Tripoli 1935 - Mia
madre a 16 anni
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A detta di tutti mia madre, Francesca Salmeri, era
una brava cuoca. Per imparare a cucinare così bene non aveva avuto
bisogno di seguire nessun corso di gastronomia. In realtà
durante gli anni vissuti tra la Tunisia e la Libia, aveva
assorbito l'arte e la tradizione culinaria di
questi due paesi. In più vivendo in un ambiente domestico di origini
siciliane aveva istintivamente appreso i segreti
della cucina siciliana. Mia madre era nata nella città di Marsala, in
provincia di Trapani, il 4 dicembre del 1919, da Ninetta Anselmi
e da
Giuseppe Salmeri. Mio nonno Giuseppe per
professione faceva il marinaio; aveva preso parte alle due
guerre mondiali dello scorso secolo, uscendone
miracolosamente indenne. Nel 1918, all'età di 29 anni, era già
proprietario di un grosso bastimento con cui trasportava
vino e faceva la spola tra Sicilia e la Tunisia, allora ancora
una protettorato francese. Ricordo che quando assistevo ai discorsi dei
grandi il cognome Anselmi, quello di mia nonna Ninetta da signorina,
era
considerato molte volte un argomento tabù. Gli adulti sapevano
ma
nessuno, specialmente mia madre, me ne voleva parlare, ed io non
riuscivo a capire il motivo di tanta segretezza e di quei rapidi
sguardi
d'intesa. Finalmente, diiventato anch'io adulto,
approfondii la cosa, indagando per conto mio. La verità era
che mia
nonna Ninetta, una buona ed onesta moglie ed una brava
sarta, era stata la prima cugina del famoso ma disonorevole
gangster italo-americano Alberto Anselmi,
pecora nera della famiglia e uno degli autori della "Strage
di San Valentino". Alberto Anselmi, nato a Marsala,
braccato dalla polizia italiana e protetto dalla mafia siciliana, era
riuscito a fuggire negli Stati Uniti d'America con un espediente. Una
mattina di buonora, ancora col buio, si era presentati in casa
sua, a Marsala, un ispettore di polizia con quattro agenti in borghese.
Con sè avevano un mandato di arresto con
l'ordine, firmato dal Procuratore Distrettuale, di
ammanettarlo e di portarlo in carcere. Albero Anselmi, facendo finta di
essere ancora assonnato, aveva chiesto all'ispettore se poteva essere
così gentile di attendere un attimo, dargli tempo per preparare le sua
valigia con gli indumenti da portarsi dietro e di completare di
vestirsi, dato che era ancora in pigiama. L'ispettore cortesemente
aveva accettato, visto che aveva fatto circondare la casa, ma
aveva fatto male i suoi conti. Alberto era riuscito a scappare
silenziosamente, non visto da nessuno, da uscita secondaria
della casa e si era dileguato nel nulla, forse aiutato da qualche
agente disonesto, che aveva fatto finta di non vederlo. La Mafia,
che lo proteggeva, aveva
consigliato ad Alberto di cambiare aria e dopo circa un mese, a bordo
di un transatlantico, giunse a Nuova York. Da lì si trasferì a Chicago,
dove strinse amicizia con una potente mafiosa famiglia marsalese,
i Genna.
Tramite la loro conoscenza fu presentato ad Al Capone,
tanto
da diventare col tempo un suo caro amico. Vincenzo Anselmi
era un uomo
ambizioso e non si accontentava della sua posizione già
privilegiata, tanto che, insieme al suo amico John
Scalise, stava pensando di insidiare la poltrona di Al Capone. Si
dice che, per uno "sgarbo", Anselmi venisse ucciso, insieme al suo
complice Scalise, dallo stesso Al Capone con una mazza da
baseball durante una "riunione di famiglia". Questa cruenta scena è
stata ricreata e resa famosa nella prima parte del film
americano
"The
Untouchables" (clicca sul nome e guarda
la scena dell'omicidio con una mazza da baseball) interpretato da
attori famosi come Robert
De Niro nella parte di Al Capone, Kevin
Kostner,
Sean
Connery ed Andy
Garcia.
