Tipici
personaggi del rione
Capitolo 4° |
(sottofondo
musicale : Ya Mustafà
di
Bob Azzam) |
<<<
Oltre alla famiglie italiane ricordo alcuni personaggi un po'
particolari che bazzicavano il rione del Lido. La maggior parte di
questi personaggi erano arabi , ma tra questi personaggi c’erano
pure degli italiani.
Quando avevo sette anni facevo parte di una combriccola di ragazzi
del rione formato da
Michelino
Chiarelli, Bruno Cubisino, Franco Santagati e Gianfranco
Mazzocca. Quest'ultimo, il più grande d'età, si era proclamato
capo-banda. Quando ci proponeva di fare delle cose audaci ma con un
rischio calcolato lo seguivamo volentieri. Se invece lanciava
alcune delle sue molteplici idee bizzarre e rischiose io non gli
davo retta e preferivo andarmene per conto mio. Una volta mi era
capitato di prendere parte a una di queste avventure rischiose.
Volevamo entrare di nascosto nello stabilimento balneare del Lido
Vecchio, per non pagare il biglietto di ingresso. Aiutandoci a
vicenda avevamo fatto un buco nel rete di confine, per poterci
passare. Il recinto era formato da rami secchi ricavati dalle palme
di datteri, sostenute tra loro da un filo spinato. Rischiavamo di
bucarci le mani e la schiena, strisciando come serpenti sulla
sabbia sotto il filo spinato, per entrare clandestinamente dentro lo
stabilimento. Una volta dentro il gioco era fatto perché sarebbe
stato facile confondersi con gli altri bagnanti. Quella volta era
successo che le cose non erano andate per il verso giusto. Il
custode ed il factotum arabo dello stabilimento era
Shami,
un uomo alto e robusto dai capelli riccioluti, sulla quarantina,
che sapeva parlare bene l'italiano. Da giovane Shami era stato, per
alcuni anni, campione nazionale libico di nuoto. Aveva anche
partecipato, con dei buoni piazzamenti, ad alcune gare di fondo
internazionali che si erano svolte in Egitto lungo il fiume Nilo.
Proprio lui quella volta ci aveva beccato mentre uno di noi era
rimasto impigliato con il costume nel filo spinato e non riusciva a
staccarsi. Per solidarietà nei confronti del nostro amico non lo
avevamo lasciato solo ma eravamo rimasti accanto a lui per aiutarlo
a liberarsi. Purtroppo eravamo stati notati da qualcuno e da quel
momento erano cominciati i nostri guai. Shami era accorso sul posto
e non aveva faticato molto ad intimidirci con le sue enormi mani da
nuotatore, le cui dita sembravano grosse come salsicce. Ci aveva
scortati in un locale dello stabilimento e ci aveva tenuti tutti e
cinque bloccati per una decina di minuti bloccati dentro. Da fuori
lui ci urlava che avrebbe avvertito la polizia per farci arrestare.
Naturalmente non aveva fatto nulla di tutto questo ma era riuscito
lo stesso ad intimidirci. Dopo una solenne ramanzina, ci aveva fatto
uscire dal locale e addirittura non aveva preteso neppure i soldi
del biglietto. Da allora io non mi ero più arrischiato a riprovarci
ed avevo sempre pagato il biglietto d’ingresso.
Hag Latif,
era l'anziano proprietario arabo della nostra casa. In realtà si
vociferava che fosse il proprietario dell'intera palazzina. Davanti
al suo nome, che era
Latif,
noi aggiungevamo l'appellativo di "Hag", in segno di
rispetto. L'appellativo di Hag si dava a tutti quelli quelli che
erano stati almeno una volta in pellegrinaggio alla Mecca. Essendo
ricco e proprietario di varie case e palazzi ubicati a Tripoli, si
mormorava che discendesse da una antica famiglia libica benestante.
