cordiali. Fortunato era arrivato già vestito con l'uniforme e si
era portato dietro, con un sotterfugio nascondendolo sotto il suo
cappotto, il suo fucile d'ordinanza, quello che avrebbe dovuto portare
con sè in guerra, orgoglioso di farlo vedere a sua cugina. Tutto era
successo improvvisamente. Fortunato e mia madre era nel corridoio più
lungo vicino alla porta d'ingresso mentre mia madre era a pochi passi
da loro. Nel momento in cui Fortunato si accingeva a
mostrare il fucile a mia madre, inaspettatamente dalla canna
del fucile era partito un colpo. Il proiettile aveva sfiorato il
capo di mio padre, che si trovava a pochi passi da loro, aveva percorso
i sei metri del corridoio e si era andato a conficcare sulla parete di
fronte sopra la porta, creando quel famoso foro. Fortunato era
rimasto sconcertato per quanto accaduto. Si era sprofondato in mille
scuse e poi, tanto dispiaciuto per quanto accaduto, se ne
era andato via con le lacrime agli occhi. Quella fu l'ultima
volta che i miei genitori lo videro. Purtroppo nessuno ha mai saputo
quale fine abbia fatto il povero Fortunato. La sua ultima
lettera, che mia madre mi aveva
mostrato, era pervenuta dalla Russia, da Rossosch, una cittadina vicina al Don, il fiume
rosso. Ecco il contenuto della lettera che diceva grosso modo così:
Rossosch (Russia), 15 gennaio 1943
Cara Franca,
mi sono fatto aiutare a scrivere questa lettera da un mio compagno di
branda, un bravo picciotto palermitano, un certo Nicola Abbruscato, che
ha studiato e che, al contrario di me, non ha difficoltà a
scrivere. Qui in Russia c’è un gran freddo, dicono che la temperatura
è attorno a 30 gradi sotto zero. Di notte, per non perdere
tempo e per non perdere calore, andiamo a dormire vestiti con le nostre
uniformi nelle nostre brande. Purtroppo le coperte di lana scarseggiano
ed anche se siamo coperti di tutto punto, il freddo si fa sentire
sempre di più. Che differenza che c'è con Tripoli, che me la sogno
quasi ogni notte. Da due giorni ci troviamo a Rossosch, vicino al
fiume Don. E' un mese che camminiamo sempre sulla neve e sul ghiaccio,
chilometri e chilometri. Ogni giorno la nostra vita diventa sempre
più dura e noi siamo tutti stanchi e con il morale sotto i tacchi. Ci
hanno appena comunicato che per domani è prevista una tappa di
spostamento di 35 chilometri verso est. I nostri calzini sono tutte
bucati e le nostre scarpe sono quasi tutte consumate. Speriamo Iddio
che durino un altro po’ perché quelle di riserva non sono ancora
arrivate. Ci dicono che devono arrivare presto ma io non ci credo. La
razioni del nostro rancio sono scarse. Durante le nostre marce di
spostamento, quando passiamo per i campi coltivati, ci arrangiamo a
raccogliere qualche carota, qualche patata o anche qualche rapa.
Chi rimane ferito è fortunato perché se ne può tornare in Italia.
Un nostro compagno di Avellino, un certo Gennaro Capone, sposato con
Sofia, tiene due figli, Filomena, la più grande di due anni
appena compiuti e Gaetano di pochi mesi. Gennaro, poveretto, non ha mai
visto nascere suo figlio perchè è dovuto partire per la guerra due
giorni prima della sua nascita. Gennaro è un bravo e
coraggioso "guaglione" e vole bene alla sua famiglia. L'altro
giorno, di nascosto e tutto da solo, col suo coltello si è tagliato di
netto il dito mignolo della sua mano sinistra. E' andato in infermeria
e con questo fatto si è fatto congedare. Sono contento per lui. A lui
della guerra non gliene importa niente, il suo solo scopo è quello di
ritornare a casa e di riabbracciare sua moglie, sua figlia e di
vedere finalmente il piccolo Tano, sangue del suo sangue. E pazienza
per il suo dito! Io sono ancora soldato semplice, ma il mio
ufficiale superiore, un simpatico fiorentino dai capelli biondi e gli
occhi azzurri, un certo Niccolò Nuti, mi ha detto di tenere duro e
mi ha fatto capire che presto mi promuoverà a soldato scelto.
Anche lui è un bravo ragazzo e conosce a memoria molti versi della
Divina Commedia di Dante Alighieri. La sera, prima di addormentarci,
per tenerci su di morale, ci racconta alcune storie scritte da un
altro scrittore toscano un certo Boccaccio. Peccato che quando
parla si mangia la "c". Anche a me piacerebbe scrivere ma tu lo sai che
a scuola ci sono stato poco ed ho fatto fino alla seconda
elementare. Poi mi hanno mandato a lavorare ed ho imparato a fare
il muratore. Franca, tu e Peppino, sapete che ho simpatia per tua
sorella Grazzina. Du mesi fà, facendomi aiutare da Nicola, ho scritto
una lettera a tua sorella Grazzina. Finora non ho ricevuto
nessuna risposta da lei. Spero che sta bene e che non gli è successo
niente. L'ultima volta che l'ho vista si trovava a Zuara a casa di zia
Ninetta. Le ho stretto la mano e l'ho guardata negli occhi, ma lei non
mi ha voluto guardare. Parlaci anche te, dille che mi è sempre
piaciuta. Quando ritorno, sempre se lei è d’accordo, vorrei
sposarla.
Un caro abbraccio a te e a Peppino
Fortunato
P.S.
Cara Peppino
mi scuso con te per la fesseria che
ho fatto prima di partire per questa
disgraziata guerra, che purtroppo
non finisce mai. Il nostro generale
di brigata si chiama Gariboldi, come
Garibaldi ma con la o. Lui dice che
è questione di poco tempo e poi la
Russia sarà nostra. Sarà, ma da come
si stanno mettendo le cose io ci
credo poco. Se anch'io come Gennaro avessi avuto un figlio avrei fatto
il diavolo a quattro per tornarmene
a casa. Mi sarei tagliato tutta la
mano, non solo il dito. Spero che la
sorveglianza non legga questa
lettera perchè saranno guai per
tutti. Ma qui ormai nessuno crede a
niente e nessuno controlla niente. Spero che Iddio ci aiuti!
Fortunato
|
Come si
evidenzia in questa lettera, che mia madre
custodiva gelosamente in uno dei cassetti del
suo comò, Fortunato chiedeva ancora scusa a mio padre per aver commesso quella sbadataggine che
poteva costargli la vita. Dopo
quella lettera non ce ne furono altre, ci fu il
silenzio, un silenzio preoccupante. Fortunato
non ritornò mai più in Italia, ne mai si venne
a sapere se fosse sopravvissuto a quella
disfatta oppure se fosse morto. Ci sono stati
molti casi di soldati italiani dispersi, che presi
prigionieri dai russi, avevano trovato moglie e
poi si era accasati senza ritornare più in
patria e per vario tempo, dopo la fine della
guerra, alcuni speravano che anche per lui fosse
finita così. I suoi parenti affranti avevano
sollecitato varie volte ma invano le autorità
militari competenti di avere notizie sulla sua
sorte. Dal fronte non c'era stata nessuna
risposta, nessuno sapeva niente e a causa della
guerra che continuava le notizie era
frammentarie e senza certezze. Dopo alcuni anni,
come migliaia di altri suoi commilitoni, il
soldato scelto Fortunato Anselmi fu dato per
disperso dalle Autorità Militari competenti.
Mio padre,
quando aveva voglia di scherzare, prima di
entrare nella sua camera da letto, aveva preso
l'abitudine di fare un piccolo salto per
toccare con una mano quel foro di proiettile. Io
non ho mai capito se lo facesse per puro
divertimento o per scaramanzia. Quando sono
diventato più grande e più alto, anch'io avevo
preso l'abitudine di fare un salto per toccare quel foro con la mano, nella speranza che quel
gesto, che io ritenevo scaramantico, mi
portasse fortuna.
L'operazione alle tonsille
Ricordo un altro
episodio avvenuto nella mia casa di Sciara
Camperio. Quando avevo circa sei anni ogni volta
che facevo un bagno a mare mi veniva la febbre
ed il mal di gola. Il nostro medico di famiglia
il dottor Garaffo aveva detto che il problema si
sarebbe risolto solo asportando le mie tonsille,
che secondo lui erano la causa della mia febbre.
Aveva indicato ai miei genitori un medico
chirurgo specialista in questo tipo di
operazione, di cui non ricordo il nome. Il vero
problema consisteva nel fatto che avrei dovuto
sottopormi a questa operazione da sveglio, senza
anestesia. L'operazione si sarebbe dovuta
svolgere alle quattro del pomeriggio a casa
mia. La mattina dello stesso giorno mia madre
aveva pulito e sterilizzato la mia cameretta da
cima a fondo, in attesa che arrivasse il
chirurgo che doveva con i suoi ferri chirurgici asportare
le mie tonsille. Nelle ore precedenti
all'operazione vedevo che mia madre era
piuttosto agitata mentre io me stavo tranquillo a
sfogliare i miei fumetti di Topolino. Data la mia età non mi rendevo ancora conto della
difficoltà di quell'operazione specialmente se
affrontata senza anestesia. Avevo aspettato che
arrivasse il medico senza grossi patemi d'animo
e poi ero contento che, una volta che mi fossero state
tolte le mie tonsille, avrei potuto continuare a fare i bagni
a mare senza avere più la febbre ed il mal di
gola. Quel pomeriggio era arrivato questo medico-chirurgo italiano con la sua borsa di cuoio,
piena di strumenti che gli
sarebbero serviti ad operarmi. Questo chirurgo
aveva degli occhiali con delle spesse lenti da
miope. Si era messo un cerchio di ferro attorno
alla fronte con in un mezzo una lampadina
accesa, che mi fa ricordare le lampadine che usano i minatori
quando vanno giù in miniera. Prudentemente aveva chiesto a mia
madre un lenzuolo leggero per avvolgermelo tutto
attorno, come fosse stata una
camicia di forza.
Poi mi aveva legato con quel lenzuolo come un salame e da allora
anch'io avevo cominciato a diventare irrequieto. Mi diceva
nervosamente di aprire la bocca più che potevo e di tenerla sempre
aperta. Vedevo che il chirurgo cominciava a sudare copiosamente,
forse per il caldo. Sembrava che avesse un gran fretta di finire quel
lavoro prima possibile. Dietro quelle lenti da miope i suoi occhi mi
apparivano enormi. Credevo che il chirugo si fosse trasformato in un
grosso uccellaccio pronto a ghermire le mie tonsille con il suo
becco. Con voce sgradevole e con malagrazia continuava ad intimarmi di
tenere aperta la mia bocca. Mi era decisamente antipatico. Nella
mano destra teneva una bisturi ed, oltre alla luce che aveva in testa,
voleva che mia madre mi tenesse fermo, senza farmi muovere. Senza
preavviso mi aveva cacciato quel grosso bisturi in bocca, in
maniera così violenta che mi era venuta voglia di vomitare. Mia madre
guardava la scena con un viso preoccupato. Poi il chirurgo, senza
pensarci due volte, con un colpo secco del bisturi, mi aveva già
asportato un pezzetto delle mie tonsille. Io, per il dolore, gettai un
urlo. Sentivo in bocca il sapore dolciastro del mio sangue. Mi ero
messo a piangere e istintivamente avevo chiuso la mia bocca per non
permettergli di farmi altro male. Il chirurgo era sempre nervoso e mi
continuava ad urlare di tenere aperta la bocca. Ora anche mia madre mi
supplicava di aprire la bocca. Dal canto mio, forse per spirito di
sopravvivenza, non volevo permettere che il chirurgo continuasse a
tagliare la mia gola con il suo bisturi. Ora il mio sangue cominciava
ad uscire copioso dalla mia bocca. Sembrava ci fosse un
inizio di emorragia. Malgrado tenessi serrate le mie mandibole, il
chirurgo aveva ritentato più volte di ricacciarmi il suo bisturi in
bocca per tagliare un altro pezzo delle mie tonsille e completare
l'operazione. La cosa però non gli era riuscita. Dopo vari ed inutili
tentativi se ne era andato via da casa mia, ancora più arrabbiato e
sudato. Mi aveva guardato storto ed aveva detto a mia madre che
con un paziente così non era nelle condizioni di poter continuare ad
operare. Quando se ne era andato da casa mia, mia madre mi aveva
dato del ghiaccio che dovevo tenere con la mia lingua in fondo alla
bocca, nel punto in cui quel dannato chirurgo mi aveva vivisezionato
con il suo bisturi. Ormai non lo consideravo più un chirurgo ma
un macellaio di poco valore. Quell'incompetente non aveva saputo
asportare le tonsille con un colpo secco e preciso e queste
dopo qualche tempo mi erano ricresciute. Quell'operazione era stata
inutile. Tre anni dopo ero stato operato sia alle adenoidi che
alle tonsille da un chirurgo inglese dentro la sala operatoria della
casa di cura Villa Igea, che stava vicino al Municipio. Questa volta
però l'operazione era stata fatta con un anestesia totale a base
di etere e tutto era stato fatta in maniera professionale. Mi ricordo
che prima di addormentarmi il dottore anestesista, un
italiano, mi aveva chiesto di contare fino a dieci. Io ero
riuscito a contare fino ad otto e poi mi ero addormentato. Mi ero
risvegliato nel letto della mia cameretta con un febbrone alto. Poi,
dopo pochi giorni, mi avevano dimesso perchè stavo già meglio. Da
allora ho potuto fare tutti i bagni a mare che volevo senza
più avere febbre o mal di gola.
>>>
LA NOSTRA TERRAZZA
<<< Dall'ingresso
condominiale della nostra palazzina partiva una rampa di scale, costruita con marmo bianco venato di
grigio, che arrivava fino in cima al pianerottolo dove
era la porta di legno della terrazza.
