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Solo alla domenica , la sua giornata di riposo, mio padre si
concedeva il lusso di dormire fino a tardi, comunque non più tardi
delle nove. Verso le dieci usciva di casa, con il viso ben rasato e
profumato.Il suo dopobarba preferito era Old Spice, profumo di cui
ancora ne ricordo la fragranza. Ho provato a cercarlo ma che non mi riesce di trovarlo in nessuna profumeria della zona dove attualmente abito.
Mio padre indossava il suo elegante vestito di gabardine scuro che
tirava fuori dal suo armadio solo la
domenica o nelle feste importanti. Indossava i gemelli dorati che univano i
polsi della camicia, un paio di signorili scarpe bianco-nere bucherellate sulla punte, un orologio d'acciaio Roamer con la catenina d'oro che portava in un taschino del
gilet ed un signorile cappello in feltro Borsalino, come andava di
moda allora. Mio padre inforcava la sua robusta bicicletta, color verde
chiaro,
marca Legnano, (non ha mai voluto
imparare a guidare la macchina) per andare al Caffè Commercio
, all'angolo con Corso Vittorio (Sciara Istiklal), dove si
incontrava con alcuni suoi amici. Dopo che io avevo compiuto l'età
di due anni lui stesso aveva costruito e fissato sulla canna della
sua bicicletta un piccolo sedile di ferro per portarmi con sè. Fino
a che ero abbastanza piccolo da entrare senza difficoltà
dentro il sellino andava tutto bene ed io ero felice e ben
fiero di essere trasportato sulla bicicletta del mio papà. Poi,
quando era arrivato
il giorno che non riuscivo più a entrarci, prendevamo l’autobus
cittadino che si fermava in Sciara Camperio, vicino a casa mia.
Ricordo che c’erano due linee: la Circolare Destra e la Circolare Sinistra, che
facevano lo stesso tragitto ma in senso opposto. La Circolare Destra
, partendo da Sciara Camperio, percorreva tutto il Corso
Sicilia, passando davanti alla Fiera per arrivare fino a Piazza
Italia. Faceva tutto il giro della piazza, passava vicino all'arco
d'ingresso di Suk el Mushir, a
ridosso del castello, fino alle due slanciate colonne che in cima
portavano una caravella e un faris, un cavaliere arabo con il suo
cavallo ed un frustino in mano ed attraversava i
due tunnel del
Castello. Appena usciti dall'ultimo tunnel sulla sinistra c'era il
maestoso palazzo della Banca di Libia, e un più avanti,
spostato all'interno,
l'Arco di Settimio Severo. Si costeggiava il lungomare fino ad arrivare all’ingresso del
Porto, dove si girava a sinistra verso il Monumento dei Caduti Italiani.
In quella zona, quando erano più giovani ci avevano abitato i miei
genitori. L'autobus transitava davanti alla sede della Società Elettrica Libica e
dopo aver percorso tutta Sciara Dante passava davanti allo Stadio, per sostare nuovamente davanti all’ingresso del Lido
Vecchio, che era uno dei capolinea. La Circolare Sinistra faceva lo
stesso percorso ma all'inverso.
Il Caffè
Commercio era un rinomato luogo d'incontro. Tutto intorno si sentiva
sempre un gran brusio di voci. Si chiacchierava, si discuteva e si
concludevano affari, in piedi o seduti ai tavolini, dentro il bar e fuori sotto gli archi. Dopo che
mio padre aveva
incontrato e si era intrattenuto a parlare con i suoi amici al Caffè Commercio, ci fermavamo poco più in
là all'edicola
di Filacchioni per l'acquisto dei giornali. Mio padre comprava per sè il quotidiano
"Il Tempo" di Roma e la rivista settimanale
La Domenica del Corriere, con
le simpatiche illustrazioni di Walter Molino in prima pagina, e per me
Il Corriere dei Piccoli e
Topolino. Da lì,
con i nostri giornali
e giornalini in mano, cominciavamo la nostra passeggiata
domenicale di Corso Vittorio, camminando un pò sotto gli archi, un pò sul
marciapiede scoperto, per raggiungere Piazza Cattedrale. Il
percorso non era lungo ma, tra andata e ritorno, durava tanto, sia per
tutte le soste che facevamo sia per parlare con amici e a
salutare conoscenti che incontravamo lungo il percorso o all' uscita
della Messa delle undici. Al ritorno c'era ancora più gente.
