SANTA LUCIA

Vergine e Martire di Siracusa

 

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Il tuo nome, la tua santa

 

Il nome Lucia o Luce, che al maschile fa Lucio, è un bellissimo nome, che a giudizio di alcuni studiosi proviene dall'inusitata voce greca lùke (luce) e similmente da quella lati­na lux (luce). Ma, trattandosi di un nome romano, altri studiosi lo fanno femminile di Lucio (Lùcius) traendolo da lux-lucis. Al dire degli antichi, il nome Lucio veniva imposto a chi «nasceva allo spuntar della luce». In tal caso il nome Lucia significa «colei che è nata allo spuntar della luce».  Non per nulla i nomi personali derivati dal­la «luce» invasero l'onomastica cristiana dei primi secoli; trionfarono nell'agiografia con una quarantina fra santi e sante e non spiac­quero neppure agli scrittori e agli artisti. Chi per esempio ignora la popolarissima «Lucia» manzoniana o la «Lucia di Lammermoor» di Walter Scott musicata da Donizetti? In questo volumetto scriverò della santa più popolare: santa Lucia, la vergine siracu­sana, martirizzata sotto Diocleziano e la cui festa cade il 13 dicembre. A Roma le dedicarono una ventina di chie­se, Dante l'introdusse nella Divina Comme­dia, pittori e scultori ne ritrassero la avvenen­te figura.

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Lucia e la sua terra

La Sicilia, splendida isola ricca di bellezze naturali, di storia, di cultura, di arte, di folk­lore, di tradizioni civili e religiose, è la terra di santa Lucia, vergine e martire, nata nella storica città di Siracusa fra il 280 e il 290 dopo Cristo. Armonioso coronamento della penisola italiana, la Sicilia ha forma triangolare con 1100 chilometri di coste, bagnate sui tre lati dal Tirreno a nord, il Mediterraneo a sud­-ovest, lo lonio a est. Essa dista pochi chilo­metri dalla Calabria da cui è divisa dall'esi­guo tratto di mare dello stretto di Messina.

 

«Porta della Sicilia»

Ricostruita con fisionomia moderna, dopo il terribile terremoto che la distrusse nel dicembre del 1908, e dopo la tragica serie di bombardamenti che la colpirono durante la seconda guerra mondiale (1939-1945), Mes­sina è chiamata «Porta della Sicilia». Chi vi giunge dal continente con la nave-traghetto, solcando le acque sempre agitate e spumeg­gianti del bellissimo stretto in cui essa si spec­chia col suo magnifico porto naturale, vi può sostare alcuni giorni per meglio conoscerla e ammirarla, oppure può subito partire per un affascinante viaggio turistico attraverso l'isola. Questa luminosa città, le cui origini si per­dono nel tempo, sintetizza tutti i valori del­l'«isola del sole», come giustamente fu scritto da Roberto De Gasperis: «dalla bellezza del paesaggio alla luminosità del cielo e del mare; dall'ampiezza e nobiltà delle prospetti­ve cittadine alla vivacità di vita che si rivela ricchissima e vibrante da qualunque punto di vista la si voglia esaminare».

 

«Terra del sole»

La Sicilia, chiamata anche «Terra del sole» per il suo cielo limpido e il suo clima piuttosto caldo, è l'isola più grande d'Italia e del Medi­terraneo. Comprende nove province: Messina, Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanis­setta, Ragusa, Siracusa e Catania, bagnate per un tratto dal mare e, sui monti del centro, la provincia di Enna. L'omonima città, situa­ta a circa mille metri di altitudine sui Monti Eréi, è il capoluogo di provincia più alto d'I­talia. E detta anche «Belvedere della Sicilia» per il vastissimo panorama circostante che of­fre allo sguardo incantato del visitatore.

 

Il territorio

Il territorio dell'isola è prevalentemente collinoso e montagnoso. I gruppi di maggior rilievo sono i Monti Peloritani, i Nebrodi, le Madonie, gli Eréi, gli Ibléi. Il vulcano Etna sta a sé. Con la sua gigantesca mole conica, che raggiunge l'altezza di oltre tremila metri, domina la costa ionica offrendo a chi lo am­mira uno spettacolo favoloso e terrificante quand'è in eruzione. Le pianure sono poco estese: la principale è quella di Catania attraversata dal fiume Si­meto che sbocca nel golfo. Il Salso, il Platàni e il Belice sboccano sulla costa meridionale. A settentrione vi sono torrenti di breve corso chiamati «fiumare». Oltre il lago naturale di Pergusa, in provincia di Enna, descritto magistralmente dal poeta latino Ovidio Nasone nel libro quinto delle sue «Metamorfosi», vi sono quelli artificiali di Piana degli Albanesi e di Prizzi, in provincia di Palermo, ed altri ancora.

 

La Conca d'Oro e altre meraviglie

La Conca d'Oro è la famosa pianura fertile e verdeggiante che circonda Palermo, così chiamata per la sua ubertosità e per i frutti dorati dei suoi agrumeti. «La Conca d'Oro di Palermo coi monu­menti arabo-normanni di questa ammaliante città, l'aerea Taormina e la Marina dei Giar­dini, la costa etnèa con gli scogli vulcanici dei Ciclòpi, l'Etna poderoso e bianco di nevi col suo largo piedestallo d'abitati e di lussureg­gianti vegetazioni, la greca Siracusa, gli au­steri e possenti templi greci della costa meri­dionale, le riviere fragranti, dagli innumere­voli frutti d'oro: tutti questi non sono che al­cuni aspetti della Sicilia...» (Italo Zaina).

