Fortunato Anselmi, il soldato
disperso |
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Nel corridoio
più grande di casa mia c'era l'impronta di un
foro di un proiettile sopra la cornice della
porta della camera da letto dei miei genitori.
Questo foro ha una sua storia. Ricordo che mio
padre, non so se per pura scaramanzia o per
burla, non aveva mai
voluto che l'impronta di quel proiettile venisse
tolta. Forse voleva che quel fatto accaduto anni
addietro non fosse mai dimenticato.
Il fatto era accaduto nel Settembre del 1942,
durante la seconda guerra mondiale, quando un
primo cugino di mia madre della parte materna, che si
chiamava Fortunato Anselmi, figlio dello zio
materno Niccolò, era stato richiamato alle armi
per la campagna di Russia. Alla vigilia della
sua partenza per il fronte Fortunato era passato
da casa dei miei genitori per salutarli genitori.
Aveva sempre intrattenuto con loro dei rapporti cordiali
e gli dispiaceva andarsene via senza averli
abbracciati.
Fortunato era arrivato a casa mia vestito in
uniforme militare ed era molto fiero di
indossarla. Con un
sotterfugio aveva nascosto, sotto un pesante cappotto, il suo fucile d'ordinanza,
lo stesso che avrebbe
dovuto portare con sè in guerra. Si era tolto
quel capotto perchè a Tripoli faceva caldo, ma
l'esercito aveva già fornito all'intero
reggimento tutto il vestiario necessario per
affrontare la freddissima Campagna di Russia.
Aveva appoggiato il fucile per terra, contro la
parete del muro del corridoio, ed aveva appeso
il suo cappotto all'attaccapanni. Aveva ripreso
in mano il fucile, imbracciandolo e aveva fatto
finta di mirare ad un punto imprecisato della
parete di fronte. Tutto era
successo improvvisamente. Fortunato e mia madre
si trovavano nel corridoio più lungo, vicino alla porta
d'ingresso, mentre mio padre era più
avanti, a pochi passi da
loro. Malauguratamente dalla canna di quel fucile era
partito un colpo
seguito da un forte boato.
La traiettoria del proiettile aveva sfiorato
di pochi centimetri il capo di mio padre ed aveva percorso
circa sei metri, prima di conficcarsi sulla
parete di fronte sopra la porta, creando quel
famoso foro. Fortunato era rimasto sconcertato
e sconvolto
per quanto accaduto. Si era sprofondato in
mille scuse con mio padre e con mia madre e poi, tanto dispiaciuto per quanto
accaduto, se ne era andato via con le lacrime
agli occhi. Quella fu, purtroppo, l'ultima volta che i miei
genitori videro Fortunato. La sua ultima
lettera che mia madre una volta mi aveva
mostrato, era pervenuta dalla Russia,
Rossosch, una cittadina vicina al Don, il fiume
rosso. Ecco quello che io ricordo del contenuto
di quella lettera, che mia madre aveva sempre
conservato gelosamente e che io poi non sono mai
riuscito a trovare.
