Le famiglie
italiane del rione ed il mito americano
Capitolo
2° |
(sottofondo
musicale : Tu vo' fa' l'americano di
Renato Carosone)
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Con il film,
Un americano a Roma, Alberto Sordi ironizza il
mito americano |
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ll rione del Lido a Tripoli, dove sono nato nel 1948 e poi vissuto
per ventidue anni, era abitato da circa una settantina di famiglie
italiane. La maggior parte di esse apparteneva al ceto medio della
comunità italiana residente a Tripoli. Quasi tutte erano giunte in
Libia nei primi anni venti e più della metà provenivano dalla
Sicilia e dal Veneto. Ciò lo si può verificare analizzando uno ad
uno le origini di questi nomi. Alcune di queste coppie, che
formavano una famiglia, erano chiamate miste solo perché a
sposarsi erano state due persone che provenivano da due regioni
italiane diverse. Questo fatto era considerato allora un esempio di
cambiamento e di trasgressione rispetto a quella che era la comune
usanza di quei tempi. Il detto: moglie e buoi dei paesi tuoi
è l’emblema della mentalità di quel periodo. Il resto delle altre
famiglie veniva dalla Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Toscana,
Emilia e Romagna. La mia famiglia era formata dai miei genitori e da
me, figlio unico. I miei era entrambi siciliani: mio padre si
chiamava Giuseppe Ernandes ed era nato a Favignana, un’isola delle
Egadi e mia madre Francesca Salmeri era nata a Marsala. Entrambi i
paesi sono in provincia di Trapani. I miei genitori hanno vissuto
per tanti anni, ancora prima che io nascessi, con queste famiglie
italiane nel tranquillo rione del Lido, in Sciara Manfredo
Camperio. Sembra, dalle ultime informazioni, che oggi questo rione
non esista più. Ho avuta questa conferma qualche anno fa, visitando
on line su internet il programma
Google Earth. Fonti attendibili dicono che qualche
decennio fa questo rione sia stato raso completamente al suolo. Oggi
al suo posto sono state costruite nuove case e nuove strade.
Proprio per questo motivo dedico questo articolo al ricordo di
queste famiglie ed ad alcuni personaggi, probabilmente oggi
scomparsi. Proprio loro, anni addietro, hanno partecipato alla vita
di questo rione e hanno contribuito con le loro azioni a lasciarmi
alcuni meravigliosi ricordi della mia infanzia.
Cito i nomi di queste famiglie in stretto ordine alfabetico:
Aharonian, Altomare, Annino, Arena, Avola, Badalucco, Barabani,
Basile, Bellodi, Berardi, Bessi, Bordiga, Braga, Branciamore,
Calandra, Cannucci (diverse famiglie), Capuana, Carbone, Casadio,
Cassar, Cassarino,
Catania,
Chiarelli, Cicero,
Ciciliano, Costa, Covato, Cristoforo, Cubisino, D’Alba,
D’Agostini, D’Amico (diverse famiglie),
D’Anna-Veri,
De Marchi, Durano, Ernandes, Frisone, Galea, Gallo, Gaudio, Greco,
Guarrasi, Imperatore, Infantolino, Lenci, Longo, Mandara, Mariotti, Marra,
Martinez, Massimi, Mazzocca, Montalbetti, Montale, Moschetti, Nobile, Nuzzo,
Palazzolo, Paolillo, Pipitone, Piva, Pozzati, Presta, Rossi, Russo,
Rutigliano, Salemi, Sanfilippo, Santagati, Sapuppo, Schembri,
Schettini, Sciuto, Scolari,
Spallina, Spera, Taliana, Teodoro, Trapani, Zocco. Probabilmente
avrò dimenticato di scrivere qualche cognome e me ne dispiace. Se
qualcuno leggendo queste righe me lo facesse notare, attraverso la
redazione dell’OASI, gliene sarei veramente grato. Dopo vari anni
di stretta vicinanza, oltre che a conoscersi, per nome o di vista,
erano sorti dei legami di vera amicizia e sincera affezione con
alcuni di loro.