Pur avendo superato la settantina aveva un aspetto distinto. Portava
una lunga barba bianca ed il suo viso aveva sempre una espressione
di serenità e pacatezza. Sembrava che niente lo potesse fare agitare
e raramente perdeva la sua compostezza. Indossava in maniera molto
dignitosa una
taghia rossa
ed un barracano di lana pregiata. Era una persona gentile, proprio
come il significato del suo nome Latif, che in arabo significa
appunto Gentile. Non solo era gentile ma anche generoso. Ogni volta
che veniva a trovarci per riscuotere l'affitto di casa, ci portava
in regalo una piccola scatola rotonda di latta di alluminio con la
helua, che è un dolce arabo. Altre volte ci portava un
cartoccio con dentro pezzi di
baklawa,
un altro dolce arabo fatto a base di pasta sfoglia, mandorle,
pistacchi, noci, cannella, chiodi di garofano, burro, zucchero,
tanto miele e succo di limone. Mia madre lo invitava gentilmente a
sedersi nel nostro salotto per prendere un tazzina di caffè
espresso, fatto con la moka, che lui accettava di buon grado. Prima
di andarsene mia madre gli porgeva una busta con dentro i soldi
dell' affitto mensile, che lui prendeva, senza neppure contare i
soldi. Forse lo faceva in segno di rispetto e di stima nei nostri
confronti della nostra onestà. Riponeva la busta chiusa con le
banconote dentro ad un grande portafoglio, legato ad una catenina
dorata che usciva dall'interno del suo ampio barracano.
Contemporaneamente consegnava a mia madre la ricevuta del pagamento
dell'affitto, che lui aveva compilato in precedenza. Prima di
andarsene, ci salutava in arabo con un fi-amen-Allah, e si
metteva la mano destra sul petto, come usano fare gli arabi con i
loro amici.
Mohammed e
Giuma,
lavoravano in proprio, nella rione del Lido. Entrambi gestivano due
piccoli negozi , uno accanto all'altro, in Corso Sicilia, proprio di
fronte alla Ferrovia, attaccati al gruppo di case dove abitavano le
famiglie D'Anna-Veri, Galea e Montalbetti. Mohammed, il più giovane,
riparava biciclette, metteva le toppe alle gomme bucate e
successivamente si era specializzato nel riparare motorini. Credo
che quasi tutti i ragazzi del Lido, proprietari di una bicicletta o
di un motorino, siano passati da lui per farsi riparare i freni o
mettere le toppe nelle camere d'aria delle gomme bucate.
Il secondo, Giuma, aveva il negozio accanto, che era più piccolo di
un bugigattolo. Eppure con la sua fantasia, utilizzando anche un po’
dello spazio esterno, riusciva a rendere quel poco spazio così
capiente che riusciva a mettere in mostra tante cose tra cui
carbone, petrolio per lumi, spiritiere, vari tipi di
spezie
orientali, zucchero,
carrube
e caramelle.
