gli altri del rione -
capitolo xiv
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(sottofondo
musicale :
Gli altri siamo noi
di Umberto Tozzi e Giancarlo Bigazzi)
- ancora da inserire |
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Agata Basile |
Edison Taliana |
Anna Salemi |
Catello Imperatore |
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Lillo Santagati |
Giovanna Badalucco |
Raffaele Chiarelli |
Ninetta Zocco |
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Maria Zocco |
Aldo D'Agostini |
Felicetta Costa |
Giacomo Cannucci |
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Nel rione del Lido tutti gli altri capofamiglia lavoravano, chi in proprio
e chi come dipendente. I fratelli Babarabani
avevano un'officina accanto a quella di mio
padre e riparavano grossi motori di giganteschi autocarri che
trasportavano merce nei campi petroliferi del deserto.
Lillo Santagati gestiva
un'officina di elettrauto in una traversa di Corso Sicilia; anche
Aldo D'Agostini, che
avevano imparato il mestiere nella sua officina era un elettrauto. Michele Salemi e Silvio Nobile avevano una bottega di
falegnameria dietro lo Stadio. Francesco Zocco aveva un
negozio di calzolaio dietro la Chiesa della Madonna della Guardia.
Natalino Spallina esercitava il suo mestiere di gommista in un
locale all'inizio
di Giorginpopoli. I fratelli Rosario, Ciccio e
Giacomo Cannucci
lavoravano come tonnaroti nella tonnara di Zanzur. Ugo Bessi faceva il marmista
e costruiva lapidi nel vicino Cimitero
Cristiano. Raffaele Basile e Nino Bellodi facevano i
fornai. Pippo D’Amico, Raffaele Chiarelli, Antonio Arena, i due
fratelli Braga, Giovanni Rossi, Adelino D'Agostini e Giovanni Avola guidavano grossi
autocarri
articolati e facevano la spola tra il deserto e Tripoli. Vito Badalucco e
Giuseppe Presta erano muratori. Pippo
D’Amico e Catello Imperatore con la propria auto facevano i tassisti.
I fratelli Carbone erano entrambi barbieri ed insieme gestivano un
salone nel centro cittadino. Giuseppe Marino, Pippo Greco,
Ferruccio Montalbetti e Mario Calandra erano meccanici e riparavano motori di
macchine. Vittorio D’Amico era orologiaio mentre il fratello
minore, Benito faceva l'elettricista. Salvatore Longo
dava lezioni di ballo. L'architetto Edison Taliana
insegnava disegno negli Istituti Superiori di Sciara Mizran ed aveva
progettato la bellissima Moschea ubicata alle spalle del Circolo
Italia. Il dottor Francesco Marra svolgeva la professione di
medico generico. Nel rione c’erano anche ben tre negozi di
generi alimentari, uno era in Sciara Vittorio Bottego, gestito da
Iano D’Amico, mentre gli altri due erano
in Corso Sicilia. Uno di questi, ubicato all'altezza dello
Stadio, era di proprietà di Fulvio Lenci, l'altro,
ubicato quasi all'angolo con Sciara Camperio, dapprima era
stato gestito dalla signora
Felicetta Costa , poi
da Giuseppe Moschetti e nell'ultimo periodo dalla famiglia Paolillo.
Accanto a quest'ultimo negozio c'era il bar mescita di bibite ed
alcolici di Michele Gaudio. Tra i giovani ragazzi del rione Michele
Chiarelli faceva l'orologiaio, Bruno Cubisino e Aldo D'Anna
Veri i carrozzieri di automobili, Nicola D'Anna Veri il meccanico di
impianti idraulici. Non solo gli uomini ma anche le
donne e le mamme del Lido erano piene di fervide iniziative e a modo
loro si davano da fare a lavorare. Molte lavoravano in casa facendo
la sarte per i bisogni della famiglia, altre lavoravano per conto
terzi confezionando vestiti per bambini e per donne, gonne,
tailleur, camicie o facendo mille tipi di ricami per tovaglie
da tavolo, per fazzoletti. Tra queste sarte ricordo Lucia e Paolina
Chiarelli, Vita e Maria Zocco Pisana, Maria Cannucci. Non proprie tutte
sapevano fare bene le sarte, per esempio la signora
Agata Basile era
infermiera. La maggior parte delle mamme del Lido era delle brave
massaie ma più di tutto erano delle eccellenti cuoche.