Questa porta non era
grande ma aveva una serratura antica che per aprirla occorreva una
chiave di grosse dimensioni, tanto che noi la chiamavamo "la chiave
di san Pietro". La terrazza copriva tutta la palazzina ed era
protetta da un muretto alto circa un metro e venti e spesso
trenta centimetri, che correva lungo tutto il suo perimetro esterno ed era divisa in due parti uguali con un
altro muretto
divisorio. La nostra parte di terrazza era in condominio con la
famiglia Costa, una coppia sposata senza figli, che abitava al primo
piano sopra di noi. Metà dell'altra terrazza apparteneva alla famiglia
D’Amico, composta da Pippo, il capofamiglia, la moglie Mariuccia Guarrasi, sorella del bravo
nuotatore e pescatore subacqueo tripolino Pino Guarrasi, ed i figli Cettina, Ninni e
Roberto, che abitavano nell'appartamento al piano
terreno, proprio di fronte al nostro. L'altro quarto della terrazza
apparteneva alla famiglia che occupava l'altro appartamento del
primo piano, in cui ci avevano abitato dapprima i
Nuzzo, poi i Ciciliano ed infine i coniugi Turtulici-Marra. Sandra
Turtulici era la figlia del famoso sarto
tripolino Turtulici di Sciara Mizran, che vestiva la famiglia reale
ed alcuni dei più importanti notabili libici e nipote di quel
Casella, famoso automobilista e proprietario delle Acque Minerali
tripoline "Ben Gashir". La terrazza,
che fungeva anche da tetto della palazzina, era ricoperta da un
pavimento che era stato isolato con uno strato di catrame e
rivestito di piastrelle rosse. Nelle due terrazze c’erano quattro
lavanderie , uno per appartamento, che servivano anche da
ripostiglio. All’interno di ogni lavanderia c’era un lavatoio di
granito, formato da un catino, fissato ad un piano leggermente
inclinato ed ondulato, per poterci lavare e strofinare i panni. Mio
padre, su insistenza di mia madre, aveva costruito degli scaffali in
ferro, fissandoli ad una delle pareti, che erano molto utili per
riporci tante nostre cianfrusaglie. Mia madre stendeva i nostri
panni ad asciugare all’esterno della terrazza, appendendoli
con le mollette a dei fili di ferro che mio padre aveva messo in
tensione e fissati , da una parte, a dei ganci avvitati
alla parete della nostra lavanderia e dall’altra a dei
paletti di ferro imbullonati al muretto della terrazza. Da
lassù si godeva veramente una bella vista. Ad Ovest c'era il mare,
la spiaggia del Lido Vecchio e quello scoglio, che forse non
ha mai avuto un nome e che si poteva vedere anche dalla spiaggia dei
Sulfurei; a Nord-Est, si vedeva il vecchio campo di calcio del
Maccabi, la fabbrica di olio di ricino e più in là lo Stadio
Centrale ed una parte del recinto della Fiera Internazionale; sul
lato Est i binari della vecchia Ferrovia e a Sud-Ovest la strada che
portava ai Sulfurei, a Giorginpopoli, fino a Gargaresh. Noi
utilizzavamo questa terrazza per diverse occasioni. Dopo cena, nelle
limpide e calde sere d’estate, quando venivano a farci visita alcuni
vicini di casa. Aprivamo le sedie sdraio per chiacchierare ed
ammirare il cielo notturno illuminato da tante stelle. Nelle notti
di agosto ci stendevamo, come foche, su alcune coperte distese sul
pavimento, e stavamo lì, fino alle ore piccole, in attesa di
vedere passare qualche stella cadente e fare a gara a chi ne vedeva
di più. Mio padre, che si intendeva un pò di astronomia, mi
insegnava a conoscere alcuni nomi di stelle e ad indicarmi la forma
di qualche costellazione. La nostra terrazza era comoda ed utile
per ogni evenienza. La usavamo quando veniva il
periodo di distendere ed allargare la lana dei materassi, o quando
si doveva
preparare la conserva di pommarola, o quando volevo asciugare al
sole i francobolli della mia collezione, o per le feste di compleanno,
di Battesimo, della Cresima. C’era anche chi, come la vecchia
signora Casadio, che abitava nella palazzina accanto alla nostra, utilizzava la
sua terrazza per allevare piccioni.
Mi ricordo quando, nell'aprile del
1954, in occasione di quella indimenticabile grandinata che colpì
furiosamente Tripoli e forse tutta la costa libica, mi trovavo con
mia madre nella mia terrazza, dentro la nostra lavanderia, mentre
mia madre lavava i panni. Ad un tratto sentimmo dei colpi
abbattersi sul tetto della lavanderia come fossero degli spari,
mentre il pavimento della terrazza si andava riempiendo di chicchi
di grandine. Riparati dentro la lavanderia stavamo assistendo
ad un evento naturale di grande interesse ed assai raro,
specialmente in una zona come quella. I chicchi di grandine
caduti dal cielo erano così grossi che qualcuno, forse esagerando, diceva
che avevano addirittura la dimensione di un'arancia. Non so quanti
danni questa grandine abbia procurato alle coltivazioni
o se avesse ferito delle persone , ma ricordo i grossi buchi
lasciati sui muri della nostra terrazza e sulle pareti esterne delle
abitazioni vicine, come se ci fosse stato un bombardamento militare.
L'anno dopo, nel 1955, in quella zona, accadeva un altro evento straordinario:
l'invasione delle cavallette. Rammento che ero salito di corsa con
mia madre sulla terrazza per vedere meglio il cielo coperto da un
nugolo di milioni di cavallette, così fitto da oscurare il sole. La
terrazza era completamente coperta da tante cavallette, sia vive che
morte e per ripararci, io e mia madre, ci eravamo messi una coperta
addosso. Guardando giù dalla terrazza vedevo che alcuni ragazzi
arabi che correvano indaffarati a raccogliere le cavallette morte
e le mettevano dentro alcuni secchi ed altri tutti presi ad
acchiappare quelle vive, che saltellavano qua e là, per infilarle
dentro dei sacchi di juta. Per vari anni a seguire si continuava a
parlare di questi due
episodi, quello della grandine e quello delle cavallette, come di
due eventi così straordinari che quando si voleva ricordare qualcosa
successa di quell'anno si diceva : "Ti ricordi l'anno delle cavallette? " oppure " Ti
ricordi l'anno della grandine?". >>>
I PRIMI RIENTRI IN ITALIA
<<<
Negli anni '50 e '60 il modello tradizionale delle nostre
famiglie tripoline si basava sul criterio che il capofamiglia doveva
procurarsi un lavoro per il benessere economico generale
mentre la moglie doveva occuparsi di governare la casa e di badare
alla propria prole. Fino alla metà degli anni ’50, prima che
iniziasse la frenetica corsa allo sfruttamento del petrolio
libico , l’economia tripolina ristagnava. A Tripoli ed in tutta la
Libia, alla fine della seconda guerra mondiale e dopo la perdita del
potere italiano sulla colonia libica, molte cose stavano
cambiando: la lingua ufficiale non era più l'italiano ma l'arabo e
l'inglese, tutti i nuovi documenti erano scritti in arabo, i
cartelli e le insegne nelle strade erano scritte in arabo, le targhe
delle macchine portavano i numeri arabi. Alcune delle famiglie italiane,
rimaste ancora in Libia, forse infastidite da questi nuovi
cambiamenti, avevano deciso che era
davvero venuto il momento di tornarsene in Patria,
maggiormente motivati dal fatto che il lavoro continuava a
scarseggiare e che le condizioni finanziarie diventavano sempre più
precarie. In quel periodo
viaggiare in aereo costava ancora troppo e inoltre fra la gente era ancora diffusa la
paura di volare. L'alternativa per andare in Italia restava il viaggio in nave, che
sembrava più sicuro e permetteva di trasportare grossi bauli e
tanto bagaglio in più a minor prezzo. Queste famiglie, partendo dal
molo del porto di Tripoli, si imbarcavano sull'Argentina, una delle
tante navi
della flotta della società napoletana Tirrenia, che, dopo uno scalo
tecnico a Malta, raggiungeva il porto di Siracusa e terminava il suo
viaggio di andata a Napoli. In quel periodo la Tirrenia aveva una flotta di navi che primeggiavano in Europa per
loro stazza, velocità e capacità di passeggeri, ma anche per
l'introduzione di una nuova gamma di nuove sistemazioni: dalle cabine
delle due classi alle comode poltrone reclinabili, che all’epoca
erano considerate una novità assoluta. Ma a solcare le onde c’erano
soprattutto volti e vite di chi partiva controvoglia e piangeva, come
ragazze o ragazzi ancora giovani, che obbligati a seguire i propri
genitori, lasciavano i loro fidanzati o i loro amici col cuore
infranto. Dalla nave e dal molo i pianti e gli addii si sprecavano.
Da Siracusa o da Napoli alcune di queste famiglie si
dirigevano dapprima nei campi profughi, sparsi per tutta
Italia, con la speranza di trovare una veloce sistemazione o un
lavoro nella zona limitrofa. Altri, forse per presunzione, pensavano
che risiedere nei campi profughi fosse per loro una cosa indecorosa
e andavano direttamente nelle case dei paesi d’origine dei loro avi,
dove speravano di ritrovare, almeno per un pò di tempo, un pò
d'aiuto e di simpatia nei loro parenti rimasti in Italia. Altri
ancora, come era già accaduto anni prima ai loro
genitori, avevano optato di emigrare nuovamente in terre
lontane, in Australia o negli Stati Uniti D’America, dove si
diceva che l'offerta di lavoro ed il tenore di vita fossero migliori
di quelli dei paesi europei. Infine c'erano anche quelli che avevano
deciso di trasferirsi immediatamente in alcune regioni dell’Italia
settentrionale, che erano proprio agli albori di quello che fu
definito il miracolo economico italiano degli anni '60. Così
in quel loro viaggio dal Sud al Nord dell'Italia si trovavano a
sedere gomito a gomito sugli stessi treni che trasportavano tutti quei meridionali che,
con le loro sciupate valigie di cuoio legate con lo spago, andavano
anche loro in cerca di una migliore fortuna. Questo lungo viaggio in
treno terminava soprattutto
nell’area torinese, legata alla Fiat ed al suo
indotto oppure nel comprensorio milanese. Proprio questa zona
principiava già a gremirsi di giovani fabbriche nate nel dopoguerra,
grazie all’iniziativa e all’ingegno di alcuni giovani imprenditori
italiani e cominciava ad offrire un lavoro stabile e
dignitoso e a garantire un benessere economico a chi non ne aveva
mai avuto.
Tra queste famiglie partite negli
anni '50, contemporaneamente alla scoperta del petrolio libico,
ricordo quella di mia zia Orsolina Ferrante, che abitava a Tripoli, in Sciara Tiziano
una traversa di Sciara Bramante e Sciara Puccini, vicino alla Fiera,
dietro alle case operaie. Orsolina, la secondogenita della famiglia
Ernandes, aveva circa
dieci anni più di mio padre. Appena sposata, all'età di vent'anni,
aveva adottato ed ospitato a casa sua a Tripoli mio padre, che era
rimasto orfano di suo padre alla tenera età di sette anni. Orsolina
era
felicemente sposata con
Gabriele Ferrante, un bravo e valente
pescatore. Insieme avevano messo al mondo quattro figli, nell'ordine
Mimma,
Rita,
Domenico e
Franca. Diventati adulti, Mimma
si era sposata con
Gaetano Onorio, da cui erano nati Antonio
(Ninni), Gabriele (Lillo) ed Angela. Rita aveva sposato
Mario Peritore ed aveva avuto una figlia di nome Maria. Domenico, unico
figlio maschio, si era sposato con
Luciana Cannavò, da cui erano
nati Gabriele e Carlo. Infine Franca aveva sposato il dentista
italo-americano Johnny Mercurio, dal cui matrimonio erano nati Peter
e Vivian. Johnny , che era un cittadino americano, aveva richiamato tutta il gruppo
familiare dei Ferrante, un pò alla volta. Sin
dall'inizio
erano andati a stabilirsi nella ridente cittadina di Gloucester nel Massachussets,
vicino dove vivevano i coniugi Mercurio, i genitori di Johnny.
C'era un legame di parentela fra le due famiglie, perchè la mamma di
Johnny era una sorella di Gabriele, il capofamiglia dei Ferrante.
Vorrei parlare anche della
famiglia di
Gasparino Onorio,
fratello di Gaetano e amico di mio padre, per un episodio capitato
a Gasparino, ma che anche indirettamente ha influito sul corso
della mia vita. Prima di ammalarsi, mio padre mi
aveva parlato di questo particolare episodio, a cui io all'inizio
non avevo dato molta importanza. Un paio di mesi prima della data
del loro rimpatrio definitivo, Gasparino ed i suoi
cognati
Agatino Maniscalco e Nino
Di Maggio, avevano deciso che era venuto il tempo di lasciare
la Libia e di ritornarsene con le loro famiglie in Italia. Si
era seduti a tavolino e con una carta geografica dell'Italia si
erano messi a cercare quale tra tutte le città italiane
potesse essere quella più adatta alle loro aspettative ed ai loro
desideri. Ai voti era stata scelta la città di Bologna, che era
considerata ricca e florida. Avevano quindi deciso che prima
del rimpatrio definitivo sarebbe stato meglio andare a visitare
questa città, prendere informazioni su come iniziare a svolgere
un'attività. La loro idea era di gestire un ristorante o
meglio ancora un bar tabaccheria. Poi dovevano anche trovare
una dimora confortevole dove abitare con le loro famiglie.
Verso i primi giorni di Dicembre 1962 erano partiti da Tripoli in
aereo alla volta di Roma. Da lì aveva preso un treno per Bologna.
Arrivati alla
stazione di Firenze Santa Maria Novella
, il loro treno che, tra l'altro aveva l'impianto di
riscaldamento rotto, era
rimasto bloccato per due ore, a causa della neve che aveva
bloccato il passo appenninico. La stagione invernale del 1962 era
iniziata con una gran freddo. La morsa di gelo e la neve, caduta abbondantemente,
avevano attanagliato in particolar modo tutte le regioni
italiane appenniniche. Abituati al mite inverno del nord
Africa , Gasparino, Agatino e Nino, avevano cominciato a
sentire un gran freddo tanto che avevano deciso di scendere subito dal
treno, trovarsi subito un albergo per riscaldarsi, fare un
giro per Firenze, e andare al ristorante per cenare con una bella
bistecca alla fiorentina, innaffiata con un fiasco di un buon
Chianti. Come è risaputo Firenze è sempre stata una bella città per
vari aspetti. La mattina seguente avevano visitato la città, che era piaciuta tanto.
Al termine della giornata avevano deciso
di restare a Firenze anzichè continuare il viaggio per Bologna.
Malgrado si fosse in bassa stagione non avevano mai visto così tanti
turisti gironzolare per le vie del centro, mentre ammiravano stupiti
( "Oh, my God") tutti i capolavori medioevali che offriva la città.
La loro ovvia conclusione era che se volevano aprire un ristorante e
un bar, Firenze, rispetto a Bologna, aveva il vantaggio del turismo,
in special modo quello americano, che in quel periodo era molto
ricco grazie al superdollaro.