Tra la mia famiglia e quella degli Zocco, dei Badalucco e dei
Salemi si era venuta a creare un particolare legame di reciproca
simpatia. In alcune domeniche invernali, quando il tempo era bello,
la famiglia Salemi, composta dal marito
Michele, da sua moglie
Anna,
e da due figli Corrado e Mario ci invitavano a fare un giro nella
loro macchina, una
Hillman
bianca e rossa. La macchina la guidava il signor Michele (Emilio per
gli amici) e generalmente eravamo in cinque: io con i miei genitori
ed i due Salemi. I loro due figli Corrado e Mario, più grandi di me
di circa sei anni, erano liberi di andarsene in giro con i loro
amici. Io, che allora avevo appena 10 anni, invece ero costretto a
stare insieme ai mio padre e mia madre. Nel pomeriggio quando si
partiva con la loro macchina, andavamo in alcuni posti di interesse
vicini a Tripoli. Ricordo Zavia e Sorman. A proposito di Sorman ho
letto su una rivista di attualità che ultimamente vi è stato girato
un film intitolato
Le Rose del
deserto. Il film è stato diretto dal famoso regista
italiano
Mario Monicelli
con gli attori
Michele Placido
ed
Alessandro Haber.
Il romanzo che ha ispirato il film è stato quello di Mario Tobino,
Il deserto della Libia. Alcune volte andavamo nella
vicina Tagiura per cenare, con pizza ed olive siciliane, nel
rinomato locale del Signor Moncada. Se invece partivamo al mattino
presto e vedevo mia madre indaffarata a preparare un pranzo speciale
per un picnic, ciò significava che quel giorno la nostra gita in
macchina aveva una destinazione più lontana. Se gli adulti
decidevano di andare verso ovest significava che la nostra meta
ultima era Sabrata, se invece si andava verso est, voleva dire
visitare Leptis Magna. Sia mio padre che il signor Salemi amavano
ritornare a visitare queste due antiche e interessanti città romane.
Molti lettori tripolini sicuramente avranno visitato, anni
addietro, sia Sabrata che Leptis, famose per le loro statue e per
alcune costruzioni rimaste miracolosamente indenni attraverso i
secoli, ma in questa sede preferirei non dilungarmi nel descrivere
la loro inestimabile bellezza, fiore all'occhiello del turismo
libico. Se si andava verso sud, all'interno del paese, quindi dalla
parte opposta al mare, i luoghi che visitavamo erano generalmente
Tarhuna
e
Garian.
A Garian esisteva allora una costruzione, utilizzata durante
l'ultima grande guerra dalle autorità tedesche per rinchiudere
alcuni prigionieri di guerra della parte avversa. Su un muro
all'interno del campo era rimasto disegnato un murales, che
raffigurava una donna nuda, che veniva chiamata la
Lady of Garian.
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Garian -
murales Lady of Garian
di Clifford Saber |
La
parte superiore del corpo della donna, sdraiata su un lato, era
stata disegnata simile ai contorni geografici della costa
nordafricana. In alcuni punti salienti delle parti anatomiche della
donna erano segnati i nomi di alcuni città del Nord Africa. Si dice
che a disegnare questo murales fosse stato un prigioniero
americano, un certo
Clifford Saber,
che si era proposto come autista volontario con l'ottava Armata
Britannica. Lo stesso Saber, durante il lungo periodo di prigionia
si dilettava a tenere su il morale dei suoi commilitoni, disegnando
i loro ritratti. Dopo il suo ritorno in patria si era anche
affermato come un pittore di grande talento.
