Tripoli, Libia - Sciara Camperio 10
- fino al 1970 |
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A Tripoli la famiglia Ernandes, la mia
famiglia, era composta da tre persone: mio
padre Giuseppe, mia madre Francesca e me,
"purtroppo" figlio unico. Dico purtroppo perchè,
da bambino, avevo sempre desiderato avere un
fratellino con cui giocare, ma questo fratellino
non era mai arrivato. Sono nato in una delle
sale operatorie dell'Ospedale Centrale di
Tripoli il 26 Agosto 1948. Erano le prime ore di
un giovedì pomeriggio e faceva tanto caldo. Sul
mio corpo porto ancora i segni di questo
travagliato parto podalico: un leggero
schiacciamento cranico ed una profonda cicatrice
sul mio fianco sinistro, lasciatami da un
forcipe con cui sono stato estratto dell'utero di mia madre,
Francesca. Sin dai primi giorni della mia
nascita ho vissuto in un
appartamento al piano terreno di una
palazzina, in Sciara Manfredo Camperio al
numero 10, molto vicina al mare. Ci sono rimasto
per ventidue anni, fino al 1970, sino a quando,
noi italiani fummo costretti ad abbandonare ogni
cosa e tornarcene in Italia. Mia madre mi
raccontava che ad undici mesi avevo già imparato
a camminare e che a quattordici ero riuscito ad
eludere la sua sorveglianza ed ero scappato da
casa. Mi aveva ritrovato subito dopo nella
spiaggia del Lido, a pochi passi dal mare,
mentre mi trastullavo tranquillamente con la
sabbia sulla battigia. Forse questo era già un
segno del mio destino. Sin da piccolo ho amato
il mare ed ho sempre avuto il desiderio, a
livello epidermico, di starne a contatto.
Probabilmente saranno i miei geni ancestrali che
reclamano questa mia appartenenza al mondo
marino. Mio padre mi diceva spesso di aver
scelto di abitare in questa nostra casa
principalmente perchè era ubicata molto vicina
al mare. Come dargli torto, considerando il
fatto che anche per lui, nato a Favignana, un
isola dell'arcipelago delle Egadi, vivere
vicino al mare era diventato quasi un bisogno
fisico. Del resto lo era anche per mia madre.
Sia il mio nonno materno, Giuseppe Salmeri, che
le famiglie dei miei antenati materni, i Salmeri
e gli Anselmi erano stati marinai o pescatori
da lontane generazioni.
Il mare. Sin da piccolo
ho sempre provato piacere ad ascoltare il suo
cullante brusio, ad ammirare la sua forza, a
sentire la sua brezza, ad assaporare il suo
odore e a trarre un benefico influsso sia
spirituale che fisico dal suo contatto. Ho
sempre trascorso una buona parte delle mie ferie
in Irlanda con mia moglie Joanne, nativa
dell'Ulster e più volte mi sono immerso, nel
giorno di Natale, nelle acque grigie e
gelide del porticciolo Newcastle
(County Down), per raccogliere soldi a scopo
benefico, come è usanza da quelle parti.
Parecchi anni fa, quando i genitori di
Joanne vivevano a
Ballygalley (County Antrim), mi
sono divertito a solcare le onde
di questo mare su una leggera tavola da
windsurf, Forse pecco
di presunzione se dico di sentirmi, in qualche
modo, "un figlio del mare".
D'inverno, a Tripoli, quando il
vento era forte ed il tempo cattivo ,
dalla mia stanza ascoltavo affascinato l'ululare
del mare in tempesta. E' un suono che mi ha sempre
affascinato. Quando in concomitanza del mare
mosso c'era l'alta marea, la spiaggia del Lido e
tutte le cabine di legno dello stabilimento
erano invase dal mare, che arrivava quasi a
lambire il cancello verde d'ingresso del Lido
Vecchio. Adiacente al cancello c'era un piccolo
locale in muratura, che serviva da botteghino
per riscuotere il biglietto d'ingresso allo
stabilimento. Sin dai primi anni cinquanta in
questo locale ci viveva un libico di nome Shami,
che faceva il custode dello stabilimento.