Fino al 1920 mio nonno Giuseppe commerciava col
vino, trasportandolo con il suo bastimento dalla Sicilia ala
Tunisia. Nel giugno di quell'anno, vedendo che il tenore di
vita delle famiglie italiane residenti in Tunisia era
migliore di quello in Sicilia, decise di lasciare, insieme a
tutta la famiglia, la sua casa di Marsala. La sua idea era
quella di andare a risiedere stabilmente a Sfax, un
paese della costa
orientale della Tunisia, a sud di Tunisi, di fronte alle isole
Kerkennah, sopra all'isola di Djerba.
E così fece. Mia
madre fu battezzata col nome di Francesca; era la secondogenita di
cinque figli e lasciò così Marsala,
ancora in
fasce. Aveva due fratelli,
Mario e Giovanni e due
sorelle, Maria e Grazzina. Sia Maria, la primogenita, che mia madre,
dopo aver
raggiunto l'età scolastica, cominciarono a frequentare le
scuola elementare locale di Sfax. La lingua ufficiale della
scuola era il francese, quindi a scuola parlavano il francese
ed a casa il siciliano. Nel frattempo il
commercio del trasporto del vino era diventato molto meno remunerativo
rispetto agli anni precedenti, così mio nonno Giuseppe, insieme a suo
fratello Vincenzino,
decise che per sopravvivere dovevano rinnovarsi. Rimasero in Tunisia
fino al 1927, sino a quando anche anche lì cominciarono a farsi sentire
i primi sintomi della recessione dell'economia
mondiale, sfociata nella depressione economica americana del
1929. Utilizzarono pertanto la loro esperienza marinara e
indirizzarono il
loro commercio verso un un altro settore, la pesca delle spugne, che
nel
frattempo in quel periodo era diventato
più redditizio. Così entrambi
i fratelli, con il loro bastimento battezzato proprio "I due
fratelli", decisero di spostarsi con le
loro due famiglie lungo la costa libica, i cui fondali marini
sembravano meno sfruttati di quelli tunisini e quindi più ricchi di
spugne. La
spugna,
anche se a prima vista non lo si direbbe, vive e respira.
Infatti è un animale primitivo che vive in colonie attaccate
alla roccia dei fondali marini ed in misura minore anche in quelli di
acqua dolce. Non ha una forma ben definita, ha un organismo privo di
sistema nervoso, ed è costituito essenzialmente da una sostanza molle,
munita di numerosi pori, attraverso cui l'animale si nutre. Il corpo
esterno serve da rivestimento, quello intermedio è una specie di
sottile impalcatura scheletrica formata da carbonato di calcio o da
silice, mentre quello interno è formato da cellule che provvedono a
trattenere e digerire le particelle alimentari che entrano con l'acqua
attraverso i pori. Dopo l'essiccamento la spugna veniva
utilizzata generalmente per la pulizia e per l'igiene
personale. Ricordo che mio nonno e suo fratello Vincenzo
vendevano le loro spugne al signor Costa Gerakis, un simpatico
commerciante
greco, che aveva i suoi uffici a Tripoli, in Corso Vittorio, vicino al
negozio di scarpe Bata. Costa era poi diventato un carissimo ed
intimo amico di mio zio Mario grande. In
quegli anni a Zuara, un piccolo paese distante circa un centinaio di
chilometri da
Tripoli e vicino al confine tunisino, vivevano
parecchie
famiglie
italiane.
Nell'agosto 1936, mio padre, ancora scapolo,
abitava a Tripoli in un appartamento nella Città Vecchia, vicino al
porto e al Monumento dei
Caduti. Vicino alla loro casa c'era anche
quella di Vincenzino Salmeri,
il fratello del mio nonno materno
Giuseppe. In quella casa abitavano sua moglie Antonietta Anselmi,
sorella di mia nonna Ninetta Anselmi, ed i loro tre figli Mario,
Franceschina e Maria. Mia madre frequentava spesso la casa dei loro
cugini. Un giorno, casualmente, mio padre aveva incontrato la giovane
Francesca in
quella casa. Quando mi raccontava questo episodio mia madre mi diceva
sempre che il loro fu un amore a prima vista. Per certo periodo si
incontravano di nascosto, poi mio padre aveva chiesto a mio
nonno la mano di mia madre, come si usava allora. Mio nonno
Giuseppe dapprima aveva preso tempo per prendere informazioni sul suo
conto. Gabriele
Ferrante, il marito della sorella Orsolina, e quindi cognato
di mio padre, che conosceva bene mio nonno, aveva garantito per
lui.
