Il rione del Lido

Ricordi tripolini

di Domenico Ernandes

 

Capitolo 1°

Leila, la fattucchiera e la pianta di Tripoli

 

La sera del 3 aprile del 2006,  dopo aver appreso dalla televisione la notizia sulla condanna a Vanna Marchi, alla figlia Stefania Nobile ed al «mago» Mario Pacheco Do Nascimento,  mi è venuto in mente un episodio, legato al mondo della pratica magica, che mia madre mi raccontava  quando ero piccolo. La notizia mi faceva riflettere sui tempi che cambiano, sulla tecnologia che avanza, sul benessere sociale che, se pur a macchia di leopardo, sta migliorando, e che, nonostante tutto, le debolezze e le paure irrazionali umane, congenite nell'uomo, permangono ancora tutte. Nel passato sono esistite, anche sotto forme diverse, tante persone come Vanna Marchi ed il suo mago, che hanno plagiato ed imbrogliato altre persone deboli ed ingenue. Ritengo che nel futuro le cose non cambieranno e, forse con sistemi e modalità diverse, continuerà a succedere la stessa cosa. Sembra essere una regola connaturata nel nostro DNA umano, dalla quale non riusciamo  assolutamente a liberarcene. Secondo questa regola i nostri nipoti continueranno a ripetere pedissequamente per i secoli a venire gli stessi errori che sono stati commessi anche dai loro genitori e dai loro nonni nel presente e nei tempi passati. 

Anche mia madre considerava se stessa una vittima della manipolazione di persone di questo tipo. L'episodio che mi raccontava era avvenuto a Tripoli, proprio nel rione del Lido, nel 1944, quattro anni prima che io nascessi. Mi diceva che, dopo sposata, aveva cominciato a soffrire  spesso di forti coliche, che a detta dei medici che aveva consultato, erano dovute a dei calcoli  formatisi nella sua cistifellea. La diagnosi di questi medici era corretta, il vero problema consisteva nel fatto che  non riuscivano a trovare il rimedio giusto per non farla soffrire, cioè asportarli intervenendo chirurgicamente.  Purtroppo a Tripoli, in quel periodo, lo standard qualitativo della medicina ufficiale non era tra i migliori. Mia madre aveva anche un altro importante problema di carattere psicologico: era  ormai sposata da oltre sei anni e fino ad allora non aveva avuto ancora figli. Provava un certo disagio nel constatare di non poter godere della gioia della maternità, che ogni giovane sposa desidera.  Mentre mio padre era al lavoro nella sua officina, ubicata di fronte alla Stadio, a qualche centinaio di metri da casa mia, mia madre si occupava delle faccende domestiche. Molte sue amiche del vicinato l'andavano spesso a trovare a casa per farle visita e per aiutarla nei lavori di casa, specialmente nei momenti che soffriva di queste coliche. Tra queste amiche, mia madre si fidava in particolar modo di una. Questa amica si chiamava Felicetta ed abitava nella stessa palazzina, in Sciara Camperio numero 10, nell'appartamento al piano di sopra. Erano così tanto amiche che mia madre  le aveva affidato un duplicato delle sue chiavi di casa, che le potevano servire nel caso lei fosse stata colpita improvvisamente da una di queste coliche. Visto che i medici non erano ancora riusciti a trovare la cura giusta, Felicetta le aveva proposto di ricorrere ad  una anziana fattucchiera araba, che a detta della gente del luogo, era considerata anche una brava guaritrice. Questa donna, il cui nome era Leilanon si era mai sposata ed abitava da sola in una zeriba, all'interno del rione, nella zona limitrofa del Maccabi. Felicetta aveva suggerito a mia madre di non dire niente a mio padre e che tutto ciò doveva restare un segreto tra donne. Mia madre, che era ancora giovane e purtroppo anche ingenua, aveva accettato quella strana proposta e aveva tenuto mio padre all'oscuro della cosa. All'inizio era così timorosa che preferiva andare dalla fattucchiera accompagnata dalla sua amica, poi, quest'ultima, forse per non attirare troppo l'attenzione del vicinato, aveva deciso di non scortarla più. L'anziana fattucchiera vestiva tutta di nero e, contrariamente all'usanza locale, aveva dei lunghissimi capelli bianchi coperti parzialmente da uno scialle nero. La sua fronte era ampia ed i suoi occhi nerissimi, grandi e  magnetici, sembravano paralizzare le persone con il suo sguardo. I suoi lineamenti erano regolari e mostravano segni di una antica bellezza ormai cancellata dall'età. L'ambiente dentro la zeriba  era pervaso da una coltre densa di fumo che usciva da alcune pagliuzze, collocate ai lati della zeriba. Queste pagliuzze  bruciavano lentamente ed emanavano un profumo dolce ed inebriante, che piaceva tanto a mia madre. Dentro la zeriba la poca luce veniva dal tenue luccichio di alcuni lumicini, simili a quelli che si vedono nei cimiteri. Durante la seduta l'incerto tremolio di questa luce rischiarava appena il viso della fattucchiera, la quale, tenendo le braccia conserte, batteva  con cadenza i suoi piedi scalzi sul nudo  terreno della zeriba ed emetteva degli strani lamenti.  La fattucchiera non teneva nella suo zeriba pentoloni fumanti, sfere di cristallo, talismani contro il malocchio o corni rossi. In compenso aveva un repertorio che  sorprendeva i suoi clienti perchè, con grande loro sorpresa, citava loro tanti particolari che appartenevano alla sfera della loro vita privata e li stupiva nel dir loro tanti piccoli particolari di casa sua. A mia madre diceva in quale posto dell'armadio si trovasse un suo cappotto con la pelliccia o quando aveva avuto l'ultima colica o addirittura cosa ci fosse scritto nella lettera di suo cugino Fortunato, disperso in guerra, che mia madre teneva gelosamente nascosta in uno dei cassetti del  suo comò. In questa prima fase del rapporto con la fattucchiera, mia madre era stata talmente plagiata da Leila che credeva veramente che la vecchia possedesse davvero  dei poteri soprannaturali. Leila, per guarire le coliche di mia madre poneva le sue mani sul ventre e sulla parte dolorante.

Ai bordi della sua zeriba Leila faceva crescere alcune piantine necessarie per preparare i suoi filtri oppure raccoglieva quelle selvatiche nei campi limitrofi. Una volta le aveva  preparato  una pozione  semiliquida, piuttosto amara, a base di aglio e basilico,  e le aveva consigliato di berla prima dei pasti. Stranamente era anche a conoscenza del problema della sterilità di mia madre ma l'aveva rassicurata dicendole che nel suo destino c'era scritto che un giorno sarebbe diventata madre. Una  volta  le aveva dato una boccetta con un filtro che asseriva fosse magico, fatto di uno strano colore, che doveva bere solo quando c'era la luna piena. Mia madre non aveva difficoltà a capire cosa le diceva Leila, perchè aveva imparato a conoscere bene la lingua araba locale.  Le diceva spesso  che molti dei suoi problemi  venivano  dal fatto che avesse il malocchio, che lei riusciva a vedere. Si vantava di sapere come individuare subito se una persona  avesse o no il malocchio, perchè le persone col malocchio avevano attorno a sè un' aura rossastra, che li accompagnava ovunque e che lei avesse il dono di riuscire a vederla. Per toglierle il malocchio di dosso, la faceva sedere su una sedia e le stringeva  la testa con le sue mani. Poi cominciava a salmodiare delle parole incomprensibili anche in arabo, come fossero la nenia di un rosario. Le appoggiava sulla testa una rozza tazza d'argilla riempita d'acqua e spruzzava alcune gocce d'olio d'oliva sull'acqua. L'olio, essendo più leggero dell'acqua, galleggiava e assumeva delle strane forme, a cui la vecchia sapeva dare una sua interpretazione ed un suo significato. Proprio dalle forme che prendeva l'olio capiva se il malocchio veniva da una persona di sesso maschile o femminile e quale fosse la sua intensità. Per toglierle il malocchio la vecchia prendeva un grosso pugno di sale da un sacco di juta e lo metteva dentro la tazza. Andava fuori dalla zeriba portandosi dietro la tazza. Quando era fuori urlava al vento alcune parole arabe incomprensibili, poi scavava una piccola buca e vi rovesciava il liquido della tazza.  Ricopriva la buca con la sabbia e ritornava dentro la  zeriba con la tazza vuota. Prendeva un altro pugno di sale dal sacco e, con gesto rituale, lo lanciava nel vuoto  da dietro le sue spalle. Questo gesto completava la prima parte del rito contro il malocchio. Il malocchio, vero e proprio, veniva stroncato completamente solo quando Leila emetteva un suono vocale, continuo e liberatorio, tramite la sua lingua. Quando mia madre mi descriveva questa scena, sapeva imitare abbastanza bene questo suono, che  assomigliava  molto a quello che fanno generalmente le donne arabe in segno di augurio e di gioia  durante un matrimonio o una festa. Questo suono si chiama in arabo zahroutah. Dopo quest'urlo liberatorio, mia madre diceva di sentirsi meglio e anche più sollevata, come se si fosse liberata internamente da un forte peso allo stomaco. Quella volta che mia madre mi raccontava questo episodio, le avevo chiesto: "Mamma, perchè non ti facevi accompagnare da papà in quel posto? Non avevi paura ad andarci da sola?". Mia madre mi aveva risposto che prima di tutto aveva commesso il grosso errore di nascondere la cosa a mio padre e che certamente un po' di paura l'aveva sempre avuta. Inoltre era rimasta così soggiogata dal potere magnetico della vecchia che si sentiva attratta e desiderosa di  andarla a sempre a trovare. Tra l'altro mia madre riteneva che quelle pozioni, a base di aglio e basilico, che la vecchia le aveva preparato e consigliato di bere, sembravano avere l'effetto di farla a soffrire di meno. In quel periodo mio padre aveva cominciato a notare alcune stranezze in mia madre, che continuava a chiedergli più soldi per la spesa giornaliera, mentre in realtà questi soldi erano gli oboli che mia madre dava alla vecchia fattucchiera. Mio padre era troppo preso dal suo lavoro in officina e non aveva avuto il tempo per soffermarsi a considerare  quale fosse il vero motivo della richiesta di tutti quei soldi. Erano passati quasi due mesi da quando mia madre aveva cominciato a frequentare la zeriba della fattucchiera, quando finalmente venne il giorno in cui era accaduto un episodio, che aveva dato finalmente una svolta a tutta la vicenda e che  avrebbe poi risolto tutti questo groviglio di problemi. Quel giorno l'anziana Leila appariva diversa agli occhi di mia madre: era stanca e provata ed il suo volto rugoso sembrava ancora più vecchio di prima. Durante il solito rito contro il malocchio, la vecchia sembrava essere andata in trance. Si era rivolta a mia madre, con una voce roca e quasi maschile che non sembrava sua, e le aveva urlato in arabo di stare molto attenta ad una "rumia" (un'italiana). Questa "rumia", che abitava proprio  vicino a lei, era posseduta dal diavolo (in arabo shatan). Mia madre sul momento non aveva compreso cosa la vecchia volesse dire con quelle strane parole legate al diavolo. Inoltre si era molto impressionata per quello strano tono di voce che usciva dalla bocca della vecchia,  che sembrava più un tono di voce maschile che femminile. Finito il rito mia madre se ne era tornata a  casa piuttosto confusa e per la prima volta dubbiosa. Poi, come se si fosse svegliata da un profondo torpore, aveva cominciato a riflettere su ciò che la vecchia le aveva detto e contemporaneamente aveva cominciato ad intuire che cosa intendesse dire in realtà. Ora che la sua mente si era liberata da un velo che copriva tutta la verità, capiva perchè la vecchia sapesse tante cose su di lei. Per prima cosa aveva iniziato a sospettare che Felicetta, avendo il duplicato delle chiavi di casa che le dava libero accesso, non faceva altro che curiosare tra le cose di casa sua per  riferire tutto alla fattucchiera. Colta da questi contrastanti sentimenti e da questi dubbi, mia madre si era decisa finalmente a confessare a mio padre l'intera faccenda. Gli aveva chiesto  perdono per aver nascosto per così tanto tempo la verità. Lui, che le voleva bene e che conosceva la sua giovanile ingenuità (tra mio padre e mia madre c'erano dieci anni di età di differenza), l'aveva dapprima perdonata e poi consolata. Inoltre mio padre, che per indole non era un litigioso, non voleva intervenire direttamente in una questione tra donne. Aveva solo suggerito a mia madre di pazientare. Anzi prima di rovinare un'amicizia, doveva essere completamente sicura di questi sospetti, cogliendola sul fatto. Cosa che in effetti avvenne. Mia madre, qualche giorno dopo la sua confessione a mio padre, aveva sentito bussare alla sua porta. Avendo capito che era Felicetta non le aveva intenzionalmente risposto. Malgrado Felicetta continuasse a bussare ed a chiamarla, mia madre aveva seguitato a non rispondere e silenziosamente si era chiusa a chiave nel bagno. Felicetta aveva continuato per qualche minuto a bussare alla porta e a chiamare mia madre, poi convinta che in casa non ci fosse veramente alcuno, era entrata, usando il duplicato delle chiavi in suo possesso. Una volta dentro, forse per maggiore precauzione, aveva continuato a chiamarla, ma mia madre imperterrita non le rispondeva. Felicetta, sentendosi ormai sicura di essere sola in casa, aveva cominciato a rovistare nei cassetti del comò della camera da letto. Sentendo i rumori  dei cassetti mia madre era uscita di soppiatto dal bagno e aveva colto Felicetta sul fatto, come una ladra sorpresa nell'atto di rubare. Vedendo mia madre, Felicetta era sbiancata in viso; ormai convinta che in casa ci fosse solo lei. Era rimasta quasi paralizzata dalla sorpresa, e mia madre, con un guizzo, ne aveva approfittato per strapparle di mano il duplicato delle sue chiavi di casa. Presa dalla vergogna, Felicetta se ne era andata via, a capo chino, senza dire una parola, confessando, con il suo atteggiamento, la sua colpa. Da allora per un bel pezzo non si erano più parlate. Dopo qualche anno avevano cominciato a scambiarsi qualche freddo buongiorno e buonasera. 

Quattro anni dopo, nell'agosto 1948, qualche giorno dopo la mia nascita, Felicetta si era presentata a casa nostra accompagnata da suo marito Giovanni Costa. Avevano portato un regalino propiziatorio  per me, il nuovo erede maschio, e si erano congratulati con i miei genitori per il lieto evento. Poi Felicetta, sciogliendosi in calde lacrime, aveva abbracciato mia madre e le aveva chiesto scusa per tutto quello che era successo tra di loro in passato. Da allora mia madre e Felicetta si erano rappacificate e negli anni successivi i miei genitori avevano cercato di dimenticare quel negativo episodio successo anni addietro. Personalmente ho un ricordo positivo di Felicetta e di suo marito Giovanni. Per me sono sempre stati una coppia simpatica. Non avevano figli e mi portavano spesso dei giocattoli in regalo. Uno di questi apparteneva a quella categoria dei giocattoli dell'infanzia che non si dimenticano mai. Era una trottola, tutta disegnata con delle stelle, degli scoiattoli e degli strani omini, che quando girava emetteva il suono di una sirena. Felicetta mi prendeva spesso fra sue braccia come fossi suo figlio, come si vede in alcune vecchie fotografie. Io penso che lo facesse per supplire al fatto che loro che non avevano figli.  Giovanni Costa, suo marito, era un uomo semplice e bonario. Aveva dapprima gestito  il  Bar Apollo, che si trovava in centro città, in Sciara Ar-Rashid,  una larga strada perpendicolare a Corso Sicilia, proprio di fronte a quel palazzo che veniva chiamato da tutti il Colosseo, per la sua forma tondeggiante. Poi, insieme alla moglie, aveva acquistato per un certo periodo di tempo uno dei due generi alimentati presenti nel rione del Lido. Con i loro risparmi, Giovanni e Felicetta avevano acquistato una porzione di villetta con giardino ed un albero di fico, a Collina Verde. Spesso con i miei genitori andavamo a trovarli per fare insieme un picnic all'aria aperta.

Una volta avevo chiesto a mia madre perchè una persona, che io consideravo buona come Felicetta, potesse essere stata un tempo così cattiva. Mia madre mi aveva risposto che Felicetta in realtà non era cattiva, ma in quel particolare momento, circa quattro anni prima,  era stata posseduta dal diavolo. Mia madre credeva al diavolo e la  giustificava perchè era convinta che Felicetta si fosse comportata male indipendentemente dalla sua volontà. Quando aveva commesso quelle brutte cose  non era stata veramente lei a farle, ma il diavolo. Quando parlava del diavolo sapevo che io avevo un po' di paura e così aggiungeva  che io non avevo motivo di preoccuparmi perchè ormai tutto era tornato ad essere tranquillo. Secondo mia madre tutta quella vicenda si era risolta  bene, grazie alla sacra intercessione  di Santa Rita da Cascia. Lei si rivolgeva con devozione a  questa Santa, protettrice dei casi difficili ed aveva sempre pensato che, attraverso le sue preghiere, la Santa era intervenuta con forza benigna su questa vicenda. La Santa con il suo potere divino, superiore ad ogni altro potere, anche quello del maligno, aveva costretto la fattucchiera a parlare e a svelarle  la verità. Poi quella spiacevole vicenda si era sistemata da sola. 

Da grande e con più esperienza ho sempre giudicato mia madre come una persona buona ma anche ingenua, che credeva, in maniera esagerata, nella bontà del prossimo, senza alcuna discriminazione. Quando era in vita non  ho mai osato contraddirla in questa sua filosofia, che io non ho mai condivisa e continuo tuttora a non condividere. Per esempio, l'effetto benefico delle pozioni di basilico ed aglio  sulle coliche di mia madre è scientificamente spiegabile dal fatto che le foglie e le sommità fiorite del basilico  vengono utilizzate per preparare degli infusi che hanno azione sedativa, antispastica delle vie digerenti, stomachica e diuretica, antimicrobica. Inoltre il basilico è utilizzato contro l'indigestione e come vermifugo dalla medicina omeopatica. Il consumo di aglio dà un generale senso di benessere all'organismo per la sua azione anti batterica quindi anti infettiva. Il malocchio, come la superstizione, sono antiche credenze dell'uomo, che ancora oggi lo affliggono. Forse queste credenze sono dettate dall'ignoranza o dalla paura che assale l'uomo quando non riesce a spiegare logicamente alcuni fenomeni che gli si presentano. Personalmente credo che ci sia una spiegazione razionale a tutto e quando non riusciamo a capire ci rifugiamo nel soprannaturale. Il teorema teologico del diavolo è un argomento così vasto e complesso che non me la sento di affrontare in questa sede. Credo di essere un credente, ma sono anche una persona razionale ed uno scettico all'ennesima potenza. Spero che il Signore non me ne voglia per questo mio modo di essere e che, quando verrà il mio momento,  mi accetterà  così come sono.

In contemporanea alla notizia di Vanna Marchi ho ricevuto una pianta di Tripoli per posta elettronica da un amico tripolino, Salvo Rapisarda, un pensionato con la passione del computer, che ora vive con la sua famiglia a Brescia. Salvo, agevolato dalla sua conoscenza dell'arte grafica, è stato il primo dei tripolini a costruire un sito  dedicato al ricordo dei suoi amici e agli  anni trascorsi da noi italiani  in Libia. Questo sito è corredato da tante foto, da commenti sonori  e da una varietà di racconti interessanti, scritti dai suoi amici tripolini e da lui raccolti con una grafica tecnologicamente avanzata.  Questa pianta disegnata durante il periodo coloniale italiano, quando ancora le sue strade erano denominate con i vecchi nomi italiani è stata stampata dall'Istituto Geografico De Agostini di Novara, trasformata con lo scanner in una foto in formato Jpeg. Questa foto ha anche una discreta dimensione di memoria, che la rende sufficientemente chiara e leggibile anche zoomandola, tanto che ho deciso di  inserirla come foto principale di questo periodo nella mia homepage. Ingrandendola si può notare sul bordo in basso, probabilmente sgualcito dagli anni, la scritta in inglese di un timbro che tradotto in italiano dice così: "Collezione di mappe della biblioteca dell'Università di California - USA - 31 Luglio 1978 - Alfred H. de Vries". Sulla parte in alto a sinistra della cartina c'è un'altra pianta più piccola, denominata "Tripoli e dintorni" su scala 1 a 200.000, cioè ogni centimetro misurato sulla  pianta equivale a due chilometri reali. Così , oltre a quello di Tripoli,  si possono leggere i nomi di Gargaresh, Gurgi, Ain Zara, Suk el Giuma e Tagiura e vedere i simboli delle Carovaniere, dei Cimiteri, dei Punti d'acqua, delle Moschee e dei Marabutti.  Sul resto della carta c'è stampata la pianta di Tripoli su scala più dettagliata, 1 a 20.000,  cioè che ogni centimetro misurato sulla  pianta equivale a duecento metri reali. Sul lato sinistro della carta c'è una leggenda dei posti d'interesse come il Monumento dei Caduti italiani, dell'Arco di Marco Aurelio, della Moschea di Gurgi, di quella dei Caramanli e di Sidi Hamuda, della Cattedrale, della Sinagoga, del Teatro Miramare, della Banca d'Italia, del Palazzo delle Poste , di Giustizia e quello del Governatore, del Municipio, del Grand Hotel, della Fiera Campionaria Permanente e dell'Idroscalo.

Nel  dopoguerra, esattamente il 24 Dicembre 1951, la Libia, come altri paesi africani,  arrivava ad essere indipendente con un governo di tipo monarchico ed aveva nel re Idris I Senussi il suo rappresentante. Da allora una buona parte dei nomi delle strade erano stati giustamente cambiati da quelli  dedicati alla storia italiana a quelli nuovi, che erano intitolati al giovane ed indipendente paese libico. Nel rione del Lido, così come in altri rioni di Tripoli, alcuni nomi delle vie non erano stati rimossi, tanto che, anche dopo il 1951,  si potevano ancora leggere sulle targhe delle strade ancora quelli di alcuni famosi esploratori del periodo coloniale italiano, come Manfredo  Camperio, Vittorio Bottego, Gustavo Bianchi, Arnaldo Fraccaroli, Gaetano Casati, Guido Cora e Romolo Gessi. L’unica variazione apportata rispetto al periodo coloniale  era  che  davanti al nome della via c’era scritto il nome arabo  “sciara anziché via, o "zenghet" se la strada era stretta come un vicolo. Così subito incuriosito di rileggere quei nomi, che mi riportavano indietro nel tempo con la mia memoria,  ho fatto una zoomata sulla zona del Lido. Proprio la mia zona,  quella in cui sono nato, il 26 agosto 1948, e dove ho vissuto, sempre nella stessa casa, per ben ventidue anni, fino  a quando nel 1970, noi, come tutte le famiglie italiane,  siamo stati costretti ad abbandonare Tripoli. Il rione del Lido Vecchio, venendo da Piazza Italia, poi Maidan Ashiuhada, e percorrendo Corso Sicilia, poi Giaddat Omar el Muktar, si trovava oltre la Fiera Internazionale e veniva  così chiamato  perchè ad ovest costeggiava proprio lo stabilimento balneare del Lido Vecchio, ad est era delimitato da Corso Sicilia, a nord dallo Stadio Principale di calcio e  a sud dallo stabilimento balneare del Lido Nuovo. >>>

 

 

Capitolo 2° 

Le famiglie italiane del rione ed il mito americano

 

<<< ll rione del Lido a Tripoli, dove sono nato nel 1948 e poi vissuto per ventidue anni, era abitato da circa una settantina di famiglie italiane. La maggior parte di esse apparteneva  al ceto medio della comunità italiana residente a Tripoli. Quasi tutte erano giunte in Libia nei primi anni venti e più della metà provenivano dalla Sicilia e dal Veneto. Ciò lo si può verificare analizzando  uno ad uno le origini di questi nomi. Alcune di queste coppie, che formavano una famiglia, erano chiamate miste solo perché a sposarsi erano state due persone che provenivano da due regioni italiane  diverse. Questo fatto era considerato allora un esempio di cambiamento e di trasgressione  rispetto a quella che era la comune usanza di quei tempi. Il detto: moglie e buoi dei paesi tuoi è l’emblema della mentalità di quel periodo. Il resto delle altre famiglie veniva dalla Calabria, Lucania, Puglia,  Campania, Toscana, Emilia e Romagna. 

La mia famiglia era formata dai miei genitori e da me, figlio unico. I miei genitori era entrambi siciliani: mio padre si chiamava Giuseppe Ernandes ed era nato a Favignana, un’isola delle Egadi e mia madre Francesca Salmeri invece era nata a Marsala. Entrambi i paesi sono  in provincia di Trapani. Favignana fa parte delle Isole Egadi, mentre Marsala è famosa per lo sbarco dei Mille e per il suo vino. I miei genitori hanno vissuto per tanti anni, ancora prima che io nascessi, con  queste famiglie italiane nel tranquillo rione del Lido, in Sciara Manfredo Camperio. Sembra che, dalle ultime informazioni pervenutemi, ora questo rione di periferia non esista più. Ho avuta questa conferma qualche anno fa, visitando on line su internet il programma Google Earth. Fonti attendibili dicono che qualche decennio fa questo rione sia stato raso completamente al suolo ed oggi al suo posto sono state costruite nuove case e nuove strade. Proprio per questo motivo dedico questo articolo al ricordo di queste famiglie ed ad alcuni personaggi, probabilmente oggi scomparsi. Proprio loro, anni addietro, hanno partecipato alla vita di questo rione e  hanno contribuito con le loro azioni a lasciarmi alcuni meravigliosi ricordi della mia infanzia.