C'erano altri personaggi che frequentavano il nostro rione. Alcuni
di loro erano venditori ambulanti che ogni mattina percorrevano in
lungo ed in largo le strade del rione cercando di vendere la loro
merce, vantandone la bontà con voce tenorile. Tra questi c'era
Mustafa,
un uomo anziano, dal viso rugoso cotto dal sole. Aveva gli occhietti
furbi del commerciante avvezzo alla trattativa. Portava una taghia
rossa e sotto un bianco barracano indossava sempre un vecchio
giubbotto. Erano anni che glielo vedevo addosso e a me sembrava che
fosse sempre quello. Questo giubbotto, pesante e robusto, ormai
liso dal tempo, era di un colore ramato, quasi simile al colore
della sua pelle. Era piuttosto difficile capire dove finiva il
giubbotto e dove cominciava la pelle del suo collo, tanto i colori
erano così uguali. Questo giubbotto rappresentava per lui un
oggetto importante nel disbrigo del suo lavoro. Esso conteneva
tasche e taschini sia al suo interno che all'esterno, che lui
ordinatamente aveva trasformato in scompartimenti, così che lo
utilizzava come un rudimentale registratore di cassa. Sembrava
quasi che alla fine della transazione potesse uscire fuori dalla
sua bocca uno scontrino. Va detto che gli spiccioli era da un
millesimo, due millesimi, cinque millesimi o mezza piastra, da uno
e due piastre. Dieci millesimi facevano una piastra mentre cento
piastre erano una sterlina. I taschini più capienti contenevano
spiccioli di metallo, di cui se ne serviva per dare il resto ai
clienti. Erano
monete
di lega bronzea, da 1, 2 e 5 millesimi, che erano quelle che
valevano meno. In due altri taschini, non meno piccoli, c'erano le
monete
di lega argentata, da 1 e 2 piastre, di valore leggermente
superiore. Le banconote minori erano le cinque piastre, le dieci le
venticinque; si proseguiva con la mezza, una, cinque e dieci
sterline. All'interno del suo giubbotto c'erano altri taschini, da
cui, Mustafa, come un abile prestigiatore, tirava fuori le sue
monete
di carta da 5, 10 e 25 piastre. Portava un copricapo, che era
un'unta
taghia bianca,
che, a modo suo, la utilizzava come un portafoglio. Forse più che un
portafoglio sarebbe meglio dire una cassaforte. Prima di togliersi
la taghia bianca dal capo, si guardava attorno con aria furtiva,
assicurandosi che non ci fosse nessuno a guardarlo. Quando si
toglieva la taghia dal capo vi inseriva o toglieva banconote del
taglio più grosso, quelle da mezza, da una sterlina e, qualche
volta, anche da 5 e 10 sterline. Quest'ultime banconote erano tenute
insieme da un robusto elastico, che lui legava rigidamente con tre
giri. Mustafa trasportava sul retro della sua vecchia e pesante
bicicletta un piccola gabbia, a forma di cubo, costruita
personalmente da lui con canne di bambù, dove era stivati dentro
sette o otto polli vivi. Teneva una
coffa
(cesta) di paglia attaccata al manubrio, con dentro delle uova
avvolte con cura in una stoffa di lana, sicuramente ritagliata da un
barracano. Si fermava vicino ad una delle nostre finestre,
appoggiava delicatamente la bicicletta al muro perchè non scivolasse
giù, e con voce grave, da basso, diceva "Saniura, voi ova ?"
Mia madre gli chiedeva sempre se le uova fossero fresche, e lui di
rimando rispondeva: "Uallai (ti giuro), Saniura , ova
frishhh...ki, frishhh...ki" e si metteva la mano destra sul
petto ad indicare che non mentiva. Cosi iniziava il dialogo, o per
meglio dire, le scaramucce, prima che cominciasse la trattativa
vera e propria sul prezzo delle uova o dei polli. In genere lui
partiva da un prezzo di dieci e mia madre rilanciava con uno di
quattro. Dopo alcune schermaglie raggiungevano un accordo non
scritto , a mezza strada, per arrivare a sette. Tutto era bene
quello che finiva bene. Mia madre comprava qualche "hara" di uova,
quattro uova, e due polli con uno sconto del trenta per cento.
Mustafa vendeva le su merce facendoci il suo onesto guadagno. Alla
fine entrambi sembravano soddisfatti di come avevano condotto la
loro trattativa, ed ognuno pensava a suo modo di aver appena
concluso un affare. Comprare o vendere senza prima mercanteggiare
era inconcepibile per la loro filosofia di vita.
Tra questi personaggi c'era anche un lattaio siciliano. Costui
passava sotto le finestre di casa nostra con il suo
calesse,
tirato da un ronzino e carico di bidoni di latte, che vendeva col
sistema del porta a porta alle famiglie del rione. Si chiamava
Michele Moscuzza e
diceva di essere nato a Siracusa.