Aveva riferito che mio padre aveva ventisei anni, che era un
giovane a modo e che economicamente era indipendente perchè mensilmente
percepiva un ottimo stipendio con il suo lavoro di saldatore
specializzato, una professione nuova in quei tempi. Malgrado
ciò mio nonno aveva fatto sapere a mio padre, tramite terze persone,
che rifiutava la sua richiesta. Il vero motivo era che mia madre era
ancora troppo giovane (aveva solo sedici anni). Poi aveva detto, per
terze persone, che al momento era
disponibile al matrimonio solo la sua primogenita, Maria,
anche lei bella e graziosa, che aveva diciotto anni, e quindi
era
già in età di matrimonio. Secondo l'usanza di allora
la primogenita doveva essere la prima a sposarsi e poi
successivamente le altre in ordine d'età. Mio padre però si era
innamorato di Francesca e non era affatto interessato alla pur
attraente Maria, così insieme a mia madre aveva progettato di poter
ricorrere
alla classica "fuitina". Fuitina è un termine di origine
siciliana
utilizzato molti anni fa, ma la pratica è ancora attuale, per indicare
la cosiddetta "fuga d'amore", ovvero quando due ragazzi molto giovani,
o addirittura minorenni, decidono di allontanarsi da casa, da soli, per
qualche giorno senza avvisare nessuno. Al loro ritorno diventa quasi
automatico il cosiddetto "matrimonio riparatore". La fuitina
veniva utilizzata da due giovani innamorati quando il loro
amore era
contrastato da una o da entrambe le loro famiglie. Lo scopo,
quindi, era quello di metterle dinanzi al "fatto compiuto"
e quello di aver presumibilmente consumato un rapporto
sessuale. A quel
punto l'assenso dei familiari era inevitabile. Comuque non ci fu
bisogno di ricorrere a quell' estremo espediente. Mio nonno aveva
constatato il fatto che mio padre non era per niente
interessato
alla sua proposta di sposare la figlia primogenita Maria; inoltre mia
madre, col suo atteggiamento prostrato, mostrava di essere
seriamente
innamorata di mio padre, quindi, su accorata insistenza della saggia
moglie
Ninetta,
mio nonno cedette a quelle insistenze e alla fine, per la felicità di
tutti, si decise a dare il suo assenso al
fidanzamento. Si diceva che mio nonno Giuseppe fosse
abbastanza una persona piuttosto burbera e severa con
i propri
figli,
tanto che pretendeva che si
rivolgessero a lui, dandogli del "Vossia", che è
l'espressione siciliana equivalente al "Lei". Si
diceva che fosse molto geloso delle sue figlie femmine,
proibendo rigidamente che indossassero costumi
da bagno per andare in spiaggia. Malgrado questa
rigida mentalità e malgrado
questi ostacoli i miei genitori si unirono felicemente in
matrimonio il 4 dicembre del 1937. Non a caso era
stato scelto quella data, perche proprio in quel giorno mia madre
compiva il suo diciottesimo anno di età. La cerimonia
nuziale si svolse nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli,
non lontano da
Sciara Espaniol, dove c'era stata la prima sede dell'Istituto La Salle
a Tripoli.
Tripoli 4
dicembre 1937 - La Chiesa di Santa Maria degli Angeli - Mia madre e mio
padre sposi.
Per inciso voglio ricordare che la figlia
primogenita, mia
zia Maria, si
era fidanzata pochi mesi dopo il matrimonio di miei
genitori. Maria si era sposata nella chiesetta di Zuara con Giovanni
Giarratano, detto Giangià, e dopo qualche avevano
avuto due figli Ninetta e Gasparino.