Entrambi i marciapiedi erano stipati all'inverosimile, tanto
che dovevamo rallentare il passo. All'altezza del bar di Girus
c'era sempre un intasamento e dovevamo usare i gomiti per
farci strada in mezzo a tutta quella marea di gente. Gli uomini, vestiti a festa e con i visi
ben rasati, profumavano di dopobarba e le donne, con indosso il loro abito migliore e i capelli
pettinati con la
"permanente", chiacchieravano
con affabilità tra di loro, si
scambiavano sorrisi e si salutavano cordialmente l'un l'altro. In
fondo è vero che ci si conosceva un pò tutti, o per nome o di vista, ed in quell'atmosfera di vivace amabilità
ci sentivamo tutti amici. Quando capitava di essere ospiti
per il pranzo domenicale a casa di amici o parenti anche mia
madre veniva a spasso con noi. Ci fermavamo tutti e tre alla pasticceria Campi per
comprare un cartoccio di paste dolci da portare in dono a casa dei
nostri anfitrioni. Il negozio si trovava
sul lato sinistro del Corso, sotto gli archi, vicinissimo alla
rinomata Latteria Triestina. Mio padre permetteva a me e a
mia madre di scegliere le paste che preferivamo e che poi le
gentili e sorridenti signorine della pasticceria ci confezionavano
un delizioso cartoccio. A me, come a mio padre, piacevano i cannoli ripieni di crema di
ricotta ed i diplomatici spolverati di zucchero a velo. Mia madre
preferiva i bigné farciti di cioccolato ed i ventagli di pasta
frolla ricoperti di miele. Quando eravamo invitati a pranzo a casa
di mio zio
Mario Salmeri, fratello
di mia madre, e di sua moglie
Cristina Rovecchio,
sorella del campione tripolino di ciclismo
Renato Rovecchio
e cugina del giornalista
Vincenzo Rovecchio.
I miei zii abitavano
nella traversa precedente dell'ospedale di
Sciara Ippolito Nievo,
un strada che era il proseguimento di Sciara Raffaello e
perpendicolare a Corso Sicilia. Così per arrivare a piedi a casa
loro attraversavamo Piazza Italia, diventata poi
Maidan Ashuhada, dove c'era una rotonda
circondata da palme di datteri con al centro una fontana circolare, in cui giacevano semisommersi
dall'acqua cinque cavalli di pietra grigia. Sulla loro criniera, era
adagiata una vasca più piccola, ricamata con ghirigori, da cui
fuoriuscivano due coni zampillanti d'acqua. Vicino all'entrata
principale dell'ex Banco di Roma, all'angolo di Corso Sicilia,
addossati alla parete dell'edificio della banca, c'era una lunga
fila di lustrascarpe. Lì mio padre aveva l'abitudine di
sedersi a cassetta da Omar per farsi pulire le sue
scarpe. Omar era un simpatico libico con cui eravamo diventati amici.
Aveva
un finto occhio di vetro, che, per scherzo, ogni tanto se lo
toglieva e me lo mostrava. Quasi tutti questi lustrascarpe, oltre alla pulizia delle scarpe,
avevano delle bancarelle dove venivano esposte riviste e fumetti di seconda
mano, tutti in lingua inglese, probabilmente provenienti dalla
vicina base americana del Wheelus Field. Ogni tanto Omar, grazie alle
generose mance di mio padre, mi regalava qualche fumetto, di cui mi
limitavo a guardare le figure, visto che l'inglese ancora non lo
conoscevo. Dopo questa abituale sosta proseguivamo sotto gli archi
lungo Corso Sicilia, passavamo accanto alla cartoleria Onestinghel,
mentre più avanti sulla destra c'era un palazzo con una forma
rotonda che noi chiamavano "il Colosseo". Transitavamo accanto alla Chiesa della Madonna della
Guardia, costeggiavamo i giardinetti tra Sciara Michelangelo e
Sciara Raffaello, dove qualche volta sostavano il
Circo Togni, il
Circo Orfei
o il Circo Bizzarro. Generalmente quando arrivavo in quella zona
ero preso da un certo languore perchè l'aria era pervasa da un
delizioso profumo di cuscus che veniva dalle cucine del ristorante
Ittihad, che stava dall'altro lato della strada. Si
attraversava Corso Sicilia e s'imboccava
Sciara Ippolito Nievo. Nella parte centrale di questa
strada c'erano alcune traverse dove allora dimoravano le case di
tolleranza, che io, per la mia giovane età, non sapevo ancora che
cosa fossero e che a differenza dell'Italia, dove erano state chiuse
nel settembre del 1958 con la legge Merlin, in Libia
esistevano ancora.
