Sono vissuto e cresciuto fino
all'età di 22 anni nella zona del Lido Vecchio, a Tripoli. Il
Lido era uno stabilimento balneare situato alla periferia della città,
a circa 5 kilometri dal centro cittadino. La sua spiaggia di sabbia
quasi dorata si sviluppava su una lunghezza di circa un
miglio dalla zona del campo del Maccabi fino al
all'altro stabilimento balneare, chiamato Lido Nuovo. Lo stabilimento
del Lido Vecchio, costruito all'inizio degli anni '30, aveva un
edificio centrale in muratura in cui c'erano docce, WC ed una zona bar,
con calciobalilla e flipper, mentre le cabine per spogliarsi era
di legno. Prima di allora non c'era niente, se non
una selvaggia spiaggia di sabbia, chiamata la Spiaggia dei
Dirigibili.
Sembra che questa spiaggia fosse
chiamata in questo modo per essere stata, durante la guerra italo-turca,
teatro
d'azione di guerra, tanto che
vennero impiegati alcuni dirigibili
italiani a scopo militare. Il lido adiacente, il Lido Nuovo,
più moderno, era stato costruito nei primi anni del
dopoguerra, con tutte le sue cabine in muratura.
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Zona Lido Vecchio - Spiaggia Dirigibili |
Un
dirigibile di quel periodo |
Ingresso
del Lido Nuovo |
Nel
rione del Lido Vecchio, oltre ad abitarvi un
centinaio di famiglie italiane, risiedevano anche
delle famiglie libiche. Grazie al fatto che mia madre
conosceva discretamente il dialetto arabo locale,
intrattenevamo proprio con alcune di queste famiglie dei buoni rapporti
di vicinato. La famiglia di Hamid era
quella a cui eravamo più legati, quella con cui si era sviluppato un
buon rapporto di reciproca simpatia. Hamid, che sapeva parlare
l'italiano, era il custode notturno della centrale idrica
della zona, che distava a circa duecento metri in linea d'aria da casa
nostra, in Via Camperio n. 10. La loro casa era
adiacente alla sala macchine della centrale idrica. Da questo
locale, pur insonorizzato, proveniva un rumore continuo,
simile al frinire di mille cicale. All'interno c'erano
macchinari (turbine e pompe idrauliche), che avevano la duplice azione
di estrarre e pompare acqua. Dalla sala macchine partivano
dei grossi tubi d'acciaio che poi si diramavano all'esterno
per fornire acqua alle abitazioni della zona. Durante il
giorno il turno di lavoro per il controllo della centrale era coperto
dal un tecnico italiano di
origine veneta che si chiamava Leone Genovese (vedi
l'articolo
LE FAMIGLIE
ITALIANE DEL LIDO E IL MITO AMERICANO
- pubblicato sul
notiziario “L’Oasi” n° 3/2008 - Settembre -
Dicembre 2008) , mentre
Hamid copriva il resto delle ore.
Per
svolgere questo suo lavoro la società, che gestiva l'acquedotto, gli
aveva assegnato un locale a pian terreno, per poterci vivere
con la sua famiglia.
Hamid,
finito il suo turno di lavoro, dopo essersi riposato per un
po' d'ore durante il giorno, utilizzava la sua bicicletta per
andare in giro o per fare la spesa al mercato. Spesso lo vedevamo
pedalare con fatica sulla sua bicicletta stracarica di coffe colme di
generi alimentari. Quando eravamo affacciati alla nostra
finestra lui si fermava per salutarci (forse anche per
riposarsi) e per invitarci ad andare a casa sua a
prendere il tè con le noccioline. Per andare a piedi
da casa nostra a casa sua s'impiegava meno di cinque
minuti. Hamid amava lasciare sempre aperta la porta di casa
sua, perchè diceva che i ladri non erano così stupidi di
entrarvi, visto che non c'era proprio niente da rubare. In
effetti aveva una casa povera, priva di armadi, di sedie, di tavoli,
molto diversa dalla tradizionale casa di una famiglia
italiana. La superficie intera della casa era di
circa 80 metri quadri, costituita da un grande monolocale a forma
rettangolare. Una spessa tenda colorata, fissata con dei robusti ganci
al soffitto, scendeva fino al pavimento e
faceva da divisorio tra la zona notte e la zona
giorno. La zona notte era tutta ricoperta di
tappeti. C'erano 4 o 5 materassi stesi per terra,
due grossi bauli , un grande specchio appeso ad una parete, una brocca
d’acqua ( chiamata in arabo gargoletta), una
rotonda tinozza di rame per lavarsi e fare il bucato. Durante tutto il
giorno tutti componenti della famiglia vivevano nella camera
accanto, cioè nel soggiorno, che aveva una grandezza doppia
della camera da zona notte. Qui Hamid e la sua famiglia trascorrevano
gran parte della giornata cucinando, mangiando, intrattenendo i loro
ospiti e lavorando. In un angolo del soggiorno, accanto ad un ampio
finestrone da cui entrava la luce esterna, c'era un
telaio di legno
che utilizzavano per creare tappeti, con i fili dell'ordito
tesi a terra, fra due pali fissati a dei picchetti.