Cito i nomi di queste famiglie in stretto ordine alfabetico: Aharonian (di origine armena), Altomare, Annino, Arena, Avola, Badalucco, Barabani, Basile, Bellodi, Berardi, Bessi, Bordiga, Braga, Branciamore, Calandra, Cannucci (diverse famiglie), Capuana, Carbone, Casadio, Cassar, Cassarino, Chiarelli, Cicero, Ciciliano, Costa, Covato, Cristoforo, Cubisino, D’Alba, D’Agostini, D’Amico (anche loro diverse famiglie imparentate tra loro), D’Anna-Veri, De Marchi, Durano, Frisone, Galea, Gallo, Gaudio, Greco, Guarrasi, Imperatore, Infantolino, Lenci, Longo, Mariotti, Marra, Martines, Mazzocca, Montalbetti, Montale, Moschetti, Nobile, Nuzzo, Palazzolo, Paolillo, Pipitone, Piva, Pozzati, Presta, Rossi, Russo, Salemi, Sanfilippo, Santagati, Sapuppo, Schembri, Sciuto, Scolari, Spallina, Spera, Taliana, Teodoro, Trapani, Zocco e naturalmente Ernandes. Probabilmente avrò dimenticato di scrivere qualche cognome e me ne dispiace. Se qualcuno leggendo queste righe me lo facesse notare, gliene sarei veramente grato. Dopo vari anni  di stretta vicinanza, oltre che a conoscersi, per nome o  di vista, erano sorti dei legami di vera amicizia e sincera affezione con alcuni di loro. 

Tra la mia famiglia e quella degli  Zocco, dei Badalucco e dei Salemi si era venuta a creare un particolare legame di reciproca simpatia. In alcune domeniche invernali, quando il tempo era bello, la famiglia Salemi, composta dal marito Michele, da sua moglie Anna, e da due figli Corrado e Mario  ci invitavano a fare un giro nella loro macchina, una  Hillman  bianca e rossa. La macchina la guidava il signor Michele (Emilio per gli amici) e generalmente eravamo in cinque: io con i miei genitori ed i due Salemi. I loro due figli Corrado e Mario, più grandi di me di circa sei anni, erano liberi di andarsene in giro con i loro amici. Io, che allora avevo appena 10 anni, invece ero costretto a stare insieme ai mio padre e mia madre. Nel pomeriggio quando si partiva con la loro macchina, andavamo in alcuni posti di interesse vicini a Tripoli. Ricordo Zavia e Sorman. A proposito di Sorman ho letto su una rivista di attualità che ultimamente  vi è stato girato un film intitolato Le Rose del deserto. Il film è stato diretto dal famoso regista italiano Mario Monicelli con gli attori Michele Placido ed Alessandro Haber. Il romanzo che ha ispirato il film è stato quello di Mario Tobino, Il deserto della Libia. Alcune volte andavamo nella vicina Tagiura per cenare, con pizza ed olive siciliane, nel rinomato locale del Signor Moncada. Se invece partivamo al mattino presto e vedevo mia madre indaffarata a preparare un pranzo speciale per un picnic, ciò significava che quel giorno la nostra gita in macchina aveva una  destinazione più lontana. Se gli adulti decidevano di andare verso ovest significava che la nostra meta ultima era Sabrata, se invece si andava verso est, voleva dire visitare, Leptis Magna. Sia mio padre che il signor Salemi amavano ritornare a visitare queste due antiche e interessanti città romane. Molti lettori tripolini sicuramente avranno visitato, anni addietro, sia Sabrata che Leptis Magna, famose per le loro statue e per alcune costruzioni rimaste miracolosamente indenni attraverso i secoli, ma in questa sede preferirei non dilungarmi nel descrivere la loro inestimabile bellezza, fiore all'occhiello del turismo libico.  Se si andava verso sud, all'interno del paese, quindi dalla parte opposta al mare, i luoghi che visitavamo erano generalmente Tarhuna e Garian. A Garian esisteva allora una costruzione,  utilizzata durante l'ultima grande guerra dalle autorità tedesche per rinchiudere alcuni prigionieri di guerra della parte avversa. Su un muro all'interno del campo era rimasto disegnato un murales, che raffigurava una donna nuda, che veniva chiamata la Lady of Garian

La parte superiore del corpo della donna, sdraiata su un lato, era stata disegnata simile ai contorni geografici della costa nordafricana. In alcuni punti salienti delle parti anatomiche della donna erano segnati i nomi di alcuni città del Nord Africa. Si dice che a disegnare questo murales fosse stato un prigioniero americano, un certo Clifford Saber, che si era proposto come autista volontario con l'ottava Armata Britannica. Lo stesso Saber, durante il lungo periodo di prigionia si dilettava  a tenere su il morale dei suoi commilitoni, disegnando i loro ritratti. Dopo il suo ritorno in patria si era anche affermato come un pittore di grande talento.

Oltre che con i Salemi, altre volte ci riunivamo, dopo cena, a casa della famiglie Zocco o Badalucco. Si facevano quattro chiacchiere, si trascorreva in buona compagnia una serata tranquilla e, nelle serate calde, si beveva della birra ghiacciata o del tè freddo alla menta, prima di andare a dormire. Durante la stagione estiva, una volta alla settimana, sempre dopo cena, ci davamo appuntamento, all'angolo di Sciara Camperio con Corso Sicilia, per andare a vedere la proiezione di un film  in un cinema all'aperto. Avevamo solo l'imbarazzo della scelta perchè c'erano ben tre cinema ubicati non lontano da casa nostra. Il cinema più vicino al nostro rione era quello dentro lo stabilimento balneare del Lido Nuovo, sul lato destro dell'ingresso. Peccato che la sua apertura sia durata così poco, poichè è rimasto in funzione solo per un paio di anni. Un altro cinema, il Rivoli, era ubicato in Corso Sicilia, subito dopo la Fiera, quasi di fronte al Palazzo Tascone. Il terzo cinema, l'Astra, stava in Sciara Canova, una traversa delimitata tra Sciara Michelangelo e Sciara Giotto. Il Rivoli era il cinema che frequentavamo con più assiduità, perchè proiettava, in “prima visionesul circuito tripolino, film romantici come  "Poveri ma belli", con Renato Salvatori, Lorella De Luca, Alessandra Panaro, Maurizio Arena e Marisa Allasio, quelli della fortunata serie  della "Principessa Sissi" con Romy Schneider, quelli strappalacrime come "Marcellino pane e vino", interpretato dal piccolo Pablito Calvo o i film western, che vedevano come principali protagonisti John Wayne ed Glenn Ford. Si arrivava  a piedi sino al cinema Rivoli in meno di mezzora. Parlando e scherzando perdevamo la cognizione del tempo ed il tragitto ci sembrava breve. Al termine della proiezione dei film, specialmente quando l'ora era tarda, ci prendevamo il lusso  di tornarcene a casa con le carrozze anzichè a piedi. Le carrozze tripoline erano trainate da un solo cavallo con un  cocchiere seduto a cassetta e si distinguevano per le loro colorazioni brillanti. Alcune carrozze sostavano in corso Sicilia, proprio di fronte all'uscita del cinema, in attesa di clienti. Prima di salire in carrozza, dovevamo aspettare che avvenisse  la solita contrattazione del prezzo della corsa tra il cocchiere e mia madre, che parlava e capiva la lingua araba molto bene. Trovato l’accordo sul prezzo ci accomodavano sul comodo sedile di pelle sul lato posteriore della carrozza. Se il tempo era bello il tetto della cappotta restava completamente giù, altrimenti se pioveva o tirava vento, il cocchiere lo tirava su e noi eravamo parzialmente riparati dalla cappotta.

Il mercoledì era il giorno della settimana  prescelto per andare al cinema, ma non era detto che si andava tutte le volte. Durante la cena del mercoledì, seduto a tavola, scrutavo il viso mio padre per capire, dalla sua espressione, se per lui era stata una dura e faticosa giornata di lavoro in officina oppure no. Quando era stanco,  come se fosse a conoscenza della mio stato d’ansia, con aria amareggiata, mi diceva  : "Mi dispiace, stasera credo che l'unico film che andremo a vedere è "La fuga del cavallo morto", che stava a significare, con mio grande dispiacere: niente cinema e tutti a letto presto. C'era poco da discutere perchè rispettavo mio padre e sapevo che il suo lavoro di fabbro era molto faticoso. Quando ero piccolo, per parecchio tempo, avevo trovato così odiosa  quella frase. In cuor mio pensavo che fosse una frase che non avesse senso, inventata mio padre. Invece  ultimamente ho scoperto che "La fuga del cavallo morto" esiste davvero. E' il titolo di un libro scritto dallo scrittore Gianfranco Manfredi, pubblicato nel 1993.

Quando in inverno i pomeriggi si facevamo miti e gradevoli qualche volta andavo a piedi  con mia madre, in compagnia della signora Ninetta Zocco, di sua figlia Rosaria, della signora Giovanna Badalucco e di sua figlia Pina, nel deposito di Barda in Sciara Cannizzaro. Questa strada iniziava a partire da Sciara Dante, dove all'angolo c'era il grande negozio di vendita di ferro di Haddad. Poi costeggiava  uno dei lati del rettangolo di gioco dello  Stadio, e prima di arrivare al Cimitero Israelitico si arrivava  al grande deposito di abbigliamento usato di Barda. Questi era un avveduto ed esperto  commerciante, che come Haddad, faceva parte di una numerosa comunità ebraica tripolina, la quale viveva in prosperosa armonia con quella italiana. All'interno del vasto deposito di Barda c'erano degli alti e voluminosi capannoni, dove erano stipati all'inverosimile migliaia di capi di abbigliamento usati, che sembravano nuovi di zecca, appena usciti dalla fabbrica. La gente del nostro quartiere accorreva numerosa per acquistare questi capi di vestiario, sopratutto perchè erano a buon mercato e non si trovavano nei negozi di abbigliamento del centro. Tutti questi capi di vestiario provenivano dalla vicina base americana del Wheelus Field. C'era blue jeans in abbondanza, così come giacconi a vento per uomini, pesanti cappotti militari, giacconi di lana per donne ed altri vari articoli di abbigliamento femminili.  Era quella l'epoca in cui tutto ciò che era americano era "beautiful", andava di moda. Non solo, ma andava di moda tutta la musica pop e country americana, le camicie, le giacche e gli stivali alla cowboy di Roy Rogers, la pettinatura di Elvis Presley col suo tipico ricciolo sulla fronte. In quegli anni l'attore comico, Alberto Sordi, con il suo celebre film Un americano a Roma, dipingeva, con pungente ironia, il vezzo degli italiani di voler imitare a tutti costi lo stile americano. Comprando quei vestiti americani da Barda noi, italiani, andavamo  a coronare una parte di quei sogni del mito americano.

Entrando in quei capannoni mi piaceva annusare nell'aria il pungente odore di naftalina sparsa sugli abiti, accatastati uno sull'altro, in un ordinato disordine. Lì incontravamo altre famiglie del Lido che erano venute come noi per fare acquisti. Mentre le nostri madri gironzolavano indecise fra i banchi in cerca di qualche capo di abbigliamento di loro gradimento, noi bambini ci divertivamo a giocare,  nascondendoci dietro quelle montagne di abiti.

Quando ero stanco di giocare, mi fermavo  ad ascoltare come avvenivano le contrattazioni tra le nostre madri e quei commessi  ebrei che si occupavano delle vendite dei capi di abbigliamento. Il dialogo che scaturiva da queste contrattazioni era formato da un linguaggio curioso per la sua forma e simpatico per il suo contenuto. Alcune donne italiane parlavano tranquillamente in siciliano, senza curarsi di essere capite,  mentre i commessi ebrei, che erano molto perspicaci,  rispondevano con un loro linguaggio, tutto particolare, che era composto da un misto di italiano scadente, con l'aggiunta di qualche parola inglese ed araba. Veniva fuori un dialogo di questo tipo. 

“Quantu voi pi chissa giacchettazza?” chiedeva una signora siciliana,  usando  furbescamente il dispregiativo per cercare di sminuire il valore del capo d'abbigliamento che voleva comprare.

 "Signova, cosa tu dive? Questa esseve bella ciacca e costave solo tvedici piastve", rispondeva il commesso, un giovane ebreo con una forte "r" arrotata e una cadenza cantilenante.

"Ma chi stai ricennu? Ma quali tririci i tririci! Ma che fa babbii? Accussì cara è?  ", lo aggrediva la signora,  ma anche se il prezzo fosse stato meno costoso la sua risposta sarebbe stata comunque aggressiva. 

"Haidunei (perbacco), signova, cosa voi? Dimmi, voi io ti vegalo la giacca? Dillo, allora io ti vegalo la giacca", piagnucolava il commesso,

 "No,no, ma quali rigalu i rigalu! Sta giacchettazza pi mmia vali mancu cincu piastre. Chi li voi cincu piastre? " la signora rilanciava la sua offerta per quella giacca con una cifra ridicola e molto inferiore al suo reale valore.

"Cosa? Tu schevza, signova? Haidunei, ti giuvo io ci pevdo." rispondeva l'altro  con aria afflitta e rassegnata.

"Iamuninni, nun ciaiu u tempu pi babbiari" e faceva finta di andarsene via. 

"Signova, non vai via. Io puro aveve piccoli filli da manteneve. Dai bvava signova, va beni novi piastve? Così tutti amici, nè io nè tu. Fifti, fifti. Haidunei, bvendi o lasci?" diceva il commesso afferrando dolcemente la signora per un braccio per non farsela sfuggire. Con quella mossa la donna sapeva ormai di aver raggiunto il suo obiettivo e continuava a  fare la gnorri "Ma chi ddici? ma chi sunnu sti fifti, fifti? Ahh! Chi ffai parli inglisi? Lassa stari ch'è mmegghiu. Vabbeni accussì. A  stu prezzu, sta giacchetta, quasi quasi, mi l'accattu."

Intanto la giacca non era più una giacchettazza, come era stata definita da lei all'inizio della contrattazione, ma, con l'affare appena concluso, era diventata una bella giacchetta. Comunque ancora prima che venissero tirati fuori i soldi dal portafoglio la sceneggiata continuava. La donna rivoltava nuovamente la giacca dentro e fuori, alla ricerca di qualche difetto, e, per sentirsi ancora più tutelata,  prima di pagare, la metteva al sicuro dentro il suo borsone. Era una gara di psicologia, a chi era più scaltro. Forse assomigliava di più ad una partita a poker , in cui tutti e due giocatori era bravi e capaci di bleffare e che in entrambi era innato il talento della contrattazione.

Per tutti noi bambini il tempo trascorreva sereno durante l’intero pomeriggio. Noi giocavamo a nascondino,  le nostri madri continuavano a contrattare a comprare, cercando di risparmiare sul prezzo. All'imbrunire, prima che facesse buio, facevamo ritorno a piedi alle nostre case. Sulla via del ritorno eravamo più numerosi che all'andata, perchè insieme al nostro gruppo se ne aggregavano altri che abitavano nel nostro stesso rione. Mi ricordo quelli come i momenti più sereni della mia infanzia. Noi piccoli eravamo felici di aver trascorso un sereno pomeriggio giocando spensierati tra di noi. Le nostre mamme si preparavano mentalmente a mostrare alle loro amiche più intime ed ai loro mariti i capi di abbigliamento che avevano appena comperato. Qualcuna già in strada si vantava di essere stata brava a trattare e di essere riuscita a ridurre il prezzo al minimo. Le più taciturne non parlavano, forse pensavano a cosa preparare per cena ai loro mariti, che tornavano stanchi dal loro lavoro.

Sia mio padre che mia madre avevano dei buoni rapporti con quasi tutte le persone del nostro vicinato. Mio padre, per sua natura, era un mite. Adottava la filosofia del "vivi e lascia vivere", partendo dal presupposto che tutti sono liberi di vivere a modo loro senza infastidire il prossimo. Mia madre si distingueva per la sua semplicità e la sua bontà  d'animo. Aveva purtroppo il difetto di fidarsi troppo di tutte le persone in genere, prendendo per oro colato tutto quello che le dicevano.

La famiglia D'Agostini abitava al pian terreno nel palazzo di fronte al nostro. Le loro finestre erano molto vicine alle nostre, perchè a dividerle  c'era solo una stradina sterrata, larga circa  sei metri, un cul de sac, una strada senza uscita. In fondo alla stradina c'era il giardino dell'abitazione della famiglia Trapani. Vedevo spesso mia madre affacciarsi alla nostra finestra per parlare con la signora Maria D'Agostini, che a sua volta le rispondeva stando affacciata alla finestra di fronte.

La famiglia D'Agostini, oltre che dalla signora Maria, era composta dal marito Adelino,  dai figli Liliana, Dorina, Aldo e Rosina Liliana era la figlia maggiore ed era sposata con Catello Imperatore, dalla cui unione erano nati Mario e Roberto. Dorina aveva sposato Pino Iavasile da cui erano nate Marisa e Nadia. Aldo Aveva sposato Anna Maria Della Rosa e dalla loro unione erano nati Sandra, Noemi e Roberto. Infine Rosina aveva sposato Franco Pasquariello e, dopo che erano emigrati in America, avevano avuto due figlie, Katia e Nadia. 

La famiglia Chiarelli abitava nell'appartamento del piano di sopra a quello dei D’Agostini.  Il  capofamiglia si chiamava Raffaele, la moglie Francesca e i figli Lucia, Paolina, Pina, Michelino, Giulietto e Silvana.  I miei genitori avevano un buon rapporto di vicinato con tutte le altre famiglie, ed in particolare con quelle degli Imperatore, dei D'Amico, degli Arena, dei Marino, dei Braca, dei Costa, dei Santagati, dei Basile,  dei Pipitone, dei Rossi, dei Cannucci che abitavano a due passi da casa nostra. >>>

 

 

Capitolo 3°

  Mabruka e la famiglia di Hamid

 

<<< Nel nostro rione del Lido abitavano anche delle famiglie libiche con cui noi, in special modo mia madre, che masticava il dialetto arabo locale, intratteneva degli ottimi rapporti di vicinato. Alcune volte, da bambino, all'età di sei o sette anni, andavo insieme a lei a prendere il tè  nella modesta ma graziosa casa di Hamid, il simpatico  custode dell’acquedotto rionale, che era a due passi da casa mia. Se era bel tempo stavamo fuori nel loro giardino, al fresco di un pergolato, mentre quando pioveva o c'era freddo si stava al caldo della loro casa. Questa era composta da  un grande monolocale, dove Hamid viveva con la sua famiglia. Appena dentro si avvertiva subito una gradevole fragranza di spezie orientali mista ad un odore acre ma buono di carbonella bruciata. Il locale era una grande stanzone rettangolare piastrellato, suddiviso in due parti da un tenda colorata che scendeva dal soffitto fino al pavimento, come un separè. Da una parte c'era la zona notte, con la loro camera da letto, e dall'altra il soggiorno, dove tutti componenti della famiglia vivevano  durante tutto il resto della giornata. Qui cucinavano, mangiavano, intrattenevano i loro ospiti e lavoravano. Infatti In un angolo della locale  c'era un  telaio di legno per tappeti, con i fili dell'ordito tesi a terra, fra due pali fissati a dei picchetti. Qui dopo aver terminato le faccende domestiche le donne lavoravano al telaio creando i loro tappeti. Addossato ad una parete al muro c'era un grande divano, che era poco usato, se non nelle grandi occasioni,  al contrario di alcuni cuscini, allineati a muro,  spesso utilizzati  per rendere più confortevole  l'appoggio sul pavimento, che era quasi tutto coperto da varie piccole stuoie di paglia intrecciata. Il bagno, con  il vaso alla turca, era un piccolo stanzino esterno alla casa. A questo rito del tè, oltre ad Hamid, erano presenti sua moglie Salma, forse trentenne, i loro due figli  Freg, e Mohammed,  più o meno miei coetanei, Jamila, la sorella maggiore di Salma, con i suoi figli Hussein, e Mabruka. Tutti stavano seduti a terra su dei cuscini, con le gambe incrociate, attorno ad una basso tavolino di legno circolare. Appena entrati noi (mia madre ed io) salutavamo gli ospiti presenti con un Assalam aleikum , allora  tutti si voltavano verso di noi, e senza alzarsi si rivolgevano educatamente a noi con un segno di saluto, portando la loro mano destra sul petto e dicevano in coro Ua alikum assalam. Hamid , con un  gesto gentile della mano, ci invitava a sederci, gams, attorno al tavolino. Per ricambiare la cortesia dell'invito mia madre portava in dono una scatola di zucchero di canna, che loro usavano molto. Altre volte portava  dei barattoli di gustosa marmellata, fatta con una qualità di arance dalla scorza spessa, chiamate calabresi, che lei stessa preparava in casa.

Hamid, forse per la  mancanza di alcuni dei suoi denti davanti, sembrava più vecchio della sua età, che doveva essere attorno alla quarantina. Era un persona buona e  tranquilla, che in qualità di custode dell'acquedotto, oltre ad allo stipendio,  aveva il diritto a vivere nel locale attiguo a quella dei macchinari della centrale idrica. Mi ricordo che la sua fronte era stranamente segnata da tanti piccoli tagli fatti con la lametta da barba, che loro usavano per l'estrazione del sangue, come rimedio contro il mal di testa. Freg aveva forse un anno più di me ed era un ragazzo intelligente e spiritoso. Era sempre alle prese nel fare quiz o indovinelli del tipo "Quale animale restò fuori dall’Arca di Noè?" oppure "Qual'è quella cosa con cui è meglio non discutere tanto ha sempre l'ultima parola?". ll secondogenito Mohammed, anche se più piccolo d'età, era già in grado di disegnare dei bei ritratti. Quando era a  sedere con noi parlava poco, perchè era sempre occupato a riempire di disegni e di schizzi un blocchetto di carta. Prediligeva ritrarre  volti umani servendosi di un semplice lapis. Hussein, il cugino, aveva circa diciotto anni ed era considerato dai suoi zii un ragazzo modello; studiava con grande applicazione ed ottimi risultati come perito elettrico presso la Scuola d'Arti e Mestieri, in Sciara 24 Dicembre e prometteva di diventare un provetto elettricista. Mabruka,sorella minore di Hussein era bella e disinvolta. Anche se vestiva tutta coperta da indumenti orientali, si avvertiva, dal suo portamento,  che sotto quelle vesti ci doveva essere un corpo sodo e ben formato. Diceva di avere solo quattordici anni, ma col suo seno maggiorato  e la sua figura attraente, ne dimostrava di più. Pur vivendo in un ambiente arabo faceva trapelare una certa ammirazione per mia madre e per il tipo di vita che lei conduceva da donna occidentale. Si faceva prestare da lei alcuni fotoromanzi o riviste italiane tipo Luna Park, Sogno, Grand Hotel o Bolero, magari per guardare solo le figure, perchè la scrittura italiana non la conosceva per niente. Purtroppo in quel periodo a Tripoli per le donne arabe  gli usi e costumi locali erano piuttosto restrittivi. Infatti a loro non era permesso di comportarsi e di vestirsi nella stessa maniera disinvolta che era consentito alle donne italiane.  Sua madre Jamila  aveva i lineamenti belli come quelli della figlia, ma il suo corpo con l'età si era appesantito, tanto da diventare piacevolmente grassa. Jamila si considerava una brava cuoca. Il suo argomento preferito quando parlava con mia madre era quello sulle ricette di cucina italiane e su come cucinare quelle libiche, quali il cuscus con l'agnello o la sharba.  Nelle giornate ventose, quando  la nostra casa era sottovento rispetto alla loro, sentivamo giungere il gradevole odore della legna bruciata  e poi quello più intenso di cipolla soffritta. Allora sapevamo che Jamila aveva messo lasua pentola sul kanun. Salma la moglie di Hamid, aveva un viso con dei bei lineamenti, anche se vestita si poteva intuire un seno robusto, una vita stretta ed un posteriore largo ma sodo, da danzatrice del ventre, esattamente come piace agli uomini arabi. Quando usciva di  casa, si copriva interamente con un rdé (un barracano da donna) di lana lavorata, lasciando libera solo una piccola fessura davanti ad un solo occhio. Qui, invece,  all'interno di casa sua, lontana da sguardi indiscreti, indossava una elegante e leggera stoffa di morbida seta disegnata a strisce colorate. Il suo viso era completamento scoperto, i suoi capelli neri erano lunghi e lisci, lucidi di olio di seme di lino, i suoi occhi truccati di nero con il kohl, mentre le sue caviglie dei piedi erano tatuate con un unguento rossastro, la henna.  Portava ai polsi alcuni rigidi e rotondi braccialetti argentati, e sul petto un ciondolo con la forma di mezzaluna. Salma, accovacciata come una matrona su un grosso cuscino, presiedeva al rito del tè, (scià-hi),  del pomeriggio. Accanto a lei c'era un kanun riempito di sabbia e di carbonella accesa con sopra una barrada grande, una teiera piena d'acqua che bolliva  e di tè rosso, ben sistemata dentro la brace. Di lato c'erano  una barrada più piccola con dentro un pò di zucchero ed una grande tazza di alluminio. Entrambe le barrade erano in ferro smaltato, blù scuro all'esterno e bianco all'interno. Il kanun invece era un fornello di terracotta, delle dimensioni di una piccola pentola, alto circa venticinque centimetri e largo venti,  con dei fori a tre quarti per permettere al carbone acceso di respirare  e con tre punte sul bordo in cima, che servivano per appoggiare la pentola per cucinare.  Salma  con un mano assestava meglio la barrada grande dentro il carbone acceso  e con l'altra mano faceva vento con un ventaglio a banderuola, fatto con le palme dei datteri,  che serviva ad alimentare il fuoco.  Travasava il tè bollito dalla barrada alla tazza di alluminio, e viceversa,  da un'altezza di circa mezzo metro, per creare una densa schiuma, tipica del tè arabo.  Poi riempiva accuratamente tutti i bicchierini  dei presenti, pieni fino all'orlo. Riusciva a farlo senza mai farne travasare una sola goccia. Sembrava quasi un'acrobazia. Per loro quello era un gesto del tutto ordinario, normale, mentre per me ha ancora un fascino tanto particolare che spesso fa parte integrante della mia idea di “Oriente”. Serviva sempre per prima  mia madre, che considerava l'ospite d'onore. Il primo tè che veniva servito aveva un colore molto scuro, con un sapore forte e deciso, con tanta schiuma  ma non eccessivamente dolce. I bicchieri   erano piccoli e tutti di vetro. Quando finiva il primo giro, tutti i bicchierini venivano accuratamente lavati in una bacinella già riempita d'acqua e subito asciugati con un panno. Il secondo bicchierino di tè aveva un colore intensamente più chiaro, molto ricco di schiuma, con un gusto leggermente più debole ma più zuccherato  rispetto al primo. Dopo che i bicchierini erano stati nuovamente lavati e puliti, veniva servito il terzo bicchierino di tè, con dentro delle buonissime noccioline tostate, la cacawuia.  Anche noi contribuivamo alla cerimonia sbucciando noccioline. Era compito di Hamid abbrustolirle al punto giusto dentro una padella bucherellata.  Il terzo tè, quello con le noccioline era quello che a me piaceva di più. Il solo inconveniente era che, dopo averlo finito di bere quasi tutto, alcune noccioline restavano incollate sul fondo del bicchierino  e per poterle staccare occorreva  usare le mani. Per pulirsele c'era una brocca fatta d'argilla colma d'acqua fresca, che noi italiani chiamavamo gargoletta. Ognuno versava l'acqua sulle proprie mani appiccicose del tè zuccherato, all'interno di un'ampia bacinella. Io trovavo la gargoletta così pesante che dovevo farmi aiutare da mia madre, per non sprecare molta acqua. Al ritorno a casa, molte volte  mia madre si intratteneva a parlare lungo la strada ancora con Mabruka, poichè la giovane ragazza veniva a casa nostra due volte alla settimana per aiutarla nelle pulizie domestiche. Entrambe stavano bene insieme e provavano una reciproca simpatia. Le sentivo spesso ridere e scherzare fra loro mentre pulivano la casa. Ogni tanto a tavola mia madre parlava con mio padre sulle confidenze di Mabruka.