Nelle domeniche che avevamo ospiti
a pranzo in casa nostra, mia madre, che era una bravissima cuoca, si
svegliava di buonora per iniziare a preparare l'appetitoso pranzo
domenicale. Subito dopo mi
alzavo anch'io, svegliato dal delizioso odore che veniva
dal forno della nostra cucina. Restavo lì impalato,
mezzo assonnato, ad osservare mia madre, ma ammaliato da
tutte le cose che riusciva a fare con tanta facilità. Il primo piatto del
pranzo della domenica era veramente superbo per la sua bontà
ed era quello preferito da mio
padre, cioè cannelloni
ripieni di carne e spinaci ricoperti con la besciamella e cotti al
forno. Mia madre diceva che il segreto che rendeva quel piatto così
saporito era che mescolava la carne tritata con un pò di cervello,
per rendere il tritato più morbido. Tra le altre cose mia madre era costretta a fare un doppio lavoro perchè preparava due
teglie di cannelloni, una piccola senza formaggio parmigiano per mio
padre ed una più grande condita con il formaggio per
tutti gli altri. Il motivo era che mio padre era nauseato dal
formaggio sin da quando era stato militare in Sardegna,
nell'isola della Maddalena, dove, a suo dire, servivano il
formaggio, non solo a pranzo e cena, ma anche a colazione. Il secondo piatto del pranzo era
invece quello che io preferivo, anche perchè a me piaceva molto
mangiare le polpettine fatte con la carne macinata, che lei
sapeva cucinare in maniera tanto saporita. Per questo motivo mia madre mi
aveva soprannominato in siciliano "u' purpettaru".
Questo secondo piatto era composto da
fette di patate
farcite di carne tritata condita con cipolla, aglio e prezzemolo, affogate
nell'uovo battuto e poi fritte. Per ultimo veniva scartocciato il
pacchetto dei dolci che i nostri ospiti avevano portato in dono. Se
sul vassoio di cartone dei dolci c'erano
anche i cannoli con la ricotta o i diplomatici io ne prendevo uno,
altrimenti niente.
Dopo
un così lauto pranzo, anche per digerire, si andava insieme ai
nostri ospiti a fare una passeggiatina lungo la spiaggia
del Lido Vecchio. Quando era inverno. e c'era stata
la mareggiata, raccoglievamo lungo la battigia gli ossi di
seppia portati dal mare, che poi regalavamo a quegli amici che
tenevano nelle loro case i canarini in gabbia. Tornati a casa, mio padre,
per abitudine, accendeva la radio alle due ed un quarto. Tutti, insieme
ai nostri ospiti, amavamo ascoltare la simpatica ed esilarante trasmissione siciliana "Il
Ficodindia" di G. Farkas e Mario Giusti, dove il grande attore
comico Turi Ferro impersonava Bastiano, un catanese pieno di grande
arguzia. Finito di ascoltare il programma siciliano, mio padre, che
non era interessato al calcio , si dedicava interamente alla
lettura dei suoi giornali comprati al mattino o si intratteneva in
salotto a fare conversazione con i nostri ospiti. A partire dall'età
di dieci anni, alle tre in punto, ero io a
monopolizzare quella radio. In
casa avevamo una gigantesca radio Marelli, color
radica, che troneggiava in un angolo della mia camera, appoggiata su
un solido tavolino. Non era facile sintonizzarsi subito, molte
volte la calda voce del radiocronista italiano giungeva disturbata
dalle fastidiose interferenze delle altre numerose stazioni. Giravo
lentamente la manopola per trovare, fra le tante stazioni locali ed
internazionali, quella italiana ad onde medie, che trasmetteva la
trasmissione sportiva "Tutto il calcio minuto
per minuto". Come dimenticare l'inossidabile radiocronista Niccolò
Carosio, subito distinguibile per la sua voce composta e
familiare, " Gentili signore e signori buongiorno. Qui è Niccolo
Carosio che vi parla..." e memorabile per i suoi famosi
, "quasi-rete" e " scusa, Ameri".
Io stavo completamente assorto ad ascoltare la radio e tifavo,
mangiucchiandomi le unghia delle dita, per la mia squadra del cuore, la Juve,
quella dei tempi in cui giocavano il
"gigante buono" gallese, Johnny Charles, e
il
funambolico argentino Omar Sivor, detto "el cabezon" per la
sua testa grossa.
Alcune volte nel pomeriggio
prendevamo l'autobus per andare in centro. Questo voleva dire fare
un giro vece lungo Corso Vittorio per incontrare casualmente altri
conoscenti e poi passando per i giardinetti, ed attraversando
la rotonda della gazzella si arrivava sul
lungomare il
lungomare Adrian Pelt, che percorreva un paio di volte da cima
a fondo, per intenderci dal
Castello fino ad oltre l'Uaddan e
ritorno. Spesso per riposarci mio padre ci invitava a sederci per
bere una bibita nel locale la
Sirenetta posto sul lungomare, al di
sotto della balaustra, dei lampioni e delle palme , in riva al mare.
Altre volte specie quando pioveva, andavamo al chiuso
del Circolo Italia,
dove venivano organizzati vari spettacoli, musica,
lotterie, tombole e feste danzanti.
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