Tutti e tre avevano girato la città
in lungo ed in largo, avevano consultato varie
agenzie immobiliari e agenzie venditrici di attività lavorative. Al
termine del terzo giorno avevano
avuto la fortuna di imbattersi in un buono affare. Pagando in
contanti, somma che avevano provveduto a trasferire in precedenza, avevano firmato
un contratto compromissorio per l'acquisto di una gestione di un bar,
ubicato in
Piazza San Giovanni,
proprio di fronte al Duomo. In seguito avrebbero completato
l'acquisto pagandolo in cambiali con i soldi ricavati dalla
gestione stessa. Dopo pochi anni avevano venduto con profitto il
primo bar e ne avevano acquistato un secondo, forse ancora più
redditizzi. Questo secondo bar era il "Bar
dell'Orologio", ubicato anch'esso in pieno centro storico, in Via Por
Santa Maria a due passi dal Ponte Vecchio.
Via Por Santa Maria è una via di grande passaggio per il turismo fiorentino,
così anche per questo secondo bar avevano avuto successo. Nel frattempo
avevano anche preso in affitto un alloggio temporaneo
per tutte tre le famiglie in Via dei Servi. Soddisfatti per il
lavoro svolto se ne erano tornati a Tripoli, pronti a ripartire
definitivamente con tutte le loro famiglie per l'Italia Italia, una
volta sbrigate tutte le pratiche burocratiche relative al
rimpatrio. Il gruppo era formato
Gasparino con la moglie
Marietta ed i figli Ninni, Angela e Carmela.
Vittoria, sorella di Gasparino, sposata con Nino Di Maggio.
Maria
sposata con Agatino Maniscalco. Con loro c'era il fratello scapolo
Pino e la mamma di Gasparino, la
signora
Angela.
Mio padre, amico di Gasparino,
lo considerava una persona degna di fiducia e pertanto aveva deciso
di affidargli i suoi risparmi che teneva in una banca di Firenze, l'Agenzia A
della
Banca D'America
e d'Italia in Via Por Santa Maria, a pochi passi dal bar.
Onorio aveva invitato i miei genitori ad andarlo a trovare. Una
volta giunti a Firenze, mia madre, dopo aver visitato il
Piazzale Michelangelo
e ed il
Parco delle
Cascine,
era rimasta incantata dalla città. Mio padre era un pò titubante,
perchè avrebbe preferito una città sul mare. Alla fine l'aveva spuntata
mia madre e così avevano deciso di investire i loro soldi acquistando
degli immobili proprio a Firenze. Mio madre cominciava già a fare
progetti. Intanto le piaceva trovare un appartamento nella zona di
Viale Europa, vicino alla casa degli Onorio. Secondo lei mio padre
avrebbe potuto aprire una piccola officina dove poteva continuare a
lavorare a ritmo ridotto e produrre i suoi ninnoli in ferro
battuto. Lei stessa avrebbe avrebbe pensato alla vendita, aprendo
un negozietto accanto all'officina. Io potevo continuare i miei
studi e laurearmi all'Università di Firenze. Purtroppo questi
progetti non si sono potuti avverare. Dopo la scomparsa prematura di
mio padre le cose nella mia famiglia erano cambiate così drasticamente
che tutto andava riveduto e corretto. Solo una cosa di quei progetti
non era cambiata, il fatto che nel 1970, dopo il rimpatrio
definitivo mio e di mia madre dalla Libia, eravamo andati a
vivere Firenze e ad abitare accanto alla famiglia Onorio, in
Viale Europa.
Giovanni Avola e la moglie Nina ,
insieme ai figli Giovannino, Tina ed Emilio
avevano lasciato definitivamente
la Libia nel 1953. A distanza di svariati anni, dopo averlo
incontrato in Italia , Giovannino Avola mi aveva raccontato il vero
motivo del loro definitivo rimpatrio in Italia. Il padre
Giovanni aveva fatto l'autista a Tripoli di grossi camion
articolati, percorrendo lunghi tragitti facendo la spola tra la
Tripoli ed il deserto. A bordo del camion con lui viaggiava un
libico, con cui divideva l'onere del viaggio e che era suo
amico o almeno credeva che lo fosse. Un giorno, per pura
casualità, durante una
discussione di politica, il collega libico gli si era rivoltato
contro in maniera veemente. Costui dal suo atteggiamento, diventato
improvvisamente ostile, mostrava un profondo odio nei suoi
confronti. Questo era un atteggiamento che cominciava già a
manifestarsi con alcuni giovani libici, filo nasseriani, che avevano
iniziato a dimostrare nelle piazze e nelle strade di Tripoli con
cortei e slogan anti occidentali.
Allibito ma anche spaventato per questo inaspettato voltafaccia da
parte di un amico che riteneva affidabile, la prima reazione
di Giovanni Avola era stata di paura per sè e per la sua famiglia.
Così aveva cominciato a maturare l'idea di lasciare un Paese
che non sentiva più essere suo. Nell'arco di poche settimane, dopo
aver preso contattati con una sua sorella residente a Roma,
drasticamente aveva deciso di lasciare definitivamente la Libia con
tutta la sua famiglia e stabilirsi in Italia. Giunto a Roma,
nell'arco di pochissimo tempo, Giovanni era stato fortunato a
trovare subito un lavoro, come autista, presso un autolinea privata
e successivamente si era sistemato entrando in Ferrovia.
>>>
IL BOOM ECONOMICO
DEGLI ANNI ‘60
<<<
A partire dal 1959, considerata, quasi da tutti, come la data ufficiale del
ritrovamento del petrolio libico nella zona desertica e
l'inizio delle trivellazioni, con l’arrivo delle maggiori compagnie
petrolifere americane, inglesi, francesi e di varie società multinazionali ,
pure in
Libia si cominciavano a vedere i primi segnali di nuove iniziative
che furono alla base del boom economico degli anni ’60.
Di conseguenza anche i rimpatri
delle famiglie italiane cominciavano a diminuire. Dopo tanti
anni di ristrettezze economiche per tutti gli italiani , circa
trentamila che erano rimasti in Libia, si presentava finalmente una buona occasione
per migliorare il loro tenore di vita ed il futuro dei propri figli. Nuovi
orizzonti ed un futuro economico favorevole si aprivano per tutti
coloro che avevano
più talento, che erano più brillanti, che avevano nuove idee e
voglia di lavorare. Molti di questi, sperimentandosi sul terreno dell’iniziativa, delle capacità
organizzative, della fantasia, del rischio e della voglia di migliorarsi,
provavano a mettere in pratica il loro due sogni: essere padroni del
proprio destino e fare soldi. Nel rione del Lido Vecchio una buona parte dei
nostri padri e dei nostri nonni erano diventati artigiani
non perchè mancasse loro l'ingegno, ma perchè erano nati in un'epoca
in cui pochi avevano la possibilità economica di poter studiare.
Molti di loro, terminata la scuola elementare, quindi
ancora bambini, avevano lasciato definitivamente le aule scolastiche
ed, ancora con i con i calzoni corti ed una crosta di pane in mano,
andavano a bottega per imparare un mestiere da quelli che un tempo
venivano chiamati "maestri". Imparare bene questo mestiere era
necessario perchè garantiva per il futuro loro un lavoro sicuro e
dignitoso e gli permetteva di guadagnare quei pochi soldini
sufficienti a non pesare troppo sul già gramo bilancio
familiare. Altri ancora,
appartenenti a famiglie più povere, erano stati obbligati addirittura ad interrompere i loro studi
elementari addirittura senza terminare la quinta elementare tanto
che erano capaci appena di leggere e di apporre la loro
firma. Crescendo e diventando a loro volta padri di famiglia, si
erano costruiti da autodidatta una loro cultura mentre il loro desiderio più grande
restava quello che noi, i loro figli, potessimo raggiungere
quei traguardi che, per sfortuna, erano stati loro negati, e cioè: studiare, diplomarsi ,
magari laurearsi, comunque fornirsi
di un bagaglio di conoscenze culturali sufficienti ad affrontare la
vita da una posizione meno faticosa di quella che era stata la loro.
>>>
MIO PADRE
<<< Se si dovesse parlare di persone che amano profondamente fare
il loro mestiere, Se si dovesse parlare di persone che amano
profondamente fare il loro mestiere, uno di questi, era mio padre
Giuseppe
Ernandes, chiamato dai suoi amici "Peppino". Era nato il 7 luglio 1909 a Favignana,
da
Domenico Lorenzo Ernandes e da
Francesca Arpaia. Domenico Lorenzo, era nato a
Trapani nel 1968. Da giovane si era
trasferito nella vicina isola di Favignana e nel 1996 aveva sposato
Francesca Arpaia, una bella ragazza di lontane origini campane, nata
a Favignana, nel 1970. Da
loro era nati quattro, Marietta, Orsolina, Concetta e Giuseppe, mio
padre. Domenico Lorenzo sin da ragazzo aveva esercitato il
mestiere di calzolaio, mentre nel tempo libero si dedicava a suonare
il trombone nella banda musicale dell'isola, che è l'isola più grande
dell'arcipelago delle Egadi. Favignana era rinomata per
la sua tonnara e per l'antico stabilimento Florio, ora deve la sua
fama alla bellezza delle sue coste e alla purezza delle sue acque,
che danno spazio al turismo. All'inizio del 1900, quando i mari
erano più pescosi, tutto il tonno che veniva pescato durante il
periodo della tonnara,
veniva lavorato ed inscatolato nello stabilimento Florio. La
famiglia Florio, di origini calabresi, era molto ricca.
Principalmente essa esercitava il suo potere economico e
finanziario per dominare l'isola. Tuttora nell'isola esiste un
magnifico palazzo, che porta il loro nome, e la cui costruzione
risale al 1876. La famiglia Florio non era per niente dispotica,
anzi permetteva a tutti gli isolani di partecipare in massa
alla festa all'aperto che veniva data alla fine della mattanza. Durante questo periodo (le ultime
due settimane di giugno), tutta la popolazione dell'isola
interrompeva l'esercizio del proprio mestiere per partecipare in
massa alla lavorazione del tonno. Mio padre se lo ricordava sempre
come un periodo felice della sua infanzia, e diceva che gli abitanti
dell'isola erano sì poveri ma felici. Durante il periodo della
mattanza si respirava un'aria di attesa e di euforia, tanto in quel
periodo ai poveri era permesso di mischiarsi con i ricchi. Nel
periodo dopo la mattanza anche i poveri potevano sfamarsi
mangiando tonno in grande quantità. Il tonno veniva cucinato nelle
più svariate maniere. Spesse volte veniva anche seccato e salato,
tanto da essere conservato e mangiato per tutto l'anno.
Mentre allora la pesca del tonno era la principale ricchezza
di quell'isola, oggi invece, con la scarsa quantità di pesce, serve solo da richiamo
turistico. L'11 novembre del 1916, Domenico Lorenzo, improvvisamente
moriva, alla giovane età di 48 anni, colpito da un male
incurabile all'addome. Mio padre, il piccolo Giuseppe, rimasto orfano a soli sette
anni, era stato subito obbligato a lasciare la scuola e a darsi
da fare per imparare subito un mestiere. Suo padre, vista la sua
scomparsa prematura, non aveva avuto il tempo per insegnargli
il suo mestiere di calzolaio, come si faceva per tradizione in quel
periodo. Vanni "Ferrareddu", che era anche il
suo padrino di battesimo, aveva avuto la bontà di accoglierlo
gratuitamente nella sua officina di fabbro, perchè allora, al
contrario di quello che succede oggi, per
imparare un mestiere bisognava pagare il maestro. Mio padre, che chiamava affettuosamente
il suo padrino, "Zu' Vanni",
aveva imparato da lui come doveva essere lavorato il ferro. La
forgia serviva ad alimentare il fuoco per scaldarlo fino al punto
giusto, il ferro, diventato incandescente, andava battuto
con precisione col martello e velocemente, prima che si
raffreddasse, mentre l'incudine andava utilizzata nel modo corretto per
dare al ferro la forma desiderata. Nel 1920 mio padre, a 11
anni, partiva per Tripoli, richiamato ed adottato da sua sorella,
Orsolina, più grande di lui di una decina d'anni. Orsolina si era
trasferita a Tripoli qualche anno prima per sposarsi con Gabriele
Ferrante, un uomo vedovo ed un abile pescatore, proprietario
di un certo numero di barche da pesca. Giunto a Tripoli, mio padre
aveva continuato a lavorare come aiutante presso alcune officine di
fabbro, che erano situate nella Città Vecchia, vicino all'abitazione
della sorella Orsolina. Dopo qualche anno anche sua madre Francesca e
sua sorella Concetta era giunti a Tripoli, richiamati da
Orsolina. Grazie alla paga di mio padre e ad alcuni lavoretti da
sarta si erano stabiliti in una casetta vicino al Monumento
dei Caduti. Amava ascoltare la musica, ma non aveva imparato a suonare
nessun tipo di strumento musicale.Mentre la sorella Orsolina suonava il
mandolino e suo nipote Domenico Ferrante suonava la fisarmonica. Mi
diceva che negli anni '30 amava andare al teatro Miramare per
vedere l'operette. Il diminutivo dice già che si tratta di
una commedia in parte cantata, in parte recitata, nella quale l'impegno
musicale e vocale è meno importante rispetto all'opera, ma non per
questo trascurabile. L'operetta si proponeva di divertire
spensieratamente, e quindi presentava storie comiche e satiriche che
prendevano di mira la buona società, la stessa che andava a vederla e
si sarebbe lasciata prendere in giro solo in questa forma
leggera. In Italia sorsero autori italiani come Mario Costa
(Scugnizza) e
Virgilio Ranzato (Il
paese dei campanelli). Mio padre, col passare degli anni, aveva
approfondito la conoscenza del suo mestiere di fabbro, imparando ad usare tutti i tipi di saldatrici, tanto da
essere considerato sulla piazza tripolina un vero esperto. Nel tempo libero, dopo il lavoro,
si era messo a studiare da autodidatta, aggiornandosi con
riviste specializzate sulle diverse tecniche di saldatura con
gli elettrodi e con l'ossigeno. Durante gli anni del periodo bellico era stato arruolato
presso il Genio Militare per le sue qualità di saldatore
specializzato, che erano dimostrate da vari attestati e diplomi
conseguiti in precedenza e da lui conservati nei suoi archivi. Il suo lavoro
al Genio consisteva nel
riparare carri armati dell’Esercito Italiano, danneggiati dal fuoco
nemico, sistemando e saldando più rapidamente possibile le parti incidentate
dei loro telai. Nel dopoguerra aveva trovato subito lavoro
nell’officina di fabbro dei
Fratelli D’Alba, che era ubicata nella zona del
Lido e confinava con lo stabilimento balneare del Lido
Nuovo.
Quasi
alla fine degli anni cinquanta, con l'improvviso incremento del lavoro
dovuto alla scoperta del petrolio libico, molti italiani di Tripoli che
preferivano esercitare la loro professione , si erano messi
in proprio ed avevano aperto una loro piccola impresa.