Diceva che Mabruka era innamorata di un giovane libico, di nome Giuma, che abitava lì vicino. Purtroppo per lei,  suo padre aveva avuto una buona offerta di matrimonio da parte di una famiglia libica benestante, che non si poteva rifiutare. Questa famiglia libica voleva che il primogenito di ventidue anni, Fadi, sposasse Mabruka. A Mabruka, Fadi non piaceva perchè era basso e mingherlino e in più aveva i denti guasti ed ingialliti con un alito così cattivo che le faceva schifo avvicinarsi. Il suo amore era per Giuma, che aveva solo sedici anni, ma era forte ed aitante. Purtroppo non aveva ancora un mestiere ma era solo un misero venditore di sbule, senza soldi e orfano di padre. Mabruka sapeva che il suo desiderio di sposare Giuma non contava proprio niente contro il potere assoluto del padre Suleiman. A Mabruka non restava che sperare in sua madre, Jamila, che era la sola persona che, con le sue grazie civettuole e  femminili, teneva in pugno l'autorevole marito Suleiman. Quantunque Jamila considerasse veramente bello il giovane ragazzo, anche lei pensava non fosse conveniente  per sua figlia sposare  un ragazzo povero, molto giovane e per giunta orfano di padre. Per Mabruka  l'ultima ancora di salvezza era mia madre, che considerava una cara amica ed una preziosa confidente. Sperava di ricavare dal suo buon senso di donna più matura un consiglio utile a risolvere questa situazione così intricata. Non ho mai saputo  cosa mia madre abbia suggerito di fare a Mabruka, ricordo solo che lei, al termine di tutta questa vicenda, non sposò ne Fadi e neppure Giuma. Dopo varie tribolazioni e litigi con il padre, sposò un  altro giovane, di nome  Fuad. Questi era un bravo e posato ragazzo di ventiquattro anni, portava gli occhiali da vista,  ed aveva un'aria da intellettuale. Economicamente era discretamente sistemato perchè era diplomato ed aveva  un impiego come maestro di scuola elementare presso una scuola araba del centro città.. La regola che assegnava esclusivamente al padre la scelta  dello sposo questa volta non aveva funzionato. Questa soluzione finale pur essendo stata contraria  a tutte le regole arabe locali conosciute in fatto di matrimonio,  in un certo qual modo aveva accontentato tutti. Non c'erano state vittime,  nè vincitori nè vinti.  In questo caso specifico per arrivare allo scopo  era servite, la giovanile ostinatezza della ragazza  e la segreta collaborazione di mia madre. Come atto di amicizia e di affezione nei confronti di mia madre, ogni tanto, Mabruka  ci portava da casa sua un abbondante, odoroso e piccante piatto di cuscus, di colore giallo per lo zafferano, colmo di ceci, zucca rossa, patate e pezzetti di montone, cucinato da sua madre Jamila. Infine mi sembra giusto riferire quanto mia madre mi aveva confidato qualche tempo dopo riguardo a quanto era avvenuto alla vigilia della nostra partenza definitiva da Tripoli, nel 1970. Con sua grande   commozione,  Salma, Jamila e Mabruka erano venute a casa nostra  a salutarla ed abbracciarla  con le lacrime agli occhi. >>>

 

 

Capitolo 4°

Tipici personaggi del rione

 

<<<  Oltre alla famiglie italiane ricordo alcuni personaggi un po' particolari che bazzicavano il rione del Lido. La maggior parte di questi personaggi erano arabi , ma tra questi personaggi  c’erano pure degli italiani.

Quando avevo sette anni facevo parte di una combriccola di ragazzi del rione formato da Michelino Chiarelli, Bruno Cubisino, Franco Santagati e Aldo e Nicola Vieri, Ninni Arena, Mario Imperatore e Gianfranco Mazzocca. Quest'ultimo, il più grande d'età, si era proclamato capo-banda. Quando ci proponeva di fare delle cose audaci ma con un rischio calcolato lo seguivamo volentieri. Se invece  lanciava alcune delle sue molteplici idee bizzarre e rischiose io non gli davo retta e preferivo andarmene per conto mio. Una volta mi era capitato di prendere parte a una di queste avventure rischiose. L'obiettivo era di entrare di nascosto nello stabilimento balneare del Lido Vecchio, evitando così di  pagare il biglietto d'ingresso. Aiutandoci a vicenda avevamo fatto un buco nel rete di confine, per poterci passare. Il recinto era formato da rami secchi ricavati dalle palme di datteri, sostenute tra loro da un filo spinato. Rischiavamo di bucarci le mani e la schiena, strisciando come serpenti sulla  sabbia sotto il filo spinato, per entrare clandestinamente dentro lo stabilimento. Una volta dentro il gioco era fatto perché sarebbe stato facile confondersi con gli altri bagnanti. Quella volta eravamo in cinque e successe che le cose non andarono per il verso giusto. Il custode ed il factotum dello stabilimento era Shami, un libico alto e robusto  dai capelli neri e riccioluti, sulla quarantina, che sapeva parlare bene l'italiano. Da giovane Shami era stato, per alcuni anni,  campione nazionale libico di nuoto. Aveva anche  partecipato, con dei buoni piazzamenti,  ad alcune gare di fondo  internazionali che si erano svolte in Egitto lungo il fiume Nilo. Proprio lui quella volta ci aveva beccato mentre uno di noi era rimasto  impigliato con il costume nel filo spinato e non riusciva a staccarsi. Per solidarietà nei confronti del nostro amico non lo avevamo lasciato solo ma eravamo rimasti accanto a lui per aiutarlo a liberarsi. Purtroppo eravamo stati notati da qualcuno e da quel momento erano cominciati i nostri guai. Shami era accorso sul posto e non aveva faticato molto ad intimidirci con le sue enormi mani da nuotatore, le cui dita sembravano grosse come salsicce.  Ci aveva scortati in un locale semivuoto dello stabilimento  e ci aveva tenuti tutti e cinque bloccati per una decina di minuti bloccati dentro questo locale. Da fuori lui ci urlava che avrebbe avvertito la polizia per farci arrestare. Naturalmente non aveva fatto nulla di tutto questo ma era riuscito lo stesso ad intimidirci. Dopo una solenne ramanzina, ci aveva fatto uscire dal locale  e addirittura non aveva preteso neppure i soldi del biglietto. Da allora io non mi ero più arrischiato a riprovarci ed avevo sempre pagato il biglietto d’ingresso.

Hag Latif, era l'anziano proprietario arabo  non solo della nostra casa ma dell'intera palazzina. Davanti al suo nome, che era Latif, noi aggiungevamo l'appellativo di "Hag", in segno di rispetto. L'appellativo di Hag si dava a tutti quelli  quelli che erano stati almeno una volta in pellegrinaggio alla Mecca. Essendo ricco e proprietario di varie case e palazzi ubicati a Tripoli, si diceva che discendesse da una antica famiglia libica benestante. Ricordo che superava la settantina ed aveva un aspetto distinto. Portava una lunga barba bianca ed il suo viso aveva sempre una espressione di serenità e pacatezza. Sembrava che niente lo potesse fare agitare e raramente perdeva la sua compostezza. Indossava in maniera molto dignitosa una taghia rossa ed un barracano di lana pregiata.  Era una persona gentile, proprio come il significato del suo nome Latif,  che in arabo significa  gentile. Non solo era gentile ma anche generoso. Ogni volta che veniva a trovarci per  riscuotere l'affitto di casa, ci portava in regalo una piccola scatola rotonda di latta di alluminio con la helua, che è un dolce arabo. Altre volte ci portava un cartoccio con dentro pezzi di baklawa, un altro dolce arabo fatto a base di pasta sfoglia, mandorle, pistacchi, noci, cannella, chiodi di garofano, burro, zucchero, tanto miele e succo di limone. Mia madre lo invitava gentilmente a sedersi nel nostro salotto  per prendere un tazzina di caffè espresso, fatto con la moka, che lui accettava di buon grado. Prima di andarsene mia madre gli porgeva una busta con dentro i soldi dell' affitto mensile, che lui prendeva, senza neppure contarli.  Forse lo faceva in segno di rispetto e di stima nei nostri confronti della nostra onestà. Riponeva la busta chiusa con le banconote dentro ad un grande portafoglio, legato ad una catenina dorata che usciva dall'interno del suo ampio barracano. Contemporaneamente consegnava a mia madre la ricevuta del pagamento dell'affitto, che lui aveva compilato in precedenza.  Prima di andarsene, ci salutava in arabo con un fi-amen-Allah,  e si metteva la mano destra sul petto, come usano fare gli arabi con i loro amici.

Mohammed e Giuma, potevano avere un po' meno di venti anni e lavoravano, in proprio, nella rione del Lido. Entrambi gestivano due piccoli negozietti, una accanto all'altro, in Corso Sicilia, proprio di fronte alla Ferrovia,  confinanti col gruppo di case dove abitavano le famiglie D'Anna-Veri, Galea e Montalbetti. Mohammed, il più giovane, riparava biciclette, metteva le toppe alle gomme bucate e successivamente si era specializzato nel riparare motorini. Credo che quasi tutti i ragazzi del Lido, proprietari di una bicicletta o di un motorino, siano passati da lui per farsi riparare i freni o mettere le toppe nelle camere d'aria delle gomme bucate.  

Il secondo, Giuma, aveva il negozio accanto, che era più piccolo di un bugigattolo. Eppure con la sua fantasia, utilizzando anche un po’ dello spazio esterno, riusciva a rendere quel poco spazio  così capiente che riusciva a mettere in mostra tante cose tra cui  carbone, petrolio per lumi, spiritiere,  vari tipi di spezie orientali, zucchero, carrube e  caramelle.

C'erano altri personaggi che frequentavano il nostro rione. Alcuni di loro erano venditori ambulanti che ogni mattina percorrevano in lungo ed in largo le strade del rione cercando di vendere la loro merce, vantandone la bontà con voce tenorile. Tra questi c'era Mustafà, un uomo anziano, dal viso rugoso cotto dal sole. Aveva gli occhietti furbi del commerciante avvezzo alla trattativa. Portava una taghia rossa e sotto un bianco barracano indossava sempre un vecchio giubbotto. Erano anni che glielo vedevo addosso e a me sembrava che fosse sempre quello. Questo giubbotto, pesante e robusto, ormai liso dal tempo, era di un colore ramato, quasi simile al colore della sua pelle.  Era piuttosto difficile capire dove finiva il giubbotto  e dove cominciava il collo, tanto i colori erano così uguali. Questo giubbotto rappresentava per lui un oggetto importante nel disbrigo del suo lavoro. Esso conteneva tasche e taschini sia al suo interno che all'esterno, che lui ordinatamente aveva trasformato in scompartimenti, così che lo utilizzava come un rudimentale registratore di cassa. Sembrava quasi che alla fine della transazione potesse uscire fuori dalla sua bocca uno scontrino. Va detto che gli spiccioli era da un millesimo, due millesimi, cinque millesimi o mezza piastra, da uno  e due piastre. Dieci millesimi facevano una piastra mentre cento piastre erano una sterlina. I taschini più capienti  contenevano  spiccioli di metallo, di cui se ne serviva  per dare il resto ai clienti. Erano monete di lega bronzea, da 1, 2 e 5 millesimi, che erano quelle che valevano meno. In due altri taschini, non meno piccoli, c'erano le monete di lega argentata, da 1 e 2 piastre, di valore leggermente superiore. Le banconote minori erano le cinque piastre, le dieci e le venticinque; si proseguiva con la mezza, una, cinque e dieci sterline. All'interno del suo giubbotto c'erano altri taschini, da cui, Mustafa, come un abile prestigiatore, tirava fuori le sue monete di carta da 5, 10 e 25 piastre. Portava un copricapo, che era un'unta taghia bianca, che, a modo suo, la utilizzava come un portafoglio per tenerci le monete di carta. Forse più che un portafoglio sarebbe meglio dire una cassaforte. Prima di togliersi la taghia bianca dal capo, si guardava attorno con aria furtiva, assicurandosi che non ci fosse nessuno a guardarlo. Quando si toglieva la taghia dal capo vi inseriva o toglieva banconote del taglio più grosso,  quelle da mezza, da una sterlina e, qualche volta, anche da 5 e 10 sterline. Quest'ultime banconote erano tenute insieme da un robusto elastico, che lui legava rigidamente con tre giri. Mustafa trasportava  sul retro della sua vecchia e pesante bicicletta un piccola gabbia, a forma di cubo, costruita personalmente da lui con canne di bambù, dove era stivati dentro sette o otto polli vivi. Teneva una coffa (cesta) di paglia attaccata al manubrio, con dentro delle uova avvolte con cura in una stoffa di lana, sicuramente ritagliata da un barracano. Si fermava vicino ad una delle nostre finestre, appoggiava delicatamente la bicicletta al muro perchè non scivolasse giù, e con voce grave, da basso, diceva "Saniura, voi ova ?" Mia madre gli chiedeva sempre se le uova fossero fresche, e lui di rimando rispondeva: "Uallai (ti giuro), Saniura , ova frishhh...ki, frishhh...ki" e si metteva la mano destra sul petto ad indicare che non mentiva. Cosi iniziava il dialogo, o per meglio dire, le scaramucce,  prima che cominciasse la trattativa vera e propria  sul prezzo delle uova o dei polli. In genere lui partiva da un prezzo di dieci  e mia madre rilanciava con uno di quattro. Dopo alcune schermaglie raggiungevano un accordo non scritto, a mezza strada,  per  arrivare a sette. Tutto era bene quello che finiva bene. Mia madre  comprava qualche hara di uova (quattro uova), e due polli con uno sconto del trenta per cento.  Mustafa  vendeva la sua merce facendoci il suo onesto guadagno. Alla fine entrambi sembravano soddisfatti di come avevano condotto la loro trattativa, ed ognuno pensava a suo modo di aver appena concluso un affare. Comprare o vendere senza prima mercanteggiare era inconcepibile per la loro filosofia di vita.

Tra questi personaggi c'era anche un lattaio siciliano. Costui passava sotto le finestre di casa nostra con il suo calesse, tirato da un ronzino e carico di bidoni di latte, che vendeva col sistema del porta a porta alle famiglie del rione. Si chiamava  Michele Moscuzza e diceva di essere nato a Siracusa. Moscuzza che portava la barba incolta, i capelli spettinati e parlava solo in dialetto siciliano stritto, si comportava alla stessa stregua di tutti gli altri suoi colleghi arabi. Speso quando eravamo affacciati alla finestra di casa nostra e lo vedevamo passare col suo calesse, lui chiedeva a mia madre:"Signura Ciccina (Francesca in siciliano) chi bboli na rricotta bbona?". Mia madre, imitando il suo forte accento siracusano gli chiedeva " Muscuuu...zza, sicuru chi sta ricotta è bbona?" e lui di rimando  "Signura mia bedda, ma chi ffa, babbia? Chi pparla ammatula? Cririssi a mmia, sta manu m'avissi a ccariri, ciaiu 'na rricotta qu è a fini du munnu,". Così, alla stessa maniera  del vecchio Mustafà, anche lui si metteva la mano nel petto per ribadire che diceva la verità. Il suo latte era in effetti buono e gustoso ed in tanti quegli anni non ci aveva mai creato problemi di digestione. Sulla superficie del latte si formava naturalmente  un leggero strato di panna, tanto che, il mio amico di rione, Michelino Chiarelli, mi diceva che lui quella panna se la gustava, spalmandola zuccherata sul pane, a colazione.

Nel nostro rione c'era anche Leone Genovese, un signore veneto completamente calvo, sulla cinquantina, che, abitava con la sua famiglia in un'altra zona della città, ma che veniva per lavoro nel nostro quartiere. In qualità di tecnico era addetto al controllo diurno dell'acquedotto del nostro quartiere. Dopo il suo normale orario di lavoro, quando capitava, si arrangiava anche a fare l'imbianchino per arrotondare il suo stipendio. Genovese era originario di un piccolo paesino del Veneto, di cui non ricordo il nome e parlava un con un forte accento veneto. Una volta ogni due anni a mia madre piaceva biancheggiare la nostra casa, così quando vedeva Genovese passare sotto casa nostra  lo prenotava per tempo. "Signor Genovese, c'è l'ha un po’ di tempo per biancheggiarmi la casa?". Genovese, che era anche un buon bevitore, rispondeva: "Sicuro, Siora Franca, basta che oltre a pagarme la me daga anche on bicerin de vin". Poi aggiungeva "Mi go du santi in paradiso che me protege, uno ale San Buca e l'altro se ciama San Giovese e nissun ga de tocarmeli ". E lì giù risate. Quando rideva sembrava avesse il singhiozzo, forse perchè il suo labbro inferiore sporgeva su quello superiore in maniera anomala, tanto da assomigliare un po' a Popeye.  Leone Genovese mi stava simpatico perchè mi permetteva di prenderlo in giro per il suo nome, senza che si offendesse. Quando lo vedevo lo chiamavo col suo nome di battesimo e poi gli facevo il verso del leone. Lui sorrideva con quel suo sorriso buffo e di rimando,  emetteva  un ruggito, simile a quello di un vero leone.

Bashir faceva il fruttivendolo ambulante. Ogni mattina tirava a mano  il suo carretto colmo di ortaggi e frutta, che cercava di vendere alle donne del nostro rione. Intonava con voce da tenore la solita litania, tanto da farsi sentire da tutto il rione: "Sbaracelli, ndivia, batati, cibolli, bumudori, biselli", e "Saniura, veni fori, gumbrare, gumbrare, saniura, iu brizzu bonu, tuttu bonu". Poi, tutto ad un tratto, si vedevano le casalinghe italiane, col grembiule da cucina legato ai fianchi, sciamare fuori dalle loro case.  Si accostavano al carretto di Bescir, pronte a tastare la merce con le loro mani ed ad acquistare non senza aver mercanteggiato prima sul prezzo. Bashir per pesare la merce usava una bilancia di ferro, una basculla, con i pesi, ed un vassoio di rame per metterci la frutta e la verdura. Sapeva usare la bilancia con molta destrezza, per cui credo che barando sul peso si poteva anche permettere di fare dei buoni sconti alle massaie, che trovavano la merce di Bashir a buon mercato. Verso fine ottobre, quando ormai il ghibli era passato da poco ed  il caldo aveva già fatto maturare i datteri, considerati  il più tipico frutto libico.  Bashir li vendeva a caschi. Questi datteri, un po’ aspri di sapore  ma gustosissimi, avevano un bellissimo colore giallo tendente al rosso. Gli arabi li chiamavano bleh. Proprio questi sono sempre stati i datteri che io ho preferito e che mi piacerebbe gustare di nuovo. I datteri che si trovano oggigiorno negli scaffali dei supermercati non mi piacciono granchè perchè troppo maturi e troppo dolci.

Conoscevo un altro Giuma, un simpatico ed allampanato ragazzo, che seppur  quindicenne sembrava un adulto, perchè era molto alto. Giuma abitava in una zeriba, vicino all'officina dei D'Alba, nella zona del Lido. Sapendo che era orfano di padre e che da solo doveva mantenere la sua famiglia, mia madre gli regalava alcuni abiti smessi di mio padre. Nei pomeriggi d'estate, all'angolo di Sciara Camperio con Corso Sicilia, Giuma vendeva ai passanti, diretti alla spiaggia, le sue sbule abbrustolite sulla carbonella per solo una piastra. Era sempre indaffarato a fare qualcosa. Il suo assillo era di assistere al sostentamento della sua famiglia, formata da lui, da sua madre ed da una sorella più piccola. Nelle mattine d'estate bussava alla nostra finestra di buonora e ci mostrava il suo recipiente di latta colmo di spinosi frutti di ficodindia.   Probabilmente si era alzato all'alba ed era andato a raccoglierli in qualche campo vicino a casa sua. Dato che non era una cosa facile sbucciarli, era diventato molto esperto nell'eseguire questa operazione. Per sbucciarli utilizzava un coltello a serramanico. Era così bravo che riusciva a non farsi pungere dalle sottili ed insidiose spine della buccia dei fichidindia. "Siniur Bibbinu, saggia, saggia sta figurigna, duci, duci cumi u zuccuru", diceva nel suo stentato ma comprensibile italiano, venato da un leggero accento siciliano. Poi porgeva a mio padre un ficodindia  già pulito, come assaggio, per fargliene gustare la bontà. Mio padre era ghiotto di questo frutto che gli ricordava tanto la sua Sicilia, e nello stesso tempo aveva anche simpatia per Giuma. Senza contrattare sul prezzo mio padre si comprava tutta lattina piena di ficodindia ed aggiungeva anche una piccola mancia per Giuma. Qualche anno dopo, mio padre, vedendo che Giuma andava spesso a trovarlo nella sua officina  e lo vedeva molto interessato al suo lavoro di saldatura, lo aveva assunto nel suo organico come operaio semplice. Col tempo gli aveva insegnato a saldare ad elettrico e ad ossigeno, tanto che Giuma, che era anche un ragazzo sveglio e veloce ad imparare, era diventato uno dei migliori operai saldatori dell'officina  di mio padre.

Quando succedeva di uscire tardi dal cinema estivo all'aperto e ci capitava di prendere la carrozza del nostro amico Yusef, io ero contento. Yusef era un vecchio timido con i capelli bianchi, lo sguardo malinconico ed il  viso rugoso, cotto dal sole. Stava seduto a cassetta un po’ ingobbito e, non so per quale ragione, ogni volta che vedevo quel suo viso triste mi faceva tanta tenerezza. Con lui non c'era assolutamente bisogno  di contrattare sul prezzo prima di salire sulla carrozza, perchè si accontentava di poco. Chiedeva sempre una tariffa inferiore a quella degli altri suoi colleghi e  non sembrava molto attaccato al denaro. Al termine della corsa, dopo che mio padre lo pagava, metteva i soldi in tasca senza neppure contarli. Quando c'era poco traffico, Yusef mi permetteva, con mia grande gioia, di sedermi a cassetta accanto a lui, facendomi  tenere in mano le redini del cavallo. Lui non parlava molto se non per dare, di tanto in tanto, qualche fiacco ordine al suo anziano cavallo o per incitarlo ad aumentare l'andatura.  Ora che ci penso il vecchio Yusef, oltre ad avere lo stesso nome di mio nonno Giuseppe, aveva un paio di occhi celesti proprio simili a quelli di mio nonno. Purtroppo dopo che nel 1955 mio nonno materno aveva lasciato definitivamente la Libia  ed era rimpatriato  in Italia non avevo avuto più modo  di vederlo, ma quando vedevo Yusef era come se lo incontrassi di nuovo.

Quando ancora a Tripoli c'erano pochissimi frigoriferi  ma tantissime ghiacciaie, esisteva il mestiere, forse ora scomparso, di venditore di ghiaccio. Durante l'estate, Said, un arabo dagli occhi azzurri e e dai capelli color rame, probabilmente di origine berbera, trasportava, su un grosso carro tirato da un cavallo, pesanti blocchi di ghiaccio. Ogni blocco di questo ghiaccio aveva la forma di un parallelepipedo, lungo circa un metro e largo circa 20/25centimetri.  Il suo  robusto cavallo baio era un cavallo un po’ focoso. Said non sempre riusciva  a fermarlo con facilità. Oltre a  tirare con forza le redini e ad usare il frustino, doveva gridargli ripetutamente  "Ah... Ah... uquf  hsan!!". Il cavallo sentendo la voce stentorea del suo padrone, che gli ordinava di fermarsi, dapprima rallentava la sua marcia, scivolando per un po’ sull'asfalto cogli zoccoli, poi con un potente nitrito arrestava la sua marcia. Ancora con le redini tirate, il cavallo continuava a recalcitrare e  a battere i suoi zoccoli sull'asfalto, quasi facesse un balletto, mentre il ticchettio degli zoccoli  rimbombava con armonia sull'asfalto. Said, dopo essersi assicurato che il cavallo fosse fermo e tranquillo,  con una grossa e tagliente accetta spezzava, su richiesta dei clienti, il blocco di ghiaccio nella misurata desiderata. Poi il pezzo di ghiaccio veniva riposto nella nostra ghiacciaia per la conservazione del cibo. Una piccola parte di ghiaccio invece, dopo essere stato macinato in pezzi ancora più piccoli, veniva usato per prepararci le granite.