La nostra
palazzina in Sciara Camperio era simile a tante
altre costruite in altre zone del centro
cittadino. Anche la nostra era dipinta
esternamente di bianco ed era formata da quattro
appartamenti divisi due per piano, due a piano
terreno e altri due al primo piano. Il tetto era
coperto da una terrazza, grande quanto la
superficie di due appartamenti, che
generalmente serviva da lavanderia e area per
stenderci i panni. La nostra palazzina era stata
costruita dall'impresa edile di Corrado
Salemi, nonno dei miei amici Corrado e Mario
Salemi, che abitavano nella villetta di fronte a
noi in Sciara Camperio. I quattro appartamenti
erano simili tra loro ed erano composti da due
camere da letto, una sala da pranzo, una cucina,
un bagno e da due corridoi, uno più piccolo e
l'altro più lungo, che si univano fra loro a
forma di una "T". Il portone dell'ingresso
condominiale della palazzina era alto e pesante
ed era stato costruito con un legno di noce e
verniciato di marrone scuro. Per la prima volta
all’età di sei anni, mia madre mi aveva dato le
chiavi del portone e, con mia grande
soddisfazione, ero riuscito ad aprirlo da solo.
Mentre con le chiavi riuscivo ad aprire il
portone ricordo di aver provato una piacevole
sensazione, in quel momento pensavo di essere
diventato anch'io un adulto.
Superata la
soglia del portone c'era uno spazioso ingresso
condominiale dove appoggiavamo le nostre
biciclette su due lati delle pareti. In una di
queste due pareti erano state ricavate due
piccole nicchie quadrate, chiuse da due pannelli
di legno pitturato con lo stesso colore delle
pareti, in cui erano stati inseriti i contatori
della luce, del gas e dell'acqua di tutti gli
appartamenti. Io sapevo che, salvo quando
c'erano le letture dei contatori, gli sportelli
non venivano mai aperti. Pertanto avevo
utilizzato quelle due nicchie per un mio uso
privato, erano diventate il mio nascondiglio
segreto. Lì riponevo le mie fionde, le mie
carabattole e tutte quelle piccole cose che mia
madre mi proibiva di portare in casa. Mia
madre, forse in maniera un po' esagerata,
aveva la "manìa" della pulizia e dell'igiene
della casa. Tutto doveva essere pulito ed in
ordine. Anche la porta d'ingresso del nostro
appartamento era robusta anche se non tanto
quanto il portone. Era stata costruita in legno
massello di castagno chiaro. Aveva due serrature
esterne, mentre all'interno mia madre aveva
voluto che venisse aggiunto un chiavistello di
ferro per maggior sicurezza. L'appartamento era
molto luminoso perchè in ogni stanza c'era una
finestra. Ogni finestra si apriva e si chiudeva
con il sistema delle persiane avvolgibili a
scorrimento. Sul lato destro di ogni finestra
c'era una cima piatta che scorreva sia sulla
parte superiore che su quella inferiore,
distanti circa due metri e mezzo sotto su due
rotelle. Tirando o allentando questa corda si
apriva e si chiudeva la persiana della finestra.
Dal corridoio
più lungo, che partiva dall'ingresso, si
accedeva in senso antiorario alla mia camera.
La stanza successiva era quella dei miei
genitori. In fondo al corridoio, c'era la sala
da pranzo, che si usava solo nelle occasioni
speciali, come quando alcune domeniche avevamo
degli ospiti a pranzo, Natale e Pasqua,
altrimenti generalmente noi tre pranzavamo e
cenavamo in cucina. A seguire c'era la porta del
bagno e poi c'era il corridoio più piccolo. In
fondo a questo corridoio c'era una finestra,
mentre a metà circa si accedeva alla cucina.