Anche mio padre, dopo aver lavorato per tanti anni come
dipendente, aveva intuito che quello era il momento giusto per
intraprendere il progetto di mettersi per conto suo. Restando sempre in
buoni rapporti con i fratelli D’Alba, che erano stati suoi datori di
lavoro per molti anni, aveva lasciato la loro officina ed aveva preso
in affitto, in Sciara Amerigo Vespucci, proprio di fronte allo Stadio
di Calcio, una piccolo locale per istallarci tutti macchinari che
servivano per la sua officina di fabbro, che avevano
acquistato utilizzando tutti i suoi risparmi. Aveva due diversi tipi di
incudine, una forgia a manovella, svariati tipi martelli e tenaglie, un
paio di grosse morse, un tornio elettrico, una saldatrice elettrica ed
un saldatore ad ossigeno, una tagliatrice per lamiere e tondini, una
macchina per curvare le lamiere, varie caprette in ferro su cui
appoggiare il materiale in costruzione, diversi compassi e un tavolo da
disegno. All'inizio era solo , poi, dopo tre o quattro di anni di
attività aveva assunto una decina di operai, che poi aveva mantenuto
come numero, fino alla sua morte avvenuta il 22 Dicembre del
1967. Molte delle inferriate, dei cancelli e delle ringhiere che era
state istallate in molte ville, villette e costruzioni sorte nell'area
di Giorginpopoli portavano la sua firma perchè disegnate e
costruite da lui nella sua officina. Mio padre amava
molto il suo mestiere di fabbro, tanto da dedicarsi, come hobby, alla
lavorazione di piccoli oggetti in ferro battuto, che regalava ai
suoi amici. Nel 1962 si era aggiudicato una grossa commessa per conto
della Famiglia Reale Libica. Il lavoro, durato più di sei
mesi, consisteva nel realizzare in maniera artistica
svariati caschi di datteri, tutti lavorati in ferro battuto, da
appendere su tutte le palme cresciute all'interno del giardino della
Palazzina Reale.
Lui ed alcuni dei
suoi migliori operai avevano saldato minuziosamente e pazientemente decine e
decine di datteri in ferro ai rami del
casco, mentre, con la collaborazione di un esperto
elettricista, all'interno di ogni dattero avevano inserito una micro lampadina elettrica.
Il lavoro eseguito nel giardino della Palazzina Reale fu perfetto. L' effetto
ottico e prospettico, che si ammirava di notte nel suo insieme con lo scintillio di
tutte queste piccole luci, era un incanto.
Non tutti i suoi clienti
erano così ricchi ed importanti come il re. Alcuni di loro erano persone
semplici ed anche povere, che ricorrevano a mio padre quando avevano bisogno di
applicare qualche saldatura alle loro cose. Fatto il lavoro, per ripagare mio padre,
ricorrevano al baratto come forma di pagamento, che lui accettava volentieri. Uno di questi
clienti, Abdallah, che in arabo vuol dire servo di Dio, era un pescatore arabo, che per sdebitarsi con mio padre,
gli regalava parte della sua pesca giornaliera. Quando mio padre
portava a casa un pesce, che per la forma del muso, chiamavano
"pesce porco", più adatto di altri pesci per preparare la "ghiotta", un condimento
che serviva ad insaporire il cuscus di pesce, allora sapevo che a
pranzo ci sarebbe stato stato cuscus. Un'altra volta era successo
che mio padre, dopo uno dei suoi baratti, aveva
portato in casa una "coffa" piena di "granchi pelosi", buoni per fare un
delizioso brodo. Mia madre aveva messo i granchi dentro una grossa
pentola piena d'acqua, aveva acceso il fuoco e poi si era
allontanata perchè qualcuno aveva bussato la porta. Al suo ritorno
in cucina la metà dei granchi erano sparsi sul marmo di appoggio
della cucina, altri si muovevano per terra in cerca di fuga. Nei
giorni successivi continuavamo a trovare ancora granchi sotto il letto
e negli angoli sotto gli armadi.
La sera, dopo il suo lavoro in
officina, prima di tornare a casa per cena, si fermava nell'officina
a due passi da casa mia di proprietà del signor
Concezio
Quattrocchi, un abruzzese di Sulmona. A loro si univa anche il signor
Franco Virone detto "Ciccio" solo per gli amici, siciliano di
Favara e padre del mio caro compagno di scuola e di gioventù
Tonino Virone. Verso sera dopo l'orario di lavoro questa officina
era quasi diventata un luogo d'incontro per chiacchierate e
discussioni, come fosse un piccolo circolo culturale, il cui zoccolo
duro era composto solo da loro tre, mentre a pochi altri era
concesso a di intervenire di tanto in tanto. Gli argomenti di
discussione spaziavano a tutto campo: dalla politica alla religione,
dall'economia alla scienza, dall'arte allo sport. Quando, per
l'ora di cena, mio padre tardava a tornare a casa, mia madre
immaginava già dove mio padre si potesse trovare. L'officina era due
passi da casa mia ed era normale che io andassi a chiamarlo per
sollecitarlo a tornare a casa. Questo luogo di ritrovo era un locale
all'interno del piazzale dell'officina di Quattrocchi. Solitamente
l'ambiente era pieno del fumo dei toscanelli di Concezio e delle
sigarette che fumava Franco. Come un'ape attratta da un bel fiore,
mi piaceva stare in piedi, accanto a mio padre, ad ascoltarli
parlare. Restavo ammaliato dalle loro parole, dai loro argomenti,
che erano sempre interessanti, mai banali. Concezio era un uomo
alto e robusto. I suoi occhi chiari sembravano essere magnetici. Me
lo ricordo con la maniche della camicia arrotolate
fino ai gomiti, due enormi bretelle che gli sorreggevano i pantaloni.
Stava seduto dietro una larga scrivania di legno colma di disparati
oggetti, tra cui un blocco di carta su cui aveva il vezzo di
scarabocchiare sempre qualcosa mentre parlava o ascoltava parlare.
Generalmente disegnava dei cerchi, uniti fra loro da delle ellissi
oppure tanti cerchi uniti tra loro come un catena. Franco
Virone era di corporatura normale, aveva un viso quasi sempre
abbronzato, dovuto forse al suo lavoro all'aria aperta, un paio di
occhi neri e penetranti e dei baffi appena accennati. Nel complesso
aveva dei lineamenti regolari ed aggraziati. Tutti e tre
erano legati da un destino comune: erano diventati orfani di padre
troppo presto, mio padre a sette anni, Concezio a otto e Franco a
diciannove ed erano tutti e tre quasi coetanei, mio
padre era del 1909, Concezio del 1910 e Franco del 1912.
Malgrado
io fossi un figlio unico, non penso di essere stato cresciuto da
bambino viziato. Al contrario, mio padre è sempre stato rigoroso con
me, anche se in maniera soft. Aveva alcune fisime. Lui, che nella sua
vita era passato attraverso la miseria ed aveva fatto tanti sacrifici,
diceva che quando ci si sedeva a tavola bisognava mangiare tutto e non
lasciare niente nel piatto. Quando a pranzo lasciavo un pò di spaghetti
perchè non avevo fame, pretendeva che la sera stessa li dovessi
finire di mangiare. per rendermeli più gustosi mia madre me li
friggeva in padella e li insaporiva con un pò di formaggio ed un
uovo sbattuto. Difficilmente non li mangiavo perchè sapevo che sarei
stato costretto ad andarmene a letto senza cibo. Se a tavola rifiutavo
qualche pietanza perchè dicevo che non ne gradivo il gusto, aveva il
vezzo di raccontarmi un episodio che gli era successo a lui quando ero
piccolo. A Favignana , dopo che lui era rimasto orfano ed era andato a
lavorare nell'officina di fabbro di suo zio Vanni, gli era stata
offerta la possibilità di restare a tavola a mangiare con tutta la
famiglia di suo padrino. A tavola, oltre al padrino e a sua moglie,
c'erano anche i loro due figli, più o meno coetanei di mio
padre. Uno i questi, Franco, a tavola faceva spesso lo schizzinoso,
forse perchè aveva mangiato qualcosa prima di mettersi a tavola e
con fare piagnucolante diceva: " A mamà, sta pitanza nun mi piaci, i grevia, ciavi un
gustu stranu". Allora la mamma che sapeva che il figlio aveva
già mangiato qualcosa da qualche altra parte gli rispondeva severa:"Zittuti Cicciu, u
sacciu iu chi sapuri avi sta pitanza. Avi sapuri di panza china,
manciala e mutu". E bisognava obbedire perchè altrimenti se
fosse intervenuto il padre ed allora avrebbe rischiato di prendere
anche "timpulate" e schiaffoni.
All'età di dieci anni, alla fine di giugno, dopo che
erano terminate le scuole, visto che ero più libero, pretendeva che anch'io andassi
con lui nella sua officina, almeno nel pomeriggio, perchè imparassi
il mestiere del fabbro. In realtà voleva che io mi rendessi conto di cosa
significava fare il fabbro in termini di sacrifici e di fatica.
Ricordo che per lavorare
indossava una tuta blu scuro e quando era alla
forgia, vicino a tutto quel calore, il suo sudore macchiava la sua
tuta del sale della sua sudorazione. Voleva che l'aiutassi a girare la forgia
per tenere vivo il fuoco, così il ferro si infuocava di un rosso
acceso, pronto per essere
battuto e modellato, Voleva che imparassi ad usare la saldatrice elettrica con gli
elettrodi per apporre le saldature sul ferro. Mi raccomandava in
continuazione di non
guardare mai la luce accecante prodotta dagli elettrodi a contatto
col ferro e di ripararmi gli occhi dietro una maschera col
filtro di protezione. Ogni tanto Nicolino D'Anna Veri si
fermava davanti all'uscio dell'officina e con le mani dietro alla
schiena, guardava incuriosito lo svolgersi del lavoro. Mio padre era
contento nel vedermi lavorare, anche se in cuor suo sperava
che mi piacesse più continuare a studiare che finire a faticare come lui.
Quando cominciavo a lamentarmi per la troppa fatica, mi diceva spesso:
"Domenico, devi avere pazienza, impara l'arte e mettila da parte".
A me,
francamente, quell'arte non mi
interessava più di tanto, poichè, oltre a rendermi conto che era
parecchio faticosa, non la trovavo consona alle mie
inclinazioni.
Gli rispondevo che a me da grande non interessava fare il fabbro
ma che avrei voluto fare l'ingegnere edile. "D'accordo, allora,
anzichè andartene a zonzo, mettiti a studiare. In tempi non
sospetti mi diceva pure :Ricordati anche di imparare
bene l'inglese, perchè è la lingua del futuro". Me lo aveva
ripetuto così tante tante volte che alla fine avevo deciso di
dargli retta. Almeno ora l'inglese l'ho veramente imparato
, specialmente dopo essermi sposato con Joanne, mia moglie, un'irlandese dell'Ulster. "
Durante
i miei anni scolastici pur dimostrando con i miei buoni voti di essere
stato uno studente sufficientemente meritevole e promettente, non sono
riuscito a raggiungere uno dei miei obiettivi prefissati, cioè quello
di conseguire una laurea in ingegneria civile. Mentre frequentavo
il primo anno del biennio di Ingegneria al Politecnico di Milano, le
condizioni di salute di mio padre erano peggiorate in maniera
drastica. Un tumore maligno lo stava lentamente divorando. Il suo
stato di salute si era così aggravato da costringerlo a smettere
di lavorare, per essere ricoverato immediatamente in un ospedale
di Roma e poi essere operato. Nel frattempo la persona qualificata con
cui aveva preso accordi per sostituirlo temporaneamente nella direzione
dell'officina era un italiano, che preferisco non nominare, un
suo operaio specializzato che lavorava ormai alle sue dipendenze da
cinque anni. Costui nell'arco di pochi mesi era stato capace di
distruggere tutto quello che mio padre aveva costruito
pazientemente in tutti quegli anni. Gli incassi erano diminuiti
drasticamente, si erano ridotti ad un decimo rispetto a quelli
di prima. Mio padre, pur venendo a conoscenza della cosa, era
troppo ammalato e troppo debole per poter reagire ed intervenire.
Ascoltavo al telefono la voce accorata di mia madre al telefono che mi
aggiornava sulle condizioni di salute di mio padre. Era il giugno
del 1967 quando decidevo di tornare a Tripoli da Milano, dopo aver
avuto il tempo sufficiente per sostenere i miei primi ed ultimi esami
universitari: analisi uno e geometria uno. Tornato a casa, avevo
constatato che la situazione, con la malattia di mio padre, si era
notevolmente deteriorata. L'officina, principale fonte dei nostri
introiti, era ormai allo sfascio. Con mio padre era ormai prossimo alla
sua fine, avevo capito che le cose non potevano continuare ad andare
più come prima. Stavo cominciando a percepire che dovevo diventare
adulto e cominciare ad assumermi delle responsabilità. Un peso che fino
ad allora era gravato principalmente sulle spalle di mio padre. Ero
diventato consapevole che per me erano finiti i giorni della
spensieratezza e della gioventù. In quel momento mi sentivo solo
perchè sapevo che dovevo proteggere anche mia madre. Non avevo più
quella serenità d'animo necessaria a continuare i miei studi
universitari. I miei rapporti con il sostituto di mio padre a condurre
la gestione dell'officina si erano deteriorati. Lui non
teneva, come faceva mio padre, un resoconto giornaliero del lavoro
svolto e degli incassi giornalieri. Si limitava a scrivere qualche
scarabocchio qua e là. Non sentendomi più tutelato e non sapendo
come gestire da solo l'officina, avevo preso la drastica
decisione di chiuderla, vendendo tutti i macchinari. Con i soldi
incassati avevo dato a tutti gli operai una generosa buona
uscita, anche per evitare una possibile loro ritorsione di carattere
legale. Mio padre, assistito amorevolmente da mia madre, si spegneva
malinconicamente in un letto di un ospedale di Roma, il 22 Dicembre del
1967. Avevo lasciato Tripoli per andare a Roma per raggiungere
mia madre e per assistere mio padre ormai in punto di morte. Il
tumore maligno si era sparso in tutto il suo corpo, che si era ridotto
a pelle ed ossa. Col suo volto emaciato e con occhi disperati mi aveva
sussurrato con un rantolante filo di voce alcune parole dette
stranamente in dialetto siciliano. Cosa assai strana perchè parlava
normalmente in italiano. Credo che guardando me
vedesse, nel suo delirio finale, il volto di suo padre
Domenico Lorenzo e come se fosse ritornato ad essere il bambino di
Favignana mi sussurrava . "Patri, mi raccumannu, pinsa a
idda, ca avi abbisugnu
di tia" , facendo segno con la testa verso mia madre che
piangeva in silenzio. Queste parole, che mi hanno ossessionato
per tutta la vita, non sono mai riuscito a dimenticarle.