C’era un filo comune che accomunava questi personaggi, anche se  diversi  per le loro differenti caratteristiche fisiche e caratteriali. Questo filo comune che li univa era il loro senso di onestà ed il forte desiderio di voler lavorare e produrre. In fin dei conti era stato il loro lavoro che li aveva portati a frequentare il nostro rione. Erano diventati nostri amici e noi li rispettavamo perchè con il loro lavoro creavano un servizio utile alla comunità del rione. Non so se anche oggi esistono ancora a Tripoli quei caratteristici carretti tirati a mano con i venditori che reclamizzano a voce alta la loro merce. Forse dovrei chiederlo a Roberto Longo, che quest'anno è stato in Libia ed in particolare anche a Tripoli  insieme a sua moglie ed al suo amico tripolino De Gennis e che su questo numero dell'OASI riporta la prima parte del resoconto del suo viaggio in Libia.   >>>

 

 

Capitolo 5°

La nostra casa, vicina al mare, in Sciara Camperio n. 10

Fortunato, il soldato disperso e l'operazione alle tonsille

<<<   A Tripoli la famiglia Ernandes, la mia famiglia,  era composta da tre persone: mio padre Giuseppe, mia madre Francesca  e me, "purtroppo" figlio unico. Dico purtroppo perchè, da bambino, avevo sempre desiderato avere un fratellino con cui giocare, ma questo fratellino non era mai arrivato. Sono nato in una delle sale operatorie dell'Ospedale Centrale di Tripoli il 26 Agosto 1948. Era un mercoledì pomeriggio e mi hanno detto che faceva tanto caldo. Sul mio corpo porto ancora i segni di questo travagliato parto podalico: un leggero schiacciamento cranico ed una profonda cicatrice sul mio fianco sinistro, lasciatami dal forcipe con cui sono stato prelevato all'interno dell'utero di mia madre. I miei genitori abitavano in un appartamento al piano terreno di una palazzina, sita in Sciara Manfredo Camperio al numero 10, a circa centro metri dalla spiaggia dello stabilimento balneare che era chiamato Lido Vecchio per non confonderlo con quello accanto che invece si chiamava Lido Nuovo. In questo appartamento ci ho vissuto un po' più di 21 anni , fino al novembre del 1969, quando partii per andare a Londra. Nel 1970 poi, in seguito al colpo di stato di Gheddafi, tutti gli italiani residente in Libia furono costretti ad abbandonare ogni cosa e tornarsene in Italia.  Ma questa è un'altra storia.

Mia madre mi raccontava che ad undici mesi avevo già imparato a camminare e che a quattordici ero riuscito ad eludere la sua sorveglianza ed ero scappato da casa. Mi aveva ritrovato subito dopo lungo la spiaggia del Lido Vecchio, a pochi passi dal mare, mentre mi trastullavo tranquillamente con la sabbia sulla battigia.  Forse questo era già un segno del mio destino. Sin da piccolo ho amato il mare ed ho sempre avuto il desiderio, a livello epidermico, di starci vicino. Probabilmente saranno i miei geni ancestrali che reclamano questa mia appartenenza al mondo marino.  Mio padre mi diceva  spesso di aver scelto di abitare in questa nostra casa principalmente perchè era ubicata molto vicina al mare. Come dargli torto, considerando il fatto che anche per lui, nato a Favignana, un isola dell'arcipelago delle Egadi,  vivere vicino al mare era diventato quasi un bisogno fisico.  Del resto lo era anche per mia madre. Sia il mio nonno materno, Giuseppe Salmeri, che le famiglie dei miei antenati materni, i Salmeri e gli Anselmi  erano stati marinai o pescatori da lontane generazioni.

Sin da piccolo ho sempre provato piacere ad ascoltare i rumori del mare, il suo cullante sussurrio, ad ammirare la sua forza, a sentire la sua brezza, ad assaporare il  suo odore e a trarre un benefico influsso sia spirituale che fisico dal suo contatto. Quando entro in mare per fare il bagno  difficilmente rabbrividisco come fanno alcuni, al contrario ne provo piacere. Ho sposato Joanne, una nord-irlandese di Belfast e durante tutti questi anni insieme a lei ho trascorso una buona parte delle mie ferie in questo splendido Paese. Non mi sono mai tirato indietro quando è mi capitata l'occasione di nuotare anche nelle acque gelide del Mare del Nord. E' tradizione che il giorno di Natale,  a Newcastle (County Down), dove vivono i parenti irlandesi di mia moglie, per raccogliere soldi a scopo benefico, chi vuole può immergersi in mare. Bene io l'ho fatto.   Una ventina di anni fa, quando il mio tono muscolare era ancora in buono stato, mi divertivo a solcare le onde di questo mare  su una leggera tavola da windsurf, non lontano dalla riva.  Forse pecco di presunzione  se dico di sentirmi, in qualche modo, "un figlio del mare".  D'inverno, a Tripoli,  quando  il vento era forte ed  il tempo cattivo, dalla mia stanza ascoltavo affascinato il mugghiare del mare in tempesta. E' una musica che mi ha sempre affascinato. Quando in concomitanza del mare mosso c'era l'alta marea, l'acqua superava la spiaggia, le cabine di legno  dello stabilimento  ed arrivava quasi a lambire il cancello verde  d'ingresso del Lido Vecchio. Adiacente al cancello c'era un piccolo locale in muratura, che serviva da botteghino per riscuotere il biglietto d'ingresso allo stabilimento. Sin dai primi anni cinquanta in questo locale ci viveva un libico di nome Shami, che faceva il custode dello stabilimento.

La nostra palazzina in Sciara Camperio era simile a tante altre costruite in altre zone del centro cittadino. Anche la nostra era dipinta esternamente di bianco ed era formata da quattro appartamenti divisi due per piano, due a piano terreno e altri due al primo piano. Il tetto della palazzina era piatto e coperto da una terrazza piastrellata, grande quanto la superficie dei due appartamenti sottostanti. Questa terrazza normalmente serviva da lavanderia e  area per stenderci i panni. La nostra palazzina era stata costruita dall'impresa edile di Corrado Salemi, nonno dei miei amici Corrado e Mario Salemi, che abitavano nella villetta di fronte a noi in Sciara Camperio. I quattro appartamenti erano simili tra loro ed erano composti da due camere da letto, una sala da pranzo, una cucina, un bagno e da due corridoi, uno più piccolo e l'altro più lungo, che si univano  fra loro a forma di una "T". Il portone dell'ingresso condominiale  della palazzina era alto e pesante ed era stato costruito con un legno di noce  e verniciato di marrone scuro. Per la prima volta all’età di sei anni, mia madre mi aveva dato le chiavi del portone e, con mia grande soddisfazione, ero riuscito ad aprirlo da solo. Mentre con le chiavi riuscivo ad aprire il portone  ricordo di aver provato una piacevole sensazione, in quel momento credevo di essere diventato anch'io un adulto.

Superata la soglia del portone c'era uno spazioso ingresso condominiale dove  appoggiavamo le nostre biciclette su due lati delle pareti. In una di queste due pareti erano state ricavate due piccole nicchie quadrate, chiuse da due pannelli di legno pitturato con lo stesso colore delle pareti, in cui erano stati inseriti  i contatori della luce, del gas e dell'acqua di tutti e quattro gli appartamenti. Io sapevo che, salvo quando c'erano le letture dei contatori, gli sportelli non venivano mai aperti. Pertanto avevo utilizzato  quelle due nicchie per un mio uso privato, erano diventate il mio nascondiglio segreto. Lì riponevo le mie fionde, le mie carabattole e tutte quelle piccole cose che mia madre mi proibiva di portare in casa.  Mia madre,  forse in maniera un po' esagerata, aveva la "manìa" della pulizia e dell'igiene della casa. Tutto doveva essere pulito ed in ordine.  Anche la  porta d'ingresso del nostro appartamento era robusta anche se non tanto quanto il portone. Era stata costruita  in legno massello di castagno chiaro. Aveva due serrature esterne, mentre all'interno mia madre aveva voluto che venisse aggiunto un chiavistello di ferro per maggior sicurezza. L'appartamento era molto luminoso perchè  in ogni stanza c'era una finestra. Ogni finestra si apriva e si chiudeva  con il sistema delle persiane avvolgibili a scorrimento. Sul lato destro di ogni finestra c'era una cima piatta che scorreva sia sulla parte superiore  che su quella inferiore, distanti circa due metri e mezzo sotto su due rotelle. Tirando o allentando questa corda si apriva e si chiudeva la persiana della finestra.

Dal corridoio più lungo, che partiva dall'ingresso, si accedeva in senso antiorario alla mia camera. La stanza successiva era quella dei miei genitori. In fondo al corridoio, c'era la sala da pranzo, che si usava solo nelle occasioni speciali, come quando alcune domeniche avevamo degli ospiti a pranzo, a Natale e a Pasqua, altrimenti generalmente noi tre pranzavamo e cenavamo in cucina. A seguire c'era la porta del bagno e poi c'era il corridoio più piccolo.  In fondo a questo corridoio c'era una finestra, mentre a metà circa si accedeva alla cucina. Questo piccolo corridoio ha sempre rappresentato per me qualcosa d'importante, tanto che a volte me lo sogno ancora. Da piccolo, quando i bambini credono ancora alle favole,  mio padre mi aveva aiutato a fare un piccolo buco (circa due centimetri di diametro) con un cacciavite nella parte di questo corridoio. Questo buco nel muro serviva da ricettacolo per i miei dentini.  Ogni volta che mi cadeva un dentino lo raccoglievo e lo mettevo lì dentro. I miei genitori mi avevano detto che  San Nicola, il Santo protettore dei bambini,  (San Nicola è un santo protettore di tante cose), portava via il mio dentino, lasciando al suo posto qualche soldino. Quando mettevo il mio dente dentro quel buco recitavo  questa filastrocca ad  alta voce :"Santo Nicòla, Santo Nicòla, u mmi santu cu l'aeròla,  pigghiati i denti, tutti cadenti, portami sordi e teniti i denti". Era una piccola filastrocca siciliana in rima che mi aveva insegnato mio padre e che forse se l'era inventata lì per lì. Recitare questa filastrocca era importante perchè serviva per ringraziare il Santo e fargli ricordare di portare dei soldi al posto del mio dentino. Ricordo come ero felice quando, svegliandomi al mattino, al posto del dente, trovavo il mio soldino! Nominavo San Nicola anche quando vicino a me vedevo una coccinella. Allora recitavo un'altra filastrocca: " San Nicola, vola, vola, pigghiati 'u pane e vattinni a scola",  e soffiandoci sopra  volevo che la coccinella volasse via libera nell'aria.

La nostra cucina non era  molto grande, però c'era uno spazio sufficiente per un tavolo, tre sedie, un frigorifero. C'era anche un armadio laccato di bianco con una vetrina,  dove riponevamo i bicchieri, i piatti, le pentole, le padelle e tutte le stoviglie. C'erano dei fornelli a gas per cucinare posati su un piano di marmo bianco, con delle leggere venature nere. Nell'angolo in fondo, sul lato sinistro della finestra, c'era un acquaio.

La mia camera si affacciava sul corridoio più lungo ed era sobriamente arredata. Nell'angolo sinistro di fronte all'entrata c'era una piccola scrivania in metallo, composta da vari cassetti. Usavo questa scrivania per studiare, per scrivere e fare i miei compiti di scuola. Accostato alla parete sul lato della scrivania c'era un armadio guardaroba  per riporci i miei vestiti, il mio impermeabile, il mio cappotto; c'erano anche due cassetti dove riponevo la mia biancheria intima. C'era un letto, un baule per i miei giocattoli, un paio di scaffali fissati al muro da mio padre,  dove riponevo i miei libri di racconti, i miei fumetti ed i libri di scuola. Sul lato opposto all'entrata c'era  una grande finestra. Da lì, affacciandomi e guardando verso destra, vedevo il mare. Il pavimento di questa stanza era formato da piastrelle quadrate, venti centimetri per venti, di color verde chiaro. Nel centro della stanza c'erano alcune mattonelle gialle, delle stesse dimensioni di quelle verdi, che formavano un rettangolo, due metri per uno. 

Fino all'età di quattro anni,  i miei genitori avevano la loro camera da letto  accanto alla mia, poi, avevano creduto più opportuno, per la loro privacy,  trasferirsi nella camera più lontana. La loro ex-camera da letto era stata trasformata nel nuova sala che fungeva da salotto e da sala da pranzo. Nel centro di questa stanza c'era un pesante tavolo di legno allungabile, color noce, che usavamo solo nelle grandi occasioni come quando avevamo ospiti a pranzo, che lei ripuliva e conservava con cura.  Il tavolo era corredato da sei pesanti sedie fatte con  lo stesso legno  e tappezzate di cuoio. Anche in questa stanza c'era una grande finestra che dava su Sciara Camperio. Su una delle pareti, quella al lato della finestra,  c'era un mobile a quattro ante, anche questo di noce, sormontato da una elegante vetrinetta, dove mia madre riponeva alcuni suoi ninnoli, Esposti, in bella mostra, nella vetrina c'erano dei sottili bicchieri di vetro, a forma di coppa, che usavamo solo per brindare nelle grandi occasioni.

Di fronte alla porta del salotto, dall'altro lato del corridoio, c'era quella del bagno, in cui c'era una vasca di dimensioni standard, un bidet, un vaso,  ed un lavandino con alla parete un armadietto con specchiera. Negli ultimi tempi mia madre aveva trovato il posto anche per una lavatrice di marca Rex. La carta igienica è stata un'invenzione del dopoguerra. Fino al 1954 nel nostro bagno  non c'era ancora la carta igienica, ma al suo posto,  attaccati al muro ad un chiodo vicino al vaso, usavamo dei pezzi di carta di giornale. Generalmente erano giornali quotidiani che avevano un tipo di carta più morbida al contattato rispetto alle riviste. Mia madre aveva il compito di squadrare e tagliare con cura i pezzi di giornale. Ogni tanto aiutavo anch'io mia madre a tagliare della carta di giornale, poi mi perdevo a guardare le figure e a cercare di leggere quello che c'era scritto.

Al termine del corridoio più grande c'era la porta della camera che per vari anni era stata la camera  da letto dei miei genitori. Questa camera era quella che aveva le dimensioni più grandi rispetto alle altre. Anche questa, come le altre, era arredata in maniera molto semplice. Il pavimento era fatto di mattonelle chiare larghe venti centimetri per venti. C'era un letto con una spalliera in legno di rovere scuro. Sopra la spalliera, appeso alla parete, c'era un quadro, che raffigurava una Madonna col volto sereno, che indossava un vestito verde chiaro, coperta da un mantello rosa, con in braccaia il bambino Gesù. Entrambi, madre e figlio, erano cinti da un'aureola in testa. Questo quadro mi dava un senso di pace e di tranquillità. Su una delle pareti c'era un comò, con alcuni soprammobili. Ricordo bene  una grossa conchiglia di mare, regalataci da mio nonno materno Giuseppe. Accanto a questa conchiglia c'era una scatola portagioie, in legno laccato, intarsiata con schegge di madreperla con dentro un carillon, con il brano musicale del Danubio Blu un famoso valzer di Johann Strauss. Sempre su questo comò c'era una statuetta della Madonna alta appena venti centimetri, fatta di granito, che cambiava colore con il cambiare delle condizioni del tempo. Era un piccolo barometro rudimentale a cui mia madre dava molta importanza. Anche il comò era fatto in legno di rovere scuro, con quattro cassettoni usati esclusivamente  dai miei genitori. Sulla parete, accanto alla porta, c'era un armadio a quattro ante, dello stesso tipo di legno del letto e del comò,  con  all'interno vari cassetti, un grande specchio ed un'asse di legno su cui appendevano i loro vestiti con delle grucce. Al lato di questo armadio, quello vicino alla finestra, sul pavimento c'era una mattonella che se uno ci camminava sopra faceva un rumore strano. Sotto questa mattonella i miei genitori ci avevano fatto un buco profondo trenta centimetri e sopra con precisione millimetrica era stata appoggiata sopra una mattonella simile alle altre. Pochi erano a conoscenza di questo nascondiglio segreto. Subito dopo la guerra erano ancora pochi a Tripoli coloro che usavano le banche per depositare i propri risparmi. Molti non si fidavano e preferivano mettere i propri soldi all'interno del proprio materasso o sotto una particolare mattonella. Quasi tutti i miei parenti portavano i loro soldi a casa nostra e li davano in custodia a mia madre, che li prendeva in consegna e li metteva dentro una busta, scrivendoci sopra  il nome del parente e poi li nascondeva nel buco sotto quella mattonella. Ricordo che questo viavai di parenti che portavano i loro soldi in casa mia è durato fino alla fine degli anni cinquanta. Successivamente per alcuni motivi, i miei genitori, come gli altri miei parenti, scelsero di depositare i loro risparmi presso il Banco di Napoli, la banca che era ubicata quasi di fronte alla Galleria De Bono. Negli anni successivi i miei genitori si erano serviti anche dei servizi bancari del Banco di Roma, che era ubicato in Piazza Italia all'angolo con Corso Sicilia.

 

Fortunato Anselmi, il soldato disperso

Nel corridoio più grande di casa mia  c'era l'impronta di un foro di un proiettile sopra la cornice della porta della camera da letto dei miei genitori. Questo foro ha una sua storia.  Ricordo che mio padre, non so se per scaramanzia , non aveva mai voluto che quella parte della parete dove c'era l'impronta di quel proiettile venisse restaurata. Voleva che restasse memoria di un fatto avvenuto anni addietro, come in effetti, con questa mia testimonianza, sta succedendo. Mia madre mi raccontava che, nel Settembre del 1942, durante la seconda guerra mondiale, un suo primo cugino della parte materna, che si chiamava Fortunato Anselmi, figlio dello zio materno Niccolò, era stato richiamato alle armi per la campagna di Russia. Alla vigilia della sua partenza per il fronte Fortunato era passato da casa loro per salutare i miei genitori, con cui intratteneva dei rapporti cordiali. Fortunato era arrivato già vestito con l'uniforme e si era portato dietro, con un sotterfugio nascondendolo sotto il suo cappotto, il suo fucile d'ordinanza, quello che avrebbe dovuto portare con sè in guerra, orgoglioso di farlo vedere a sua cugina. Tutto era successo improvvisamente. Fortunato e mia madre era nel corridoio più lungo vicino alla porta d'ingresso mentre mia madre era a pochi passi da loro. Nel momento in cui Fortunato si accingeva a mostrare  il fucile a mia madre, inaspettatamente dalla canna del fucile era partito un colpo.  Il proiettile aveva sfiorato il capo di mio padre, che si trovava a pochi passi da loro, aveva percorso i sei metri del corridoio e si era andato a conficcare sulla parete di fronte sopra la porta, creando quel famoso foro. Fortunato era rimasto sconcertato per quanto accaduto. Si era sprofondato in mille scuse e poi, tanto dispiaciuto per quanto accaduto,  se ne era  andato via con le lacrime agli occhi. Quella fu l'ultima volta che i miei genitori lo videro. Purtroppo nessuno ha mai saputo quale fine abbia fatto il povero Fortunato. La sua ultima lettera, che mia madre mi aveva mostrato, era pervenuta dalla Russia,  da Rossosch, una cittadina vicina al Don, il fiume rosso. Ecco il contenuto della lettera che diceva grosso modo così:

Rossosch (Russia), 15 gennaio 1943

Cara Franca,

                    mi sono fatto aiutare a scrivere questa lettera da un mio compagno di branda, un bravo picciotto palermitano, un certo Nicola Abbruscato, che ha studiato e che, al contrario di me,  non ha difficoltà a scrivere. Qui in Russia c’è un gran freddo, dicono che la temperatura è attorno a 30 gradi sotto zero. Di notte, per non perdere tempo e per non perdere calore, andiamo a dormire vestiti con le nostre uniformi nelle nostre brande. Purtroppo le coperte di lana scarseggiano ed anche se siamo coperti di tutto punto, il freddo si fa sentire  sempre di più. Che differenza che c'è con Tripoli, che me la sogno quasi ogni notte. Da due giorni ci troviamo a Rossosch, vicino al fiume Don. E' un mese che camminiamo sempre sulla neve e sul ghiaccio, chilometri e chilometri. Ogni giorno la nostra vita diventa sempre più dura e noi siamo tutti stanchi e con il morale sotto i tacchi. Ci hanno appena comunicato che per domani è prevista una tappa di spostamento di 35 chilometri verso est. I nostri calzini sono tutte bucati e le nostre scarpe sono quasi tutte consumate. Speriamo Iddio che durino un altro po’ perché quelle di riserva non sono ancora arrivate. Ci dicono che devono arrivare presto ma io non ci credo. La razioni del nostro rancio sono scarse. Durante le nostre marce di spostamento, quando passiamo per i campi coltivati, ci arrangiamo a raccogliere qualche carota, qualche patata o anche qualche rapa.  Chi rimane ferito è fortunato perché se ne può tornare in Italia. Un nostro compagno di Avellino, un certo Gennaro Capone, sposato con Sofia,  tiene due figli, Filomena, la più grande di due anni appena compiuti e Gaetano di pochi mesi. Gennaro, poveretto, non ha mai visto nascere suo figlio perchè è dovuto partire per la guerra due giorni prima della sua nascita. Gennaro è un bravo e coraggioso "guaglione" e vole bene alla sua famiglia. L'altro giorno, di nascosto e tutto da solo, col suo coltello si è tagliato di netto il dito mignolo della sua mano sinistra. E' andato in infermeria e con questo fatto si è fatto congedare. Sono contento per lui. A lui della guerra non gliene importa niente, il suo solo scopo è quello di ritornare a casa e di riabbracciare sua moglie, sua figlia  e di vedere finalmente il piccolo Tano, sangue del suo sangue. E pazienza per il suo dito!  Io sono ancora soldato semplice, ma il mio ufficiale superiore, un simpatico fiorentino dai capelli biondi e gli occhi azzurri, un certo Niccolò Nuti, mi ha detto di tenere duro e mi ha fatto capire che presto mi promuoverà a soldato scelto. Anche lui è un bravo ragazzo e conosce a memoria molti versi della Divina Commedia di Dante Alighieri. La sera, prima di addormentarci, per tenerci su di morale, ci racconta  alcune storie scritte da un altro scrittore toscano un certo Boccaccio. Peccato che quando parla si mangia la "c". Anche a me piacerebbe scrivere ma tu lo sai che a scuola ci sono stato poco  ed ho fatto fino alla seconda elementare.  Poi mi hanno mandato a lavorare ed ho imparato a fare il muratore. Franca, tu e Peppino, sapete che ho simpatia per tua sorella Grazzina. Du mesi fà, facendomi aiutare da Nicola, ho scritto una lettera  a tua sorella Grazzina. Finora non ho ricevuto nessuna risposta da lei. Spero che sta bene e che non gli è successo niente. L'ultima volta che l'ho vista si trovava a Zuara a casa di zia Ninetta. Le ho stretto la mano e l'ho guardata negli occhi, ma lei non mi ha voluto guardare. Parlaci anche te, dille che mi è sempre piaciuta. Quando ritorno, sempre se  lei è d’accordo, vorrei sposarla.

Un caro abbraccio a te e a Peppino

Fortunato

 

P.S.

Cara Peppino  

mi scuso con te per la fesseria che ho fatto prima di partire per questa disgraziata guerra, che purtroppo non finisce mai. Il nostro generale di brigata si chiama Gariboldi, come Garibaldi ma con la o.  Lui dice che è questione di poco tempo e poi la Russia sarà nostra. Sarà, ma da come si stanno mettendo le cose  io ci credo poco. Se anch'io come Gennaro avessi avuto un figlio avrei fatto il diavolo a quattro per tornarmene a casa.  Mi sarei tagliato tutta la mano, non solo il dito. Spero che la sorveglianza non legga questa lettera perchè saranno guai per tutti. Ma qui ormai nessuno crede a niente e nessuno controlla niente. Spero che Iddio ci aiuti!

Fortunato

Come si evidenzia in questa lettera, che mia madre custodiva gelosamente in uno dei cassetti del suo comò, Fortunato chiedeva ancora scusa a mio padre per aver commesso quella sbadataggine che poteva costargli la vita. Dopo quella lettera non ce ne furono altre, ci fu il silenzio, un silenzio preoccupante. Fortunato non ritornò mai più in Italia,  ne mai si venne a sapere se fosse sopravvissuto a quella disfatta oppure se fosse morto. Ci sono stati molti casi di soldati italiani dispersi, che presi prigionieri dai russi, avevano trovato moglie e poi si era accasati senza ritornare più in patria e per vario tempo, dopo la fine della guerra, alcuni speravano che anche per lui fosse finita così. I suoi parenti affranti avevano sollecitato varie volte ma  invano le autorità militari competenti di avere notizie sulla sua sorte. Dal fronte non c'era stata nessuna risposta, nessuno sapeva niente e a causa della guerra che continuava le notizie era frammentarie e senza certezze. Dopo alcuni anni, come migliaia di altri suoi commilitoni, il soldato scelto Fortunato Anselmi fu dato per disperso dalle Autorità Militari competenti. 

Mio padre, quando aveva voglia di scherzare, prima di entrare nella sua camera da letto, aveva preso l'abitudine di fare un piccolo salto per  toccare con una mano quel foro di proiettile. Io non ho mai capito se lo facesse per puro divertimento o per scaramanzia. Quando sono diventato più grande e più alto,  anch'io  avevo preso l'abitudine di fare un salto per toccare quel foro con la mano, nella speranza che quel gesto, che io ritenevo scaramantico,  mi portasse fortuna. 

 

L'operazione alle tonsille

Ricordo un altro episodio avvenuto nella mia casa di Sciara Camperio. Quando avevo circa sei anni ogni volta che facevo un bagno a mare mi veniva la febbre ed il mal di gola. Il nostro medico di famiglia il dottor Garaffo aveva detto che il problema si sarebbe risolto solo asportando le mie tonsille, che secondo lui erano la causa della mia febbre. Aveva indicato ai miei genitori un medico chirurgo specialista in questo tipo di operazione, di cui non ricordo il nome. Il vero problema consisteva nel fatto che avrei dovuto sottopormi a questa operazione da sveglio, senza anestesia. 

L'operazione si sarebbe dovuta svolgere alle quattro del pomeriggio a casa mia.  La mattina dello stesso giorno mia madre aveva pulito e sterilizzato  la mia cameretta da cima a fondo, in attesa che  arrivasse il chirurgo  che doveva con i suoi ferri chirurgici asportare le mie tonsille. Nelle ore precedenti all'operazione vedevo che mia madre era piuttosto agitata mentre io me stavo tranquillo a sfogliare i miei fumetti di Topolino. Data la mia età non mi rendevo ancora conto della difficoltà di quell'operazione specialmente se affrontata senza anestesia. Avevo aspettato che arrivasse il medico senza grossi patemi d'animo e poi ero contento che, una volta che mi fossero state tolte le mie tonsille, avrei potuto  continuare a fare i bagni a mare senza avere più la febbre ed il mal di gola. 