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Telaio
in legno |
Tipico
arredo di stanza-soggiorno |
Dopo
aver accudito alle faccende domestiche, Salma, la
giovane moglie di Hamid, passava una buona parte del suo
tempo. I tappeti di Salma erano molti belli . Le
decorazioni erano eseguite con eccellente fattura e mostrava una grande
maestria nella scelta dei colori, un arte questa che aveva appreso da
sua madre Aescia, ormai diventata cieca e
non più in grado di lavorare. Alcuni di questi tappeti venivano venduti
ai negozi di tappeti del centro cittadino oppure venivano offerti a
buon prezzo alle famiglie italiane che abitavano nella zona. Sempre nel
soggiorno, addossato alla tenda divisoria troneggiava un grande divano
a quattro posti, che diventava un letto matrimoniale nel caso ci
fossero stati degli ospiti. Era il pezzo di mobilia più pregiato della
casa, tanto che lo tenevano quasi sempre coperto con un
lenzuolo bianco, per non prendere polvere o per non
macchiarsi. Questo lenzuolo bianco veniva tolto
solo nelle grandi occasioni o quando si dovevano accomodare degli
ospiti importanti. Nella stanza, allineati a muro,
al posto delle sedie c'erano dei cuscini, che venivano
utilizzati per rendere più confortevole l'appoggio
sul pavimento. Questo era abbondantemente ricoperto da
diversi tappeti di varie misure, visto che questi si
producevano in casa. Ricordo che in quel soggiorno
si avvertiva una gradevole fragranza di spezie orientali mista ad un
odore acre ma buono di carbonella bruciata. All'interno della casa
mancava una cosa sola, il bagno, che era stato sistemato all'esterno, a
ridosso della casa. Il bagno consisteva in uno stanzino senza finestre
di circa cinque metri quadri, con una porta che aveva due
fessure nella porta, una in alto e l'altra in basso, che
servivano al ricambio d'aria. All'interno dello stanzino
c'era un interruttore ed una lampadina, un vaso alla turca,
corredato
con uno sciacquone con la catena, un rubinetto per sciacquarsi ed un
minuscolo lavandino su cui c'era un grosso sapone da bucato. Quando era
bel tempo stavamo fuori nel loro giardino, al fresco di un pergolato.
Prima di entrare nella loro casa mia madre mi raccomandava di stare
tranquillo, di essere gentile e più che altro di ascoltare
quello che dicevano gli adulti. Una volta entrati salutavamo
gli ospiti presenti con un saluto
arabo, dicendo As-salam
aleikum (che
significa la pace sia con voi);
allora tutti, voltandosi verso di noi e senza alzarsi, si
rivolgevano educatamente a noi con un segno di saluto, portando la loro
mano destra sul petto ,rispondendo in coro Wa alikum
as-salam. (che significa sia con voi la pace,)
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As-salam
aleikum - La pace sia con voi |
Ua
alikum as-salam - (risposta) - Sia con voi la pace |
Insieme
a Hamid, c'erano Salma, sua moglie e i loro due
figli Freg, il
più grande e Mohammed.
Molte volte a prendere il tè c'era anche Jamila,
che era la sorella maggiore di Salma, Con lei
c'erano anche i suoi figli Hussein e Mabruka.
Raramente trovavamo altri ospiti. Appena ci vedeva arrivare, Hamid, da
buon padrone di casa, con un cenno gentile della mano ci
invitava ad entrare. Dicendo gams
(che in arabo locale significa sedetevi), ci invitava ad
accomodarci su alcuni morbidi cuscini che erano attorno ad un tavolino
di legno di forma circolare. Per rispetto alle loro consuetudini io e
mia madre ci sedevamo sui cuscini, con le gambe incrociate.