Oltre che con i Salemi, altre volte ci riunivamo, dopo cena, a casa
della famiglie Zocco o Badalucco. Si facevano quattro chiacchiere,
si trascorreva in buona compagnia una serata tranquilla e, nelle
serate calde, si beveva della birra ghiacciata o del tè freddo alla
menta, prima di andare a dormire. Durante la stagione estiva, una
volta alla settimana, sempre dopo cena, ci davamo appuntamento,
all'angolo di Sciara Camperio con Corso Sicilia, per andare a vedere
la proiezione di un film in un cinema all'aperto. Avevamo solo
l'imbarazzo della scelta perchè c'erano ben tre cinema ubicati non
lontano da casa nostra. Il cinema più vicino al nostro rione era
quello dentro lo stabilimento balneare del Lido Nuovo, sul lato
destro dell'ingresso. Peccato che la sua apertura sia durata così
poco, poichè è rimasto in funzione solo per un paio di anni. Un
altro cinema, il Rivoli, era ubicato in Corso Sicilia, subito dopo
la Fiera, quasi di fronte al Palazzo Tascone. Il terzo cinema,
l'Astra, stava in Sciara Canova, una traversa delimitata tra Sciara
Michelangelo e Sciara Giotto. Il Rivoli era il cinema che
frequentavamo con più assiduità, perchè proiettava, in “prima
visione” sul circuito tripolino, film romantici come "Poveri
ma belli", con
Renato Salvatori, Lorella De Luca,
Alessandra Panaro, Maurizio Arena e
Marisa Allasio, quelli
della fortunata serie della "Principessa
Sissi" con
Romy Schneider, quelli strappalacrime come "Marcellino
pane e vino", interpretato dal piccolo
Pablito Calvo
o i film western, che vedevano come principali protagonisti
John Wayne ed
Glenn Ford. Si arrivava a piedi sino al cinema Rivoli in meno
di mezzora. Parlando e scherzando perdevamo la cognizione del tempo
ed il tragitto ci sembrava breve. Al termine della proiezione dei
film, specialmente quando l'ora era tarda, ci prendevamo il lusso
di tornarcene a casa con le carrozze anzichè a piedi. Le carrozze
tripoline erano trainate da un solo cavallo con un cocchiere
seduto a cassetta e si distinguevano per le loro colorazioni
brillanti. Alcune carrozze sostavano in corso Sicilia, proprio di
fronte all'uscita del cinema, in attesa di clienti. Prima di salire
in carrozza, dovevamo aspettare che avvenisse la solita
contrattazione del prezzo della corsa tra il cocchiere e mia madre,
che parlava e capiva la lingua araba molto bene. Trovato l’accordo
sul prezzo ci accomodavano sul comodo sedile di pelle sul lato
posteriore della carrozza. Se il tempo era bello il tetto della
cappotta restava completamente giù, altrimenti se pioveva o tirava
vento, il cocchiere lo tirava su e noi eravamo parzialmente riparati
dalla cappotta.
Il mercoledì era il giorno della settimana prescelto per andare al
cinema, ma non era detto che si andava tutte le volte. Durante la
cena del mercoledì, seduto a tavola, scrutavo il viso mio padre per
capire, dalla sua espressione, se per lui era stata una dura e
faticosa giornata di lavoro in officina oppure no. Quando era
stanco, come se fosse a conoscenza della mio stato d’ansia, con
aria amareggiata, mi diceva : "Mi dispiace, stasera credo che
l'unico film che andremo a vedere è "La
fuga del cavallo morto", che stava a significare, con
mio grande dispiacere: niente cinema e tutti a letto presto. C'era
poco da discutere perchè rispettavo mio padre e sapevo che il suo
lavoro di fabbro era molto faticoso. Quando ero piccolo, per
parecchio tempo, avevo trovato così odiosa quella frase. In cuor
mio pensavo che fosse una frase che non avesse senso, inventata mio
padre. Invece ultimamente ho scoperto che "La
fuga del cavallo morto" esiste davvero. E' il titolo
di un libro scritto dallo scrittore
Gianfranco
Manfredi, pubblicato nel 1993.
Quando in inverno i pomeriggi si facevamo miti e gradevoli qualche
volta andavo a piedi con mia madre, in compagnia della signora
Ninetta Zocco, di sua figlia
Rosaria, della signora
Giovanna Badalucco e di sua
figlia Pina, nel deposito di Barda in
Sciara Cannizzaro.
Questa strada iniziava a partire da Sciara Dante, dove all'angolo
c'era il grande negozio di vendita di ferro di Haddad. Poi
costeggiava uno dei lati del rettangolo di gioco dello Stadio, e
prima di arrivare al Cimitero Israelitico si arrivava al grande
deposito di abbigliamento usato di Barda. Questi era un
avveduto ed esperto commerciante ebreo, che come Haddad, faceva
parte di una numerosa comunità ebraica tripolina, la quale viveva in
prosperosa armonia con quella italiana. All'interno del vasto
deposito di Barda c'erano degli alti e voluminosi capannoni, dove
erano stipati all'inverosimile migliaia di capi di abbigliamento
usati, che sembravano nuovi di zecca, appena usciti dalla fabbrica.