I miei genitori trascorsero la loro luna di
miele in Sicilia. Si imbarcarono da Tripoli con una motonave che li
sbarcò
a Siracusa. Da lì presero il treno per andare
a visitare i loro parenti di Marsala, di Favignana ed alcuni loro
cugini di
Palermo. A questo proposito mia madre mi raccontava spesso un episodio,
accaduto proprio a casa dei loro giovani cugini di
Palermo, anche
loro sposini novelli. I miei furono invitati a casa
loro per il pranzo domenicale A prima vista, guardando
la casa e la
tavola poveramente imbandita, notarono in quali ristrettezze e in quale
della povertà vivevano questi
cugini.. Per pranzo il
primo
piatto era un composto da un brodino con soli quattro piccolini
tortellini
per gli uomini e tre tortellini per le donne (la
parità dei diritti non era stata ancora raggiunta). Come
secondo un po' di mortadella, tante olive, fette di pane fatto
in casa ed acqua a volontà. Raccontandomi questo episodio
mia madre non voleva spettegolare, ma sottolineare come loro, mio padre
e mia
madre, fossero stati fortunati a vivere in
Libia, dove, anche grazie anche alla saggia amministrazione
del governo di Italo Balbo,
le condizioni di vita degli italiani in Libia erano più
floride che in Italia.
I miei genitori erano dapprima andati ad abitare,
per poco tempo, in un appartamentino con giardino nelle zona delle Case
Operaie,
vicino alla Chiesa
di Sant'Antonio, non lontano dalla Stazione
Ferroviaria di Tripoli. In quel periodo mio padre lavorava,
in qualità di saldatore specializzato, presso l'officina dei Fratelli
D'Alba, ubicata nella zona del Lido, a pochi metri dal mare. Nel
settembre 1938 mio padre decise che era giunto il momento di
cambiare
casa per andare a vivere più vicino al suo posto di lavoro e sopratutto
più
vicino al mare. Così presero in affitto
un appartamento al pian terreno di Sciara Camperio al numero 10, nella
zona del Lido, dove io sono
nato. Per un pò di tempo entrambi avevano programmato di non avere
figli, ma quando si decisero di volerli, questi non
venivano.
Nel mese di dicembre del 1947, quasi dieci dopo il
matrimonio, sotto le feste di Natale, mia madre era andata alla messa
domenicale della Chiesa della Madonna
della Guardia, in Corso Sicilia. Al termine della Messa si
era
fermata a guardare da vicino il Presepe Vivente, che a
quell'epoca veniva rappresentato all'interno della chiesa in uno spazio
riservato, vicino all'altare. Questo presepe era impersonato
da uomini e donne reali che, per devozione religiosa, si erano offerti
come volontari per recitare la parte dei protagonisti del Santo Natale.
Pertanto nel Presepe c'erano gli attori che rappresentavano i pastori,
San Giuseppe, la Madonna ed un bel bambino biondo, di circa 10 mesi,
che avrebbe dovuto essere il bambino Gesù, adagiato
delicatamente in
una culla di legno ricoperta di stracci. Mia madre mi raccontava che il
bambino di quel Presepe Vivente era un trovatello, che, come le aveva
riferito la Madre Superiora, era stato lasciato temporaneamente in
custodia alle Suore Bianche, il tempo necessario per trovare una
confortevole sistemazione e, nel frattempo, impersonare la parte del
bambinello
Gesù. La Madre Superiora, che conosceva bene mi madre, e
sapeva anche
del suo problema di non avere potuto ancora ancora figli, vedendola
assorta a contemplare il bambinello, le si avvicinò e con delicatezza
le chiese se stesse meditando di adottare un bambino, pratica
che in quei tempi era meno complicata di ora. Mia madre
all'inizio era rimasta perplessa e senza parole. Poi le disse che ne
avrebbe parlato con mio padre. Riferita la notizia in casa,
dopo
qualche giorno di riflessione, arrivarono alla decisione
di adottare quel bambino. Presi dall'euforia, erano già pronti ad
incontrare la Madre Superiore, per riferirle della loro
positiva decisione ed iniziare le pratiche di adozione. In
quel periodo mia madre aveva dei cicli mestruali irregolari e quindi
aveva dei
problemi a capire di essere incinta o meno. In quei di eccitazione,
però, questi cicli si
erano del tutto interrotti. Alla vigilia di Natale mio padre accompagnò
mia madre a fare
una visita ginecologica. Dopo la visita il dottore disse sorridente a
tutti e due che
mia madre era incinta. Grande la gioia dei mei
genitori, che finalmente dopo quasi dieci anni di matrimonio potevano
diventare mamma e papà. Andarono subito dalla Madre Superiora per
raccontarle il nuovo fatto, decidendo di abbandonare la pratica di
adozione dell'altro bambino.