Moscuzza che portava la barba incolta, i capelli spettinati e
parlava solo in siciliano stritto, si comportava alla
stessa stregua di tutti gli altri suoi colleghi arabi. Speso quando
eravamo affacciati alla finestra di casa nostra e lo vedevamo
passare col suo calesse, lui chiedeva a mia madre:"Signura Ciccina (Francesca in siciliano) chi
bboli na rricotta bbona?". Mia madre, imitando il suo forte
accento siracusano gli chiedeva " Muscuuu...zza, sicuru chi sta
ricotta è bbona?" e lui di rimando "Signura mia bedda, ma
chi ffa, babbia? Chi pparla ammatula? Cririssi a mmia, sta manu
m'avissi a ccariri, ciaiu 'na rricotta qu è a fini du munnu,".
Così, alla stessa maniera del vecchio Mustafa, anche lui si metteva
la mano nel petto per ribadire che diceva la verità. Il suo latte
era in effetti buono e gustoso ed in tanti quegli anni non ci aveva
mai creato problemi di digestione. Sulla superficie del latte si
formava naturalmente un leggero strato di panna, tanto che, il mio
amico di rione,
Michelino
Chiarelli, mi diceva che lui quella panna se la gustava,
spalmandola zuccherata sul pane, a colazione.
Nel nostro rione c'era anche Leone Genovese, un signore veneto
completamente calvo, sulla cinquantina, che, abitava con la sua
famiglia in un'altra zona della città, ma che veniva per lavoro nel
nostro quartiere. In qualità di tecnico era addetto al controllo
diurno dell'acquedotto del nostro quartiere. Dopo il suo normale
orario di lavoro, quando capitava, si arrangiava anche a fare
l'imbianchino per arrotondare il suo stipendio. Genovese era
originario di un piccolo paesino del Veneto, di cui non ricordo il
nome e parlava un italiano con un forte accento veneto. Una volta
all’anno a mia madre piaceva biancheggiare la nostra casa, così
quando vedeva Genovese passare sotto casa nostra lo prenotava per
tempo. "Signor Genovese, c'è l'ha un po’ di tempo per
biancheggiarmi la casa?". Genovese, che era anche un buon
bevitore, rispondeva: "Sicuro, Siora Franca, basta che oltre a
pagarme la me daga anche on bicerin de vin". Poi aggiungeva "Mi
go du santi in paradiso che me protege, uno ale San Buca e l'altro
se ciama San Giovese e nissun ga de tocarmeli ". E lì giù
risate. Quando rideva sembrava avesse il singhiozzo, forse perchè il
suo labbro inferiore sporgeva su quello superiore in maniera
anomala, tanto da assomigliare un po' a
Popeye.
Leone Genovese mi stava simpatico perchè mi permetteva di
prenderlo in giro per il suo nome, senza che si offendesse. Quando
lo vedevo lo chiamavo col suo nome di battesimo e poi gli facevo il
verso del leone. Lui sorrideva con quel suo sorriso buffo e di
rimando, emetteva un ruggito, simile a quello di un vero leone.
Bashir
faceva il fruttivendolo ambulante. Ogni mattina tirava a mano il
suo
carretto
colmo di ortaggi e frutta, che cercava di vendere alle donne del
nostro rione. Intonava con voce da tenore la solita litania, tanto
da farsi sentire da tutto il rione: "Sbaracelli, ndivia, batati,
cibolli, bumudori, biselli", e "Saniura, veni fori, gumbrare,
gumbrare, saniura, iu brizzu bonu, tuttu bonu". Poi, tutto ad
un tratto, si vedevano le casalinghe italiane, col grembiule da
cucina legato ai fianchi, sciamare fuori dalle loro case. Si
accostavano al carretto di Bescir, pronte a tastare la merce con le
loro mani ed ad acquistare non senza aver mercanteggiato prima sul
prezzo. Bashir per pesare la merce usava una bilancia di ferro, una
basculla,
con i pesi, ed un vassoio di rame per metterci la frutta e la
verdura. Sapeva usare la bilancia con molta destrezza, per cui credo
che barando sul peso si poteva anche permettere di fare dei buoni
sconti alle massaie, che trovavano la merce di Bashir a buon
mercato. Verso fine ottobre, quando ormai il ghibli era passato da
poco ed il caldo aveva già fatto maturare i datteri, considerati
per antonomasia il frutto nazionale libico, Bashir li vendeva a
caschi. Questi
datteri,
un po’ aspri di sapore ma gustosissimi, avevano un bellissimo
colore giallo tendente al rosso. Gli arabi li chiamavano bleh.