Rossosch, 15 gennaio 1943
Cara Franca,
mi sono fatto
aiutare a scrivere questa lettera da
un mio compagno di branda, un bravo
"picciotto" palermitano, un certo
Nicola Abbruscato, che ha studiato e
che, al contrario di me, non ha
difficoltà a scrivere. Qui in Russia
c’è un gran freddo. Dicono che la
temperatura è attorno a 30 gradi
sotto zero. Quando è scuro, per non
perdere tempo e per non disperdere
il calore del nostro corpo, andiamo a dormire
nelle nostre brande,
vestiti
con le nostre uniformi. Purtroppo le coperte di lana
scarseggiano ed anche se siamo
coperti di tutto punto, sentiamo
freddo lo stesso. Che
differenza che c'è con Tripoli, sai me la sogno quasi ogni notte! Ormai
da due
giorni ci troviamo a
Rossosch, vicino al fiume Don. E' un
mese che camminiamo sempre sulla
neve e sul ghiaccio, per chilometri e
chilometri. Ogni giorno la nostra
vita militare diventa sempre più dura e noi
siamo tutti stanchi e con il morale
sotto i tacchi. Ci hanno appena
comunicato che per domani è prevista
una tappa di spostamento di 35
chilometri verso est. I nostri
calzini sono tutte bucati e le
nostre scarpe sono quasi tutte
consumate. Speriamo Iddio che
"sti scarpazze" ci durino
un altro po’ perché quelle di
riserva non sono ancora arrivate. Ci
dicono che devono arrivare presto ma
io non ci credo. Le nostre razioni
del rancio sono sempre più scarse e
la nostra fame aumenta. Durante
le nostre marce di spostamento,
quando passiamo per i campi
coltivati, ci arrangiamo a
raccogliere qualche carota, qualche
patata o anche qualche rapa. Chi
rimane leggermente ferito è fortunato perché se
ne può tornare in Italia. Nel nostro
reparto c'è un nostro
camerata di Avellino, un certo
Gennaro Capone, sposato con Sofia, che
tiene due figli, Filomena, la più
grande di due anni appena compiuti e
Gaetano di pochi mesi. Gennaro,
poveretto, non ha mai visto nascere
suo figlio perchè è dovuto partire
per la guerra due giorni prima della
sua nascita. Gennaro è un bravo e
coraggioso "guaglione" e vole bene
alla sua famiglia. L'altro giorno,
di nascosto e tutto da solo, col suo
coltello si è tagliato di netto il
dito mignolo della sua mano
sinistra. E' andato in infermeria e
con questo fatto si è fatto
subito congedare. nessuno ha
sospettato niente altrimenti lo
avrebbero arrestato. Sono contento
per lui. Il suo solo scopo era quello
di tornsarsene a casa e di
riabbracciare sua moglie, sua
figlia e di vedere finalmente il
piccolo Tano, sangue del suo sangue.
Peccato per il dito!
Io sono ancora
soldato semplice, ma il mio
ufficiale superiore,
Niccolò Nuti,
un simpatico giovane fiorentino dai
capelli biondi e gli occhi azzurri,
mi ha detto di tenere duro e mi ha
fatto capire che presto mi
promuoverà a soldato scelto. Anche
lui è un bravo ragazzo e conosce a
memoria molti versi della Divina
Commedia di Dante Alighieri. La
sera, prima di addormentarci, per
tenerci su di morale, ci racconta
alcune storie scritte da un altro
scrittore toscano un certo Boccaccio. Peccato
che quando parla si mangia la "c".
Anche a me piacerebbe scrivere ma tu
lo sai che a scuola ci sono stato
poco ed ho fatto fino alla
seconda elementare, e poi a dirti la
verità la scuola non miè mai
piaciuta. Ero contento quando mi
hanno mandato a lavorare, così ho imparato a fare il
muratore.
Cara Franca, tu e Peppino,
sapete già che ho simpatia per tua
sorella Grazzina. Due mesi fà,
grazie al mio amico Nicola, le ho
scritto una lettera. Finora non ho ricevuto
nessuna risposta da lei. Spero che
stia bene e che non gli è successo
niente. L'ultima volta che l'ho
vista si trovava a Zuara a casa di
zia Ninetta. Le ho stretto la mano e
l'ho guardata negli occhi, ma lei
si è allontanata e non mi ha voluto guardare. Parlaci
anche te, dille che mi è sempre
piaciuta. Quando ritorno, sempre se
lei è d’accordo, vorrei sposarla.
Un caro abbraccio a te e a Peppino
Fortunato
P.S.