Quel pomeriggio era arrivato questo medico-chirurgo italiano con la sua borsa di cuoio, piena di strumenti che  gli sarebbero serviti ad operarmi. Questo chirurgo aveva degli occhiali con delle spesse lenti da miope. Si era messo un cerchio di ferro attorno alla fronte con in un mezzo una lampadina accesa, che mi fa ricordare le lampadine che usano i minatori quando vanno giù in miniera. Prudentemente aveva chiesto a mia madre un lenzuolo leggero per avvolgermelo tutto attorno, come fosse stata una camicia di forza.  Poi mi aveva legato con quel lenzuolo come un salame e da allora anch'io avevo cominciato a diventare irrequieto.  Mi diceva nervosamente di aprire la bocca più che potevo e di tenerla sempre aperta. Vedevo che il  chirurgo cominciava a sudare copiosamente, forse per il caldo. Sembrava che avesse un gran fretta di finire quel lavoro prima possibile. Dietro quelle lenti da miope i suoi occhi mi apparivano enormi. Credevo che il chirugo si fosse trasformato in un grosso uccellaccio pronto a ghermire  le mie tonsille con il suo becco. Con voce sgradevole e con malagrazia continuava ad intimarmi di tenere aperta la mia bocca. Mi era decisamente antipatico. Nella mano destra teneva una bisturi ed, oltre alla luce che aveva in testa, voleva che mia madre mi tenesse fermo, senza farmi muovere. Senza preavviso mi aveva  cacciato quel grosso bisturi in bocca, in maniera così violenta che mi era venuta voglia di vomitare. Mia madre guardava la scena con un viso preoccupato. Poi il chirurgo, senza pensarci due volte, con un colpo secco del bisturi,  mi aveva già asportato un pezzetto delle mie tonsille. Io, per il dolore, gettai un urlo. Sentivo in bocca il sapore dolciastro del mio sangue. Mi ero messo a piangere e istintivamente avevo chiuso la mia bocca per non permettergli di farmi altro male. Il chirurgo era sempre nervoso e mi continuava ad urlare di tenere aperta la bocca. Ora anche mia madre mi supplicava di aprire la bocca. Dal canto mio, forse per spirito di sopravvivenza, non volevo permettere che il chirurgo continuasse a tagliare la mia gola con il suo bisturi. Ora il mio sangue cominciava ad  uscire copioso dalla mia bocca. Sembrava ci fosse  un inizio di emorragia. Malgrado tenessi serrate le mie mandibole, il chirurgo aveva ritentato più volte di ricacciarmi il suo bisturi in bocca per tagliare un altro pezzo delle mie tonsille e  completare l'operazione. La cosa però non gli era riuscita. Dopo vari ed inutili tentativi se ne era andato via da casa mia, ancora più arrabbiato e sudato.  Mi aveva guardato storto ed aveva detto a mia madre che con un paziente così non era nelle condizioni di poter continuare ad operare. Quando se ne era andato da casa mia, mia madre mi aveva dato del ghiaccio che dovevo tenere con la mia lingua in fondo alla bocca, nel punto in cui quel dannato chirurgo mi aveva vivisezionato con il suo  bisturi. Ormai non lo consideravo più un chirurgo ma un macellaio di poco valore. Quell'incompetente non aveva saputo asportare  le tonsille con un colpo secco e preciso e queste dopo qualche tempo mi erano ricresciute. Quell'operazione era stata inutile. Tre anni  dopo ero stato operato sia alle adenoidi che alle tonsille da un chirurgo inglese dentro la sala operatoria della casa di cura Villa Igea, che stava vicino al Municipio. Questa volta però l'operazione era stata fatta  con un anestesia totale a base di etere e tutto era stato fatta in maniera professionale. Mi ricordo che prima di addormentarmi  il dottore anestesista, un italiano,  mi aveva chiesto di contare fino a dieci. Io ero riuscito a contare fino ad otto e poi mi ero addormentato. Mi ero risvegliato nel letto della mia cameretta con un febbrone alto. Poi, dopo pochi giorni, mi avevano dimesso perchè stavo già meglio. Da allora ho potuto fare tutti  i bagni a mare che volevo  senza più avere febbre o mal di gola. >>>

 

 

 

 

LA NOSTRA TERRAZZA

 

<<< Dall'ingresso condominiale della nostra palazzina partiva una  rampa di scale, costruita con marmo bianco venato di grigio,  che  arrivava fino in cima al pianerottolo dove era la porta di legno della terrazza. Questa porta non era grande ma aveva una serratura antica che per aprirla occorreva una chiave di grosse dimensioni, tanto che noi la chiamavamo "la chiave di san Pietro".  La terrazza copriva tutta la palazzina ed  era protetta da  un muretto  alto circa un metro e venti e spesso trenta centimetri, che correva lungo tutto il suo perimetro esterno ed era divisa in due parti uguali con un altro muretto divisorio. La nostra parte di terrazza era in condominio  con la famiglia Costa, una coppia sposata senza figli, che abitava al primo piano sopra di noi. Metà dell'altra terrazza  apparteneva alla famiglia D’Amico, composta da Pippo, il capofamiglia, la moglie Mariuccia Guarrasi, sorella del bravo nuotatore e pescatore subacqueo tripolino Pino Guarrasi, ed i figli Cettina, Ninni e Roberto, che abitavano nell'appartamento al piano terreno, proprio di fronte al nostro. L'altro quarto  della terrazza apparteneva alla famiglia che occupava l'altro appartamento del  primo piano, in cui ci avevano abitato dapprima i Nuzzo, poi i Ciciliano ed infine i coniugi Turtulici-Marra. Sandra Turtulici  era la figlia del famoso sarto tripolino Turtulici di Sciara Mizran, che vestiva la famiglia reale ed alcuni dei più importanti notabili libici e nipote di quel Casella, famoso automobilista e proprietario delle Acque Minerali tripoline "Ben Gashir".   La terrazza, che fungeva anche da tetto della palazzina, era ricoperta da un pavimento che era stato isolato  con uno strato di catrame e rivestito di piastrelle rosse. Nelle due terrazze c’erano quattro lavanderie , uno per appartamento, che servivano anche da ripostiglio. All’interno di ogni lavanderia c’era un lavatoio di granito, formato da un catino, fissato ad un piano leggermente inclinato ed ondulato, per poterci lavare e strofinare i panni. Mio padre, su insistenza di mia madre, aveva costruito degli scaffali in ferro, fissandoli ad una delle pareti, che erano molto utili per riporci tante nostre cianfrusaglie. Mia madre stendeva i nostri  panni ad asciugare all’esterno della terrazza,  appendendoli con le mollette a dei fili di ferro che mio padre aveva messo in tensione  e fissati , da una parte,  a dei ganci avvitati alla parete della  nostra lavanderia e dall’altra  a dei paletti di ferro imbullonati al  muretto della terrazza. Da lassù si godeva veramente una bella vista. Ad Ovest c'era il mare, la spiaggia del Lido Vecchio  e quello scoglio, che forse non ha mai avuto un nome e che si poteva vedere anche dalla spiaggia dei Sulfurei; a Nord-Est, si vedeva il vecchio campo di calcio del Maccabi, la fabbrica di olio di ricino e più in là lo Stadio  Centrale ed una parte del recinto della Fiera Internazionale; sul lato Est i binari della vecchia Ferrovia e a Sud-Ovest la strada che portava ai Sulfurei, a Giorginpopoli, fino a  Gargaresh. Noi utilizzavamo questa terrazza per diverse occasioni. Dopo cena, nelle limpide e calde sere d’estate, quando venivano a farci visita alcuni vicini di casa. Aprivamo le sedie sdraio per chiacchierare ed ammirare il cielo notturno illuminato da tante stelle. Nelle notti di agosto ci stendevamo, come foche, su alcune coperte distese sul pavimento, e stavamo lì, fino alle ore piccole,  in attesa di vedere passare qualche stella cadente e fare a gara a chi ne vedeva di più. Mio padre, che si intendeva un pò  di astronomia, mi insegnava a conoscere alcuni nomi di stelle e ad indicarmi la forma di qualche costellazione.  La nostra terrazza era comoda ed utile per ogni evenienza. La usavamo quando veniva il periodo di distendere ed  allargare la lana dei materassi, o quando si doveva preparare la conserva di pommarola, o quando volevo asciugare al sole i francobolli della mia collezione,  o per  le feste di compleanno, di Battesimo, della Cresima. C’era anche chi, come la  vecchia signora Casadio, che abitava nella palazzina accanto alla nostra,  utilizzava la sua terrazza per allevare piccioni.

Mi ricordo quando, nell'aprile del 1954, in occasione di quella indimenticabile grandinata che colpì furiosamente Tripoli e forse tutta la costa libica, mi trovavo con mia madre nella mia terrazza, dentro la nostra lavanderia, mentre mia madre lavava i panni. Ad un tratto sentimmo  dei colpi abbattersi sul tetto della lavanderia come fossero degli spari, mentre il pavimento della terrazza si andava riempiendo di chicchi di grandine. Riparati dentro la lavanderia  stavamo assistendo ad un evento naturale di grande interesse ed assai raro, specialmente in una zona come quella. I chicchi di grandine caduti dal cielo erano così grossi che qualcuno, forse esagerando, diceva  che avevano addirittura la dimensione di un'arancia. Non so quanti danni  questa grandine  abbia procurato alle coltivazioni o se avesse ferito delle persone , ma ricordo i  grossi buchi lasciati sui muri della nostra terrazza e sulle pareti esterne delle abitazioni vicine, come se ci fosse stato un bombardamento militare. L'anno dopo, nel 1955, in quella zona, accadeva un altro evento straordinario:  l'invasione delle cavallette. Rammento che ero salito di corsa con mia madre sulla terrazza per vedere meglio il cielo coperto da un nugolo di milioni di cavallette, così fitto da oscurare il sole. La terrazza era completamente coperta da tante cavallette, sia vive che morte e per ripararci, io e mia madre, ci eravamo messi una coperta addosso. Guardando giù dalla terrazza vedevo che alcuni ragazzi arabi che correvano indaffarati a raccogliere le cavallette morte  e le mettevano dentro alcuni secchi ed altri tutti presi ad acchiappare quelle vive, che saltellavano qua e là, per infilarle dentro dei sacchi di juta. Per vari anni a seguire si continuava a parlare di questi due episodi, quello della grandine e quello delle cavallette, come di due eventi così straordinari che quando si voleva ricordare qualcosa successa di quell'anno si diceva : "Ti ricordi l'anno delle cavallette? " oppure " Ti ricordi l'anno della grandine?". >>>

 

 

 I PRIMI RIENTRI IN ITALIA

 

<<< Negli anni '50 e '60  il modello tradizionale  delle nostre famiglie tripoline si basava sul criterio che il capofamiglia doveva procurarsi  un lavoro per il benessere economico generale mentre la moglie doveva occuparsi di governare la casa e di badare alla propria prole. Fino alla metà degli anni ’50, prima che iniziasse la frenetica  corsa allo sfruttamento del petrolio libico , l’economia tripolina ristagnava. A Tripoli ed in tutta la Libia, alla fine della seconda guerra mondiale e dopo la perdita del potere italiano sulla colonia libica, molte  cose stavano cambiando: la lingua ufficiale non era più l'italiano ma l'arabo e l'inglese, tutti i nuovi documenti erano scritti in arabo, i cartelli e le insegne nelle strade erano scritte in arabo, le targhe delle macchine portavano i numeri arabi. Alcune delle famiglie italiane, rimaste ancora in Libia, forse infastidite da questi nuovi cambiamenti, avevano deciso che era davvero venuto il momento di tornarsene in Patria,  maggiormente motivati dal fatto che il lavoro continuava a scarseggiare e che le condizioni finanziarie diventavano sempre più precarie.  In quel periodo viaggiare in aereo costava ancora troppo e inoltre fra la gente era ancora diffusa la paura di volare. L'alternativa per andare in Italia restava il viaggio in nave, che sembrava più sicuro e  permetteva di trasportare grossi bauli e  tanto bagaglio in più a minor prezzo. Queste famiglie, partendo dal molo del porto di Tripoli, si imbarcavano sull'Argentina, una delle tante navi della flotta della società napoletana Tirrenia,  che, dopo uno scalo tecnico a Malta, raggiungeva il porto di Siracusa e terminava il suo viaggio di andata a Napoli. In quel periodo la Tirrenia aveva una flotta di navi che primeggiavano in Europa per loro stazza, velocità e capacità di passeggeri, ma anche per l'introduzione di una nuova gamma di nuove sistemazioni: dalle cabine delle due classi alle comode poltrone reclinabili, che all’epoca erano considerate una novità assoluta.  Ma a solcare le onde c’erano soprattutto volti e vite di chi partiva controvoglia e piangeva, come  ragazze o ragazzi ancora giovani, che obbligati a seguire i propri genitori, lasciavano i loro fidanzati o i loro  amici col cuore infranto. Dalla nave e dal molo i pianti e gli addii si sprecavano.  Da Siracusa o da Napoli  alcune di queste famiglie si dirigevano dapprima  nei campi profughi, sparsi per tutta Italia, con la speranza di trovare una veloce sistemazione o un lavoro nella zona limitrofa. Altri, forse per presunzione, pensavano che risiedere nei campi profughi fosse per loro una cosa indecorosa  e andavano direttamente nelle case dei paesi d’origine dei loro avi, dove speravano di ritrovare, almeno per un pò di tempo, un pò d'aiuto e di simpatia nei loro parenti  rimasti in Italia. Altri ancora, come era già accaduto anni prima ai loro genitori, avevano optato di emigrare nuovamente in terre lontane, in Australia o negli Stati Uniti D’America, dove  si diceva che l'offerta di lavoro ed il tenore di vita fossero migliori di quelli dei paesi europei. Infine c'erano anche quelli che avevano deciso di trasferirsi immediatamente in alcune regioni dell’Italia settentrionale, che erano proprio agli albori di quello che fu definito il  miracolo economico italiano degli anni '60. Così in quel loro viaggio dal Sud al Nord dell'Italia si trovavano a sedere gomito a gomito sugli stessi treni che trasportavano tutti quei meridionali che, con le loro sciupate valigie di cuoio legate con lo spago, andavano anche loro in cerca di una migliore fortuna. Questo lungo viaggio in treno terminava soprattutto nell’area torinese, legata alla Fiat ed al suo indotto oppure nel comprensorio milanese. Proprio questa zona  principiava già a gremirsi di giovani fabbriche nate nel dopoguerra, grazie all’iniziativa e all’ingegno di alcuni giovani imprenditori italiani  e cominciava  ad offrire un lavoro stabile e dignitoso e a garantire un benessere economico a chi non ne aveva mai avuto.

Tra queste famiglie partite negli anni '50, contemporaneamente alla scoperta del petrolio libico, ricordo quella di mia zia Orsolina Ferrante, che abitava a Tripoli, in Sciara Tiziano  una traversa di Sciara Bramante e Sciara Puccini, vicino alla Fiera, dietro alle case operaie. Orsolina, la secondogenita della famiglia Ernandes, aveva circa dieci anni più di mio padre. Appena sposata, all'età di vent'anni,  aveva adottato ed ospitato a casa sua a Tripoli mio padre, che era rimasto orfano di suo padre alla tenera età di sette anni. Orsolina era felicemente sposata con Gabriele Ferrante, un bravo e valente pescatore. Insieme avevano messo al mondo quattro figli, nell'ordine Mimma, Rita, Domenico e Franca. Diventati adulti,  Mimma  si era sposata con Gaetano Onorio, da cui erano nati Antonio (Ninni), Gabriele (Lillo) ed Angela. Rita aveva sposato Mario Peritore ed aveva avuto una figlia di nome Maria. Domenico, unico figlio maschio, si era sposato con Luciana Cannavò, da cui erano nati Gabriele e Carlo. Infine Franca aveva sposato il dentista italo-americano Johnny Mercurio, dal cui matrimonio erano nati Peter e Vivian. Johnny , che era un cittadino  americano, aveva richiamato tutta il gruppo familiare dei Ferrante,  un pò alla volta.  Sin dall'inizio  erano andati a stabilirsi  nella ridente cittadina di Gloucester nel Massachussets, vicino dove vivevano i coniugi Mercurio, i  genitori di Johnny. C'era un legame di parentela fra le due famiglie, perchè la mamma di Johnny era una sorella di Gabriele, il capofamiglia dei Ferrante.

Vorrei parlare anche della famiglia di Gasparino Onorio, fratello di Gaetano e amico di mio padre, per un episodio capitato   a Gasparino, ma che anche indirettamente  ha influito sul corso della mia vita.   Prima di ammalarsi,  mio padre mi aveva parlato di questo particolare episodio, a cui io all'inizio non avevo dato molta importanza. Un paio di mesi prima della data del loro rimpatrio definitivo, Gasparino ed i suoi cognati Agatino Maniscalco e Nino Di Maggio,  avevano deciso che era venuto il tempo di lasciare la Libia e di ritornarsene con le loro famiglie  in Italia. Si era seduti a tavolino e con una carta geografica dell'Italia si erano messi a cercare quale  tra tutte le città italiane  potesse essere quella più adatta alle loro aspettative ed ai loro desideri. Ai voti era stata scelta la città di Bologna, che era considerata ricca e florida.  Avevano quindi deciso che prima del rimpatrio definitivo sarebbe stato meglio andare a visitare questa città, prendere informazioni su come iniziare a svolgere un'attività.  La loro idea era di gestire un ristorante o meglio ancora un bar tabaccheria. Poi dovevano anche  trovare una dimora confortevole dove abitare con le loro famiglie.  Verso i primi giorni di Dicembre 1962 erano partiti da Tripoli in aereo alla volta di Roma. Da lì aveva preso un treno per Bologna.   Arrivati alla stazione di Firenze Santa Maria Novella ,  il loro treno che, tra l'altro aveva l'impianto di riscaldamento rotto, era rimasto bloccato per due ore, a  causa della neve che aveva bloccato il passo appenninico. La stagione invernale del 1962 era iniziata con una gran freddo. La morsa di gelo e la neve, caduta abbondantemente, avevano attanagliato  in particolar modo tutte le regioni italiane appenniniche.  Abituati al mite inverno del nord Africa , Gasparino, Agatino e Nino, avevano  cominciato a sentire un gran freddo tanto che avevano deciso di scendere subito dal treno, trovarsi subito un albergo per riscaldarsi,  fare un giro per Firenze, e andare al ristorante per cenare con una bella bistecca alla fiorentina, innaffiata con un fiasco di un buon Chianti. Come è risaputo Firenze è sempre stata una bella città per vari aspetti. La mattina seguente avevano visitato la città, che era piaciuta  tanto. Al termine della giornata avevano  deciso di restare a Firenze anzichè continuare il viaggio per Bologna. Malgrado si fosse in bassa stagione non avevano mai visto così tanti turisti gironzolare per le vie del centro, mentre ammiravano stupiti ( "Oh, my God") tutti i capolavori medioevali che offriva la città. La loro ovvia conclusione era che se volevano aprire un ristorante e un bar,  Firenze, rispetto a Bologna, aveva il vantaggio del turismo, in special modo quello americano, che in quel periodo era molto ricco grazie al superdollaro. 

Tutti e tre avevano girato  la città in lungo ed in largo, avevano consultato varie  agenzie immobiliari e agenzie venditrici di attività lavorative. Al termine del terzo giorno  avevano avuto la fortuna di imbattersi in un buono affare. Pagando in contanti, somma che avevano provveduto a trasferire in precedenza,  avevano firmato un contratto compromissorio per l'acquisto  di una  gestione di un bar, ubicato in Piazza San Giovanni, proprio di fronte al Duomo. In seguito avrebbero completato l'acquisto pagandolo in cambiali con i soldi ricavati dalla gestione stessa. Dopo pochi anni avevano venduto con profitto  il primo bar e ne avevano acquistato un secondo, forse ancora più redditizzi. Questo secondo bar era il "Bar dell'Orologio", ubicato anch'esso in pieno centro storico, in Via Por Santa Maria a due passi dal Ponte Vecchio.  Via Por Santa Maria è una via di grande passaggio per il turismo fiorentino, così anche per questo secondo bar  avevano avuto successo. Nel frattempo avevano anche preso in affitto  un alloggio temporaneo  per tutte tre le famiglie in Via dei Servi. Soddisfatti per il  lavoro svolto se ne erano tornati a Tripoli, pronti a ripartire definitivamente con tutte le loro famiglie per l'Italia Italia, una volta sbrigate tutte le pratiche burocratiche relative al  rimpatrio. Il gruppo era formato Gasparino con la moglie Marietta ed i figli Ninni, Angela e Carmela. Vittoria, sorella di Gasparino, sposata con Nino Di Maggio. Maria sposata con Agatino Maniscalco. Con loro c'era il fratello scapolo Pino e la mamma di Gasparino, la signora Angela.

Mio padre, amico di Gasparino,  lo considerava una persona degna di fiducia e  pertanto aveva deciso di affidargli i suoi risparmi che teneva in una banca di Firenze, l'Agenzia A della Banca D'America e d'Italia in Via Por Santa Maria, a pochi passi dal bar. Onorio aveva invitato i miei genitori ad andarlo a trovare. Una volta giunti a Firenze,  mia madre,  dopo aver visitato il Piazzale Michelangelo e ed il Parco delle Cascine, era rimasta incantata dalla città. Mio padre era un pò titubante, perchè avrebbe preferito una città sul mare. Alla fine l'aveva spuntata mia madre e così avevano deciso di investire i loro soldi acquistando degli immobili proprio a Firenze. Mio madre cominciava già a fare progetti. Intanto le piaceva trovare un appartamento nella zona di Viale Europa, vicino alla casa degli Onorio. Secondo lei mio padre avrebbe potuto aprire una piccola officina dove poteva continuare a lavorare a ritmo ridotto  e produrre i suoi ninnoli  in ferro battuto. Lei stessa avrebbe avrebbe pensato alla vendita,  aprendo un negozietto accanto all'officina. Io potevo continuare i miei studi  e laurearmi all'Università di Firenze. Purtroppo questi progetti non si sono potuti avverare. Dopo la scomparsa prematura di mio padre le cose nella mia famiglia erano cambiate così drasticamente che tutto andava riveduto e corretto. Solo una cosa di quei progetti non era cambiata, il fatto che nel 1970, dopo il rimpatrio  definitivo mio e di mia madre  dalla Libia, eravamo andati a vivere Firenze e  ad abitare accanto alla famiglia Onorio, in Viale Europa.

Giovanni Avola e la moglie Nina , insieme ai figli Giovannino, Tina ed Emilio

avevano lasciato definitivamente la Libia nel 1953. A distanza di svariati anni, dopo averlo incontrato in Italia , Giovannino Avola mi aveva raccontato il vero motivo del loro definitivo rimpatrio in Italia. Il padre  Giovanni aveva fatto l'autista a Tripoli di grossi camion articolati, percorrendo lunghi tragitti facendo la spola tra la Tripoli ed il deserto. A bordo del camion con lui viaggiava un libico, con cui divideva l'onere del viaggio e che era  suo amico o almeno credeva che lo fosse.  Un giorno, per pura casualità, durante una discussione di politica, il collega libico gli si era rivoltato contro in maniera veemente. Costui dal suo atteggiamento, diventato improvvisamente ostile, mostrava un profondo odio nei suoi confronti. Questo era un atteggiamento che cominciava già a  manifestarsi con alcuni giovani libici, filo nasseriani, che avevano iniziato a dimostrare nelle piazze e nelle strade di Tripoli con cortei e slogan anti occidentali. Allibito ma anche spaventato per questo inaspettato voltafaccia da parte di un amico che riteneva affidabile,  la prima reazione di Giovanni Avola era stata di paura per sè e per la sua famiglia. Così aveva  cominciato a maturare l'idea di lasciare un Paese che non sentiva più essere suo. Nell'arco di poche settimane, dopo aver preso contattati con una sua sorella residente a Roma, drasticamente aveva deciso di lasciare definitivamente la Libia con tutta la sua famiglia e stabilirsi in Italia. Giunto a Roma, nell'arco di pochissimo tempo,  Giovanni era stato fortunato a trovare subito un lavoro, come autista, presso un autolinea privata e successivamente si era sistemato entrando in Ferrovia.  >>>

 

 

IL BOOM ECONOMICO DEGLI ANNI ‘60

 

<<< A partire dal 1959, considerata, quasi da tutti, come la data ufficiale  del ritrovamento del petrolio libico nella zona desertica e l'inizio delle trivellazioni, con l’arrivo delle maggiori compagnie petrolifere americane, inglesi, francesi e di varie società multinazionali , pure in Libia si cominciavano a vedere i primi segnali di nuove iniziative che furono alla base del  boom economico degli anni ’60.