Questo piccolo corridoio ha sempre rappresentato
per me qualcosa d'importante, tanto che a volte
me lo sogno ancora. Da piccolo, quando i
bambini credono ancora alle favole, mio padre
mi aveva aiutato a fare un piccolo buco (circa
due centimetri di diametro) con un cacciavite
nella parte di questo corridoio. Questo buco
nel muro serviva da ricettacolo per i miei
dentini. Ogni volta che mi cadeva un dentino lo
raccoglievo e lo mettevo lì dentro. I miei
genitori mi avevano detto che
San Nicola, il Santo protettore dei
bambini, (San Nicola è un santo protettore di
tante cose) , portava via il mio dentino,
lasciando al suo posto qualche soldo. Quando
mettevo il mio dente dentro quel buco recitavo
questa filastrocca ad alta voce :"Santo
Nicòla, Santo Nicòla, u mmi santu cu l'aeròla,
pigghiati i denti, tutti cadenti, portami sordi
e teniti i denti". Era una piccola
filastrocca siciliana in rima che mi aveva
insegnato mio padre e che forse se l'era
inventata lì per lì. Recitare questa filastrocca
era importante perchè serviva per ringraziare il
Santo e fargli ricordare di portare dei soldi al
posto del mio dentino. Ricordo come ero felice
quando, svegliandomi al mattino, al posto del
dente, trovavo il mio soldino! Nominavo San
Nicola anche quando vicino a me vedevo una
coccinella. Allora recitavo un'altra
filastrocca: " San Nicola, vola, vola,
pigghiati 'u pane e vattinni a scola", e
soffiandoci sopra volevo che la coccinella
volasse via libera nell'aria.
La nostra cucina
non era molto grande, però c'era uno spazio
sufficiente per un tavolo, tre sedie, un
frigorifero. C'era anche un armadio laccato di
bianco con una vetrina, dove riponevamo i
bicchieri, i piatti, le pentole, le padelle e
tutte le stoviglie. C'erano dei fornelli a gas
per cucinare posati su un piano di marmo
bianco, con delle leggere venature nere.
Nell'angolo in fondo, sul lato sinistro della
finestra, c'era un acquaio.
La mia camera si
affacciava sul corridoio più lungo ed era
sobriamente arredata. Nell'angolo sinistro di
fronte all'entrata c'era una piccola scrivania
in metallo, composta da vari cassetti. Usavo
questa scrivania per studiare, per scrivere e
fare i miei compiti di scuola. Accostato alla
parete sul lato della scrivania c'era un armadio
guardaroba per riporci i miei vestiti, il mio
impermeabile, il mio cappotto; c'erano anche due
cassetti dove riponevo la mia biancheria
intima. C'era un letto, un baule per i miei
giocattoli, un paio di scaffali fissati al muro
da mio padre, dove riponevo i miei libri di
racconti , i miei fumetti ed i libri di scuola. Sul lato opposto all'entrata c'era una
grande finestra. Da lì, affacciandomi e
guardando verso destra, vedevo il mare. Il
pavimento di questa stanza era formato da
piastrelle quadrate, venti centimetri per venti,
di color verde chiaro. Nel centro della stanza
c'erano alcune mattonelle gialle, delle stesse
dimensioni di quelle verdi, che formavano un
rettangolo, due metri per uno.
Fino all'età di
quattro anni, i miei genitori avevano la loro
camera da letto accanto alla mia, poi, avevano
creduto più opportuno, per la loro privacy,
trasferirsi nella camera più lontana. La loro
ex-camera da letto era stata trasformata nel
nuova sala che fungeva da salotto e da sala da
pranzo. Nel centro di questa stanza c'era che
lei ripuliva e conservava con cura. Esposti, in
bella mostra, nella vetrina c'erano dei sottili
bicchieri di vetro, a forma di coppa, che
usavamo solo per brindare nelle grandi
occasioni.
Di fronte alla
porta del salotto, dall'altro lato del
corridoio, c'era quella del bagno, in cui c'era
una vasca di dimensioni standard, un
bidet, un lavandino con alla parete un
armadietto con specchiera. Negli ultimi tempi
mia madre aveva trovato il posto anche per una
lavatrice di marca Rex. La carta igienica è
stata un'invenzione del dopoguerra. Fino al 1954
nel nostro bagno non c'era ancora la carta
igienica, ma al suo posto, attaccati al muro
ad un chiodo vicino al vaso, usavamo dei pezzi
di carta di giornale. Generalmente
erano giornali quotidiani che avevano un tipo di
carta più morbida al contattato rispetto alle
riviste. Mia madre aveva il compito di squadrare
e tagliare con cura i pezzi di giornale. Ogni
tanto aiutavo anch'io mia madre a tagliare della
carta di giornale, poi mi perdevo a guardare le
figure e a cercare di leggere quella che c'era
scritto.
