LA NOSTRA TERRAZZA
<<< Dall'ingresso
condominiale della nostra palazzina partiva una rampa di scale, costruita con marmo bianco venato di
grigio, che arrivava fino in cima al pianerottolo dove
era la porta di legno della terrazza.
Questa porta non era
grande ma aveva una serratura antica che per aprirla occorreva una
chiave di grosse dimensioni, tanto che noi la chiamavamo "la chiave
di san Pietro". La terrazza copriva tutta la palazzina ed era
protetta da un muretto alto circa un metro e venti e spesso
trenta centimetri, che correva lungo tutto il suo perimetro esterno ed era divisa in due parti uguali con un
altro muretto
divisorio. La nostra parte di terrazza era in condominio con la
famiglia Costa, una coppia sposata senza figli, che abitava al primo
piano sopra di noi. Metà dell'altra terrazza apparteneva alla famiglia
D’Amico, composta da Pippo, il capofamiglia, la moglie Mariuccia Guarrasi, sorella del bravo
nuotatore e pescatore subacqueo tripolino Pino Guarrasi, ed i figli Cettina, Ninni e
Roberto, che abitavano nell'appartamento al piano
terreno, proprio di fronte al nostro. L'altro quarto della terrazza
apparteneva alla famiglia che occupava l'altro appartamento del
primo piano, in cui ci avevano abitato dapprima i
Nuzzo, poi i Ciciliano ed infine i Marra, genero del famoso sarto
tripolino di Sciara Mizran, che vestiva la famiglia reale ed alcuni
dei più importanti notabili libici, Turtulici. La terrazza,
che fungeva anche da tetto della palazzina, era ricoperta da un
pavimento che era stato isolato con uno strato di catrame e
rivestito di piastrelle rosse. Nelle due terrazze c’erano quattro
lavanderie , uno per appartamento, che servivano anche da
ripostiglio. All’interno di ogni lavanderia c’era un lavatoio di
granito, formato da un catino, fissato ad un piano leggermente
inclinato ed ondulato, per poterci lavare e strofinare i panni. Mio
padre, su insistenza di mia madre, aveva costruito degli scaffali in
ferro, fissandoli ad una delle pareti, che erano molto utili per
riporci tante nostre cianfrusaglie. Mia madre stendeva i nostri
panni ad asciugare all’esterno della terrazza, appendendoli
con le mollette a dei fili di ferro che mio padre aveva messo in
tensione e fissati , da una parte, a dei ganci avvitati
alla parete della nostra lavanderia e dall’altra a dei
paletti di ferro imbullonati al muretto della terrazza. Da
lassù si godeva veramente una bella vista. Ad Ovest c'era il mare,
la spiaggia del Lido Vecchio e quello scoglio, che forse non
ha mai avuto un nome e che si poteva vedere anche dalla spiaggia dei
Sulfurei; a Nord-Est, si vedeva il vecchio campo di calcio del
Maccabi, la fabbrica di olio di ricino e più in là lo Stadio
Centrale ed una parte del recinto della Fiera Internazionale; sul
lato Est i binari della vecchia Ferrovia e a Sud-Ovest la strada che
portava ai Sulfurei, a Giorginpopoli, fino a Gargaresh. Noi
utilizzavamo questa terrazza per diverse occasioni. Dopo cena, nelle
limpide e calde sere d’estate, quando venivano a farci visita alcuni
vicini di casa. Aprivamo le sedie sdraio per chiacchierare ed
ammirare il cielo notturno illuminato da tante stelle. Nelle notti
di agosto ci stendevamo, come foche, su alcune coperte distese sul
pavimento, e stavamo lì, fino alle ore piccole, in attesa di
vedere passare qualche stella cadente e fare a gara a chi ne vedeva
di più. Mio padre, che si intendeva un pò di astronomia, mi
insegnava a conoscere alcuni nomi di stelle e ad indicarmi la forma
di qualche costellazione. La nostra terrazza era comoda ed utile
per ogni evenienza. La usavamo quando veniva il
periodo di distendere ed allargare la lana dei materassi, o quando
si doveva
preparare la conserva di pommarola, o quando volevo asciugare al
sole i francobolli della mia collezione, o per le feste di compleanno,
di Battesimo, della Cresima. C’era anche chi, come la vecchia
signora Casadio, che abitava nella palazzina accanto alla nostra, utilizzava la
sua terrazza per allevare piccioni.
Mi ricordo quando, nell'aprile del
1954, in occasione di quella indimenticabile grandinata che colpì
furiosamente Tripoli e forse tutta la costa libica, mi trovavo con
mia madre nella mia terrazza, dentro la nostra lavanderia, mentre
mia madre lavava i panni. Ad un tratto sentimmo dei colpi
abbattersi sul tetto della lavanderia come fossero degli spari,
mentre il pavimento della terrazza si andava riempiendo di chicchi
di grandine. Riparati dentro la lavanderia stavamo assistendo
ad un evento naturale di grande interesse ed assai raro,
specialmente in una zona come quella. I chicchi di grandine
caduti dal cielo erano così grossi che qualcuno, forse esagerando, diceva
che avevano addirittura la dimensione di un'arancia. Non so quanti
danni questa grandine abbia procurato alle coltivazioni
o se avesse ferito delle persone , ma ricordo i grossi buchi
lasciati sui muri della nostra terrazza e sulle pareti esterne delle
abitazioni vicine, come se ci fosse stato un bombardamento militare.
L'anno dopo, nel 1955, in quella zona, accadeva un altro evento straordinario:
l'invasione delle cavallette. Rammento che ero salito di corsa con
mia madre sulla terrazza per vedere meglio il cielo coperto da un
nugolo di milioni di cavallette, così fitto da oscurare il sole. La
terrazza era completamente coperta da tante cavallette, sia vive che
morte e per ripararci, io e mia madre, ci eravamo messi una coperta
addosso. Guardando giù dalla terrazza vedevo che alcuni ragazzi
arabi che correvano indaffarati a raccogliere le cavallette morte
e le mettevano dentro alcuni secchi ed altri tutti presi ad
acchiappare quelle vive, che saltellavano qua e là, per infilarle
dentro dei sacchi di juta. Per vari anni a seguire si continuava a
parlare di questi due
episodi, quello della grandine e quello delle cavallette, come di
due eventi così straordinari che quando si voleva ricordare qualcosa
successa in quell'anno si diceva : "Ti ricordi l'anno delle cavallette? " oppure " Ti
ricordi l'anno della grandine?". >>>
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