Per ricambiare la cortesia dell'invito mia madre portava
sempre con se un regalo. Generalmente era una scatola di zucchero di
canna da 1 kg, che a Salma piaceva tanto. Comunque i donI più
apprezzati erano i barattoli di gustosa marmellata, fatta con
una qualità di arance dalla scorza spessa, chiamate calabresi, che mia
madre preparava in casa.
Hamid, aveva circa quaranta anni, ma
ne dimostrava di più. Diceva che, da vari anni, era affetto
da un fastidioso mal di testa, che non lo faceva dormire
bene. Nessun medico aveva capito quali fossero le cause delle
sue cefalee e nessuno farmaco in commercio sembrava portargli
giovamento. Negli ultimi tempi però aveva trovato un rimedio
che sembrava funzionare. Consigliato da alcuni amici si era rivolto ad
una guaritrice o "praticona" locale, il cui rimedio
consisteva nell'incidere 5 o 6 tagli sulla sua
fronte utilizzando una lametta da barba
ed applicando una sanguisuga per ogni taglio. Le
sanguisughe poi gli succhiavano il suo sangue. Hamid era felice di
stare meglio ed era così fiero delle sue sanguisughe color nero
tanto che una volta c'è le mostrò dentro un barattolo.
Il
figlio maggiore Freg era un tipo silenzioso e
riflessivo. Aveva un talento naturale per il disegno e per i
colori. Malgrado avesse solo dieci anni era abile a ritrarre i
lineamenti delle persone con pochi tratti della matita ed aiutava la
madre nel creare i disegni per i suoi tappeti. Il
secondogenito Mohammed, che aveva 1 anno
e mezzo meno, era un ragazzino timido. I genitori
lo chiamavano il "piccolo poeta" per la sua predisposizione
a comporre poesie . Anche a scuola era stato
premiato varie volte per la sua notevole capacità di scrivere
piccoli racconti.
Hussein,
che era un loro cugino, aveva
circa sedici anni ed era considerato dai suoi zii un ragazzo modello;
studiava con grande applicazione ed aveva conseguito degli
ottimi risultati come perito elettrico presso la Scuola
d'Arti e Mestieri, ubicata in Sciara 24 Dicembre
tanti che prometteva di diventare un provetto
elettricista.
Mabruka
era la
sorella di minore Hussein. Aveva un viso dolce, ed una folta
capigliatura di un colore
bruno scuro, una pelle olivastra, occhi neri, labbra carnose, un
bacino piuttosto largo e una linea procace per la sua età. Anche
se vestiva tutta coperta da indumenti orientali, si avvertiva, dal suo
portamento, che sotto quelle vesti ci doveva essere un corpo
sodo e ben formato. Anche se era ancora molto giovane (non doveva avere
più di 15 anni) i suoi seni erano già prosperosi
come una donna adulta. Nonostante fosse stata educata in un ambiente
con una mentalità diversa dalla nostra, mostrava di ammirare
lo stile di vita libero delle ragazze italiane o occidentali. Mia madre
mi diceva che Mabruka si faceva prestare
fotoromanzi o riviste italiane tipo Luna Park,
Sogno,
Grand
Hotel o Bolero,
di seconda mano, che guardava e sfogliava avidamente pur
non conoscendo la scrittura italiana. Purtroppo le donne
libiche, sia per la mentalità che per gli usi e costumi
locali, erano costrette vivere sotto molto restrizioni e con
poca libertà di azione e di pensiero. A loro non era assolutamente
permesso di comportarsi o di vestirsi nella stessa maniera disinvolta e
disinibita delle ragazze italiane.
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Tripoli
-Sciara 24 Dicembre - La scuola Arti e Mestieri |
I
romanzi illustrati di quel periodo |
Jamila,
la
madre di Mabruka, aveva ancora dei bei lineamenti,
anche se il suo corpo si era già
appesantito per l'età. Mia madre la considerava un'ottima
cuoca ed infatti quando erano insieme discutevano per lo più di ricette
e di piatti prelibati. Tra loro si scambiavano informazioni e
ricette. Tra quelle libiche ricordo il cuscus
con l'agnello e la sharba
(zuppa di carne d'agnello molto speziata), mentre tra quelle
italo-sicule il cuscus di pesce (piatto
tradizionale trapanese) e gli
spaghetti
cu u’ niuru di sicci (spaghetti col nero di seppia).