Al termine del
corridoio più grande c'era la porta della camera
che per vari anni era stata la camera da letto
dei miei genitori. Questa camera era quella che
aveva le dimensioni più grandi rispetto alle
altre. Anche questa, come le altre, era
arredata in maniera molto semplice. Il pavimento
era fatto di mattonelle chiare larghe venti
centimetri per venti. C'era un letto con una
spalliera in legno di rovere scuro. Sopra la
spalliera, appeso alla parete, c'era un
quadro, che raffigurava una Madonna col
volto sereno, che indossava un vestito verde
chiaro, coperta da un mantello rosa, con il
bambino Gesù un pesante tavolo di legno
allungabile, color noce, che usavamo solo nelle
grandi occasioni come quando avevamo ospiti a
pranzo. Il tavolo era corredato da sei pesanti
sedie fatte con lo stesso legno e tappezzate
di cuoio. Anche in questa stanza c'era una
grande finestra che dava su Sciara Camperio. Su
una delle pareti, quella al lato della
finestra, c'era un mobile a quattro ante, anche
questo di noce, sormontato da una elegante
vetrinetta, dove mia madre riponeva alcuni suoi
ninnoli, in braccia. Entrambi, madre e figlio,
erano cinti da un'aureola in testa. Questo
quadro mi dava un senso di pace e di
tranquillità. Su una delle pareti c'era un comò,
con alcuni soprammobili. Ricordo bene una
grossa
conchiglia di mare, regalataci da mio
nonno materno Giuseppe. Accanto a questa
conchiglia c'era una
scatola portagioie, in legno laccato,
intarsiata con schegge di madreperla con dentro
un carillon, con il brano musicale del Danubio
Blu un famoso valzer di Johann Strauss. Sempre
su questo comò c'era una
statuetta della Madonna alta appena
venti centimetri, fatta di granito, che cambiava
colore con il cambiare delle condizioni del
tempo. Era un piccolo barometro rudimentale a
cui mia madre dava molta importanza. Anche il
comò era fatto in legno di rovere scuro, con
quattro cassettoni usati esclusivamente dai
miei genitori. Sulla parete, accanto alla porta,
c'era un armadio a quattro ante, dello stesso
tipo di legno del letto e del comò, con
all'interno vari cassetti, un grande specchio ed
un'asse di legno su cui appendevano i loro
vestiti con delle grucce. Al lato di questo
armadio, quello vicino alla finestra, sul
pavimento c'era una mattonella che se uno ci
camminava sopra faceva un rumore strano. Sotto
questa mattonella i miei genitori ci avevano
fatto un buco profondo trenta centimetri e sopra
con precisione millimetrica era stata appoggiata
sopra una mattonella simile alle altre. Pochi
erano a conoscenza di questo nascondiglio
segreto. Subito dopo la guerra erano ancora
pochi a Tripoli coloro che usavano le banche per
depositare i propri risparmi. Molti non si
fidavano e preferivano mettere i propri soldi
all'interno del proprio materasso o sotto una
particolare mattonella. Quasi tutti i miei
parenti portavano i loro soldi a casa nostra e
li davano in custodia a mia madre, che li
prendeva in consegna e li metteva dentro una
busta, scrivendoci sopra il nome del parente e
poi li nascondeva nel buco sotto quella
mattonella. Ricordo che questo viavai di parenti
che portavano i loro soldi in casa mia è durato
fino alla fine degli anni cinquanta.
Successivamente per alcuni motivi, i miei
genitori, come gli altri miei parenti, scelsero
di depositare i loro risparmi presso il Banco di
Napoli, la banca che era ubicata quasi di
fronte alla Galleria De Bono. Negli anni
successivi i miei genitori si erano serviti
anche dei servizi bancari del Banco di Roma, che
era ubicato in Piazza Italia all'angolo con
Corso Sicilia. >>>
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