Nel frattempo, avevo già iniziato
a collaborare con l'unico quotidiano locale, scritto in italiano, "Il
Giornale di Tripoli", occupandomi della cronaca sportiva locale,
grazie al sostegno di Vincenzo Rovecchio, cugino di mia zia
Cristina. Il signor Mohammed Murabet era il direttore
responsabile del giornale, mentre Rovecchio fungeva
da redattore capo ed Alessandro Sammartano si occupava della cronaca locale.
Il lavoro da me svolto durante i nove mesi trascorsi al giornale era
stato un interessante, con qualche episodio imprevisto. Ricordo che avevo
assistito allo Stadio ad una delle partite di calcio tra le due
squadri locali più forti di allora, Ittihad-Ahly Tripoli, arbitrata
dal popolare signor Turki, noto per il suo portamento un pò alla "Lo
Bello". La partita era decisiva per lo scudetto del campionato di
calcio 1967-1968 e l'Ittihad l'aveva vinta negli ultimi
minuti gara con un risultato di misura. Purtroppo questo
risultato era stato condizionata dal troppo vento di
tramontana che soffiava quel giorno sia dall'arbitro Turki,
che aveva assegnato
all'Ittihad, all'ultimo minuto, un rigore, a mio parere, inesistente Terminata la
partita avevo scritto di getto il mio articolo con un titolo
a carattere cubitali che diceva così " L'Arbitro e il vento
sconfiggono l'Ahly". In effetti, leggendo solo il titolo, sembrava
che avesse scritto un articolo
di parte, ma in verità il suo contenuto rifletteva una
cronaca imparziale. L'Ittihad era stata favorita per aver
trasformato in gol un rigore inesistente mentre aveva segnato
un
altro gol che era entrato diabolicamente in porta grazie ad una raffica di vento che aveva
ingannato il portiere dell'Ahly. Il giorno dopo, tornato
nell'ufficio della redazione del giornale, salendo le
scale dell'edificio sentivo un gran brusio di voci e poi avevo
trovato il signor Murabet e l'arbitro Turki che gesticolavano
e discutevano in maniera animata con il quotidiano in mano. Entrambi
parlavano in
arabo tra loro ma anche se non afferravo tutte le parole che si
dicevano, capivo, che l'argomento del contendere ero io ed il mio
articolo sulla partita dl giorno precedente. A parere di Turki il mio articolo era stato oltraggioso
nei suoi confronti, percè metteva in dubbio la sue capacità di arbitrare
e era offensivo nei confronti della gloriosa squadra tripolina
dell'Ittihad. Era così infuriato che era arrivato anche al punto di
minacciare di rivolgersi
ad alcuni suoi amici influenti del governo per farmi
espellere dalla Libia se non avessi scritto le mie scuse sul
quotidiano del giorno dopo. Per mia fortuna quella minaccia era
rimasta lettera morta perchè il signor Murabet aveva, a sua
volta,
degli amici ancora più influenti di quelli dell'arbitro Turki e mi
aveva detto di non scrivere nessuna scusa e di non preoccuparmi.
Aveva seguito il suo consiglio ed in effetti la vicenda non aveva
avuto più seguito. Devo ricordare che nel periodo che mio padre era
ancora ricoverato nell'ospedale romano e mia madre stava con
lui per assisterlo io ero a Tripoli , ospite nella casa della famiglia Salemi.
Non mi stancherò mai di ringraziarli per la loro generosa ospitalità
e per la loro immensa
generosità dimostrata durante un periodo così critico per me.
Michele Salemi, che era chiamato Emilio dai suoi amici era un uomo d'animo nobile.
Anche per rispetto a mio padre,
suo grande compagno di gite e di escursioni domenicali, mi voleva un
gran bene. Grazie al gentile interessamento di Mario Salemi,
dipendente Alitalia, nell'aprile del 1968 venivo assunto all'Alitalia di Sciara
Haiti. All'inizio avevo lavorato nell'ufficio biglietteria al
piano terreno dell'edificio con lo stesso Mario Salemi, Umberto
Vaccarini, allora responsabile dell'ufficio, Angelino Furgeri, famoso
giocatore di poker e valente sub, ed il biondo e longilineo Felice
Fortuna. Successivamente venivo affiancato, come produttore
junior al mio bravo e carissimo amico napoletano Gianni De
Nardo, profondo conoscitore delle tecniche di vendita. Gianni parlava
con scioltezza l'inglese con un leggero accento americano e lo
aveva imparato lavorando alcuni anni prima alla base
americana della Mellaha insieme a mio cugino Domenico Ferrante. Non mi
ero ancora ripreso dal trauma della morte, ed ero caduto in
depressione. Gianni, vedendomi afflitto ed intuendo il mio stato
d'animo mi continuava a ripetere, col suo sorriso scherzoso: "Domenico,
smile, please smile", e poi aggiungeva bonario: " Caro
Domenico, te lo dico senza offesa, se vuoi affermarti come salesman,
se vuoi fare carriera in questo settore, devi sorridere. Scusa se te
lo dico ma alla gente
non gliene frega un bel niente dei tuoi problemi. Hai capito?".
Certo che ti capivo caro Gianni, anch'io sapevo di portarmi
dietro un viso segnato dalla tristezza, specialmente nei primi tempi
quando ti accompagnavo negli edifici delle compagnie petrolifere a
visitare i clienti americani. Ma io non ci potevo fare niente perchè in
quel momento ero triste dentro e non mi riusciva di recitare la
parte del venditore. All'Alitalia avevo avuto il piacere di
conoscere altri colleghi che tuttora ricordo ancora con affetto. Tra
questi cito Maria e Silvio Villano, Pino Maisano,
Bianca Carnabucci, Cristina Ceccutta, Adriana Quattrocchi e Floriana
Zappoli , che ho avuto modo di rivedere in quest'ultimi anni
nelle riunioni tenute annualmente a Torino dall'Associazione exallievi
lasalliani di Libia. >>>
LE NOSTRE DOMENICHE TRIPOLINE
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Solo alla domenica , la sua giornata di riposo,
mio padre si concedeva il lusso
di dormire fino a tardi, comunque non più tardi delle nove. Verso le
dieci usciva di casa, con il viso ben rasato e profumato con il suo
dopobarba preferito "Old Spice", profumo di cui
ancora ricordo la fragranza, ma che non mi riesce di trovarlo in nessuna profumeria della zona dove attualmente
abito. Indossava il suo elegante vestito di gabardine scuro che tirava
fuori dal suo armadio solo la domenica o nelle feste importanti, i
gemelli dorati che univano i polsi della camicia, un paio di
signorili scarpe bianco-nere bucherellate sulla punte, un
orologio d'acciaio Roamer con la catenina d'oro che portava
in un taschino del gilet ed un signorile cappello in feltro Borsalino,
come andava di moda allora. Inforcava la sua robusta bicicletta,
color verde, marca Legnano, (non ha mai voluto imparare a guidare la
macchina) per andare al Caffè Commercio , all'angolo con Corso
Vittorio (Sciara Istiklal), dove si incontrava con alcuni suoi amici.
Dopo che io avevo compiuto l'età di due anni lui stesso aveva costruito
e fissato sulla canna della sua bicicletta un piccolo sedile di ferro
per portarmi con sè. Fino a che ero abbastanza piccolo da entrare
senza difficoltà nel sellino andava tutto bene ed io ero felice e
ben fiero di essere trasportato sulla bicicletta del mio papà. Poi,
quando arrivò il giorno che non riuscivo più a entrarci, prendevamo
l’autobus cittadino che si fermava in Sciara Camperio, vicino a casa
mia. C’erano due linee: la Circolare Destra e la Circolare Sinistra,
che facevano lo stesso tragitto ma in senso opposto. La Circolare
Destra , partendo da Sciara Camperio, percorreva tutto il Corso
Sicilia, passando davanti alla Fiera per arrivare fino a Piazza
Italia. Faceva il giro della piazza, passava vicino alla
statua di Settimio Severo, attigua all'ingresso di Suk el Mushir, a
ridosso del castello, fino alle due slanciate colonne che in cima
portavano una caravella e il faris, un cavaliere arabo con il suo
cavallo ed un frustino in mano, attraversava i
due tunnel del
Castello. Appena usciti dall'ultimo tunnel sulla sinistra c'era il
maestoso palazzo della Banca di Libia, e un più avanti
l'Arco di Marco Aurelio. Si costeggiava il lungomare fino ad arrivare all’ingresso del
Porto, dove si girava a sinistra verso il Monumento dei Caduti Italiani.
Si transitava davanti alla sede della Società Elettrica Libica e
dopo aver percorso tutta Sciara Dante passava davanti allo Stadio, per sostare nuovamente davanti all’ingresso del Lido
Vecchio, che era un capolinea. La Circolare Sinistra faceva il percorso inverso. Il
Caffè
Commercio era un rinomato luogo d'incontro. Si sentiva sempre un
gran brusio di voci, si chiacchierava, si discuteva e si
concludevano affari, in piedi o seduti ai tavolini, dentro il bar e fuori sotto gli archi. Dopo che
mio padre aveva
incontrato e si era intrattenuto a parlare con i suoi amici al Caffè Commercio, ci fermavamo poco più in
là all'edicola
di Filacchioni per l'acquisto dei giornali. Mio padre comprava per sè il quotidiano
"Il Tempo" di Roma e la rivista settimanale
La Domenica del Corriere, con
le simpatiche illustrazioni di Walter Molino in prima pagina, e per me
Il Corriere dei Piccoli e
Topolino. Da lì,
con i nostri giornali
e giornalini in mano, cominciavamo la nostra passeggiata
domenicale di Corso Vittorio, camminando un pò sotto gli archi, un pò sul
marciapiede scoperto, per raggiungere Piazza Cattedrale. Il
percorso non era lungo ma, tra andata e ritorno, durava tanto, sia per
tutte le soste che facevamo sia per parlare con amici e a
salutare conoscenti che incontravamo lungo il percorso o all' uscita
della Messa delle undici. Al ritorno c'era ancora più gente.
Entrambi i marciapiedi erano stipati all'inverosimile, tanto
che dovevamo rallentare il passo. All'altezza del bar di Girus
c'era sempre un intasamento e dovevamo usare i gomiti per
farci strada in mezzo a tutta quella marea di gente. Gli uomini, vestiti a festa e con i visi
ben rasati, profumavano di dopobarba e le donne, con indosso il loro abito migliore e i capelli
pettinati con la
"permanente", chiacchieravano
con affabilità tra di loro, si
scambiavano sorrisi e si salutavano cordialmente l'un l'altro. In
fondo è vero che ci si conosceva un pò tutti, o per nome o di vista, ed in quell'atmosfera di vivace amabilità
ci sentivamo tutti amici. Quando capitava di essere ospiti
per il pranzo domenicale a casa di amici o parenti anche mia
madre veniva a spasso con noi. Ci fermavamo tutti e tre alla pasticceria Campi per
comprare un cartoccio di paste dolci da portare in dono a casa dei
nostri anfitrioni. Il negozio si trovava
sul lato sinistro del Corso, sotto gli archi, vicinissimo alla
rinomata Latteria Triestina. Mio padre permetteva a me e a
mia madre di scegliere le paste che preferivamo e che poi le
gentili e sorridenti signorine della pasticceria ci confezionavano
un delizioso cartoccio. A me piacevano i cannoli ripieni di crema di
ricotta ed i diplomatici spolverati di zucchero a velo, mia madre
preferiva i bigné farciti di cioccolato ed i ventagli di pasta
frolla ricoperti di miele. Quando eravamo invitati a pranzo a casa
di mio zio
Mario Salmeri, fratello
di mia madre, e di sua moglie
Cristina Rovecchio,
sorella del campione tripolino di ciclismo
Renato Rovecchio
e cugina del giornalista
Vincenzo Rovecchio
.
I miei zii
abitavano
nella traversa precedente dell'ospedale di
Sciara Ippolito Nievo,
un strada che era il proseguimento di Sciara Raffaello e
perpendicolare a Corso Sicilia. Così per arrivare a piedi a casa
loro attraversavamo Piazza Italia, diventata poi
Maidan Ashuhada, dove c'era una rotonda
circondata da palme di datteri con al centro una fontana circolare, in cui giacevano semisommersi
dall'acqua cinque cavalli di pietra grigia. Sulla loro criniera, era
adagiata una vasca più piccola, ricamata con ghirigori, da cui
fuoriuscivano due coni zampillanti d'acqua. Vicino all'entrata
principale dell'ex Banco di Roma, all'angolo di Corso Sicilia,
addossati alla parete dell'edificio della banca, c'era una lunga
fila di lustrascarpe. Lì mio padre aveva l'abitudine di
sedersi a cassetta da Omar per farsi pulire le sue
scarpe. Omar era un simpatico libico con cui eravamo diventati amici.
Aveva
un finto occhio di vetro, che, per scherzo, ogni tanto se lo
toglieva e me lo mostrava. Quasi tutti questi lustrascarpe, oltre alla pulizia delle scarpe,
avevano delle bancarelle dove venivano esposte riviste e fumetti di seconda
mano, tutti in lingua inglese, probabilmente provenienti dalla
vicina base americana del Wheelus Field. Ogni
tanto Omar, grazie alle
generose mance di mio padre, mi regalava qualche fumetto, di cui mi
limitavo a guardare le figure, visto che l'inglese ancora non lo
conoscevo. Dopo questa abituale sosta proseguivamo sotto gli archi
lungo Corso Sicilia, passavamo accanto alla cartoleria Onestinghel,
mentre più avanti sulla destra c'era un palazzo con una forma
rotonda che noi chiamavano "il Colosseo". Transitavamo accanto alla Chiesa della Madonna della
Guardia, costeggiavamo i giardinetti tra Sciara Michelangelo e
Sciara Raffaello, dove qualche volta sostavano il
Circo Togni, il
Circo Orfei
o il
Circo Bizzarro. Generalmente quando arrivavo in quella zona
ero preso da un certo languore perchè l'aria era pervasa da un
delizioso profumo di cuscus che veniva dalle cucine del ristorante
Ittihad, che stava dall'altro lato della strada. Si
attraversava Corso Sicilia e s'imboccava
Sciara Ippolito Nievo. Nella parte centrale di questa
strada c'erano alcune traverse dove allora dimoravano le case di
tolleranza, che io, per la mia giovane età, non sapevo ancora che
cosa fossero e che a differenza dell'Italia, dove erano state chiuse
nel settembre del 1958 con la legge Merlin, in Libia
esistevano ancora.