Proprio questi sono sempre stati i datteri che io ho preferito e che
mi piacerebbe gustare di nuovo. I
datteri
che si trovano oggigiorno negli scaffali dei supermercati non mi
piacciono molto perchè li trovo troppo dolci.
Conoscevo un altro
Giuma,
un simpatico ed allampanato ragazzo, che seppur quindicenne
sembrava un adulto, perchè era molto alto. Giuma abitava in una
zeriba, vicino all'officina dei D'Alba, nella zona del Lido. Sapendo
che era orfano di padre e che da solo doveva mantenere la sua
famiglia, mia madre gli regalava alcuni abiti smessi di mio padre.
Nei pomeriggi d'estate, all'angolo di Sciara Camperio con Corso
Sicilia, Giuma vendeva ai passanti, diretti alla spiaggia, le sue
sbule
abbrustolite sulla carbonella per solo una piastra. Era sempre
indaffarato a fare qualcosa. Il suo assillo era di assistere al
sostentamento della sua famiglia, formata da lui, da sua madre ed da
una sorella più piccola. Nelle mattine d'estate bussava alla nostra
finestra di buonora e ci mostrava il suo recipiente di latta colmo
di spinosi frutti di
ficodindia.
Probabilmente li aveva raccolti in qualche campo vicino a casa sua,
durante la notte. Dato che non era una cosa facile sbucciarli, era
diventato molto esperto nell'eseguire questa operazione. Per
sbucciarli utilizzava un coltello a serramanico. Era così bravo che
riusciva a non farsi pungere dalle sottili ed insidiose spine della
buccia dei fichidindia. "Siniur Bibbinu, saggia, saggia sta
figurigna, duci, duci cumi u zuccuru", diceva nel suo stentato
ma comprensibile italiano, venato da un leggero accento siciliano.
Poi porgeva a mio padre un ficodindia già pulito, come assaggio,
per fargliene gustare la bontà. Mio padre era ghiotto di questo
frutto che gli ricordava tanto la sua Sicilia, e nello stesso tempo
aveva anche aveva simpatia per Giuma. Senza contrattare sul prezzo
mio padre si comprava tutta lattina piena di ficodindia ed
aggiungeva anche una piccola mancia per Giuma. Qualche anno dopo,
mio padre, vedendo che Giuma andava spesso a trovarlo nella sua
officina e lo vedeva molto interessato al suo lavoro di saldatura,
lo aveva assunto nel suo organico come operaio semplice. Col tempo
gli aveva insegnato a saldare ad elettrico ed ad ossigeno, tanto che
Giuma, che era anche un ragazzo sveglio e veloce ad imparare, era
diventato uno dei migliori operai saldatori dell'officina di mio
padre.