La gente del nostro quartiere accorreva numerosa per acquistare
questi capi di vestiario, sopratutto perchè erano a buon mercato e
non si trovavano nei negozi di abbigliamento del centro. Tutti
questi capi di vestiario provenivano dalla vicina base americana del
Wheelus Field. C'era
blue jeans
in abbondanza, così come giacconi a vento per uomini, pesanti
cappotti militari, giacconi di lana per donne ed altri vari articoli
di abbigliamento femminili. Era quella l'epoca in cui tutto ciò che
era americano era "beautiful", andava di moda. Non solo, ma
andava di moda tutta la musica pop e country americana, le camicie,
le giacche e gli stivali alla cowboy di
Roy Rogers,
la pettinatura di
Elvis Presley
col suo tipico ricciolo sulla fronte. In quegli anni l'attore
comico,
Alberto Sordi,
con il suo celebre film
Un americano a
Roma, dipingeva, con pungente ironia, il vezzo degli
italiani di voler imitare a tutti costi lo stile americano.
Comprando quei vestiti americani di Barda noi andavamo a coronare
una parte di quei sogni del mito americano.
Entrando in quei capannoni mi piaceva annusare nell'aria il pungente
odore di
naftalina
sparsa sugli abiti, accatastati uno sull'altro, in un ordinato
disordine. Lì incontravamo altre famiglie italiane del Lido che
erano venute come noi per fare acquisti. Mentre le nostri madri
gironzolavano indecise fra i banchi in cerca di qualche capo di
abbigliamento di loro gradimento, noi bambini ci divertivamo a
giocare, nascondendoci dietro quelle montagne di abiti.
Quando ero stanco di giocare, mi fermavo ad ascoltare come
avvenivano le contrattazioni tra le nostre madri e quei commessi
ebrei che si occupavano delle vendite dei capi di abbigliamento. Il
dialogo che scaturiva da queste contrattazioni era formato da un
linguaggio curioso per la sua forma e simpatico per il suo
contenuto. Alcune donne italiane parlavano tranquillamente in
siciliano, senza curarsi di essere capite, mentre i commessi ebrei,
che erano molto perspicaci, rispondevano con un loro linguaggio,
tutto particolare, che era composto da un misto di italiano
scadente, con l'aggiunta di qualche parola inglese ed araba. Veniva
fuori un dialogo di questo tipo.
“Quantu voi pi chissa giacchettazza?”
chiedeva una
signora siciliana, usando furbescamente il dispregiativo per
cercare di sminuire il valore del capo d'abbigliamento che voleva
comprare.
"Signova, cosa tu dive? Questa esseve bella ciacca e costave
solo tvedici piastve", rispondeva il commesso, un giovane ebreo
con una forte "r" arrotata e una cadenza cantilenante.
"Ma chi stai ricennu? Ma quali tririci i tririci! Ma che fa
babbii? Accussì cara è? ", lo aggrediva la signora, ma anche
se il prezzo fosse stato meno costoso la sua risposta sarebbe stata
comunque aggressiva.
"Haidunei
(perbacco), signova, cosa voi? Dimmi, voi io ti vegalo la
giacca? Dillo, allora io ti vegalo la giacca", piagnucolava il
commesso,
"No,no, ma quali rigalu i rigalu! Sta giacchettazza pi mmia vali
mancu cincu piastre. Chi li voi cincu piastre? " la signora
rilanciava la sua offerta per quella giacca con una cifra ridicola e
molto inferiore al suo reale valore.
"Cosa? Tu schevza, signova? Haidunei, ti giuvo io ci pevdo."
rispondeva l'altro con aria afflitta e rassegnata.
"Iamuninni, nun ciaiu u tempu pi babbiari" e faceva finta di
andarsene via.
"Signova, non vai via. Io puro aveve piccoli filli da manteneve.
Dai bvava signova, va beni novi piastve? Così tutti amici, nè io nè
tu. Fifti, fifti. Haidunei, bvendi o lasci?" diceva il commesso
afferrando dolcemente la signora per un braccio per non farsela
sfuggire. Con quella mossa la donna sapeva ormai di aver raggiunto
il suo obiettivo e continuava a fare la gnorri "Ma chi ddici? ma
chi sunnu sti fifti, fifti? Ahh! Chi ffai parli inglisi? Lassa stari
ch'è mmegghiu. Vabbeni accussì. A stu prezzu, sta giacchetta, quasi
quasi, mi l'accattu."