Di conseguenza anche i rimpatri delle famiglie italiane cominciavano a  diminuire. Dopo tanti anni di ristrettezze economiche per tutti gli  italiani , circa trentamila che erano rimasti in Libia, si presentava finalmente una buona occasione per migliorare il loro tenore di vita ed il futuro dei propri figli. Nuovi orizzonti ed un futuro economico favorevole si aprivano per tutti coloro che avevano più talento, che erano più brillanti, che avevano nuove idee e voglia  di lavorare. Molti di questi, sperimentandosi sul terreno dell’iniziativa, delle capacità organizzative, della fantasia, del rischio e della voglia di migliorarsi, provavano a mettere in pratica il loro due sogni: essere padroni del proprio destino e fare soldi.  Nel rione del Lido Vecchio una buona  parte dei nostri padri  e dei nostri nonni erano diventati  artigiani non perchè mancasse loro l'ingegno, ma perchè erano nati in un'epoca in cui pochi avevano la possibilità economica di poter studiare. Molti  di loro, terminata la scuola elementare, quindi ancora bambini, avevano lasciato definitivamente le aule scolastiche ed, ancora con i con i calzoni corti ed una crosta di pane in mano, andavano a bottega per imparare un mestiere da quelli che un tempo venivano chiamati "maestri". Imparare bene questo mestiere era necessario perchè garantiva per il futuro loro un lavoro sicuro e dignitoso e  gli permetteva di guadagnare quei pochi soldini sufficienti  a non pesare troppo sul già gramo bilancio familiare. Altri ancora, appartenenti a famiglie più povere, erano stati obbligati addirittura ad interrompere i loro studi elementari addirittura senza terminare la quinta elementare tanto che erano capaci appena di leggere e di apporre la loro  firma. Crescendo e diventando a loro volta padri di famiglia, si erano costruiti da autodidatta una loro cultura mentre  il loro desiderio più grande restava quello che noi, i loro figli,  potessimo raggiungere quei traguardi che, per sfortuna, erano stati loro negati, e cioè: studiare,  diplomarsi , magari laurearsi, comunque fornirsi di un bagaglio di conoscenze culturali sufficienti ad affrontare la vita da una posizione meno faticosa di quella che era stata la loro. >>>

 

 

 MIO PADRE

<<< Se si dovesse parlare di persone che amano profondamente fare il loro mestiere, Se si dovesse parlare di persone che amano profondamente fare il loro mestiere, uno di questi, era mio padre Giuseppe Ernandes, chiamato dai suoi amici "Peppino". Era nato il 7 luglio  1909 a Favignana, da Domenico Lorenzo Ernandes e da Francesca Arpaia. Domenico Lorenzo, era nato a Trapani nel 1968. Da giovane si era trasferito nella vicina isola di Favignana e nel 1996 aveva sposato Francesca Arpaia, una bella ragazza di lontane origini campane, nata a Favignana, nel 1970. Da loro era nati quattro, Marietta, Orsolina, Concetta e Giuseppe, mio  padre.  Domenico Lorenzo sin da ragazzo aveva esercitato il mestiere di calzolaio, mentre nel tempo libero si dedicava a suonare il trombone nella banda musicale dell'isola, che è l'isola più grande dell'arcipelago delle Egadi. Favignana era rinomata per la sua tonnara e per l'antico stabilimento Florio, ora deve la sua fama alla bellezza delle sue coste e alla purezza delle sue acque, che danno spazio al turismo. All'inizio del 1900, quando i mari erano più pescosi, tutto il tonno che veniva pescato durante il periodo della tonnara, veniva lavorato ed inscatolato nello stabilimento Florio. La famiglia Florio, di origini calabresi,  era molto ricca. Principalmente essa esercitava il suo potere economico e finanziario per dominare l'isola. Tuttora nell'isola esiste un magnifico palazzo, che porta il loro nome, e la cui costruzione risale al 1876. La famiglia Florio non era per niente dispotica, anzi  permetteva a tutti gli isolani di partecipare in massa  alla festa all'aperto che veniva data alla fine della mattanza. Durante questo periodo (le ultime due settimane di giugno), tutta la popolazione dell'isola interrompeva l'esercizio del proprio mestiere per partecipare in massa alla lavorazione del tonno. Mio padre se lo ricordava sempre come un periodo felice della sua infanzia, e diceva che gli abitanti dell'isola erano sì poveri ma felici. Durante il periodo della mattanza si respirava un'aria di attesa e di euforia, tanto in quel periodo ai poveri era permesso di mischiarsi con i ricchi. Nel periodo dopo la mattanza anche i poveri potevano sfamarsi  mangiando tonno in grande quantità. Il tonno veniva cucinato nelle più svariate maniere. Spesse volte veniva anche seccato e salato, tanto da essere conservato e mangiato per tutto l'anno.   Mentre allora la pesca del tonno era la principale ricchezza di quell'isola, oggi invece, con la scarsa quantità di pesce, serve solo da richiamo turistico. L'11 novembre del 1916, Domenico Lorenzo, improvvisamente moriva, alla giovane età di 48 anni,   colpito da un male incurabile all'addome. Mio padre, il piccolo Giuseppe, rimasto orfano  a  soli sette anni, era stato subito obbligato a lasciare la scuola e a darsi da fare per imparare subito un mestiere. Suo padre, vista la sua scomparsa prematura,  non aveva avuto il tempo per insegnargli il suo mestiere di calzolaio, come si faceva per tradizione in quel periodo.  Vanni "Ferrareddu", che era anche il suo padrino di battesimo, aveva avuto la bontà di accoglierlo  gratuitamente nella sua officina di fabbro, perchè allora, al contrario di quello che succede oggi, per imparare un mestiere bisognava pagare il maestro. Mio padre, che chiamava affettuosamente il suo padrino, "Zu' Vanni",  aveva imparato da lui  come doveva essere lavorato il ferro. La forgia serviva ad alimentare il fuoco per scaldarlo fino al punto giusto, il ferro, diventato incandescente, andava battuto  con precisione  col martello e  velocemente, prima che si raffreddasse, mentre l'incudine andava utilizzata nel modo corretto per dare al ferro la forma desiderata. Nel 1920 mio padre, a 11 anni, partiva per Tripoli, richiamato ed adottato da sua sorella, Orsolina, più grande di lui di una decina d'anni. Orsolina si era trasferita a Tripoli qualche anno prima  per sposarsi con Gabriele Ferrante, un uomo vedovo ed  un abile pescatore, proprietario di un certo numero di barche da pesca. Giunto a Tripoli, mio padre aveva continuato a lavorare come aiutante presso alcune officine di fabbro, che erano situate nella Città Vecchia, vicino all'abitazione della sorella Orsolina. Dopo qualche anno anche sua madre Francesca e sua sorella Concetta era giunti a  Tripoli, richiamati da Orsolina. Grazie alla paga  di mio padre e ad alcuni lavoretti da sarta   si erano stabiliti in una casetta vicino al Monumento dei Caduti. Amava ascoltare la musica, ma non aveva imparato a suonare nessun tipo di strumento musicale.Mentre la sorella Orsolina suonava il mandolino e suo nipote Domenico Ferrante suonava la fisarmonica. Mi diceva che negli anni '30  amava andare al teatro Miramare per vedere l'operette.   Il diminutivo dice già che si tratta di una commedia in parte cantata, in parte recitata, nella quale l'impegno musicale e vocale è meno importante rispetto all'opera, ma non per questo trascurabile. L'operetta si proponeva di divertire spensieratamente, e quindi presentava storie comiche e satiriche che prendevano di mira la buona società, la stessa che andava a vederla e si sarebbe lasciata prendere in giro solo in questa forma leggera.  In Italia  sorsero autori italiani come Mario Costa (Scugnizza) e Virgilio Ranzato (Il paese dei campanelli). Mio padre, col passare degli anni, aveva approfondito la conoscenza del suo mestiere di fabbro, imparando ad usare tutti i tipi di saldatrici, tanto da essere considerato sulla piazza tripolina un vero esperto.  Nel tempo libero, dopo il lavoro, si era messo a studiare da autodidatta,  aggiornandosi con riviste specializzate sulle diverse  tecniche di saldatura con gli elettrodi e con l'ossigeno. Durante gli anni  del periodo bellico era stato arruolato presso il Genio Militare per le sue qualità di saldatore specializzato, che erano dimostrate da vari attestati e diplomi conseguiti in precedenza e da lui conservati nei suoi archivi. Il suo lavoro al Genio consisteva  nel riparare carri armati dell’Esercito Italiano, danneggiati dal fuoco nemico, sistemando e saldando più rapidamente possibile le parti incidentate dei loro telai. Nel dopoguerra aveva trovato subito lavoro nell’officina di fabbro dei Fratelli D’Alba, che era  ubicata nella zona del Lido e  confinava  con lo stabilimento balneare del Lido Nuovo. 

Quasi alla fine degli anni cinquanta, con l'improvviso incremento del lavoro dovuto alla scoperta del petrolio libico, molti italiani di Tripoli che preferivano  esercitare  la loro professione , si erano messi in proprio ed avevano aperto  una loro piccola impresa. Anche  mio padre, dopo aver lavorato per tanti anni come dipendente, aveva intuito che quello era il momento giusto per intraprendere il progetto di mettersi per conto suo. Restando sempre in buoni rapporti con i fratelli D’Alba, che erano stati suoi datori di lavoro per molti anni, aveva lasciato la loro officina ed aveva preso in affitto, in Sciara Amerigo Vespucci, proprio di fronte allo Stadio di Calcio, una piccolo locale per istallarci  tutti macchinari che servivano per la  sua officina di fabbro, che avevano acquistato utilizzando tutti i suoi risparmi. Aveva due diversi tipi di incudine, una forgia a manovella, svariati tipi martelli e tenaglie, un paio di grosse morse, un tornio elettrico, una saldatrice elettrica ed un saldatore ad ossigeno, una tagliatrice per lamiere e tondini, una macchina per curvare le lamiere, varie caprette in ferro su cui appoggiare il materiale in costruzione, diversi compassi e un tavolo da disegno. All'inizio era solo , poi,  dopo tre o quattro di anni di attività aveva assunto una decina di operai, che poi aveva mantenuto come numero,  fino alla sua morte avvenuta il 22 Dicembre del 1967. Molte delle inferriate, dei cancelli e delle ringhiere che era state istallate in molte ville, villette e costruzioni sorte nell'area di Giorginpopoli  portavano la sua firma  perchè disegnate e costruite da lui  nella sua officina.  Mio padre  amava molto il suo mestiere di fabbro, tanto da dedicarsi, come hobby, alla lavorazione di piccoli oggetti in ferro battuto, che regalava ai suoi amici. Nel 1962 si era aggiudicato una grossa commessa per conto della Famiglia Reale Libica. Il lavoro, durato più di sei mesi, consisteva  nel realizzare in maniera artistica svariati caschi di datteri, tutti lavorati  in ferro battuto, da appendere su tutte le palme cresciute all'interno del giardino della Palazzina Reale.  Lui ed alcuni dei suoi migliori operai avevano saldato minuziosamente e pazientemente decine e decine di datteri in ferro  ai rami del casco, mentre,  con la collaborazione di un esperto elettricista, all'interno di ogni dattero avevano inserito una micro lampadina  elettrica. Il lavoro eseguito nel giardino della Palazzina Reale fu perfetto. L' effetto ottico e prospettico, che si ammirava di notte nel suo insieme con lo scintillio di tutte queste piccole luci, era un incanto.

Non tutti  i suoi clienti erano così ricchi ed importanti come il re. Alcuni di loro erano persone semplici ed anche povere, che ricorrevano a mio padre quando avevano bisogno di applicare qualche saldatura alle loro cose. Fatto il lavoro, per ripagare mio padre, ricorrevano al baratto come forma di pagamento, che lui accettava volentieri. Uno di questi clienti, Abdallah, che in arabo vuol dire servo di Dio, era un pescatore arabo, che per sdebitarsi con mio padre, gli regalava parte della sua pesca giornaliera. Quando mio padre portava a casa un pesce, che per la forma del muso, chiamavano "pesce porco", più adatto di altri pesci per preparare la "ghiotta", un condimento che serviva ad insaporire il cuscus di pesce, allora sapevo che a pranzo ci sarebbe stato stato cuscus. Un'altra volta era successo che  mio padre, dopo uno dei suoi baratti, aveva portato in casa  una "coffa" piena di "granchi pelosi", buoni per fare un delizioso brodo. Mia madre aveva messo i granchi dentro una grossa pentola piena d'acqua, aveva acceso il fuoco e poi si era allontanata perchè qualcuno aveva bussato la porta. Al suo ritorno in cucina la metà dei granchi erano sparsi sul marmo di appoggio della cucina, altri si muovevano per terra in cerca di fuga. Nei giorni successivi continuavamo a trovare ancora granchi sotto il letto e negli angoli sotto gli armadi.

La sera, dopo il suo lavoro in officina, prima di tornare a casa per cena, si fermava nell'officina a due passi da casa mia di proprietà del signor Concezio Quattrocchi, un abruzzese di Sulmona.  A loro si univa anche  il signor Franco Virone detto "Ciccio" solo per gli amici, siciliano di  Favara e  padre del mio caro compagno di scuola e di gioventù Tonino Virone. Verso sera dopo l'orario di lavoro questa officina era quasi diventata un luogo d'incontro per chiacchierate e discussioni, come fosse un piccolo circolo culturale, il cui zoccolo duro era composto solo da loro tre, mentre a pochi altri era concesso a di intervenire di tanto in tanto. Gli argomenti di discussione spaziavano a tutto campo: dalla politica alla religione, dall'economia alla scienza, dall'arte allo sport. Quando,  per l'ora di cena, mio padre tardava a tornare a casa, mia madre immaginava già dove mio padre si potesse trovare. L'officina era due passi da casa mia ed era normale che io andassi a chiamarlo per sollecitarlo a tornare a casa. Questo luogo di ritrovo era un locale all'interno del piazzale dell'officina di Quattrocchi. Solitamente l'ambiente era pieno del fumo dei toscanelli di Concezio e delle sigarette che fumava Franco. Come un'ape attratta da un bel fiore, mi piaceva stare in piedi, accanto a mio padre,  ad ascoltarli parlare. Restavo ammaliato dalle loro parole, dai loro argomenti, che erano sempre interessanti, mai banali.  Concezio era un uomo alto e robusto. I suoi occhi chiari sembravano essere magnetici. Me lo ricordo con la maniche della camicia  arrotolate fino ai gomiti, due enormi bretelle che gli sorreggevano i pantaloni. Stava seduto dietro una larga scrivania di legno colma di disparati oggetti, tra cui un blocco di carta su cui aveva il vezzo di scarabocchiare sempre qualcosa mentre parlava o ascoltava parlare. Generalmente disegnava dei cerchi, uniti fra loro da delle ellissi oppure tanti cerchi uniti tra loro come un catena.  Franco Virone era di corporatura normale, aveva un viso quasi sempre abbronzato, dovuto forse al suo lavoro all'aria aperta, un paio di occhi neri e penetranti e dei baffi appena accennati. Nel complesso aveva dei lineamenti regolari ed aggraziati.  Tutti e tre  erano legati da un destino comune: erano diventati orfani di padre troppo presto, mio padre a sette anni, Concezio a otto e Franco a diciannove  ed erano tutti  e tre quasi coetanei, mio padre era del 1909, Concezio del 1910 e Franco del 1912.

Malgrado io fossi un figlio unico, non penso di essere stato cresciuto da bambino viziato. Al contrario, mio padre è sempre stato rigoroso con me, anche se in maniera soft. Aveva alcune fisime. Lui, che nella sua vita era passato attraverso la miseria ed aveva fatto tanti sacrifici, diceva che quando ci si sedeva a tavola bisognava mangiare tutto e non lasciare niente nel piatto. Quando a pranzo lasciavo un pò di spaghetti perchè non avevo fame, pretendeva che la sera stessa  li dovessi finire di mangiare. per rendermeli più gustosi mia madre  me li friggeva in padella  e li insaporiva con un pò di formaggio ed un uovo sbattuto. Difficilmente non li mangiavo perchè sapevo che sarei stato costretto ad andarmene a letto senza cibo. Se a tavola rifiutavo qualche pietanza perchè dicevo che non ne gradivo il gusto, aveva il vezzo di raccontarmi un episodio che gli era successo a lui quando ero piccolo. A Favignana , dopo che lui era rimasto orfano ed era andato a lavorare nell'officina di fabbro di suo zio Vanni, gli era stata offerta la possibilità di restare a tavola a mangiare con tutta la famiglia di suo padrino. A tavola, oltre al padrino e a sua moglie, c'erano   anche i loro due figli, più o meno coetanei di mio padre. Uno i questi, Franco, a tavola faceva spesso lo schizzinoso, forse perchè aveva mangiato qualcosa prima di mettersi a tavola  e con fare piagnucolante diceva: " A mamà, sta pitanza nun mi piaci, i grevia, ciavi un gustu stranu". Allora la mamma che sapeva che il figlio aveva già mangiato qualcosa da qualche altra parte gli rispondeva severa:"Zittuti Cicciu, u sacciu iu chi sapuri avi sta pitanza. Avi sapuri di panza china, manciala e mutu". E bisognava obbedire perchè altrimenti se fosse intervenuto il padre ed allora avrebbe rischiato di prendere anche   "timpulate" e schiaffoni.

All'età di dieci anni, alla fine di giugno, dopo che  erano terminate le scuole, visto che ero più libero,  pretendeva che anch'io andassi con lui nella sua officina, almeno nel pomeriggio,  perchè imparassi il mestiere del fabbro. In realtà voleva che io mi rendessi conto di cosa significava fare il fabbro in termini di sacrifici e di fatica. Ricordo che per lavorare indossava una tuta blu scuro e  quando era alla forgia, vicino a tutto quel calore, il suo sudore macchiava la sua tuta del sale della sua sudorazione. Voleva che l'aiutassi a girare la forgia per tenere vivo il fuoco, così il ferro si infuocava di un rosso acceso, pronto per essere battuto e modellato, Voleva che imparassi ad usare la saldatrice elettrica con gli elettrodi per apporre le saldature sul ferro. Mi raccomandava in continuazione di non guardare mai la luce accecante prodotta dagli elettrodi a contatto col ferro e di  ripararmi gli occhi dietro una maschera col filtro di protezione. Ogni tanto Nicolino D'Anna Veri si fermava  davanti all'uscio dell'officina e con le mani dietro alla schiena, guardava incuriosito lo svolgersi del lavoro.  Mio padre era contento nel vedermi lavorare, anche se in cuor suo sperava che mi piacesse più continuare a studiare che finire a faticare come lui. Quando cominciavo a lamentarmi per la troppa fatica, mi diceva spesso: "Domenico, devi avere pazienza, impara l'arte e mettila da parte". A me, francamente, quell'arte non mi interessava più di tanto, poichè, oltre a rendermi conto che era parecchio faticosa, non la trovavo consona alle mie inclinazioni. Gli rispondevo che a me da grande non interessava fare il fabbro  ma che avrei voluto fare l'ingegnere edile. "D'accordo, allora, anzichè andartene a zonzo, mettiti a studiare. In tempi non sospetti mi diceva pure :Ricordati anche di imparare bene l'inglese, perchè è la lingua del futuro". Me lo aveva ripetuto così tante  tante volte che alla fine avevo deciso di dargli retta.  Almeno ora l'inglese l'ho veramente imparato , specialmente dopo essermi sposato con Joanne, mia moglie, un'irlandese dell'Ulster. "

Durante i miei anni scolastici pur dimostrando con i miei buoni voti di essere stato uno studente sufficientemente meritevole e promettente, non sono riuscito a raggiungere uno dei miei obiettivi prefissati, cioè quello di conseguire una laurea in ingegneria civile.  Mentre frequentavo il primo anno del biennio di Ingegneria al Politecnico di Milano, le condizioni di salute di mio padre erano peggiorate in maniera drastica.  Un tumore maligno lo stava lentamente divorando. Il suo stato di salute si era così aggravato  da costringerlo a smettere di lavorare, per essere ricoverato immediatamente  in un ospedale di Roma e poi essere operato. Nel frattempo la persona qualificata con cui aveva preso accordi per sostituirlo temporaneamente nella direzione dell'officina era  un italiano, che preferisco non nominare, un suo operaio specializzato che lavorava ormai alle sue dipendenze da cinque anni. Costui nell'arco di pochi mesi era stato capace di distruggere tutto quello che mio padre aveva costruito  pazientemente in tutti quegli anni. Gli incassi  erano diminuiti drasticamente, si erano ridotti ad un  decimo rispetto a quelli di  prima. Mio padre, pur venendo a conoscenza della cosa, era troppo ammalato e troppo debole per poter reagire ed intervenire. Ascoltavo al telefono la voce accorata di mia madre al telefono che mi aggiornava sulle condizioni di salute di mio padre.  Era il giugno del 1967 quando decidevo di tornare a Tripoli da Milano, dopo aver avuto il tempo sufficiente per sostenere i miei primi ed ultimi esami universitari: analisi uno e geometria uno. Tornato a casa, avevo constatato che la situazione, con la malattia di mio padre, si era notevolmente deteriorata. L'officina, principale fonte dei nostri introiti, era ormai allo sfascio. Con mio padre era ormai prossimo alla sua fine, avevo capito che le cose non potevano continuare ad andare più come prima. Stavo cominciando a percepire che dovevo diventare adulto e cominciare ad assumermi delle responsabilità. Un peso che fino ad allora era gravato principalmente sulle spalle di mio padre. Ero diventato consapevole che per me erano finiti i giorni della spensieratezza  e della gioventù. In quel momento mi sentivo solo perchè sapevo che dovevo proteggere anche mia madre. Non avevo più quella serenità d'animo necessaria a continuare i miei studi universitari. I miei rapporti con il sostituto di mio padre a condurre la gestione dell'officina  si erano deteriorati.  Lui non teneva, come faceva mio padre, un resoconto giornaliero del lavoro svolto e degli incassi giornalieri. Si limitava a scrivere qualche scarabocchio qua e là.  Non sentendomi più tutelato e non sapendo come  gestire da solo  l'officina, avevo preso la drastica decisione di chiuderla,  vendendo tutti i macchinari. Con i soldi incassati avevo dato a tutti gli operai  una generosa buona uscita, anche per evitare una possibile loro ritorsione di carattere legale. Mio padre, assistito amorevolmente da mia madre, si spegneva malinconicamente in un letto di un ospedale di Roma, il 22 Dicembre del 1967.  Avevo lasciato Tripoli per andare a Roma per raggiungere mia madre e per assistere mio padre ormai  in punto di morte. Il tumore maligno si era sparso in tutto il suo corpo, che si era ridotto a pelle ed ossa. Col suo volto emaciato e con occhi disperati mi aveva sussurrato  con un rantolante filo di voce alcune parole dette stranamente in dialetto siciliano. Cosa assai strana perchè parlava normalmente in italiano. Credo che  guardando me   vedesse, nel suo delirio finale,   il volto di suo padre Domenico Lorenzo e come se fosse ritornato ad essere il bambino di Favignana mi sussurrava . "Patri, mi raccumannu, pinsa a idda, ca avi abbisugnu di tia" , facendo segno con la testa verso mia madre che piangeva in silenzio.  Queste parole, che mi hanno ossessionato per tutta la vita,  non sono mai riuscito a dimenticarle.

Nel frattempo, avevo già iniziato a collaborare con l'unico quotidiano locale, scritto in italiano, "Il Giornale di Tripoli", occupandomi della cronaca sportiva locale, grazie al sostegno di Vincenzo Rovecchio, cugino di mia zia Cristina.   Il signor Mohammed Murabet era il direttore responsabile del giornale, mentre Rovecchio  fungeva da redattore capo ed Alessandro Sammartano si occupava della cronaca locale. Il lavoro da me svolto durante i nove mesi trascorsi al giornale era stato  un interessante, con qualche episodio imprevisto. Ricordo che avevo  assistito allo Stadio ad una delle partite di calcio tra le due squadri locali più forti di allora, Ittihad-Ahly Tripoli, arbitrata dal popolare signor Turki, noto per il suo portamento un pò alla "Lo Bello". La partita era decisiva per lo scudetto del campionato di calcio 1967-1968   e l'Ittihad l'aveva vinta negli ultimi minuti gara  con un risultato di misura. Purtroppo questo risultato era stato condizionata dal  troppo vento di tramontana che soffiava quel giorno sia  dall'arbitro Turki, che aveva assegnato all'Ittihad, all'ultimo minuto, un rigore, a mio parere, inesistente  Terminata la partita  avevo scritto di getto il mio articolo con un titolo a carattere cubitali che diceva così " L'Arbitro e il vento sconfiggono l'Ahly". In effetti, leggendo solo il titolo,  sembrava che avesse scritto un articolo  di parte, ma in verità il suo contenuto rifletteva una cronaca imparziale.  L'Ittihad era stata favorita per aver trasformato in gol un rigore inesistente  mentre aveva segnato un altro gol  che era entrato diabolicamente in porta grazie ad una raffica di vento che aveva ingannato il portiere dell'Ahly. Il giorno dopo,  tornato nell'ufficio della redazione del giornale,  salendo le  scale dell'edificio sentivo un gran brusio di voci e poi  avevo trovato  il signor Murabet e l'arbitro Turki che gesticolavano e discutevano in maniera animata con il quotidiano in mano. Entrambi parlavano in arabo tra loro ma anche se non afferravo tutte le parole che si dicevano, capivo, che l'argomento del contendere ero io ed il mio articolo sulla partita dl giorno precedente. A parere di Turki il mio articolo era stato oltraggioso nei suoi confronti, percè metteva in dubbio la sue capacità di arbitrare e era offensivo  nei confronti della gloriosa squadra tripolina dell'Ittihad. Era così infuriato che era arrivato anche al punto di minacciare di rivolgersi  ad alcuni suoi amici influenti del governo per farmi espellere dalla Libia se non avessi scritto le mie scuse sul quotidiano del giorno dopo. Per mia fortuna quella minaccia era rimasta lettera morta perchè  il signor Murabet aveva, a sua volta, degli amici ancora più influenti di quelli dell'arbitro Turki e mi aveva detto di non scrivere nessuna scusa e di non preoccuparmi. Aveva seguito il suo consiglio ed in effetti la vicenda non aveva avuto più seguito. Devo ricordare che nel periodo che mio padre era ancora ricoverato  nell'ospedale romano e mia madre stava con lui per assisterlo  io ero a Tripoli , ospite nella casa della famiglia Salemi. Non mi stancherò mai di ringraziarli per la loro generosa ospitalità e per la loro immensa generosità dimostrata durante un periodo così critico per me.  Michele Salemi, che era chiamato  Emilio dai suoi amici era un uomo d'animo nobile. Anche per rispetto a mio padre, suo grande compagno di gite e di escursioni domenicali, mi voleva un gran bene. Grazie al gentile interessamento di Mario Salemi, dipendente Alitalia,  nell'aprile del 1968 venivo assunto all'Alitalia di Sciara Haiti. All'inizio avevo lavorato nell'ufficio biglietteria al piano terreno dell'edificio con lo stesso Mario Salemi, Umberto Vaccarini, allora responsabile dell'ufficio, Angelino Furgeri, famoso giocatore di poker e valente sub, ed il biondo e longilineo Felice Fortuna. Successivamente venivo affiancato, come produttore junior  al mio bravo e carissimo amico  napoletano Gianni De Nardo, profondo conoscitore delle tecniche di vendita. Gianni parlava con scioltezza l'inglese con un leggero accento americano e lo aveva  imparato lavorando alcuni anni prima   alla base americana della Mellaha insieme a mio cugino Domenico Ferrante. Non mi ero ancora ripreso dal trauma della morte, ed ero caduto in depressione. Gianni, vedendomi afflitto ed intuendo il mio stato d'animo mi continuava a ripetere, col suo sorriso scherzoso: "Domenico, smile, please smile", e poi  aggiungeva bonario: " Caro Domenico, te lo dico senza offesa, se vuoi affermarti come salesman, se vuoi fare carriera in questo settore, devi sorridere. Scusa se te lo dico ma alla gente non gliene frega un bel niente dei tuoi problemi. Hai capito?". Certo che ti capivo caro Gianni, anch'io  sapevo di portarmi dietro un viso segnato dalla tristezza, specialmente nei primi tempi quando ti accompagnavo negli edifici delle compagnie petrolifere a visitare i clienti americani. Ma io non ci potevo fare niente perchè in quel momento  ero triste dentro e non mi riusciva di recitare la parte del venditore.  All'Alitalia avevo avuto il piacere di conoscere altri colleghi che tuttora ricordo ancora con affetto. Tra questi  cito  Maria e Silvio Villano, Pino Maisano,  Bianca Carnabucci, Cristina Ceccutta, Adriana Quattrocchi e Floriana Zappoli , che ho avuto modo di rivedere in quest'ultimi anni  nelle riunioni tenute annualmente a Torino dall'Associazione exallievi lasalliani di Libia.   >>>