Da piccolo questa storia mi fu raccontata
varie volte da mia madre. Purtroppo, e mi capitava abbastanza
spesso, di prendere degli
sculaccioni da mia madre per qualche mio frivolo capriccio infantile,
il pensiero dell'adozione mancata mi assillava in continuazione. Ero
preso dal dubbio che mia madre non mi volesse abbastanza bene forse e
pensavo, amaramente, che il bambino del presepe fossi proprio io.
Quando mi mettevo a piagnucolare per
qualche mia puerile bizza, mi diceva in siciliano:
"Sii una làstima!" che tradotto in italiano significa "Sei noioso". Per
fortuna avevo un buon rapporto con mio nonno materno Giuseppe,
il marinaio ormai in pensione, tanto che solo a me concedeva di dargli
del "tu" anzichè
del "Vossia" come faceva con i suoi figli.
Da piccolo mi
piaceva pensare che da grande avrei fatto il barbiere. Questo
mio pensiero lo avevo confidato a mio nonno, così lui, che con me aveva
tanta pazienza, per accontentarmi si metteva a sedere su una
sedia davanti ad uno specchio, indossava
una asciugamano attorno al collo e mi invitava a tagliargli i
suoi capelli perchè io cominciassi a fare la mia prima esperienza di
barbiere. Sapeva mettermi a mio agio, mi dava dei
consigli su come e
dove tagliarli. Ogni tanto mia madre veniva a guardarci preoccupata e
lui le diceva: "Lassalu
fari a tu figghiu, chissu un bravu varveri veni", (Lascialo
fare a tuo figlio, questo diventerà un bravo barbiere) e
mi sorrideva strizzandomi l'occhio, facendomi capire che era
mio complice. Mio nonno, che generalmente abitava a
Zuara, veniva a trovarci abbastanza spesso a Tripoli nella
nostra casa al Lido, tanto che una volta, forse avevo sei
anni, restati soli ed armato
di coraggio, gli chiesi con una certa ansia, temendo una tragica
risposta: "Nonno, è vero
che tu c'eri quando io sono nato?" - "Certo che c'ero
e mi
ricordo che avevi tanti capelli nerissimi, tanto
che parevi Dante
Alighieri". mi rispose. Al che io tornai alla carica,
chiedendo ancora dubbioso: "Nonno, ma chi è questo Dante
Alighieri,
non è mica mio padre?" "Ma no, che vai
pensando? Dante Alighieri era un grande poeta italiano,
vissuto centinaia di anni fa, ma che aveva una lunga chioma di capelli
neri proprio come l'avevi te quando sei nato", mi
rassicurò scompigliandomi i capelli. Al che io tirai un
sospiro di sollievo,
quindi non ero io il bambino del presepe vivente adottato, anche perchè
quello era biondo ed io avevo i capelli nerissimi. Così,
da quella volta, mi tolsi il dubbio dell'origine della mia
nascita.
Crescendo mi resi conto che il motivo per
cui mia madre
era così insofferente ed intollerante nei miei confronti era
perchè veniva spesso assalita da tremende e dolorose coliche, dovute ai
auoi calcoli alla
cistifellea, che la rendevano molto nervosa. I dottori
di allora non sapevano come curarla e lei continuava a soffrire, mentre
sarebbe bastata una semplice operazione chirurgica per rimuovere quei
calcoli e farla stare meglio. A distanza di vari anni un bravo dottore,
di
nome Basile, che curava mio padre, affetto da un tumore,
glieli aveva asportati chirurgicamente, in day hospital, in
una
clinica di Tripoli.