Intanto la giacca non era più una giacchettazza, come
era stata definita da lei all'inizio della contrattazione, ma, con
l'affare appena concluso, era diventata una bella giacchetta.
Comunque ancora prima che venissero tirati fuori i soldi dal
portafoglio la sceneggiata continuava. La donna rivoltava nuovamente
la giacca dentro e fuori, alla ricerca di qualche difetto, e, per
sentirsi ancora più tutelata, prima di pagare, la metteva al sicuro
dentro il suo borsone. Era una gara di psicologia, a chi era più
scaltro. Forse assomigliava di più ad una partita a poker , in cui
tutti e due giocatori era bravi e capaci di bleffare e che in
entrambi era innato il talento della contrattazione.
Per tutti noi bambini il tempo trascorreva sereno durante l’intero
pomeriggio. Noi giocavamo a nascondino, le nostri madri
continuavano a contrattare a comprare, cercando di risparmiare sul
prezzo. All'imbrunire, prima che facesse buio, facevamo ritorno a
piedi alle nostre case. Sulla via del ritorno eravamo più numerosi
che all'andata, perchè insieme al nostro gruppo se ne aggregavano
altri che abitavano nel nostro stesso rione. Mi ricordo quelli i
momenti più sereni della mia infanzia. Noi piccoli eravamo felici di
aver trascorso un sereno pomeriggio giocando spensierati tra di
noi. Le nostre mamme si preparavano mentalmente a mostrare alle loro
amiche più intime i capi di abbigliamento che avevano appena
comperato. Qualcuna già in strada si vantava di essere stata brava a
trattare e di essere riuscita a ridurre il prezzo al minimo. Le più
taciturne non parlavano, forse pensavano a cosa preparare per cena
ai loro mariti.
Sia mio padre che mia madre avevano dei buoni rapporti con quasi
tutte le persone del nostro vicinato. Mio padre, per sua natura, era
un mite. Adottava la filosofia del "vivi e lascia vivere",
partendo dal presupposto che tutti sono liberi di vivere a modo loro
senza infastidire il prossimo. Mia madre si distingueva per la sua
semplicità e la sua bontà d'animo. Aveva purtroppo il difetto di
fidarsi troppo di tutte le persone in genere, prendendo per oro
colato tutto quello che le dicevano.
La famiglia D'Agostini abitava al pian terreno nel palazzo di fronte
al nostro. Le loro finestre erano molto vicine alle nostre, perchè a
dividerle c'era solo una stradina sterrata, larga cinque metri, un
cul de sac, una strada senza uscita. In fondo alla stradina
c'era il giardino dell'abitazione della famiglia Trapani. Vedevo
spesso mia madre affacciarsi alla nostra finestra per parlare con la
signora
Maria D'Agostini,
che a sua volta le rispondeva stando affacciata alla finestra di
fronte.
La famiglia D'Agostini, oltre che dalla signora
Maria, era composta
dal marito
Adelino,
dai figli
Liliana,
Dorina,
Aldo e
Rosina.
Liliana
era la figlia maggiore ed era sposata con
Catello Imperatore,
dalla cui unione erano nati
Mario e
Roberto.
Dorina aveva sposato Pino Iavasile da cui erano nate Marisa e
Nadia. Aldo Aveva sposato
Anna Maria Della Rosa e dalla loro unione
erano nati Sandra, Noemi e Roberto. Infine Rosina aveva sposato
Franco Pasquariello e, dopo che erano emigrati in America, avevano
avuto due figlie, Katia e Nadia.
La
famiglia Chiarelli
abitava nell'appartamento del piano di sopra a quello dei
D’Agostini. Il capofamiglia si chiamava Raffaele,
la moglie
Francesca
e i figli
Lucia,
Paolina,
Pina,
Michelino,
Giulietto
e
Silvana.
I miei genitori avevano un buon rapporto di vicinato con tutte le
altre famiglie, ed in particolare con quelle degli Imperatore, dei
D'Amico, degli Arena, dei Marino, dei Braca, dei Costa, dei
Santagati, dei Basile, dei Pipitone, dei Rossi, dei Cannucci che
abitavano a due passi da casa nostra.
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