 

 

 

LE NOSTRE DOMENICHE TRIPOLINE

 

<<<  Solo alla domenica , la sua giornata di riposo, mio padre si concedeva il lusso di dormire fino a tardi, comunque non più tardi delle nove. Verso le dieci usciva di casa, con il viso ben rasato e profumato con il suo dopobarba preferito "Old Spice", profumo di cui ancora ricordo la fragranza, ma che non mi riesce  di trovarlo in nessuna profumeria della zona dove attualmente abito. Indossava il suo elegante vestito di gabardine scuro che tirava fuori dal suo armadio solo la domenica o nelle feste importanti, i gemelli dorati che univano i polsi della camicia,  un paio di signorili scarpe bianco-nere bucherellate sulla punte,  un orologio  d'acciaio Roamer  con la catenina d'oro che portava in un taschino del gilet ed un signorile cappello in feltro Borsalino, come andava di moda allora. Inforcava  la sua robusta bicicletta, color verde, marca Legnano, (non ha mai voluto imparare a guidare la macchina) per andare  al Caffè Commercio , all'angolo con Corso Vittorio (Sciara Istiklal), dove si incontrava con alcuni suoi amici. Dopo che io avevo compiuto l'età di due anni lui stesso aveva costruito e fissato sulla canna della sua bicicletta un piccolo sedile di ferro per portarmi con sè. Fino a che ero abbastanza piccolo  da entrare senza difficoltà nel sellino  andava tutto bene ed io ero felice e ben fiero di essere trasportato sulla bicicletta del mio papà. Poi, quando arrivò il giorno che non riuscivo più a entrarci, prendevamo l’autobus cittadino che si fermava in Sciara Camperio, vicino a casa mia. C’erano due linee: la Circolare Destra e la Circolare Sinistra, che facevano lo stesso tragitto ma in senso opposto. La Circolare Destra , partendo da Sciara Camperio, percorreva tutto il  Corso Sicilia, passando davanti alla Fiera per arrivare fino a Piazza Italia.  Faceva il giro della piazza,  passava vicino alla statua di Settimio Severo, attigua all'ingresso di Suk el Mushir, a ridosso del castello, fino alle due slanciate colonne che in cima portavano una caravella e il faris, un cavaliere arabo con il suo cavallo ed un frustino in mano, attraversava i due tunnel del Castello. Appena usciti dall'ultimo tunnel sulla sinistra c'era il maestoso palazzo della Banca di Libia,  e  un più avanti l'Arco di Marco Aurelio. Si costeggiava il lungomare fino ad arrivare all’ingresso del Porto, dove si girava a sinistra verso il Monumento dei Caduti Italiani. Si transitava davanti alla sede della Società Elettrica Libica e dopo aver percorso tutta Sciara Dante passava davanti allo Stadio, per sostare nuovamente davanti all’ingresso del Lido Vecchio, che era un capolinea. La Circolare Sinistra faceva il percorso inverso. Il Caffè Commercio era un rinomato luogo d'incontro. Si sentiva sempre un gran brusio di voci, si chiacchierava, si discuteva e si concludevano affari, in piedi o seduti ai tavolini, dentro il bar  e fuori sotto gli archi. Dopo che mio padre  aveva incontrato e si era intrattenuto a parlare con i suoi amici al Caffè Commercio, ci fermavamo poco più in là all'edicola di Filacchioni per l'acquisto dei giornali. Mio padre comprava  per sè il quotidiano "Il Tempo" di Roma e la rivista settimanale La Domenica del Corriere, con le simpatiche illustrazioni di Walter Molino in prima pagina, e per me  Il Corriere dei Piccoli e Topolino. Da lì, con i nostri giornali e giornalini in mano, cominciavamo  la nostra passeggiata  domenicale di Corso Vittorio, camminando un pò sotto gli archi, un pò sul marciapiede scoperto, per raggiungere Piazza Cattedrale. Il percorso non era lungo ma, tra andata e ritorno, durava tanto, sia per tutte le soste che facevamo sia per parlare con amici  e a salutare conoscenti che incontravamo lungo il percorso o all' uscita della Messa  delle undici. Al ritorno c'era ancora più gente. Entrambi i marciapiedi erano  stipati all'inverosimile, tanto che dovevamo rallentare il passo. All'altezza del bar di  Girus c'era sempre un intasamento e  dovevamo usare i gomiti per farci strada in mezzo a tutta quella marea di gente. Gli uomini, vestiti a festa e con i visi ben rasati, profumavano di dopobarba  e le donne, con indosso il loro abito migliore e i capelli pettinati con la "permanente",  chiacchieravano con affabilità tra di loro, si scambiavano sorrisi e si salutavano cordialmente l'un l'altro. In fondo è vero che ci si conosceva un pò tutti, o per nome o di vista, ed in quell'atmosfera di vivace amabilità ci sentivamo tutti amici. Quando capitava di essere ospiti per il pranzo domenicale a casa di amici o parenti  anche mia madre veniva a spasso con noi. Ci fermavamo tutti e tre alla pasticceria Campi per comprare un cartoccio di paste dolci da portare in dono a casa dei nostri anfitrioni. Il negozio si trovava sul lato sinistro del Corso, sotto gli archi, vicinissimo alla rinomata Latteria Triestina. Mio padre permetteva a me e a mia madre di scegliere le paste che preferivamo e che poi  le gentili e sorridenti signorine della pasticceria ci confezionavano un delizioso cartoccio. A me piacevano i cannoli ripieni di crema di ricotta ed i diplomatici spolverati di zucchero a velo, mia madre preferiva i bigné farciti di cioccolato ed i ventagli di pasta frolla ricoperti di miele. Quando eravamo invitati a pranzo a casa di mio zio Mario Salmeri, fratello di mia madre, e di sua moglie Cristina Rovecchio, sorella del campione tripolino di ciclismo Renato Rovecchio e cugina del giornalista Vincenzo Rovecchio . I miei zii  abitavano nella traversa precedente dell'ospedale di Sciara Ippolito Nievo, un strada che era il proseguimento di Sciara Raffaello e perpendicolare a Corso Sicilia. Così per arrivare a piedi a casa loro attraversavamo Piazza Italia, diventata poi Maidan Ashuhada,  dove c'era una rotonda  circondata da palme di datteri con al centro una  fontana circolare, in cui giacevano  semisommersi dall'acqua cinque cavalli di pietra grigia. Sulla loro criniera, era adagiata una vasca più piccola, ricamata con ghirigori, da cui fuoriuscivano due coni zampillanti d'acqua. Vicino all'entrata principale  dell'ex Banco di Roma, all'angolo di Corso Sicilia, addossati alla parete dell'edificio della banca, c'era una lunga fila di lustrascarpe. Lì mio padre  aveva l'abitudine di sedersi a cassetta da Omar per farsi pulire le sue scarpe. Omar era un simpatico libico con cui eravamo diventati amici. Aveva un finto occhio di vetro, che, per scherzo, ogni tanto se lo toglieva  e me lo mostrava. Quasi tutti questi lustrascarpe, oltre alla pulizia delle scarpe, avevano delle bancarelle dove venivano esposte riviste e fumetti di seconda mano, tutti in lingua inglese, probabilmente provenienti dalla vicina base americana del Wheelus Field. Ogni tanto Omar, grazie alle generose mance di mio padre, mi regalava qualche fumetto, di cui mi limitavo a guardare le figure, visto che l'inglese ancora non lo conoscevo. Dopo questa abituale sosta proseguivamo sotto gli archi lungo Corso Sicilia, passavamo accanto alla cartoleria Onestinghel, mentre più avanti sulla destra c'era un palazzo con una forma rotonda che noi chiamavano "il Colosseo". Transitavamo accanto alla Chiesa della Madonna della Guardia, costeggiavamo i giardinetti tra Sciara Michelangelo e Sciara Raffaello, dove qualche volta sostavano il Circo Togni, il Circo Orfei o il Circo Bizzarro. Generalmente quando arrivavo in quella zona ero preso da  un certo languore perchè l'aria era pervasa da un delizioso profumo di cuscus che veniva dalle cucine del ristorante Ittihad, che stava dall'altro lato della strada. Si attraversava Corso Sicilia e s'imboccava  Sciara Ippolito Nievo. Nella parte centrale di questa strada c'erano alcune traverse dove allora dimoravano le case di tolleranza, che io, per la mia giovane età, non sapevo ancora che cosa fossero e che a differenza dell'Italia, dove erano state chiuse nel settembre del 1958 con la legge Merlin, in Libia  esistevano ancora.

Nelle domeniche che avevamo ospiti in casa nostra a pranzo, mia madre, che era una bravissima cuoca, si svegliava di buonora per iniziare a preparare l'appetitoso Pranzo Domenicale. Subito dopo  mi svegliavo anch'io, attirato dal delizioso profumo che veniva dal forno della nostra cucina e restavo lì impalato ad osservare mia madre, ancora assonnato, ma ammaliato da tutte le cose che riusciva a fare con tanta facilità. Il primo piatto del pranzo della domenica  era veramente superbo per la sua bontà ed era quello preferito da mio padre,  cioè  cannelloni ripieni di carne e spinaci, ricoperti con la besciamella e cotti al forno. Mia madre diceva che il segreto che rendeva quel piatto così saporito era che mescolava la carne tritata con un pò di cervello, per renderla più morbida. Tra le altre cose la mia povera mamma era costretta a fare un doppio lavoro perchè preparava due teglie di cannelloni, una piccola senza formaggio parmigiano per mio padre ed una più grande condita con il formaggio per tutti gli altri. Il motivo era che  mio padre era nauseato dal formaggio sin da quando era stato  militare in Sardegna, nell'isola della Maddalena, dove, a suo dire, servivano il formaggio, non solo a pranzo e cena, ma  anche a colazione. Il secondo piatto del pranzo era invece quello che io preferivo, anche perchè a me piaceva molto mangiare le polpettine  fatte con la carne macinata, che lei sapeva cucinare in maniera tanto saporita, tanto che mia madre mi aveva soprannominato in siciliano "u' purpettaru". Questo secondo piatto  era composto da fette di patate farcite di carne tritata, condita con cipolla, aglio e prezzemolo, affogate nell'uovo battuto e poi fritte. Per ultimo veniva scartocciato il cartoccio di dolci che i nostri ospiti avevano portato in dono. Se nel cartoccio c'erano anche i cannoli con la ricotta o i diplomatici io ne prendevo uno, altrimenti niente. Dopo un così lauto  pranzo, per digerire, si andava insieme ai nostri ospiti a fare una passeggiatina lungo la spiaggia del Lido Vecchio.

Quando era inverno. e c'era stata la mareggiata, raccoglievamo lungo la battigia gli ossi di seppia portati dal mare, che poi regalavamo a quegli amici che tenevano nelle loro case i canarini in gabbia. Tornati a casa, mio padre, per abitudine, accendeva la radio alle due ed un quarto e tutti, insieme ai nostri  ospiti, ascoltavamo la simpatica ed esilarante trasmissione siciliana "Il Ficodindia" di G. Farkas e Mario Giusti, dove il grande attore comico Turi Ferro impersonava Bastiano, un catanese pieno di grande arguzia. Finito di ascoltare il programma siciliano, mio padre, che non era interessato  al calcio , si dedicava interamente alla lettura dei suoi giornali comprati al mattino o si intratteneva in salotto a fare conversazione con i nostri ospiti. Alle tre in punto ero io a monopolizzare la radio. A quell'ora, con la pubblicità del brandy  Stock 84, iniziava la trasmissione sportiva "Tutto il calcio minuto per minuto". Come dimenticare l'inossidabile radiocronista Niccolò Carosio, subito distinguibile per  la sua voce composta  e familiare, " Gentili signore e signori buongiorno. Qui è Niccolo Carosio che vi parla..." e memorabile per i suoi famosi , "quasi-rete" e " scusa, Ameri".  Io stavo completamente assorto ad ascoltare la radio e tifavo, mangiucchiandomi le unghia delle dita, per la mia squadra del cuore, la Juve, quella dei tempi in cui giocavano il "gigante buono" gallese,  Johnny Charles,  e il funambolico argentino Omar Sivor, detto "el cabezon" per la sua testa grossa. 

lcune volte nel pomeriggio prendevamo l'autobus per andare in centro. Questo voleva dire fare un giro vece lungo Corso Vittorio per incontrare casualmente altri conoscenti e poi passando per i giardinetti, ed attraversando  la rotonda della gazzella si arrivava sul lungomare  il lungomare Adrian Pelt, che percorreva un paio di volte  da cima a fondo, per intenderci  dal Castello fino ad oltre l'Uaddan e ritorno. Spesso per riposarci mio padre ci invitava a sederci per bere una bibita nel locale la Sirenetta posto sul lungomare, al di sotto della balaustra, dei lampioni e delle palme , in riva al mare. Altre volte specie quando pioveva,  andavamo al chiuso  del Circolo Italia, dove venivano organizzati  vari spettacoli, musica,  lotterie, tombole e feste danzanti.  >>>

 

 

 

MIA MADRE

 

<<<  Come già accennato in precedenza mia madre, Franca Salmeri, a detta di tutti era una brava cuoca. Per imparare a cucinare così bene non aveva avuto bisogno di  seguire nessun tipo di corso di gastronomia  ma aveva assorbito, con gli anni vissuti tra la Tunisia e la Libia, l'esperienza delle tradizioni culinarie  di questi due paesi, oltre a quella delle sue origine siciliane. Era nata a Marsala, in provincia di Trapani, il 4 dicembre nel 1919, da Ninetta Anselmi e da Giuseppe Salmeri, di professione marinaio, che aveva preso parte a tutte due le guerre mondiali dello scorso secolo, uscendone fortunatamente indenne. Nel 1918 mio nonno, all'età di 29 anni, era già proprietario di una grossa barca a vela con cui  trasportava vino e faceva la spola tra Sicilia e la Tunisia, che allora era ancora una colonia francese.  Riguardo a mia nonna Ninetta, ricordo che il suo  cognome, Anselmi, era considerato  molte volte a tavola un argomento tabù per noi piccoli. Tutti sapevano ma nessuno, specialmente mia madre, ne voleva parlare. Diventato più grande ne venni a sapere il motivo. Il fatto era che mia nonna Ninetta, che era una buona ed onesta moglie ed una brava sarta,  era, "nientepòpòdimenoche", la prima cugina del gangster italo-americano Alberto Anselmi, pecora nera della famiglia e uno degli autori della strage della "Strage di San Valentino". Alberto Anselmi, nato a Marsala, braccato dalla polizia italiana e protetto dalla mafia siciliana, era riuscito a fuggire negli Stati Uniti d'America con un espediente. Una mattina di buonora si era presentati in casa sua a Marsala, un ispettore di polizia con quattro agenti in borghese con un mandato di arresto per essere tradotto in carcere. Ancora assonnato aveva chiesto se potevano essere così gentili di attendere un attimo per fargli preparare le sua valigia e di vestirsi. L'ispettore aveva accettato, ma aveva fatto male. Alberto era riuscito a scappare silenziosamente  da uscita secondaria della casa e si era dileguato. La Mafia gli aveva consigliato di cambiare aria e dopo circa un mese, a bordo di un transatlantico, era giunto in Nuova York. Da lì si era trasferito a Chicago, dove aveva subito  stretto amicizia con una potente mafiosa famiglia marsalese di nome  Genna. Tramite loro  fu presentato ad Al Capone , tanto da diventare un suo amico per la pelle. Anselmi non si era accontentato della sua posizione già privilegiata e stata pensando di insidiare la poltrona di Al Capone. Si dice che, per uno "sgarbo", Anselmi venisse ucciso, insieme al suo complice John Scalise, dallo stesso  Al Capone con una mazza da baseball durante una riunione di "famiglia". La cruenta scena è stata ricreata e resa famosa nella prima parte del  film americano "The Untouchables"  interpretato da attori famosi come Robert De Niro nella parte di Al Capone, Kevin Kostner, Sean ConneryAndy Garcia ed

Nel giugno del 1920, vedendo che il tenore di vita delle famiglie italiane residenti in Tunisia  era migliore di quello loro in Sicilia,  aveva deciso lasciare, insieme a tutta la famiglia, la sua casa di Marsala e  di andare risiedere stabilmente con loro a Sfax, un paese della costa orientale della Tunisia, a sud di Tunisi, di fronte alle isole Kerkennah, sopra all'isola di Djerba. Così mia madre, ancora in fasce, secondogenita di cinque figli, aveva lasciato il suo paese natale ed era giunta a Sfax all'età di sei mesi. Mia madre aveva due fratelli, Mario e Giovanni e due sorelle, Maria e Grazzina. Le figlie più grandi, la primogenita Maria, e la secondogenita, Franca, mia madre, raggiungendo l'età scolastica  avevano cominciato a frequentare le scuola locale di Sfax. In questa scuola elementare tutto veniva insegnato in lingua francese, mentre a casa loro parlavano solo in dialetto siciliano. Nel 1929 , con l'inizio della depressione finanziaria americana, anche in Tunisia cominciavano a farsi sentire i primi sintomi della recessione  dell'economia  reale, così il commercio del trasporto del vino era diventato molto meno remunerativo rispetto a prima. Mio nonno Giuseppe insieme a suo fratello Vincenzino avevano deciso che per sopravvivere dovevano rinnovarsi, utilizzando la loro esperienza marinara  e indirizzando il loro commercio verso la pesca delle spugne, che nel frattempo quel settore era diventato più economicamente redditizio. Così entrambi i fratelli, con la loro barca  battezzata  "I due fratelli",  avevano deciso di spostarsi con le loro due famiglie in Libia, i cui fondali marini, si diceva, erano ancora meno sfruttati di quelli tunisini e quindi più ricchi di spugne. La spugna, anche se a prima vista non lo si direbbe, vive e respira. Infatti è un animale primitivo che vive  in colonie attaccate alla roccia dei fondali marini ed in misura minore anche in quelli di acqua dolce. Non ha una forma ben definita, ha un organismo privo di sistema nervoso, ed è costituito essenzialmente da una sostanza molle, munita di numerosi pori, attraverso cui l'animale si nutre. Il corpo esterno serve da rivestimento, quello intermedio è una specie di sottile impalcatura scheletrica formata da carbonato di calcio o da silice, mentre quello interno è formato da cellule che provvedono a trattenere e digerire le particelle alimentari che entrano con l'acqua attraverso i pori.  Dopo l'essiccamento la spugna veniva utilizzata generalmente per la pulizia  e per l'igiene personale. Ricordo che mio nonno e suo fratello Vincenzo  vendevano le loro spugne a Costa Gerakis, un simpatico commerciante greco diventato poi un nostro carissimo  amico.  In quegli anni a Zuara, che dista circa un centinaio di chilometri da Tripoli e non è molto distante dal confine tunisino, vivevano parecchie  famiglie italiane.

Nell'agosto 1936, mio padre, ancora scapolo, abitava a Tripoli in un appartamento nella Città Vecchia, vicino al porto e al Monumento dei Caduti.Vicino alla loro casa c'era anche quella di Vicenzino Salmeri, il fratello del mio nonno materno Giuseppe. In quella casa abitavano sua moglie Antonietta Anselmi, sorella di mia nonna Ninetta Anselmi, ed i loro tre figli Mario, Franceschina e Maria. Mia madre frequentava spesso la casa dei loro cugini. Un bel giorno, casualmente, mio padre aveva incontrato mia madre in quella casa. Quando mi raccontava questo episodio mia madre mi diceva che il loro fu un amore a prima vista. Per certo periodo si incontravano di nascosto, poi mio padre  aveva chiesto a mio nonno la mano di mia madre,  come si usava allora. Mio nonno Giuseppe dapprima aveva preso tempo per prendere informazioni sul suo conto. Gabriele Ferrante, il marito della sorella Orsolina,  che conosceva bene mio nonno, aveva garantito per mio padre.  Aveva riferito che mio padre ventisei anni, che  era un giovane a modo e che economicamente era indipendente perchè mensilmente percepiva un discreto stipendio. Malgrado ciò mio nonno aveva fatto sapere a mio padre, tramite terze persone, che rifiutava la sua richiesta. Il motivo era che mia madre era ancora troppo giovane (aveva solo sedici anni) e che al momento era disponibile al matrimonio solo la sua primogenita, Maria, che pur bella e graziosa ed aveva diciotto anni. Secondo l'usanza di allora la primogenita doveva  essere la prima a sposarsi e poi successivamente le altre a secondo dell'età. A mio padre non interessava Maria, così insieme a mia madre avevano deciso, di ricorrere alla classica "fuitina". "Fuitina" è un termine di origine siciliana utilizzato molti anni fa, ma la pratica è ancora attuale, per indicare la cosiddetta "fuga d'amore", ovvero quando due ragazzi molto giovani, o addirittura minorenni, decidono di allontanarsi da casa, da soli, per qualche giorno senza avvisare nessuno. Al loro ritorno diventa quasi automatico il cosiddetto "matrimonio riparatore". La fuitina veniva e viene utilizzata da due giovani innamorati quando il loro amore è contrastato da una o da entrambe le loro famiglie: lo scopo, quindi, era quello di metterle dinanzi al "fatto" compiuto, quello di aver presumibilmente consumato un rapporto sessuale. A quel punto l'assenso dei familiari diventava inevitabile. Non c'era stato bisogno diVossia", che è l'espressione siciliana equivalente al "Voi". Mia madre mi diceva che era molto geloso delle sue figlie femmine, proibendo rigidamente loro  di mettersi in costume per andare a fare il bagno a mare.  Malgrado tutto questo ostacoli i miei genitori si sposavano il 4 dicembre del 1937, proprio nel giorno che mia madre compiva il suo diciottesimo anno di età, nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli, non lontano da Sciara Espaniol, dove c'era stata la prima sede dell'Istituto La Salle a Tripoli. Per inciso voglio ricordare che mia zia Maria, si era fidanzata pochi mesi dopo il matrimonio di miei genitori. Si era sposata nella chiesetta di Zuara con Giovanni Giarratano , detto Giangià, e avevano avuto due figli Ninetta e Gasparino. ricorrere a quell' estremo espediente. Mio nonno aveva visto che mio padre non era per niente interessato alla proposta di sposare la primogenita Maria, che mi madre  col suo atteggiamento mostrava di essere seriamente innamorata di mio padre, su accorata insistenza della moglie Ninetta, aveva deciso alla fine di dare  il suo assenso al fidanzamento.  Si diceva che mio nonno Giuseppe fosse abbastanza una persona severa ed un pò burbera con i propri figli, tanto che pretendeva  da essi che, per rispetto, gli si rivolgessero dandogli del "

Per il loro viaggio di nozze i miei genitori era andati  a visitare i loro parenti di Marsala, di Favignana ed alcuni cugini di Palermo. A questo proposito mia madre mi raccontava spesso un episodio, capitatogli proprio a casa dei loro cugini di Palermo, sposini anche loro. Invitati alla loro casa per pranzare si erano resi conto delle ristrettezze e della  povertà, in cui questi cugini vivevano, se pur in maniera dignitosa.  Per pranzo il primo piatto era un composto da un brodino con quattro piccolini tortellini per gli uomini  e di solo tre tortellini per le donne. Per secondo c'era un pò di mortadella, tante olive, poco pane ed acqua a volontà. Raccontandomi questo episodio voleva sottolineare il fatto di come loro, mio padre e mia madre, erano stati fortunati ad avere lasciato la povertà che in quel periodo c'era in Italia e di essere venuti in Libia  dove c'erano più occasioni di lavoro.