Mi ricordo che la signora Anna Salemi, probabilmente per una tradizione
religiosa siciliana, ci portava a casa ogni anno, il 13 di Dicembre,
il giorno
di Santa Lucia, una tazza colma di
cuccìa
dolce, insaporita col
cioccolato liquido e piccole scorze di limone.
Santa Lucia, patrona
di Siracusa, è la santa protettrice degli occhi e
della vista. La signora Salemi era anche una brava cuoca e con mia madre spesso
l'argomento principale delle loro conversazioni era la gastronomia.
Il loro scambio di conoscenze delle ricette non era mai scritto ma
solo verbale. Quando parlavano della quantità degli ingredienti non
parlavano mai di grammi, come misura di peso, ma di un "pizzico",un
"pugno" o "a occhio". Mi ricordo che, parlando
tra loro in siciliano, si scambiavano pareri su come cucinare
le melanzane al forno e non fritte perchè la frittura faceva male al
fegato. La signora Salemi suggeriva a mia madre una ricetta di
melenzane al forno adatta proprio per lei che, per i suoi calcoli
alla cistifellea, non poteva mangiare frittura." A capunata di milinciani pir chiddi chi non ponno mangiari
frittura ma che vene bona pi tutti, e non porta mali di panza. A tucchetti si mettinu i
milinciani cu tutta a scorcia, beddi larghi, cu l'ogghiu, in da na
tigghia granni, inzemmula a quattru spicchi di cipudda russa ,tagghiata
a filimini. Un munzeddu di piddrusinu tagghiatu, fiiinu,finu,finu,
tuttu cunzato cu u pammiggianu. Sta tigghia s'infila nu
furnu cauru, ca na sbizza d'acqua e n'anticchia di pummaroru di
pachinu pi dacci u culuri. Sentissi chi sciauro, c'è da arricrearsi'", che tradotto
in italiano è :" La caponata di melenzane per quelli che non
possono mangiare frittura e che è buona per tutti. A tocchetti
si mettono le melenzane con tutta la buccia, belli larghi, con
l'olio, in una teglia grande, insieme a quattro spicchi di cipolla
rossa, tagliata a strisce sottili, un monticello di prezzemolo
tagliato molto fino, tutto condito con il parmiggiano. Questa teglia
si mette nel forno già caldo, con un po' d'acqua ed un pochino di
pomodori di Pachino per dargli il colore. Sentirà che odore, è un
godimento".
Tra le altre signore
del rione rammento la disponibilità della signora
Agata Basile, una brava infermiera professionale,
che ogni
qualvolta il nostro medico di famiglia, il dottor Garaffo, ci
prescriveva delle iniezioni, lei era sempre pronta a farle.
La
signora Giovanna Badalucco era brava a preparare le torte, non posso
dimenticare le sue
buonissime ciambelle di pan di spagna.
La signora
Ninetta Zocco confezionava camicie di tutte le misure.
L’anziana e simpatica signora Cannucci, chiamata in siciliano “a Raisa”
poiché moglie del rais, capo dei tonnaroti, ci portava
spesso in regalo della buonissima bottarga di tonno, che trovavo
deliziosa grattata sul pane con l'aggiunta di un pò d'olio d'oliva.
Un altra signora che ricordo con piacere è la signora Maria Rossi,
di origini abruzzesi. La sua simpatia era dovuta al suo splendido
sorriso e alla sua maniera di parlare con un forte accento
abruzzese, ben diverso da quello siciliano, assai più comune nel
nostro quartiere. Alla fine della giornata, noi
bambini del rione, impegnati come eravamo nei nostri giochi, non ci accorgevamo neppure che
era già buio. Ci pensavano le nostre mamme a farcelo ricordare.