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Una
scodella di Sharba |
Un
piatto di spaghetti col nero di seppia |
Jamila
preferiva cucinare con la legna anzichè con il gas. Nelle giornate
ventose, quando il vento veniva da ovest e la nostra
casa era sottovento rispetto alla loro, vedevamo il fumo salire in
aria e sentivamo giungere alle nostre narici il
gradevole odore della legna bruciata e subito dopo
quello più intenso di cipolla soffritta. Questo significava
che Jamila, da esperta cuoca, per
insaporire il condimento si era messa a soffriggere della cipolla
usando una padella posta su un kanun , un
fornello portatile che nei periodi freddi veniva utilizzato anche come
stufa.
Quando
usciva di casa Salma,
la moglie di Hamid, si copriva interamente con un rdé
(un barracano da donna) di lana lavorata, lasciando libera
solo una piccola fessura davanti ad un solo occhio. A casa sua invece,
lontana da sguardi indiscreti, si copriva solamente
con una elegante e leggera stoffa di morbida seta, disegnata
a strisce colorate. Portava il viso scoperto ed aveva dei
capelli nerissimi e lisci lunghi e lisci, lucidi di olio di seme di
lino. Truccava i suoi occhi di nero con il
kohl,
(è una polvere composta principalmente di galena, malachite, zolfo e
grasso animale usata per il trucco
degli occhi), mentre le caviglie dei piedi erano tatuate con
la hennè.
(è un unguento tratto dalla pianta dell’hennè
di tinta bruno-rossastra usata dalle donne orientali per tingersi i
capelli e decorarsi il corpo).
Salma portava ai polsi alcuni
rigidi e rotondi braccialetti argentati, e sul petto un ciondolo con la
forma di mezzaluna. Nell'insieme era una donna di bello aspetto. Stava
seduta con le gambe incrociate su un grosso cuscino ed
insieme al marito presiedeva al rito
dello scià-hi
(il tè) del pomeriggio. Utilizzava un kanun, riempito di sabbia e di
carbonella accesa, con
sopra ben sistemata sulla brace una barrada
grande, cioè una teiera colma d'acqua messa a bollire con tè
rosso. Di lato c'erano oltre ad un'altra barrada
leggermente più piccola con dentro dello zucchero anche una grande
tazza di alluminio. Entrambe le barrade erano in ferro smaltato, blù
scuro all'esterno e bianco all'interno. Il kanun invece era un fornello
di terracotta, delle dimensioni di una piccola pentola, alto circa
venticinque centimetri e largo venti, con dei fori a tre
quarti per permettere al carbone acceso di respirare e con
tre punte sul bordo in cima, che servivano per appoggiare la pentola
per cucinare. Salma con un mano
assestava meglio la barrada grande dentro
il carbone acceso e con l'altra faceva
vento con un ventaglio a banderuola, fatto con le palme dei
datteri, che serviva ad alimentare il fuoco.
Tenendo lontane la barrada grande e la tazza d'alluminio ad
un distanza di circa mezzo metro, travasava per una decina di
volte dall'alto in basso il tè bollito, dall'uno all'atro contenitore
per creare sopra il tè una densa schiuma. Poi riempiva
accuratamente tutti i bicchierini da tè, fino all'orlo. Era
così brava a farlo che non ne faceva uscire fuori una sola goccia. In
quell'occasioni l'ospite d'onore era mia madre, che veniva servita per
prima. Il primo tè aveva un colore molto scuro, con un sapore forte e
deciso, con tanta schiuma ma non eccessivamente dolce.
Generalmente i bicchieri
erano piccoli e tutti di vetro e dopo il primo giro, tutti i
bicchierini venivano accuratamente lavati in una bacinella già riempita
d'acqua e asciugati con un panno. Nel secondo giro
di tè aveva un colore intensamente più chiaro, molto ricco di schiuma,
con un gusto leggermente più debole ma più zuccherato
rispetto al primo. Anche noi davamo il contributo alla
cerimonia sbucciando noccioline, poi, mentre Salma continuava
a bollire altra acqua,era compito di Hamid abbrustolirle al punto
giusto dentro una padella bucherellata. Dopo che i
bicchierini erano stati nuovamente lavati e puliti, veniva servito il
terzo bicchierino di tè, con dentro delle buonissime
noccioline tostate, la cacawuia.
Il terzo giro di tè, quello con le noccioline era quello che
a me piaceva di più. Il solo inconveniente era che, dopo aver finito di
bere quasi tutto il liquido dal bicchierino, alcune noccioline
restavano incollate sul fondo e per poterle staccare
occorreva usare le mani.
C'era
una bacinella colma d'acqua con cui ci pulivamo. Quando l'acqua era
sporca veniva cambiata con altra acqua pulita che proveniva da una
brocca d'argilla, che loro chiamavano in arabo gargoletta.