Devo aggiungere che mia madre aveva alcune fisime.
Ne ricordo bene due. Una era quella che gli
piacevano le
bambole. Le piacevano così tanto che sul suo letto
ce ne erano posate almeno tre, con caratteristiche diverse. La sua preferita
aveva il viso paffuto ed aveva i capelli rossi. Era tutta vestita di
merletti rosa e apriva e chiudeva gli occhi quando si
toccava. Un'altro era un bambolotto negro
coi capelli neri e ricci, scalzo e
con un vestito bianco e rosso, che se si tirava una
cordicella diceva "maaammaaa". Una terza era tutta
di pezza color rosso ed assomigliava alla protagonista della
fiaba di Cappuccetto
Rosso, scritta da fratelli Grimm. Poi
in una vetrinetta nella sua camera da letto c'erano una
collezione di bamboline in miniatura. L'altra fisima era
quella che avrebbe voluto avere una figlia femmina anzichè un
maschio. Era senza dubbio un desiderio difficilmente esaudibile, visto
che aveva impiegato dieci anni per fare un figlio. Lei pensava
che le figlie femmine, essendo più docili di
carattere dei figli maschi, sarebbero state una garanzia assicurata per
la vecchiaia, mentre i figli maschi, quando diventano
adulti, finiscono per seguire le loro mogli e tendono
ad allontanarsi
dalla loro famiglia di origine. Uno volta la fece
grossa. In occasione di un
Carnevale volle, per scherzo, che mi
vestissi da femmina, malgrado io fossi contrario. Aveva anche insistito
nel portarmi da un fotografo in Corso Sicilia, perchè
mi immortalasse vestito in quella maniera ridicola.
Questa foto la conservava nel suo vecchio album
fotografico. Ogni volta che la guardo sono tentato di strapparla, poi
lascio perdere, perchè rappresenta comunque un ricordo di una parte
della mia vita. Questa
foto, scattata all'età
di otto anni, mi ritrae con un sorriso forzato. Ho indosso una
gonna lunga bianca, una
camicetta dello stesso colore ed una borsetta bianca al
braccio. Nella mano destra tengo un ombrellino di carta giapponese
mentre nell'altra una trombetta con fili di coriandoli. In
testa indosso un ridicolo cappellino da boy scout. Per mia fortuna la
cosa successe solo una volta, per uno stupido capriccio di mia
madre. Comuque sia, io so che mi ha sempre voluto bene, nel bene e nel
male. Come io ho voluto bene a lei, anche quando mi picchiava.
Ciao Mamma, da Lassù continua a vegliare sempre su
di me!
Mi
piace concludere questa mia dedica a mia madre
ricordando una poesia di
Francesco Pastonchi Che
cos'è una Mamma che ho studiato ed
imparato a memoria in quinta elementare, dai Fratelli Cristiani, con
Fratel Amedeo.
Che
cos'è una Mamma
di Francesco Pastonchi
Una mamma è come un albero grande che tutti i suoi
frutti dà:
per quanti gliene domandi sempre uno ne troverà.
Ti dà il frutto, il fiore e la foglia, per te di
tutto si spoglia,
anche i rami si toglierà. Una mamma è come un
albero grande.
Una mamma è come una sorgente. Più ne toglie acqua
e più ne getta.
Nel suo fondo non vedi belletta: sempre fresca,
sempre lucente,
nell’ombra e nel sole è corrente.
Non sgorga che per dissetarti, se arrivi ride,
piange se parti.
Una mamma è come una sorgente.
Una mamma è come il mare.
Non c’è tesori che non nasconda, continuamente con
l’onda ti culla
e ti viene a baciare.
Con la ferita più profonda non potrai farlo
sanguinare,
subito ritorna ad azzurreggiare.
Una mamma è come il mare.
Una mamma è questo mistero: tutto comprende, tutto
perdona,
tutto soffre, tutto dona, non coglie fiore per la
sua corona.
Puoi passare da lei come straniero, puoi farle
male in tutta la persona.
Ti dirà: - Buon cammin, bel cavaliero!-
Una mamma è questo mistero.
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