I miei erano dapprima andati ad abitare, per poco tempo, in un appartamento con giardino delle Case Operaie, vicino alla Chiesa di Sant'Antonio, non lontano dalla Stazione Ferroviaria. Nel settembre 1938 avevano preso in affitto l'appartamento di Sciara Camperio, nella zona del Lido, dove io sono nato. Per un pò di tempo avevano creduto bene di non avere figli, ma  quando si erano decisi di volerli, questi non venivano. Nel mese di dicembre del 1947,  una settimana prima di Natale, mia madre era andata alla messa domenicale della Madonna della Guardia, in Corso Sicilia. Al termine della Messa si era fermata  a guardare da vicino il Presepe Vivente, che a quell'epoca veniva rappresentato all'interno della chiesa in uno spazio riservato, vicino all'altare. Questo presepe era impersonato da reali uomini e donne che, per devozione religiosa, si erano offerti come volontari per recitare la parte dei protagonisti del Santo Natale. Pertanto nel Presepe c'erano gli attori che rappresentavano i pastori, San Giuseppe, la Madonna ed un bel bambino biondo, di circa otto mesi, che impersonava  il bambino Gesù, adagiato delicatamente in una culla di legno ricoperta di stracci. Mia madre mi raccontava che il bambino di quel Presepe Vivente era un trovatello, che, come le aveva riferito la Madre Superiora era stato lasciato temporaneamente in custodia alle suore bianche, per il tempo necessario per trovare una confortevole sistemazione. La suora,  che conosceva bene mi madre,  sapeva del suo problema di non avere avuto ancora figli. L'aveva vista assorta mentre guardava quel bambinovero che impersonava Gesù, l'aveva avvicinata e con delicatezza le aveva proposto di adottarlo, pratica che allora probabilmente era meno complicata di ora. Mia madre all'inizio era rimasta incredula e senza parole per quella proposta. Giustamente aveva risposto che doveva prima rifletterci sopra  e parlarne con suo marito. Riferita la notizia a mio padre, dopo qualche giorno di riflessione,  erano arrivati alla decisione di adottare il bambino. Presi dall'euforia, erano già pronti ad incontrare la suora, per riferirle della loro positiva decisione, quando mia madre si era accorta di essere in stato interessante. Naturalmente aveva contattato la suora e la cosa era finita lì.   Da piccolo  mi era stata raccontata questa storia più volte.  Quando mi capitava di prendere degli sculaccioni da mia madre per qualche mio frivolo capriccio infantile, il mio pensiero tornava a quell'episodio.  In cuor mio ero preso dal dubbio che mia madre non mi volesse abbastanza bene perchè pensavo che non avesse raccontato la verità, e che in realtà  ero io il bambino del presepe. Quando mi mettevo a  piagnucolare per qualche mia puerile bizza, anzichè mi diceva in siciliano: "sii una làstima!" che tradotto in italiano significa  che ero noioso. Per fortuna avev un buon rapporto con mio nonno Giuseppe, il marinaio, tanto che a me concedeva di dargli del "tu" anzichè del "Vossia". Da piccolo desideravo fare da grande  il mestiere  barbiere. Mio nonno lo sapeva,  così si metteva sedeva su una sedia  davanti ad uno specchio, si metteva una  asciugamano attorno al collo e voleva che gli tagliassi i  capelli per cominciare a fare esperienza.  Mi metteva a mio agio, dandomi dei consigli  come e dove tagliarli, tra lo sguardo preoccupato di mia madre. "Lassalu fari a tu figghiolo, chissu nu bravu varveri veni", e mi sorrideva strizzandomi l'occhio,  facendomi capire che ero suo complice.  Il nonno ci veniva a trovare abbastanza spesso da Zuara nella nostra casa al Lido, tanto che una volta, restati soli, armato di coraggio mi ero confidato con lui. "Nonno, è vero che tu c'eri quando io sono nato?" - gli avevo chiesto con ansia, "Certo che c'ero e mi ricordo che  avevi tanti capelli neri."- mi rispondeva" tanto che parevi Dante Alighieri". "Nonno, ma chi è questo Dante Alighieri, non è mica mio padre?"  "Ma no, che vai pensando? Dante Alighieri  era un grande poeta italiano, vissuto centinaia di anni fa, ma che aveva una lunga chioma di capelli neri proprio come l'avevi te quando sei nato", mi rassicurava accarezzandomi i capelli. Ero così certo che mio nonno mi avesse detto la verità, perchè pensavo,  se avevo i capelli neri quando ero nato non potevo essere quel bambino biondo del presepe.  Così, da quella volta, mi ero tolto il dubbio sull'origine della mia nascita. Crescendo mi rendevo conto che mia madre era così insofferente ed intollerante nei miei confronti  perchè le coliche che  aveva la rendevano nervosa. I dottori di allora non sapevano come curarla e lei continuava a soffrire, mentre sarebbe bastata una semplice operazione chirurgica per rimuovere quei calcoli e farla stare meglio. A distanza di anni un bravo dottore, di nome Basile,  glieli aveva asportati chirurgicamente in una clinica di Tripoli.

Devo aggiungere che mia madre, come anche mio padre, aveva alcune fisime. Ne ricordo due. Una era quella  di possedere delle bambole e la seconda era quella che avrebbe voluto avere anche una figlia femmina. Le bambole le piacevano così tanto che  sul suo letto ce ne erano posate almeno tre , con caratteristiche diverse. La sua preferita aveva il viso paffuto ed aveva i capelli rossi. Era tutta vestita di merletti rosa e apriva e chiudeva gli occhi quando si toccava.  Un'altro era un bambolotto negro  coi capelli neri e ricci, scalzo e con  un vestito bianco e rosso, che se si tirava una cordicella diceva "maaammaaa". Una terza era tutta di pezza color rosso ed assomigliava alla protagonista della fiaba  Cappuccetto Rosso, scritta da fratelli Grimm.  Poi in una vetrinetta nella sua camera da letto c'erano una collezione  di bamboline in miniatura. L'altra fisima era quella di volere una figlia femmina. Era senza dubbio un desiderio difficilmente esaudibile, visto che ci aveva messo dieci anni per fare il primo figlio.  Era opinione di mia madre che le figlie femmine, essendo più docili di carattere dei figli maschi, sarebbero state una garanzia assicurata per la vecchiaia. I figli maschi quando sono grandi generalmente  finiscono per seguire le loro mogli e tendono ad  allontanarsi dalla loro famiglia di origine.  Uno volta in occasione di un Carnevale aveva addirittura voluto che mi vestissi da femmina, malgrado io non lo volessi. Aveva anche insistito nel portarmi  da un fotografo in Corso Sicilia, perchè mi  immortalasse vestito  in quella maniera ridicola. Questa foto è ancora conservata nel suo  vecchio album fotografico. Ogni volta che la guardo sono tentato di strapparla, poi lascio perdere, perchè rappresenta comunque un ricordo. In questa foto che mi ritrae con un sorriso forzato, all'età di otto anni,  ho indosso una gonna lunga bianca, una camicetta dello stesso colore ed  una borsetta bianca al braccio. Nella mano destra tengo un ombrellino di carta giapponese mentre nell'altra una trombetta con fili di coriandoli.  In testa indosso un ridicolo cappellino da boy scout. Per fortuna la cosa era successa solo una volta e non si era più ripetuta. >>>

 

 

MIO NONNO GIUSEPPE, UN EROE FRA DUE GUERRE ED UN TERREMOTO


  

<<< Giuseppe Garibaldi è stato definito dai libri di storia l'"Eroe dei due mondi", per  il suo valore dimostrato  in Sudamerica e per aver ottenuto con li suoi "mille"  l'impresa di aver apposto una solida base all'unità di Italia. Mio nonno materno, Giuseppe,  lo definisco un "Eroe fra due guerre ed un terremoto" e più sotto ve ne spiegherò la ragione. Mio nonno Giuseppe Salmeri era  nato  nel 1889  nell'isola di  Favignana, in provincia di Trapani ed era vissuto  per  tanti anni in Libia, prima a Zuara e poi a Tripoli. Quando da  piccolo  mi ammalavo  veniva spesso a casa mia a  farmi visita.  Io, che lo ammiravo per la sua naturale predisposizione a saper raccontare  le cose,  gli chiedevo sempre di narrarmi  un po’ delle storie della sua vita di mare. Sapeva che mi piaceva  ascoltare in particolar modo  gli  episodi del suo viaggio intorno al mondo,  intrapreso quando lui aveva appena diciotto anni.   Io, spinto dalla mia infantile curiosita',  lo interrompevo spesso  per fargli  alcune  domande  sui Paesi che lui aveva visitato da giovane.  Senza perdere il filo della storia, rispondeva con calma alle mie curiosita'.  Quando raccontava  queste storie aveva l'abitudine di sedersi in un modo particolare, che a me piaceva molto.  per mettersi comodo e raccontarmi le sue storie si avvicinava con una sedia  vicino alla sponda del mio letto, poi si sedeva con la spalliera rivolta in avanti anzichè dietro, appoggiandovi sopra prima i gomiti e qualche volta anche  la testa . Seduto cosi', con quella sua voce resa  roca dalle tante sigarette fumate ,  cominciava  a raccontarmi  le sue storie, che  ogni tanto  arricchiva con nuovi particolari. La storia che mi ricordo con piu' chiarezza, anche perche'  mi aveva sempre affiscinato per il rischio ed il pericolo corsi, era quella del terremoto di Messina.Nel Dicembre del 1908 , all'età di diciassette anni,  si era imbarcato,  in qualità di "Gabbiere scelto", sulla Regia nave "Calabria”, che era destinata ad iniziare un triennale  giro di circumnavigazione intorno al mondo, sotto il comando del Primo Capitano di Fregata Mario Casanova  e del Comandante in Seconda,  Capitano di Corvetta, Giovanni Giovannini. La nave ospitava un equipaggio di 360 persone, tutti scelti e robusti marinai, per poter meglio affrontare qualunque clima e resistere a tutte le intemperie che la lunga campagna di 36 mesi attorno al mondo comportava. Tutto l’equipaggio della "Calabria" si trovava il giorno di Santo Stefano , il 26 Dicembre del 1908, nell’Arsenale Navale di Venezia per completare l’armamento e dare gli ultimi ritocchi alla preparazione della nave stessa. Finalmente era arrivato il tanto atteso e desiderato  ordine dal Ministero della Marina Militare  di mettersi in rotta verso la Sicilia per  poi salpare per il giro intorno al mondo. Dopo due giorni di viaggio, il 28 Dicembre,  la "Calabria" arrivo'  nel porto di Palermo . All’ improvviso arrivo' un  urgente  dispaccio proveniente  dal Ministero che ordinava di partire   immediatamente  e  dirigersi urgentemente verso Messina. Si sparse subito la notizia   che  quella   citta’ era stata  colpita contemporaneamente  da un catastrofico  e devastante  terremoto e maremoto. Sbarcati  a Messina , divisi in due squadre  sotto il comando di due ufficiali di grado superiore,  si avventurarono   in quell’ammasso di macerie. Tirarono  fuori cadaveri ancora caldi di uomini e donne, resi  deformi dal peso degli edifici crollati. La loro maggiore speranza era di trovare  qualcuno che fosse ancora vivo  sotto quel mucchio di  macerie.Dopo circa dieci ore di massacrante opera di soccorso   la tromba della loro nave suonò la ritirata, richiamando a bordo entrambe le squadre. Una volta adunati,  il Comandante in seconda informò l'intero equipaggio  che anche la vicina città di  Reggio Calabria era stata maledettamente colpita da quel terribile  terremoto.  Quindi divise l’equipaggio in due squadre , stabilendo che una squadra  si recasse immediatamente a portare la sua  opera di soccorso  nella vicina Reggio Calabria mentre l'altra restava a Messina. Mio nonno  fu tra quelli che andarono   a Reggio Calabria. Mi ricordo ancora con chiarezza che quando mio nonno  arrivava a quel  punto del racconto si interrompeva.   Per qualche secondo   il suo sguardo diventava  triste e si perdeva   in un remoto  angolo del passato.  Penso che, malgrado fossero passati svariati  anni da quell’immane tragedia , il ricordo  del  suono implorante   dei lamenti dei sotterrati vivi sotto il cemento degli edifici e  quello straziante di uomini e donne  che invocavano i loro cari scomparsi sotto l’ammasso delle macerie,  lo ossessionava  ancora  terribilmente.  Dopo svariate  ore di duro lavoro la sua squadra  era  diventata  ormai stanca ed  affamata.  Il suo caposquadra  aveva deciso  che era il momento che tutti dovevano  fare  una pausa e  pensare a rifocillarsi.  Vicino a loro, in quella parte della città colpita dal terremoto ancora piu' duramente di altre ,  c'era  un convento semidistrutto,  dove alcune operose suore vestite tutte di  bianco ,  scampate miracolosamente al crollo dell'edificio,  servivano generosamente   a chiunque lo chiedesse un piatto di minestra calda . Mio nonno mi parlava  sempre con commozione  di  quel gruppo di  suore vestite con una tonaca bianca.  Malgrado tutto attorno a loro  ci fosse  tanta  polvere causata dai calcinacci  e il sangue della gente colpita dal crollo degli edifici , la loro tonaca,  come per magia , era rimasta  bianca ed immacolata. Mio nonno mi diceva di avere avuto sempre  il sospetto che  quelle suore  vestite di bianco fossero angeli mandati dal cielo.  L'opera di soccorso a Reggio Calabria   durò circa una settimana, al termine della quale tutto l'equipaggio ebbe l'ordine di  imbarcarsi immediatamente  per Venezia per  effettuare una operazione di carico  di materiale  di soccorso per  terremotati. Giunti a Venezia e fatto rapidamente un  carico di ingenti quantità di indumenti e cibo  per i terremotati,  si misero nuovamente  in rotta per Reggio Calabria, per consegnare  prima possibile  il prezioso  carico ai sopravvissuti al terremoto. Purtroppo le condizioni meteo erano peggiorate. Con un mare in tempesta, forza sette,  furono costretti a sbarcare tutta la merce di soccorso che avevano a bordo  nel porto di  Gioia Tauro anzichè a Reggio Calabria. Alcuni di loro furono incaricati di sbarcare  e  di seguire il carico, che doveva essere stivato su un treno merci, e poi assicurarsi che il tutto arrivasse a destinazione. Altri invece , tra cui anche mio nonno,  ebbero l'ordine di restare  a bordo e di scandagliare le acque dello stretto in cerca di cadaveri. Dopo una settimana di faticoso  recupero di cadaveri il suo gruppo ritornò  esausto   nel porto di Palermo.  Da lì , finalmente il 10 di Gennaio  del 1909,  partirono per iniziare quel lungo viaggio, che doveva durare trentasei mesi , di circumnavigazione  attorno al mondo,  sospeso precipitosamente  in occasione di quell'immane  disastro. Nel 1910, a bordo della "Calabria",  a  testimonianza del suo coraggio gli venne assegnata una medaglia al valore civile e un diploma su cui era  scritto :" Il Re concede a Salmeri Giuseppe la Medaglia Commemorativa per aver prestato opera soccorritrice nei luoghi devastati dal terremoto di Messina e Reggio del 1908".  Nel 1915 all'inizio della Grande Guerra fu richiamato in marina con il grado di "Nocchiere". Riuscì a sopravvivere malgrado quella guerra avesse causato la morte ed il ferimento a  tantissimi soldati e distrutto numerose famiglie. Nel 1940 all'età di cinquantuno  anni  partecipò anche alla seconda guerra mondiale come "Comandante di dragamine". Svolse una decisiva opera nell'affondamento di una nave  nemica. Durante questa azione , malgrado il mare fosse  in tempesta e abbondantemente cosparso di mine, con sprezzo del pericolo, salvò la vita ad una ventina di marinai   dell'unità nemica affondata, rimasti in balia delle onde senza scialuppe di salvataggio. Per questa coraggiosa azione  gli fu assegnata una medaglia bronzo al valor militare e fu congedato con il grado di "Maresciallo Capo".

Proprio questa medaglia  la ebbi in dono da mio nonno nell'agosto del 1955, in occasione del mio settimo compleanno. Mi ricordo che  la ripose,  legata con cura ad  un nastrino rosso scarlatto,  dentro un piccolo barattolo di vetro trasparente,  insieme ad alcune  monete di metallo, di varie forme e colori,  che aveva raccolto nel suo viaggio  attorno al mondo. Io fui molto onorato di ricevere  da lui un dono cosi'  simbolicamente importante, perchè sapevo  bene lo sforzo che aveva dovuto compiere per meritarsela. La conservai  in  quel barattolo  per tanti anni, come fosse statauna preziosa reliquia. Poi ,  quando arrivò il momento che fummo costretti ad  abbandonare  la Libia per andare in Italia, fui fermato alla dogana dell'aeroporto di Tripoli per essere ispezionato. Vidi quell'innocuo barattolo di vetro girare per  varie mani, poi , all'improvviso scomparve. Ad una mia rimostranza  mi fu detto di non preoccuparmi  e di aspettare perchè, dopo un controllo,  tutto mi sarebbe stato restituito. Attesi invano.   Purtroppo mi dovetti imbarcare   senza il mio barattolo di vetro.  Penso ancora con nostalgia a  quel piccolo barattolo di vetro, prezioso solamente  per il suo  valore affettivo , che racchiudeva dentro di se'   così tanti bei ricordi della mia infanzia.

Purtroppo non ho mai conosciuto la mia vera nonna materna, Ninetta, perchè era morta nel 1945, qualche anno prima che io nascessi. Era morta improvvisamente a Marsala per un attacco di appendicite sfociato in peritonite. Tutti avevano accusato il colpo di una cosi prematura e grave perdita. Mio nonno, per un pò di tempo era vissuto stando insieme ai propri figli, mia madre Franca, la sorella maggiore Maria, quella più piccola Grazzina, il fratello Mario e l'ultimo nato, Giovanni. Ognuno di loro si era costituito una famiglia ed aveva un proprio casa. Dopo do circa cinque anni di vedovanza aveva deciso di sposare una signora Calabrese, di nome Nunziata, che io per rispetto  verso mio nonno  chiamavo Nonna Nunziata.

Durante il 1951, sei anni dopo la morte di mia Nonna Ninetta,   mio nonno aveva alloggiato  per un certo numero di mesi a casa dei miei genitori, in Sciara Camperio. Facendo la spesa nel negozio di generi alimentari in Corso Sicilia, all'incrocio con Sciara Camperio, aveva avuto modo di conoscere la signorina Nunziata, una donna calabrese, che gestiva quel negozio e  che aveva qualche anno meno di lui. Avevano fatto amicizia con lei  ed insieme avevano deciso di sposarsi, malgrado il parere contrario dei figli che reputavano che cinque anni di vedovanza del loro padre non fosse un tempo sufficiente per risposarsi. Mio nonno, con il suo particolare carattere, non aveva dato retta alle loro rimostranze,  e si era comunque risposato con Nunziata. Questa, subito dopo il matrimonio,  l'aveva convinto a lasciare la Libia ed andare a vivere insieme in un paesino di mille abitanti, dell'Aspromonte, Natile Nuovo, a ottocento metri sul livello del mare, dove lei era nata. Sbrigate le pratiche burocratiche di rimpatrio,  era giunti  a Natile Nuovo, accolti calorosamente dalla banda locale e dal sindaco del paese, che era uno dei tanti nipoti di Nunziata. La banda locale aveva suonato una marcia trionfale in loro onore. I motivi di questo benvenuto così caloroso erano vari e  più che fondati. Il nipote Sindaco di Nunziata  credeva che sua zia  aveva fatto fortuna andando all'estero ed era considera come una "Zia d'America". La fama guerriera di mio nonno era arrivata fin a quel piccolo paesino. Ricordo che davanti alla casa di mia nonno a volte c'era una piccola fila formata da abitanti di Natile, che erano  in attesa di essere ricevuti da mio nonno per un colloquio. Pare che mio nonno fosse considerato da questi abitanti un uomo con molta esperienza di vita, capace di dare buoni e saggi consigli a tutti. A miei occhi sembrava quasi che interpretasse la figura  di un Padrino.  Si diceva che nel 1958, per commemorare il cinquantenario del terremoto di Messina e Reggio Calabria, il sindaco allora in carica , dopo aver consultato alcuni vecchi documenti relativi a quel  terremoto, aveva trovato menzionato varie volte il nome di mio nonno, Giuseppe Salmeri, per i suoi atti di coraggio. Si era informato dove vivesse e gli aveva scritto una lettera dove gli comunicava di aver deciso di fargli una targa commemorativa e assegnare il suo nome ad  una nuova strada di periferia  di Reggio Calabria. La cosa non era andata in porto perchè  prima che la decisione fosse ratificata dalla giunta municipale, il Sindaco si era dimesso per motivi che non conosco. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, mio nonno si era ritirato in pensione dalla Marina col grado di Maresciallo Capo ed aveva cominciato a percepire dalla Marina stessa una modesta pensione. Per incrementare i suoi introiti aveva  accettato di buon grado l'incarico  di fare il custode della scuola elementare di Natile, offertogli proprio dal nipote Sindaco.  Tale incarico  gli garantiva un altro modesto introito, che sommato al primo gli permetteva di condurre una vita confortevole, anche se non agiata.  Non pagava l'affitto della pigione perchè gli era stato garantito dal Comune di Natile Nuovo  il privilegio  di avere un alloggio gratis all'interno della scuola stessa. Annesso all'alloggio c'era un giardino a cui lui si dedicava con amore.  Coltivava un pò di ortaggi e allevava polli, conigli e porcellini d'india. Quando da piccolo andavo a trovarlo in vacanza, ricordo che era piacevole sentire al mattino presto il canto del gallo. Nella tarda mattinata  andavo con lui nel pollaio a raccogliere le uova delle galline.  Dopo pranzo andavo con mio nonno a raccattare nei campi limitrofi al suo orto un pò di erba medica per i conigli e peri porcellini d'india. Una pomeriggio, mentre eravamo seduti all'ombra di un albero per goderci un pò di frescura,  gli avevo chiesto come mai un marinaio come lui, che  a diciassette anni aveva circumnavigato il mondo, che era stato comandante  di bastimenti a vela,  che aveva sempre servito la Marina, alla fine avesse scelto di andare a vivere in un posto così lontano dal mare. " E' una bella domanda" , mi aveva risposto, " e la risposta non è semplice." Non mi aveva risposto subito ma  si era lisciato i capelli e strofinato il mento come se stesse ponderando quale tipo di risposta dare, specialmente a uno come me che era ancora un bambino. Poi aveva proseguito:" Da quando tredici anni fa è morta mia moglie, ovvero tua nonna Ninetta, per me  il mondo è cambiato da così a così" ed aveva girato la mano destra per mostrarmi entrambi i lati della sua mano. " Da allora mi sono reso conto che la mia vita sarebbe comunque cambiata.  Non potevo continuare a vivere stando a casa dei miei  figli a Tripoli. Ognuno di loro ha ormai  la propria famiglia ed io da uomo solo e per lo più vedovo sarei diventato solo d'impaccio. So bene che tutti i miei figli  non hanno mai condiviso la mia scelta di sposarmi di nuovo,  ma io, come sempre ho fatto nella mia vita non ho voluto dare a nessuno  ed ho seguito il mio istinto. Ho preferito cominciare una nuova vita e risposarmi con una brava donna, con cui condividere gli ultimi anni della mia vita. Niente potrà cancellare  il ricordo del tempo trascorso con tua nonna Ninetta e non potrò mai amare nessuna laltra donna come ho amato lei. Dopo che lei se ne andata via per sempre ho preferito cambiare pagina, dovevo cominciare rifarmi una nuova vita, altrimenti sarei morto subito anch'io di depressione. Anche se ho ormai superato i sessanta anni, sono ancora spinto dalla continua ricerca del nuovo e dal mio innato spirito di avventura. Forse per questo ho deciso di prendere questa decisone. Ho seguito Nunziata ed il suo desiderio di ritornare a vivere per sempre nel suo paese natale, in cima a queste belle montagne dell'Aspromonte e vicino ai suoi parenti, non perchè me la avesse mai imposto ma solo per mio desiderio. Questi ultimi anni che mi resteranno da vivere li voglio trascorrere in un modo completamente diverso da quello vissuto quando ero più giovane. Voglio vivere in un posto tranquillo , dove c'è tanto silenzio, come questo. Certo mi manca tanto l'odore del mare, la vista del mare, il rumore del mare, ma  ogni quindici giorni prendo l'autobus che mi porta a Bovalino Marina, e lì rimango tutto il giorno andando in giro per il  porto ad annusare l'odore delle reti dei pescatori e a respirare la brezza marina. Ogni tanto mi fermo a parlare con i pescatori dei pescherecci locali. Con qualcuno di loro ho fatto già amicizia ed ogni tanto, tra una chiacchiera e l'altra,  mi fermo ad aiutarli a rammendare le loro reti. Ho accumulato un pò di soldi nel mio libretto postale, altri mi vengono dalla pensione della Marina. Con Nunziata incassiamo un piccolo stipendio per la custodia della scuola. Anche se la casa dove abitiamo  non è di nostra  proprietà, ma appartiene al comune, ho un contratto firmato dol sindaco locale che ci garantisce alloggio gratis vita natural durante.  Ho il mio orto da coltivare, gli animali da accudire, i miei cinque figli che, malgrado qualche incomprensione, mi vogliono ancora bene e mi vengano a trovare insieme a voi, i nipotini, tutti gli anni. Io mi sento soddisfatto di quello che sono e di quello che sono stato, anche se ora morirò, non m'importa niente, perchè so di morire sereno". Ero rimasto ad ascoltare queste toccanti parole di mio nonno, che mi aveva sempre affascinato per la sua saggezza di uomo vissuto. Mio nonno aveva affrontato la sua vita, superando problemi,  senza mai arrendersi. Era stato lui che mi aveva riferito un motto, a cui ho sempre dato importanza nella mia vita :"Le persone ordinarie vedono i problemi, le persone intelligenti le soluzioni, quelle speciali le opportunità. " Il fatto di voler restare indipendente, senza contare sull'aiuto dei figli, era la conferma della sua vita di combattente. Anche se ora sembrava accontentarsi di una vita, in apparenza, monotona, diversa da quella precedente, che era stata più avventurosa, ed appariva sereno, sono sicuro che al suo interno batteva ancora un cuore di guerriero.

Mio nonno Giuseppe, aveva sempre avuto con suoi i figli aveva un carattere autoritario, tanto che quando si rivolgevano a lui dovevano dargli del "Vossia". Con me invece, il suo primo nipote maschio,  aveva un rapporto diverso, perchè io potevo dargli del "tu". Ricordo che  da piccolo, all'età di dieci, dicevo che da grande volevo fare il barbiere. Per assecondarmi  mia nonno si sedeva davanti ad uno specchio, si metteva una  asciugamano attorno al collo e buono, buono si faceva tagliare i suoi capelli da me. Naturalmente mentre tagliavo i suoi capelli con le forbici, lui mi controllava con lo specchio e  mi dava i suoi  consigli. Mia madre qualche volta stava accanto a noi con lo sguardo  preoccupato. "Lassalu fari a tu figghiu, chissu nu bravu varveri veni" ,  e mi sorrideva strizzandomi l'occhio e  facendomi capire di non preoccuparmi perchè lui era un mio complice. Quando era ancora in Libia ed era vedovo, mio nonno  aveva trascorso un certo periodo di tempo nella nostra casa  al Lido. Una volta che avevo circa sei anni ed  eravamo rimasti soli, dopo che ero stato sculacciato da mia madre,  ero caduto in un profondo sconforto perchè pensavo che mia madre era troppo severa nei miei riguardi. Credendo di non essere il vero figlio di mia madre, ma un bambino adottato, mi ero   armato di coraggio e gli avevo chiesto. "Nonno, è vero che tu c'eri quando io sono nato?" - Lui mi avevo risposto  , "Certo che c'ero e mi ricordo che  avevi tanti capelli neri, tanto che mi parevi Dante Alighieri". Io, non soddisfatto, continuavo: "Nonno, ma chi è questo Dante Alighieri, non è mica mio padre?"  "Ma no, Dante Alighieri  era un grande poeta italiano, vissuto centinaia di anni fa, ma che aveva una lunga chioma di capelli neri proprio come l'avevi te quando sei nato", mi rassicurava accarezzandomi i capelli. Ero così certo che mio nonno mi avesse detto la verità che  mi rasserenavo subito. Per mia fortuna crescendo  questo dubbio infantile mi è passato. >>>