Io trovavo la gargoletta così pesante da sollevare, che dovevo farmi
aiutare da mia madre per versare l'acqua.
Tornando
a casa mia Mabruka e mia madre si intrattenevano
lungo il marciapiede per continuare a parlare. Mabruka veniva
a casa nostra due volte alla settimana per aiutare
mia madre nelle pulizie domestiche. Entrambe andavano molto
d'accordo e le sentivo spesso ridere e scherzare fra loro mentre
pulivano la casa. Quando le vedevo discutere con serietà significava
che Mabruka stava confidando a mia madre i suoi problemi sentimentali.
Il
problema era che Mabruka si era perdutamente innamorata di un
giovane ragazzo , di qualche anno più grande di lei, di nome Mohammed,
un ragazzo simpatico ed ingegnoso che abitava nella zona.
Mohammed aveva aperto, per conto proprio nella zona
di Corso Sicilia, una piccola officina per riparare biciclette o camere
d'aria bucate ma..... Purtroppo c'era un ma. La complicazione stava nel
fatto che
Suleiman,
il padre di Mabruka, che di mestiere faceva il muratore,
voleva che sua figlia si sposasse con un altro ragazzo di nome
Fadi.
Questi era il figlio primogenito del suo datore di lavoro, un ricco
imprenditore edile che abitava a Città Girdino.
Suleiman
credeva fermamente che questo
eventuale matrimonio gli avrebbe assicurato due vantaggi .Il
primo che sua figlia si sarebbe sposata con un uomo benestante , il
secondo che gli avrebbe procurato un avanzamento di carriera in seno
alla ditta. Mabruka aveva conosciuto in precedenza Fadi
durante una festa di matrimonio a casa di comuni amici. Già da questo
incontro aveva avere provato avversione per lui.
Fadi non piaceva a Mabruka per varie ragioni. Prima
di tutto perché era basso e mingherlino e poi aveva
i denti guasti ed ingialliti dalle sigarette. La consuetudine voleva
che in seno ad ogni famiglia libica ogni potere decisionale spettasse
al capofamiglia, cioè al padre. Come prima cosa
Suleiman
aveva proibito a Mabruka di
incontrare Mohammed , poi aveva invitato Fadi a casa loro per conoscere
meglio sua figlia. Mabruka si disperava perché amava Mohammed e perchè
sapeva che non poteva decidere niente senza il volere del
padre. La poveretta aveva implorato sua madre, Jamila, perchè
intercedesse per lei, convincendo l'ostinato Suleiman a cambiare idea.
Purtroppo anche Jamila non era riuscita a convincere suo marito, perchè
anche lei conveniva che fosse stato meglio per il
suo futuro sposare un buon partito. A questo punto la
disperata ragazza si era rivolta a mia
madre, che considerava una cara e fidata amica. per chiedere
consiglio. Subito dopo qualcosa accadde: sia Mabruka che Mohammed
sparirono insieme dalla circolazione, svanirono nel nulla per circa una
settimana. Praticamente fecero quello che in Sicilia viene chiamata
fuitina, termine che
identifica l'allontanamento di una coppia di giovani aspiranti coniugi
dai rispettivi nuclei
familiari di appartenenza, allo scopo di
rendere
esplicita (o meglio far
presumere)
l'avvenuta consumazione di un
atto
sessuale
completo in modo da porre le famiglie di
fronte
al "fatto compiuto" e inducendole a concedere il consenso per le
nozze
dei fuggitivi. Quando ritornarono dallo loro fuga il giovane Mohammed
andò dall'affranto Suleiman per farsi perdonare e per chiedere Mabruka
in sposa. A quel punto la situazione si era evoluta ad un punto tale
che Suleiman fu costretto accettare.
Ormai
anche il ricco e potente padre di Fadi non avrebbe mai
permesso a suo figlio di sposare una ragazza così ribelle e caparbia .
Poco tempo dopo questo fatto la
coraggiosa Mabruka sposò il suo amato Mohammed.
Come atto di amicizia e di affezione nei confronti di mia
madre, Mabruka ci portava spesso da casa sua un
abbondante, odoroso e piccante piatto di cuscus, di colore
giallo per lo zafferano, colmo di ceci, zucca rossa, patate e pezzetti
di montone, cucinato dalla madre Jamila. In seguito mia madre
mi raccontò che prima di partire per sempre dalla Libia nel
1970, Salma, Jamila e Mabruka andarono a trovarla a casa
nostra per salutarla ed abbracciarla con le lacrime
agli occhi.