Caro Peppino,
mi scuso con te per la
sciocchezza che
ho fatto prima di partire per questa
disgraziata guerra, che purtroppo
non finisce mai. Il nostro generale
di brigata si chiama Gariboldi, come
Garibaldi ma con la o. chissà
se questo nome ci porterà bene. Lui
sembra una persona e dice che
è questione di poco tempo e poi la
Russia sarà nostra. Non mi sembrava
molto convinto perchè, malgrado il
freddo, quando ce lo diceva,
continuava a togliersi il sudore
dalla sua fronte. Da come
si stanno mettendo le cose io ci
credo poco a quello che dice. Ma che
dobbiamo fare ? Se anch'io come Gennaro
avessi avuto un figlio avrei fatto
il diavolo a quattro per tornarmene
a casa. Mi sarei tagliato tutta la
mano, non solo il dito. Spero che la
sorveglianza non legga questa
lettera perchè saranno guai per
tutti. Ma qui ormai nessuno crede a
niente e a nessuno.
Fortunato
P.S. Spero che Iddio ci aiuti!
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Come si
evidenzia in questa lettera, che mia madre
custodiva in uno dei cassetti del
suo comò, Fortunato chiedeva ancora scusa a mio
padre per aver commesso quella sbadataggine che
poteva costargli la vita e che il freddo che
c'era in Russia era davvero micidiale. Dopo
quella lettera non ce ne furono altre, ci fu il
silenzio, un silenzio preoccupante. Fortunato
non ritornò mai più in Italia, ne mai si venne
a sapere se fosse sopravvissuto a quella
disfatta oppure se fosse morto.
Nessuno ha mai
saputo quale fine abbia fatto il povero
Fortunato. Nessuno è mai venuto a riferire alla
nostra famiglia di averlo visto.
Ci sono stati
molti casi di soldati italiani, presi
prigionieri dai russi, che si erano fatti in
Russia una nuova famiglia, avendo conosciuto
qualche femmina russa. Alcuni si era accasati
ed avevano preferito non tornare più in
Italia. Per vario tempo, dopo la fine della
guerra, i suoi parenti speravano che anche lui
avesse trovato moglie e formato una famiglia. Ma
era stata una speranza vana. Mia madre
stessa aveva
sollecitato varie volte, ma invano, le autorità
militari competenti a dare notizie relative alla
sua comparsa. Dal fronte non era mai pervenuta
alcuna
risposta. Nessuno sapeva niente di niente.
Le poche
notizie era frammentarie e senza certezze,
forse anche a causa della
guerra che ancora non era finita. Dopo alcuni anni,
come migliaia di altri suoi commilitoni, il
soldato scelto Fortunato Anselmi era stato dato per
disperso dalle Autorità Militari competenti.
Un anonimo foglio di carta documentava che il
soldato scelto Anselmi Fortunato non era mai
stato ritrovato ed era stato dato per disperso.
Personalmente credo che Fortunato, come
tanti altri militari come lui, sia stato
catturato e fatto prigioniero dai russi.
La storia dice che l'ottanta per
cento di questi prigionieri italiani siano
periti nei gulag, anzichè essere
correttamente custoditi, secondo la Convenzione
di Ginevra. Bisogna considerare che questi gulag
erano stati creati e pensati per criminali
di ogni tipo ed erano noti per essere serviti
come mezzo
di
repressione degli oppositori politici
dell'Unione
Sovietica.
Il proiettile di Fortunato oltre
a questo triste risvolto ne ha un altro, ma
questo, per fortuna, è meno malinconico. Mio padre,
quando aveva voglia di scherzare, prima di
entrare nella sua camera da letto, aveva preso
l'abitudine di fare un piccolo salto per
toccare con una mano quel foro di proiettile. Io
non ho mai capito se lo facesse per puro
divertimento o per scaramanzia. Quando sono
diventato più grande e più alto, anch'io avevo
preso l'abitudine di fare un salto simile a
quello di mio padre. Senza molto sforzo mi
sollevavo in aria e sfioravo
quel foro con la punta delle mie dita. Questo
mio gesto era solo scaramantico. lo facevo
specialmente da ragazzo, prima di andare a
scuola, quando, non avevo studiato a sufficienza
abbastanza ed avevo una fifa matta di essere
interrogato dagli insegnanti. >>>
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