Nelle domeniche che avevamo ospiti
in casa nostra a pranzo, mia madre, che era una bravissima cuoca, si
svegliava di buonora per iniziare a preparare l'appetitoso Pranzo
Domenicale. Subito dopo mi
svegliavo anch'io, attirato dal delizioso profumo che veniva
dal forno della nostra cucina e restavo lì impalato ad osservare mia
madre, ancora assonnato, ma ammaliato da
tutte le cose che riusciva a fare con tanta facilità. Il primo piatto del
pranzo della domenica era veramente superbo per la sua bontà
ed era quello preferito da mio
padre, cioè
cannelloni ripieni di carne e spinaci,
ricoperti con la besciamella e cotti
al forno. Mia madre diceva che il segreto che rendeva quel
piatto così saporito era che mescolava la carne tritata con un pò di
cervello, per renderla più morbida. Tra le altre cose la mia povera
mamma era costretta a fare un doppio lavoro perchè preparava due
teglie di cannelloni, una piccola senza formaggio parmigiano per mio
padre ed una più grande condita con il formaggio per
tutti gli altri. Il motivo era che mio padre era nauseato dal
formaggio sin da quando era stato militare in Sardegna,
nell'isola della Maddalena, dove, a suo dire, servivano il
formaggio, non solo a pranzo e cena, ma anche a colazione. Il secondo piatto del pranzo era
invece quello che io preferivo, anche perchè a me piaceva molto
mangiare le polpettine fatte con la carne macinata, che lei
sapeva cucinare in maniera tanto saporita, tanto che mia madre mi
aveva soprannominato in siciliano "u' purpettaru".
Questo secondo piatto era composto da
fette di patate farcite
di carne tritata, condita con cipolla, aglio e prezzemolo, affogate
nell'uovo battuto e poi fritte. Per ultimo veniva scartocciato il
cartoccio di dolci che
i nostri ospiti avevano portato in dono. Se nel cartoccio c'erano
anche i cannoli con la ricotta o i diplomatici io ne prendevo uno,
altrimenti niente. Dopo
un così lauto pranzo, per digerire, si andava insieme ai
nostri ospiti a fare una passeggiatina lungo la spiaggia
del Lido Vecchio.
Quando era inverno. e c'era stata
la mareggiata, raccoglievamo lungo la battigia gli ossi di
seppia portati dal mare, che poi regalavamo a quegli amici che
tenevano nelle loro case i canarini in gabbia. Tornati a casa, mio padre,
per abitudine, accendeva la radio alle due ed un quarto e tutti, insieme
ai nostri ospiti, ascoltavamo la simpatica ed esilarante trasmissione siciliana "Il
Ficodindia" di G. Farkas e Mario Giusti, dove il grande attore
comico Turi Ferro impersonava Bastiano, un catanese pieno di grande
arguzia. Finito di ascoltare il programma siciliano, mio padre, che
non era interessato al calcio , si dedicava interamente alla
lettura dei suoi giornali comprati al mattino o si intratteneva in
salotto a fare conversazione con i nostri ospiti. Alle tre in punto ero io a
monopolizzare la radio. A quell'ora, con la pubblicità del brandy
Stock 84, iniziava la trasmissione sportiva "Tutto il calcio minuto
per minuto". Come dimenticare l'inossidabile radiocronista Niccolò
Carosio, subito distinguibile per la sua voce composta e
familiare, " Gentili signore e signori buongiorno. Qui è Niccolo
Carosio che vi parla..." e memorabile per i suoi famosi
, "quasi-rete" e " scusa, Ameri".
Io stavo completamente assorto ad ascoltare la radio e tifavo,
mangiucchiandomi le unghia delle dita, per la mia squadra del cuore, la Juve,
quella dei tempi in cui giocavano il
"gigante buono" gallese, Johnny Charles, e
il
funambolico argentino Omar Sivor, detto "el cabezon" per la
sua testa grossa.
lcune volte nel pomeriggio
prendevamo l'autobus per andare in centro. Questo voleva dire fare
un giro vece lungo Corso Vittorio per incontrare casualmente altri
conoscenti e poi passando per i giardinetti, ed attraversando
la rotonda della gazzella si arrivava sul
lungomare il
lungomare Adrian Pelt, che percorreva un paio di volte da cima
a fondo, per intenderci dal
Castello fino ad oltre l'Uaddan e
ritorno. Spesso per riposarci mio padre ci invitava a sederci per
bere una bibita nel locale la
Sirenetta posto sul lungomare, al di
sotto della balaustra, dei lampioni e delle palme , in riva al mare.
Altre volte specie quando pioveva, andavamo al chiuso
del
Circolo Italia,
dove venivano organizzati vari spettacoli, musica,
lotterie, tombole e feste danzanti.
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Come già accennato in precedenza mia madre,
Franca Salmeri, a
detta di tutti era una brava
cuoca. Per
imparare a cucinare così bene non aveva avuto bisogno di
seguire nessun tipo di corso di gastronomia ma aveva assorbito,
con gli anni vissuti tra la Tunisia e la Libia, l'esperienza delle tradizioni culinarie
di questi due paesi, oltre a quella delle sue origine siciliane. Era nata a Marsala, in provincia di
Trapani, il 4 dicembre nel 1919, da
Ninetta Anselmi e da
Giuseppe Salmeri, di
professione marinaio, che aveva preso parte a tutte due le
guerre mondiali dello scorso secolo, uscendone fortunatamente indenne. Nel 1918 mio
nonno, all'età di 29 anni, era già proprietario di una grossa barca a vela con cui
trasportava vino e faceva la spola tra Sicilia e la Tunisia, che
allora era ancora una colonia francese. Riguardo a mia nonna
Ninetta, ricordo che il suo cognome, Anselmi, era considerato
molte volte a tavola un argomento tabù per noi piccoli. Tutti
sapevano ma nessuno, specialmente mia madre, ne voleva parlare.
Diventato più grande ne venni a sapere il motivo. Il fatto era che
mia nonna Ninetta, che era una buona ed onesta moglie ed una brava
sarta, era, "nientepòpòdimenoche", la prima cugina del
gangster italo-americano Alberto Anselmi, pecora nera della famiglia
e uno degli autori della strage della "Strage di San Valentino".
Alberto Anselmi, nato a Marsala, braccato dalla polizia
italiana e
protetto dalla mafia siciliana, era riuscito a fuggire negli Stati Uniti
d'America con un espediente. Una mattina di buonora si era
presentati in casa sua a Marsala, un ispettore di polizia con
quattro agenti in borghese con un mandato di arresto per essere
tradotto in carcere. Ancora assonnato aveva chiesto se potevano
essere così gentili di attendere un attimo per fargli preparare le sua
valigia e di vestirsi. L'ispettore aveva accettato, ma aveva fatto
male. Alberto era riuscito a scappare silenziosamente da
uscita secondaria della casa e si era dileguato. La Mafia gli aveva
consigliato di cambiare aria e dopo circa un mese, a bordo di un
transatlantico, era giunto in Nuova York. Da lì si era trasferito a
Chicago, dove aveva subito stretto amicizia con una potente
mafiosa famiglia marsalese di nome Genna. Tramite loro fu presentato ad Al Capone ,
tanto da diventare
un suo amico per la pelle. Anselmi non si era accontentato della sua
posizione già privilegiata e stata pensando di insidiare la poltrona
di Al Capone. Si dice che, per uno "sgarbo", Anselmi
venisse ucciso, insieme al suo complice John Scalise, dallo stesso Al Capone
con una mazza da baseball durante una riunione di "famiglia". La
cruenta scena è stata ricreata e resa famosa nella prima parte del
film americano "The Untouchables" interpretato da attori
famosi come
Robert De Niro nella parte di Al Capone,
Kevin Kostner,
Sean ConneryAndy Garcia. ed
Nel
giugno del 1920, vedendo che il tenore di vita delle famiglie italiane
residenti in Tunisia era migliore di quello loro in
Sicilia, aveva deciso lasciare, insieme a tutta la famiglia, la
sua casa di Marsala e di andare risiedere stabilmente con
loro a Sfax, un paese della costa orientale della Tunisia, a sud
di Tunisi, di fronte alle isole Kerkennah, sopra all'isola di Djerba.
Così mia madre, ancora in fasce, secondogenita di cinque figli, aveva
lasciato il suo paese natale ed era giunta a Sfax all'età di sei mesi.
Mia madre aveva due fratelli, Mario e Giovanni e due sorelle, Maria e
Grazzina. Le figlie più grandi, la primogenita Maria, e la
secondogenita, Franca, mia madre, raggiungendo l'età scolastica
avevano cominciato a frequentare le scuola locale di Sfax. In questa
scuola elementare tutto veniva insegnato in lingua francese, mentre a
casa loro parlavano solo in dialetto siciliano. Nel 1929 , con l'inizio
della depressione finanziaria americana, anche in Tunisia cominciavano
a farsi sentire i primi sintomi della recessione
dell'economia reale, così il commercio del trasporto del vino era
diventato molto meno remunerativo rispetto a prima. Mio nonno Giuseppe
insieme a suo fratello
Vincenzino
avevano deciso che per sopravvivere dovevano rinnovarsi, utilizzando
la loro esperienza marinara e indirizzando il loro commercio
verso la pesca delle spugne, che nel frattempo quel settore era
diventato più
economicamente redditizio. Così entrambi i fratelli, con la loro
barca battezzata "I due fratelli", avevano deciso di spostarsi con le
loro due famiglie in Libia, i cui fondali marini, si diceva, erano ancora meno
sfruttati di quelli tunisini e quindi più ricchi di spugne. La spugna,
anche se a prima vista non lo si direbbe, vive e respira. Infatti è
un animale primitivo che vive in colonie attaccate alla roccia
dei fondali marini ed in misura minore anche in quelli di acqua dolce. Non ha
una forma ben definita, ha un organismo privo di sistema
nervoso, ed è costituito essenzialmente da una sostanza molle, munita di
numerosi pori, attraverso cui l'animale si nutre. Il corpo esterno
serve da rivestimento, quello intermedio è una specie di sottile
impalcatura scheletrica formata da carbonato di calcio o da silice,
mentre quello interno è formato da cellule che provvedono a trattenere e
digerire le particelle alimentari che entrano con l'acqua attraverso
i pori. Dopo l'essiccamento la spugna veniva utilizzata generalmente
per la pulizia e per l'igiene personale. Ricordo che mio nonno
e suo fratello Vincenzo vendevano le loro spugne a Costa Gerakis,
un simpatico commerciante greco diventato poi un nostro carissimo
amico. In quegli anni a Zuara, che dista circa un centinaio di
chilometri da Tripoli e non è molto distante dal confine tunisino, vivevano
parecchie
famiglie italiane.
Nell'agosto 1936, mio padre,
ancora scapolo, abitava a Tripoli in un appartamento nella Città
Vecchia, vicino al porto e al Monumento dei Caduti.Vicino alla loro
casa c'era anche quella di Vicenzino Salmeri, il fratello del mio
nonno materno Giuseppe. In quella casa abitavano sua moglie
Antonietta Anselmi, sorella di mia nonna Ninetta Anselmi, ed i loro
tre figli Mario, Franceschina e Maria. Mia madre frequentava spesso
la casa dei loro cugini. Un bel giorno, casualmente, mio padre aveva
incontrato mia madre in quella casa. Quando mi raccontava questo episodio mia madre mi diceva che
il loro fu un amore a prima vista. Per certo periodo si incontravano
di nascosto, poi mio
padre aveva chiesto a mio nonno la mano di mia madre,
come si usava allora. Mio nonno Giuseppe dapprima aveva preso tempo
per prendere informazioni sul suo conto. Gabriele Ferrante, il
marito della sorella Orsolina, che conosceva bene mio nonno, aveva
garantito per mio padre. Aveva riferito che mio padre ventisei
anni, che era un giovane a modo e che economicamente era
indipendente perchè mensilmente percepiva un discreto stipendio. Malgrado ciò mio nonno aveva
fatto sapere a mio padre, tramite terze persone, che rifiutava la sua
richiesta. Il motivo era che mia madre era ancora troppo giovane
(aveva solo sedici anni) e che al momento era disponibile al
matrimonio solo la sua primogenita,
Maria, che pur bella e
graziosa ed aveva diciotto anni. Secondo l'usanza di allora la
primogenita doveva essere la prima a sposarsi e poi
successivamente le altre a secondo dell'età. A mio padre non
interessava Maria, così insieme a mia madre avevano
deciso, di ricorrere alla classica "fuitina". "Fuitina" è un termine
di origine siciliana utilizzato molti anni fa, ma la pratica è
ancora attuale, per indicare la cosiddetta "fuga d'amore", ovvero
quando due ragazzi molto giovani, o addirittura minorenni, decidono
di allontanarsi da casa, da soli, per qualche giorno senza avvisare
nessuno. Al loro ritorno diventa quasi automatico il cosiddetto
"matrimonio riparatore". La fuitina veniva e viene utilizzata da due
giovani innamorati quando il loro amore è contrastato da una o da
entrambe le loro famiglie: lo scopo, quindi, era quello di metterle
dinanzi al "fatto" compiuto, quello di aver presumibilmente consumato un
rapporto sessuale. A quel punto l'assenso dei familiari
diventava inevitabile. Non c'era stato bisogno diVossia",
che è l'espressione siciliana equivalente al "Voi".
Mia madre mi diceva che era molto geloso delle sue figlie femmine,
proibendo rigidamente loro di mettersi in costume per andare a
fare il bagno a mare. Malgrado
tutto questo ostacoli i miei genitori si sposavano il 4 dicembre del 1937, proprio nel giorno che mia madre compiva
il suo diciottesimo
anno di età, nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli,
non lontano da Sciara Espaniol, dove c'era stata la prima sede dell'Istituto La Salle
a Tripoli. Per inciso voglio ricordare che mia zia Maria, si era
fidanzata pochi mesi dopo il matrimonio di miei genitori. Si era
sposata nella chiesetta di Zuara con Giovanni Giarratano
, detto Giangià, e avevano avuto due figli Ninetta e Gasparino. ricorrere a quell'
estremo espediente. Mio nonno aveva visto che mio padre non era per niente
interessato alla proposta di sposare la primogenita Maria, che mi madre
col suo atteggiamento mostrava di essere seriamente innamorata di mio padre, su accorata insistenza della
moglie Ninetta, aveva deciso alla fine di dare il suo assenso al
fidanzamento. Si diceva che mio nonno Giuseppe fosse abbastanza
una persona severa ed un pò burbera con i propri figli, tanto che pretendeva
da essi che, per rispetto, gli si rivolgessero dandogli del "
Per il loro viaggio di nozze i
miei genitori era andati a visitare i loro parenti di Marsala, di Favignana ed
alcuni cugini di Palermo. A questo proposito mia madre mi raccontava
spesso un episodio, capitatogli proprio a casa dei loro cugini di
Palermo, sposini anche loro. Invitati alla loro casa per pranzare si
erano resi conto delle ristrettezze e della povertà, in cui questi
cugini vivevano, se pur in maniera dignitosa. Per pranzo il
primo piatto era un composto da un brodino con quattro piccolini
tortellini per gli uomini e di solo tre tortellini per le
donne. Per secondo c'era un pò di mortadella, tante olive, poco pane
ed acqua a volontà. Raccontandomi questo episodio voleva sottolineare il fatto
di come loro, mio padre e mia madre, erano stati fortunati ad avere
lasciato la povertà che in quel periodo c'era in Italia e di essere
venuti in Libia dove c'erano più occasioni di lavoro.