Si sentivano sovrapporsi le loro voci, ognuno intenta a richiamare
il proprio figlio o figli, perchè la cena era pronta. Bruno e
Venanzio Rossi erano i due figli più grandi che partecipavano
attivamente a questi giochi. Si udiva la signora Maria Rossi
chiamare a voce acuta da soprano:"Bruuuno, Venaaanzio, tornate a
caaasa". Un altra volta sempre con lo stesso accento
abruzzese guardando i miei capelli , in tutta la sua spontaneità mi
aveva detto. "Mio caaaro Domeeenico, con quei capeeelli, mi sembri una craaapa!"
In un certo senso la signora Maria aveva ragione, in quel periodo,
anzichè avere i miei soliti capelli un pò mossi color castano, li
avevo biondi, folti e riccioluti. Il motivo è presto
detto. All'età di nove quando frequentavo la quarta elementare dai
Fratelli Cristiani con Fratel Felice ero stato colpito da una forma
infetta di
tigna, del tipo di tonsurante, che colpisce i capelli e il cuoio capelluto.
Mia madre mi aveva portato dal dermatologo più
rinomato a Tripoli,
il dottor Rosario Grasso, che era il padre del mio compagno di
classe Francesco Grasso. Il dottor Grasso mi aveva prescritto
una terapia che prevedeva all'inizio la spalmatura di una
particolare pomata su tutta la testa, con l'effetto di perdere tutti
i miei capelli. Per un certo periodo portavo un cappellino bianco,
perchè mi vergognavo a farmi vedere con la testa rasata. Ricordo che
alcuni conoscenti arabi, per prendermi in giro, mi chiamavano fartas,
che vuol dire testa pelata. Quasi ogni giorno, per circa due
settimane, dovevo sottopormi nell'ambulatorio di un
radiologo ad una terapia di
raggi diretti su tutto mio cuoio capelluto. Provo ancora un certo
disagio pensando a quelle
dieci sedute di
raggi, che duravano circa mezzora l'una, a cui ero costretto a
sottopormi pena la perdita dei miei capelli. Il mio grosso problema
era che sia il radiologo che mia madre me lo ripetevano in
continuazione: non muoverti, stai fermo, altrimenti
rischi di restare calvo per sempre. Immaginate le mia paura
all'idea di dover restare calvo per tutta la
vita! Tutti i
pruriti di questo mondo mi venivano proprio in quella mezzora. Volevo che
mia madre mi strofinasse la punta del naso o l'estremità del collo o
il sopracciglio sinistro. Mia madre mi implorava di continuare a resistere
perchè mancava poco
alla fine della seduta e poi avrei potuto grattarmi per tutto il
tempo che volevo.
Dopo questa terapia di raggi ero comunque rimasto completamente senza capelli per
un pò di tempo, tanto che, per la vergogna, mi coprivo la testa con
un berretto. Dopo qualche settimana era cominciata a crescere sulla
mia testa una peluria bionda e
nell'arco di qualche mese mi erano cresciuti dei bei capelli biondi,
folti e ricci. Dopo sei mesi i miei capelli erano ridiventati come erano
precedentemente alla terapia dei raggi, cioè un pò mossi e castani.
Le sorelle Covato abitavano in una
villetta accanto a quella dei Salemi. nel loro giardino coltivavano
dei bellissimi gigli di Sant'Antonio che regalavano a tutti i
bambini e le bambine che facevano la Prima Comunione. Quando si
avvicinava la Pasqua c'era l'usanza che alcune famiglie si univano
insieme per portare
una cesta colma panini da far benedire. Si andava dal Padre, che celebrava la
messa pasquale nella vicina Chiesa di Sant'Antonio. Raggiungevamo
questa chesa a piedi, attraversando i binari della ferrovia e la
strada sterrata, incuranti dei rovi e dei cespugli selvatici che
erano sparsi
lungo il percorso.
Erano poche le donne del Lido che lavoravano fuori casa.
Solo le più giovani, che
avevano studiato e si erano diplomate. Alcune si erano impiegate con qualche
ditta di import-export o presso qualche società petrolifera, tra
queste c'erano Maria Badalucco e Rosaria Marino.
(Capitolo ancora da completare) .
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