Quando succedeva di uscire tardi dal cinema estivo all'aperto e ci
capitava di prendere la carrozza del nostro amico
Yusef,
io ero contento. Yusef era un vecchio timido con i capelli bianchi,
lo sguardo malinconico ed il viso rugoso, cotto dal sole. Stava
seduto a cassetta un po’ ingobbito e, non so per quale ragione, ogni
volta che vedevo quel suo viso triste mi faceva tanta
tenerezza. Con lui non c'era assolutamente bisogno di contrattare
sul prezzo prima di salire sulla carrozza, perchè si accontentava di
poco. Chiedeva sempre una tariffa inferiore a quella degli altri
suoi colleghi e non sembrava molto attaccato al denaro. Al termine
della corsa, dopo che mio padre lo pagava, metteva i soldi in tasca
senza neppure contarli. Quando c'era poco traffico, Yusef mi
permetteva, con mia grande gioia, di sedermi a cassetta accanto a
lui, facendomi tenere in mano le redini del cavallo. Lui non
parlava molto se non per dare, di tanto in tanto, qualche fiacco
ordine al suo anziano cavallo o per incitarlo ad aumentare
l'andatura. Provavo simpatia per il vecchio Yusef , perchè, oltre
ad avere lo stesso nome di mio nonno Giuseppe, aveva un paio di
occhi celesti proprio simili a quelli di mio nonno. Purtroppo dopo
che nel 1955 mio nonno aveva lasciato definitivamente la Libia ed
era rimpatriato in Italia non avevo avuto più modo di vederlo, ma
quando vedevo Yusef era come incontrarlo di nuovo.
Quando ancora a Tripoli c'erano pochissimi frigoriferi ma
tantissime ghiacciaie, esisteva il mestiere, forse ora scomparso, di
venditore di ghiaccio. Durante l'estate,
Said,
un arabo dagli occhi azzurri e e dai capelli color rame,
probabilmente di origine berbera, trasportava, su un grosso carro
tirato da un cavallo, pesanti blocchi di ghiaccio. Ogni blocco di
questo ghiaccio aveva la forma di un parallelepipedo, lungo circa
un metro e largo una ventina di centimetri. Il suo robusto cavallo
baio era un cavallo un po’ focoso. Said non sempre riusciva a
fermarlo con facilità. Oltre a tirare con forza le redini e ad
usare il frustino, doveva gridargli ripetutamente "Ah... Ah...
uquf hsan!!". Il cavallo sentendo la voce stentorea del suo
padrone, che gli ordinava di fermarsi, dapprima rallentava la sua
marcia, scivolando per un po’ sull'asfalto cogli zoccoli, poi con un
potente nitrito arrestava la sua marcia. Ancora con le redini
tirate, il cavallo continuava a recalcitrare e a battere i suoi
zoccoli sull'asfalto, quasi facesse un balletto, mentre il
ticchettio degli zoccoli rimbombava con armonia sull'asfalto.
Said, dopo essersi assicurato che il cavallo fosse fermo e
tranquillo, con una grossa e tagliente accetta spezzava, su
richiesta dei clienti, il blocco di ghiaccio nella misurata
desiderata. Poi il ghiaccio, tagliato a pezzi, veniva riposto nelle
nostre ghiacciaie per la conservazione del cibo. Una piccola parte
di ghiaccio invece, dopo essere stato macinato in pezzi ancora più
piccoli, veniva usato per prepararci le granite.
C’era un filo comune che accomunava questi personaggi, anche se
diversi per le loro differenti caratteristiche fisiche e
caratteriali. Questo filo comune che li univa era il loro senso di
onestà ed il forte desiderio di voler lavorare e produrre. In fin
dei conti era stato il loro lavoro che li aveva portati a
frequentare il nostro rione. Erano diventati nostri amici e noi li
rispettavamo perchè con il loro lavoro creavano un servizio utile
alla comunità del rione. Non so se anche oggi esistono ancora a
Tripoli quei caratteristici carretti tirati a mano con i venditori
che reclamizzano a voce alta la loro merce. Forse dovrei chiederlo a
Roberto Longo, che quest'anno è stato in Libia ed in particolare
anche a Tripoli insieme a sua moglie ed al suo amico tripolino De
Gennis e che su questo numero dell'OASI riporta la prima parte del
resoconto del suo viaggio in Libia.
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