I miei erano dapprima andati ad abitare, per poco tempo, in un
appartamento con giardino delle Case Operaie, vicino alla Chiesa di Sant'Antonio,
non lontano dalla Stazione Ferroviaria. Nel settembre 1938 avevano
preso in affitto l'appartamento di Sciara Camperio, nella zona del Lido,
dove io sono nato. Per un pò di tempo avevano creduto bene di non
avere figli, ma quando si erano decisi di volerli, questi non
venivano. Nel mese di dicembre del 1947,
una settimana prima di Natale, mia madre era andata alla messa
domenicale della Madonna della Guardia, in Corso Sicilia. Al termine
della Messa si era fermata a guardare da vicino il Presepe Vivente, che
a quell'epoca veniva rappresentato all'interno della chiesa in uno spazio
riservato, vicino
all'altare. Questo presepe era impersonato da reali uomini e donne che, per devozione religiosa, si erano offerti
come volontari per recitare la parte dei protagonisti del Santo Natale. Pertanto
nel Presepe c'erano gli attori che rappresentavano i pastori, San Giuseppe, la Madonna ed un bel bambino
biondo, di circa otto mesi, che impersonava il bambino Gesù,
adagiato delicatamente in una culla di legno ricoperta di stracci.
Mia madre mi raccontava che il bambino di quel Presepe Vivente era
un trovatello, che, come le aveva riferito la Madre Superiora era
stato lasciato temporaneamente in custodia alle suore bianche, per
il tempo necessario per trovare una confortevole sistemazione. La suora,
che conosceva bene mi madre, sapeva del suo problema di non avere
avuto ancora figli. L'aveva vista assorta mentre guardava quel
bambinovero che impersonava Gesù, l'aveva avvicinata e con delicatezza le aveva proposto di adottarlo, pratica
che allora probabilmente era meno complicata di ora. Mia
madre all'inizio era rimasta incredula e senza parole per quella
proposta. Giustamente aveva risposto che doveva prima rifletterci
sopra e parlarne con suo marito. Riferita la notizia a mio padre, dopo qualche giorno
di riflessione, erano arrivati alla decisione di adottare il
bambino. Presi dall'euforia, erano già pronti ad incontrare la suora, per riferirle
della loro positiva decisione, quando mia madre si era accorta di
essere in stato interessante. Naturalmente aveva contattato la suora
e la cosa era finita lì. Da piccolo mi era stata raccontata
questa
storia più volte. Quando mi capitava di prendere degli
sculaccioni da mia madre per qualche mio frivolo capriccio infantile,
il mio pensiero tornava a quell'episodio. In cuor mio ero preso dal dubbio che mia
madre non mi volesse abbastanza bene perchè pensavo che non avesse
raccontato la verità, e che in realtà ero io il bambino del
presepe. Quando mi mettevo a piagnucolare per qualche mia
puerile bizza, anzichè mi
diceva in siciliano: "sii una làstima!" che tradotto in
italiano significa che ero noioso. Per
fortuna avev un buon rapporto con mio nonno Giuseppe, il marinaio,
tanto che a me concedeva di dargli del "tu" anzichè del "Vossia". Da
piccolo desideravo fare da grande il mestiere barbiere.
Mio nonno lo sapeva, così si metteva sedeva su una sedia
davanti ad uno specchio, si metteva una asciugamano attorno al
collo e voleva che gli tagliassi i capelli per cominciare a
fare esperienza. Mi metteva a mio agio, dandomi dei consigli
come e dove tagliarli, tra lo sguardo preoccupato di mia madre. "Lassalu fari
a tu figghiolo, chissu nu bravu
varveri veni", e mi sorrideva strizzandomi l'occhio,
facendomi capire che ero suo complice.
Il nonno ci veniva
a trovare abbastanza spesso da Zuara nella nostra casa al Lido, tanto che
una volta, restati soli, armato di coraggio mi ero confidato con lui. "Nonno,
è vero che tu c'eri
quando io sono nato?" - gli
avevo chiesto con ansia, "Certo che c'ero e mi ricordo che
avevi tanti capelli neri."- mi rispondeva" tanto che parevi
Dante
Alighieri". "Nonno, ma chi è questo Dante Alighieri, non è mica mio
padre?" "Ma no, che vai pensando? Dante Alighieri era un grande poeta
italiano, vissuto centinaia di anni fa, ma che aveva una lunga
chioma di capelli neri proprio come l'avevi te quando sei nato",
mi rassicurava accarezzandomi i capelli. Ero così certo che mio
nonno mi avesse detto la verità, perchè pensavo, se avevo i
capelli neri quando ero nato non potevo essere quel bambino biondo
del presepe. Così, da quella volta, mi ero tolto il dubbio
sull'origine della mia nascita. Crescendo mi rendevo conto che mia madre era così insofferente ed
intollerante nei miei confronti perchè le coliche che
aveva la rendevano nervosa. I dottori
di allora non sapevano come curarla e lei continuava a soffrire,
mentre sarebbe bastata una semplice operazione chirurgica per
rimuovere quei calcoli e farla stare meglio. A distanza di anni un
bravo dottore, di nome Basile, glieli aveva asportati
chirurgicamente in una clinica di Tripoli.
Devo aggiungere che mia madre,
come anche mio padre, aveva alcune
fisime. Ne ricordo due. Una era quella di possedere delle
bambole e la seconda era quella che avrebbe voluto avere anche una figlia
femmina. Le bambole le piacevano così tanto che
sul suo letto ce ne erano posate almeno tre , con caratteristiche
diverse.
La sua
preferita aveva il viso paffuto ed aveva i capelli rossi.
Era tutta vestita di merletti rosa e apriva e chiudeva gli occhi
quando si toccava. Un'altro era un
bambolotto negro
coi capelli neri e ricci, scalzo e con un vestito
bianco e rosso, che se si tirava una cordicella diceva "maaammaaa".
Una terza era tutta di pezza color rosso ed assomigliava alla
protagonista della fiaba
Cappuccetto
Rosso, scritta da fratelli Grimm. Poi in una
vetrinetta nella sua camera da letto c'erano una collezione di
bamboline in miniatura. L'altra fisima era quella di volere una
figlia femmina. Era senza dubbio un desiderio difficilmente
esaudibile, visto che ci aveva messo dieci anni per fare il primo
figlio. Era opinione di mia madre che le figlie femmine,
essendo più docili di carattere dei figli maschi, sarebbero state
una garanzia assicurata per la vecchiaia. I figli maschi quando sono
grandi generalmente finiscono per seguire le loro mogli e
tendono ad allontanarsi dalla loro famiglia di origine.
Uno volta in occasione di un Carnevale aveva addirittura voluto che
mi vestissi da femmina, malgrado io non lo volessi. Aveva anche
insistito nel portarmi da un fotografo in Corso Sicilia,
perchè mi immortalasse vestito in quella maniera
ridicola. Questa foto è ancora conservata nel suo vecchio
album fotografico. Ogni volta che la guardo sono tentato di
strapparla, poi lascio perdere, perchè rappresenta comunque un
ricordo. In questa
foto che
mi ritrae con un sorriso forzato, all'età di otto anni, ho
indosso una gonna lunga bianca, una camicetta dello stesso colore ed
una borsetta bianca al braccio. Nella mano destra tengo un
ombrellino di carta giapponese mentre nell'altra una trombetta con
fili di coriandoli. In testa indosso un ridicolo cappellino da
boy scout. Per fortuna la cosa era successa solo una volta e non si
era più ripetuta. >>>
MIO NONNO GIUSEPPE, UN EROE FRA DUE GUERRE ED UN TERREMOTO
<<< Giuseppe Garibaldi è stato definito dai libri di
storia l'"Eroe dei due mondi", per il suo valore dimostrato in
Sudamerica e per aver ottenuto con li suoi "mille" l'impresa di
aver apposto una solida base all'unità di Italia. Mio nonno materno,
Giuseppe, lo definisco un "Eroe fra due guerre ed un terremoto" e
più sotto ve ne spiegherò la ragione.
Mio nonno Giuseppe Salmeri era
nato nel 1889 nell'isola di Favignana, in provincia di Trapani ed
era vissuto per tanti anni in Libia, prima a Zuara e poi a
Tripoli. Quando da piccolo mi ammalavo veniva spesso a casa mia
a farmi visita. Io, che lo ammiravo per la sua naturale
predisposizione a saper raccontare le cose, gli chiedevo sempre di
narrarmi un po’ delle storie della sua vita di mare. Sapeva che mi
piaceva ascoltare in particolar modo gli episodi del suo viaggio
intorno al mondo, intrapreso quando lui aveva appena diciotto
anni. Io, spinto dalla mia infantile curiosita', lo interrompevo
spesso per fargli alcune domande sui Paesi che lui aveva
visitato da giovane. Senza perdere il filo della storia, rispondeva
con calma alle mie curiosita'. Quando raccontava queste storie
aveva l'abitudine di sedersi in un modo particolare, che a me
piaceva molto. per mettersi comodo e raccontarmi le sue storie si
avvicinava con una sedia vicino alla sponda del mio letto, poi si
sedeva con la spalliera rivolta in avanti anzichè dietro,
appoggiandovi sopra prima i gomiti e qualche volta anche la testa .
Seduto cosi', con quella sua voce resa roca dalle tante sigarette
fumate , cominciava a raccontarmi le sue storie, che ogni tanto
arricchiva con nuovi particolari. La storia che mi ricordo con piu'
chiarezza, anche perche' mi aveva sempre affiscinato per il rischio
ed il pericolo corsi, era quella del terremoto di Messina.Nel
Dicembre del 1908 , all'età di diciassette anni, si era imbarcato,
in qualità di "Gabbiere scelto", sulla Regia nave "Calabria”, che
era destinata ad iniziare un triennale giro di circumnavigazione
intorno al mondo, sotto il comando del Primo Capitano di Fregata
Mario Casanova e del Comandante in Seconda, Capitano di Corvetta,
Giovanni Giovannini. La nave ospitava un equipaggio di 360 persone,
tutti scelti e robusti marinai, per poter meglio affrontare
qualunque clima e resistere a tutte le intemperie che la lunga
campagna di 36 mesi attorno al mondo comportava. Tutto l’equipaggio
della "Calabria" si trovava il giorno di Santo Stefano , il 26
Dicembre del 1908, nell’Arsenale Navale di Venezia per completare
l’armamento e dare gli ultimi ritocchi alla preparazione della nave
stessa. Finalmente era arrivato il tanto atteso e desiderato ordine
dal Ministero della Marina Militare di mettersi in rotta verso la
Sicilia per poi salpare per il giro intorno al mondo. Dopo due
giorni di viaggio, il 28 Dicembre, la "Calabria" arrivo' nel porto
di Palermo . All’ improvviso arrivo' un urgente dispaccio
proveniente dal Ministero che ordinava di partire immediatamente
e dirigersi urgentemente verso Messina. Si sparse subito la
notizia che quella citta’ era stata colpita
contemporaneamente da un catastrofico e devastante terremoto e
maremoto. Sbarcati a Messina , divisi in due squadre sotto il
comando di due ufficiali di grado superiore, si avventurarono in
quell’ammasso di macerie. Tirarono fuori cadaveri ancora caldi di
uomini e donne, resi deformi dal peso degli edifici crollati. La
loro maggiore speranza era di trovare qualcuno che fosse ancora
vivo sotto quel mucchio di macerie.Dopo circa dieci ore di
massacrante opera di soccorso la tromba della loro nave suonò la
ritirata, richiamando a bordo entrambe le squadre. Una volta
adunati, il Comandante in seconda informò l'intero equipaggio che
anche la vicina città di Reggio Calabria era stata maledettamente
colpita da quel terribile terremoto. Quindi divise l’equipaggio in
due squadre , stabilendo che una squadra si recasse immediatamente
a portare la sua opera di soccorso nella vicina Reggio Calabria
mentre l'altra restava a Messina. Mio nonno fu tra quelli che
andarono a Reggio Calabria. Mi ricordo ancora con chiarezza che
quando mio nonno arrivava a quel punto del racconto si
interrompeva. Per qualche secondo il suo sguardo diventava
triste e si perdeva in un remoto angolo del passato. Penso che,
malgrado fossero passati svariati anni da quell’immane tragedia ,
il ricordo del suono implorante dei lamenti dei
sotterrati vivi sotto il cemento degli edifici e quello straziante
di uomini e donne che invocavano i loro cari scomparsi sotto
l’ammasso delle macerie, lo ossessionava ancora
terribilmente. Dopo svariate ore di duro lavoro la sua squadra
era diventata ormai stanca ed affamata. Il suo caposquadra aveva deciso che era il momento che tutti
dovevano fare una pausa e pensare a rifocillarsi. Vicino a loro,
in quella parte della città colpita dal terremoto ancora piu'
duramente di altre , c'era un convento semidistrutto, dove alcune
operose suore vestite tutte di bianco , scampate miracolosamente
al crollo dell'edificio, servivano generosamente a chiunque lo
chiedesse un piatto di minestra calda . Mio nonno mi parlava sempre
con commozione di quel gruppo di suore vestite con una tonaca
bianca. Malgrado tutto attorno a loro ci fosse tanta polvere
causata dai calcinacci e il sangue della gente colpita dal crollo
degli edifici , la loro tonaca, come per magia , era rimasta
bianca ed immacolata. Mio nonno mi diceva di avere avuto sempre il
sospetto che quelle suore vestite di bianco fossero angeli mandati
dal cielo. L'opera di soccorso a Reggio Calabria
durò circa una settimana, al termine della quale tutto l'equipaggio
ebbe l'ordine di imbarcarsi immediatamente per Venezia per
effettuare una operazione di carico di materiale di soccorso per
terremotati. Giunti a Venezia e fatto rapidamente un carico di
ingenti quantità di indumenti e cibo per i terremotati, si misero
nuovamente in rotta per Reggio Calabria, per consegnare prima
possibile il prezioso carico ai sopravvissuti al terremoto.
Purtroppo le condizioni meteo erano peggiorate. Con un mare in
tempesta, forza sette, furono costretti a sbarcare tutta la merce
di soccorso che avevano a bordo nel porto di Gioia Tauro anzichè a
Reggio Calabria. Alcuni di loro furono incaricati di sbarcare e di
seguire il carico, che doveva essere stivato su un treno merci, e
poi assicurarsi che il tutto arrivasse a destinazione. Altri invece
, tra cui anche mio nonno, ebbero l'ordine di restare a bordo e di
scandagliare le acque dello stretto in cerca di cadaveri. Dopo una
settimana di faticoso recupero di cadaveri il suo gruppo ritornò
esausto nel porto di Palermo. Da lì , finalmente il 10 di
Gennaio del 1909, partirono per iniziare quel lungo viaggio, che
doveva durare trentasei mesi , di circumnavigazione attorno al
mondo, sospeso precipitosamente in occasione di quell'immane
disastro. Nel 1910, a bordo della "Calabria", a testimonianza del
suo coraggio gli venne assegnata una medaglia al valore civile e un
diploma su cui era scritto :" Il Re concede a Salmeri Giuseppe la
Medaglia Commemorativa per aver prestato opera soccorritrice nei
luoghi devastati dal terremoto di Messina e Reggio del 1908". Nel
1915 all'inizio della Grande Guerra fu richiamato in marina con il
grado di "Nocchiere". Riuscì a sopravvivere malgrado quella guerra
avesse causato la morte ed il ferimento a tantissimi soldati e
distrutto numerose famiglie. Nel 1940 all'età di cinquantuno anni
partecipò anche alla seconda guerra mondiale come "Comandante di
dragamine". Svolse una decisiva opera nell'affondamento di una nave
nemica. Durante questa azione , malgrado il mare fosse in tempesta
e abbondantemente cosparso di mine, con sprezzo del pericolo, salvò
la vita ad una ventina di marinai dell'unità nemica affondata,
rimasti in balia delle onde senza scialuppe di salvataggio. Per
questa coraggiosa azione gli fu assegnata una medaglia bronzo al
valor militare e fu congedato con il grado di "Maresciallo Capo".
Proprio questa medaglia la ebbi in dono da mio nonno nell'agosto
del 1955, in occasione del mio settimo compleanno. Mi ricordo che
la ripose, legata con cura ad un nastrino rosso scarlatto, dentro
un piccolo barattolo di vetro trasparente, insieme ad alcune
monete di metallo, di varie forme e colori, che aveva raccolto nel
suo viaggio attorno al mondo. Io fui molto onorato di ricevere da
lui un dono cosi' simbolicamente importante, perchè sapevo bene lo
sforzo che aveva dovuto compiere per meritarsela. La conservai in
quel barattolo per tanti anni, come fosse statauna preziosa
reliquia. Poi , quando arrivò il momento che fummo costretti ad
abbandonare la Libia per andare in Italia, fui fermato alla dogana
dell'aeroporto di Tripoli per essere ispezionato. Vidi quell'innocuo
barattolo di vetro girare per varie mani, poi , all'improvviso
scomparve. Ad una mia rimostranza mi fu detto di non preoccuparmi
e di aspettare perchè, dopo un controllo, tutto mi sarebbe stato
restituito. Attesi invano. Purtroppo mi dovetti imbarcare senza
il mio barattolo di vetro. Penso ancora con nostalgia a quel
piccolo barattolo di vetro, prezioso solamente per il suo valore
affettivo , che racchiudeva dentro di se' così tanti bei ricordi
della mia infanzia.
Purtroppo non ho mai conosciuto la mia vera nonna materna, Ninetta,
perchè era morta nel 1945, qualche anno prima che io nascessi.
Era morta improvvisamente a Marsala per un attacco di appendicite
sfociato in peritonite. Tutti avevano accusato il colpo di una cosi
prematura e grave perdita. Mio nonno, per un pò di tempo era vissuto
stando insieme ai propri figli, mia madre Franca, la sorella
maggiore Maria, quella più piccola Grazzina, il fratello Mario e
l'ultimo nato, Giovanni. Ognuno di loro si era costituito una
famiglia ed aveva un proprio casa.
Dopo
do circa cinque anni di vedovanza aveva deciso di sposare una
signora Calabrese, di nome Nunziata, che io per rispetto
verso mio nonno chiamavo Nonna
Nunziata.
Durante il 1951, sei anni dopo la morte di mia Nonna Ninetta, mio
nonno aveva alloggiato per un certo numero di mesi a casa dei miei
genitori, in Sciara Camperio. Facendo la spesa nel negozio di
generi alimentari in Corso Sicilia, all'incrocio con Sciara
Camperio, aveva avuto modo di conoscere la signorina Nunziata, una
donna calabrese, che gestiva quel negozio e che aveva qualche anno
meno di lui. Avevano fatto amicizia con lei ed insieme avevano deciso di sposarsi,
malgrado il parere contrario dei figli che reputavano che cinque
anni di vedovanza del loro padre non fosse un tempo sufficiente per
risposarsi. Mio nonno, con il suo particolare carattere, non aveva
dato retta alle loro rimostranze, e si era comunque risposato con
Nunziata. Questa, subito dopo il matrimonio, l'aveva
convinto a lasciare la Libia ed andare a vivere insieme in un paesino
di mille abitanti, dell'Aspromonte, Natile Nuovo, a ottocento metri sul livello del
mare, dove lei era nata. Sbrigate le pratiche burocratiche di
rimpatrio, era giunti a Natile Nuovo, accolti calorosamente
dalla banda locale e dal
sindaco del paese, che era uno dei tanti nipoti di Nunziata. La banda
locale aveva suonato una marcia trionfale in loro onore. I motivi di
questo benvenuto così caloroso erano vari e più che fondati.
Il nipote Sindaco di Nunziata credeva che sua zia aveva
fatto fortuna andando all'estero ed era considera come una "Zia
d'America". La fama guerriera di mio nonno era arrivata fin a quel
piccolo paesino. Ricordo che davanti alla casa di mia nonno a volte
c'era una piccola fila formata da abitanti di Natile, che erano
in attesa di essere ricevuti da mio nonno per un colloquio. Pare che
mio nonno fosse considerato da questi abitanti un uomo con molta
esperienza di vita, capace di dare buoni e saggi consigli a tutti. A
miei occhi sembrava quasi che interpretasse la figura di un
Padrino. Si diceva che nel 1958, per commemorare il
cinquantenario del terremoto di Messina e Reggio Calabria, il
sindaco
allora
in carica , dopo aver consultato alcuni vecchi documenti relativi a
quel terremoto, aveva trovato menzionato varie volte il nome
di mio nonno, Giuseppe Salmeri, per i suoi atti di coraggio. Si era
informato dove vivesse e gli aveva scritto una lettera dove gli
comunicava di aver deciso di fargli una targa commemorativa e
assegnare il suo nome ad una nuova strada di periferia
di Reggio Calabria. La cosa non era andata in porto perchè
prima che la decisione fosse ratificata dalla giunta municipale, il
Sindaco si era dimesso per motivi che non conosco. Dopo la fine
della seconda guerra mondiale, mio nonno si era ritirato in pensione dalla
Marina col grado di Maresciallo Capo ed aveva cominciato a percepire dalla Marina stessa
una modesta pensione. Per incrementare i suoi introiti aveva
accettato di buon grado l'incarico di fare il custode della scuola
elementare di Natile, offertogli proprio dal nipote Sindaco. Tale
incarico gli garantiva un altro modesto introito, che sommato al
primo gli permetteva di condurre una vita confortevole, anche se non
agiata. Non pagava l'affitto della pigione perchè gli era stato
garantito dal Comune di Natile Nuovo il privilegio di avere
un alloggio gratis all'interno della scuola stessa. Annesso
all'alloggio c'era un giardino a cui lui si dedicava con amore.
Coltivava un pò di ortaggi e allevava polli, conigli e
porcellini d'india. Quando da piccolo andavo a trovarlo in vacanza,
ricordo che era piacevole sentire al mattino presto il canto del gallo.
Nella tarda mattinata andavo con lui nel pollaio a raccogliere le uova
delle galline. Dopo
pranzo andavo con mio nonno a raccattare nei campi limitrofi al suo
orto un pò di erba medica per i conigli e peri porcellini d'india.
Una pomeriggio, mentre eravamo seduti all'ombra di un albero per
goderci un pò di frescura, gli avevo chiesto come mai un marinaio come lui, che a diciassette anni
aveva circumnavigato il mondo, che era stato comandante di
bastimenti a vela, che aveva sempre servito la Marina, alla fine
avesse scelto
di
andare a vivere in un posto così lontano dal mare. " E' una bella domanda" , mi aveva risposto, " e la
risposta non è semplice." Non mi aveva risposto subito ma
si era lisciato i capelli e strofinato il mento come se stesse
ponderando quale tipo di risposta dare, specialmente a uno come me
che era ancora un bambino. Poi aveva proseguito:" Da quando tredici anni fa è morta
mia moglie, ovvero tua nonna Ninetta, per me il mondo è
cambiato da così a così" ed aveva girato la mano destra per
mostrarmi entrambi i lati della sua mano. " Da allora
mi sono reso conto che la mia vita sarebbe comunque cambiata. Non
potevo continuare a vivere stando a casa dei miei figli a Tripoli.
Ognuno di loro ha ormai la propria famiglia ed io da uomo solo e
per lo più vedovo sarei diventato solo d'impaccio. So bene che tutti i
miei figli non hanno mai condiviso la mia scelta di sposarmi di
nuovo, ma io, come sempre ho fatto nella mia vita non ho
voluto dare a nessuno ed ho seguito il mio istinto. Ho preferito cominciare
una nuova vita e risposarmi con una brava donna, con cui condividere
gli ultimi anni della mia vita. Niente potrà
cancellare il ricordo del tempo trascorso con tua nonna Ninetta e
non potrò mai amare nessuna laltra donna come ho amato lei. Dopo che lei se ne
andata via per sempre ho preferito cambiare pagina,
dovevo cominciare rifarmi una nuova vita, altrimenti sarei morto
subito anch'io di depressione. Anche se ho ormai superato i sessanta
anni, sono ancora spinto dalla continua ricerca del nuovo e dal mio
innato spirito di avventura. Forse per questo ho deciso di prendere
questa decisone. Ho seguito Nunziata ed il suo desiderio di ritornare a
vivere per sempre nel suo paese natale, in cima a queste belle
montagne dell'Aspromonte e vicino ai suoi parenti, non perchè me la
avesse mai imposto ma solo per mio desiderio. Questi ultimi anni che mi resteranno da vivere li voglio
trascorrere in un modo completamente diverso da quello vissuto
quando ero più giovane. Voglio vivere in un posto tranquillo , dove
c'è tanto silenzio, come questo. Certo mi manca tanto l'odore
del mare, la vista del mare, il rumore del mare, ma ogni quindici
giorni prendo l'autobus che mi porta a Bovalino Marina, e lì rimango
tutto il giorno andando in giro per il porto ad annusare l'odore
delle reti dei pescatori e a respirare la brezza marina. Ogni tanto
mi fermo a parlare con i pescatori dei pescherecci locali. Con
qualcuno di loro ho fatto già amicizia ed ogni tanto, tra una
chiacchiera e l'altra, mi fermo ad aiutarli a rammendare le loro
reti. Ho accumulato un pò di soldi nel mio libretto postale, altri
mi vengono dalla pensione della Marina. Con Nunziata incassiamo un
piccolo stipendio per la custodia della scuola. Anche se la casa
dove abitiamo non è di nostra proprietà, ma appartiene al comune,
ho un contratto firmato dol sindaco locale che ci garantisce
alloggio gratis vita natural durante. Ho il mio orto da coltivare, gli
animali da accudire, i miei cinque figli che, malgrado qualche
incomprensione, mi vogliono ancora bene e mi vengano a trovare insieme a
voi, i nipotini, tutti gli anni. Io mi sento soddisfatto di quello
che sono e di quello che sono stato, anche se
ora morirò, non m'importa niente, perchè so di morire sereno".
Ero rimasto ad ascoltare queste toccanti parole di mio nonno, che mi
aveva sempre affascinato per la sua saggezza di uomo vissuto. Mio
nonno aveva affrontato la sua vita, superando problemi, senza mai
arrendersi. Era stato lui che mi aveva riferito un motto, a cui ho
sempre dato importanza nella mia vita :"Le persone ordinarie vedono
i problemi, le persone intelligenti le soluzioni, quelle speciali le
opportunità. " Il fatto di voler restare indipendente, senza contare
sull'aiuto dei figli, era la conferma della sua vita di combattente.
Anche se ora sembrava accontentarsi di una vita, in apparenza,
monotona, diversa da quella precedente, che era stata più
avventurosa, ed appariva sereno, sono sicuro che al suo interno
batteva ancora un cuore di guerriero.
Mio nonno Giuseppe, aveva sempre avuto con suoi i figli aveva un
carattere autoritario, tanto che quando si rivolgevano a lui
dovevano dargli del "Vossia". Con me invece, il suo primo nipote
maschio, aveva un rapporto diverso, perchè io potevo dargli del "tu".
Ricordo che da piccolo, all'età di dieci, dicevo che da grande
volevo fare il barbiere. Per assecondarmi mia nonno si sedeva davanti ad uno
specchio, si metteva una asciugamano attorno al collo e buono,
buono si faceva tagliare i suoi capelli da me. Naturalmente mentre
tagliavo i suoi capelli con le forbici, lui mi controllava con lo
specchio e mi dava i suoi consigli. Mia madre qualche
volta stava
accanto a noi con lo sguardo preoccupato. "Lassalu fari
a tu figghiu, chissu
nu bravu varveri veni" , e mi sorrideva strizzandomi l'occhio
e facendomi capire di non preoccuparmi perchè lui era un mio
complice. Quando era ancora in Libia ed era vedovo, mio nonno
aveva trascorso un certo periodo di tempo nella nostra casa al
Lido. Una volta che avevo circa sei anni ed eravamo rimasti soli,
dopo che ero stato sculacciato da mia madre, ero caduto in un
profondo sconforto perchè pensavo che mia madre era troppo severa
nei miei riguardi. Credendo di non essere il vero figlio di mia
madre, ma un bambino adottato, mi ero armato di coraggio e gli
avevo chiesto. "Nonno, è vero che tu c'eri quando io sono nato?"
- Lui mi avevo risposto , "Certo che c'ero e mi ricordo
che avevi tanti capelli neri, tanto che mi parevi Dante
Alighieri". Io, non soddisfatto, continuavo: "Nonno, ma chi è
questo Dante Alighieri, non è mica mio padre?" "Ma no, Dante
Alighieri era un grande poeta italiano, vissuto centinaia di anni
fa, ma che aveva una lunga chioma di capelli neri proprio come
l'avevi te quando sei nato", mi rassicurava accarezzandomi i
capelli. Ero così certo che mio nonno mi avesse detto la verità che
mi rasserenavo subito. Per mia fortuna crescendo questo dubbio
infantile mi è passato.
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