 

La chiamavano «Trinacria»

I Greci e i Romani antichi chiamavano la Sicilia «Trinacria» o «Triquetta», l'isola triangolare. I vertici sono costituiti da tre prominenze: Capo Faro in provincia di Mes­sina, Capo Lilibéo o Boéo in provincia di Trapani, Capo Passero unitamente a Capo delle Correnti in provincia di Siracusa. Appartengono alla regione siciliana le iso­le minori: la solitaria Ustica a nord di Paler­mo; il pescoso gruppo delle Egadi (Levanzo, Marettimo e Favignana) fra Trapani e Marsa­la; Pantelleria in mezzo al Mediterraneo, fra Sicilia e Tunisia; il gruppo delle Pelagie (Lampedusa, Linosa e Lampione) apparte­nenti alla provincia di Agrigento. Le pitto­resche isole Eolie (provincia di Messina), emergono dal Mar Tirreno come un lembo di paradiso. Sono un arcipelago di isolette tra cui Lipari è la più grande e popolosa; poi Vul­cano, Salma, Filicùdi, Alicùdi, Panarea, Stromboli, che per la sua attività vulcanica èla più celebre del gruppo, ed altre piccolissi­me, quasi come scogli in mezzo al mare. Questa è la Sicilia: terra di gente onesta, intelligente e laboriosa. Terra di illustri uo­mini ecclesiastici (cinque papi e un patriarca di Costantinopoli), di politici lungimiranti, di scienziati, di artisti, di poeti, di letterati e di numerosi santi e sante. Quattro di esse ap­partengono a tutta l'isola, perché considerate elementi vivi e vivificanti della storia siciliana. Profondamente amate come «sante di casa» e venerate come autentici modelli di cristiane virtù, esse sono: santa Rosalia, pa­trona di Palermo, sant'Agata, patrona di Ca­tania, santa Lucia, patrona di Siracusa, e san­t'Eustochia Smeralda Calafato di Messina, proclamata «santa» in quella stessa città da papa Giovanni Paolo Il, sabato il giugno 1988.

 

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Lucia e la sua gente

 

L'insediamento umano in Sicilia risale pro­babilmente al Paleolitico Superiore, cioè al­l'epoca che precedette l'attuale stabilizzazio­ne del clima terrestre, come hanno permesso di accertare le ricerche archeologiche. Poi, nei millenni che seguirono, si sviluppò una ci­viltà autoctona pari alle più progredite del Mediterraneo.

 

Sicani e Siculi

Nell'antichità l'isola del sole fu abitata dai Sicani e dai Siculi, gente affine ai Latini, del gruppo italico indo-europeo. I Sicani, popo­lazione indigena della Sicilia, forse del grup­po libico-iberico, dopo l'immigrazione dei Si­culi si ritirarono nella parte occidentale dell'i­sola, dove furono definitivamente sottomessi dai Cartaginesi. Ma la Sicilia, posta al centro del Mediterraneo, «ha intercettato le civiltà di tutti i popoli antichi che attorno al grande Mare creavano le basi del mondo moderno. Alcuni di questi popoli sono sbarcati nell'iso­la fondendo la propria cultura a quella delle popolazioni indigene. La storia dell'isola conserva a tutt'oggi le impronte dei Cartagi­nesi, dei Greci, dei Romani, degli Arabi, dei Normanni, degli Spagnoli» (Nazareno d'Er­rico). Delle popolazioni mediterranee che abita­rono la Sicilia in tempi remoti, i Siciliani con­servano tuttora le caratteristiche fisiche che, del resto, sono quelle comuni alla gente me­diterranea, sia pure con qualche variante: cranio dolicocefalo, faccia ovale, capelli neri o scuri, occhi scuri luminosi e intelligenti, pelle da bianca a bruno-chiara, corporatura snella e statura medio-alta. Con queste carat­teristiche fisiche fu pure ritratta santa Lucia nell'abbondante iconografia che ce ne pre­senta l'avvenente immagine.

 

Breve storia dei Siciliani

La colonizzazione della Sicilia iniziò ad opera dei Fenici, arditi navigatori attratti dalla natura e dalla posizione strategica dell'iso­la. Poi, secondo F.M. Stabile, «l'isola diven­ne testa di sbarco: Cartaginesi a Occidente, che s'insediarono tra l'altro a Panormo (Pa­lermo) già colonia fenicia; e Greci a Oriente, grandi fondatori di città, da Catania a Siracu­sa, da Zancle (Messina) a Gela e Megara Iblea. Tutto questo incominciò verso la fine dell'ottavo secolo avanti Cristo, e fece dell'i­sola una costellazione di stati, che dovettero difendersi duramente dalle patrie d'origine dei vecchi coloni, Grecia e Cartagine. E nel contrasto s'inserì Roma».

 

Largo ai Romani

Roma, conquistatrice del mondo antico, colse al volo l'attesa occasione di uno scontro fra Siracusani e Mamertini per inserirsi nelle vicende della Sicilia. Con la battaglia navale delle Egadi (241 a.C.), gran parte dell'isola del sole fu conquistata e ridotta a provincia romana. Soltanto Siracusa, la città di santa Lucia, conservò un po' di indipendenza che perdette durante la seconda guerra punica, quando la città fu distrutta (212 a.C.) per es­sersi alleata coi Cartaginesi. Questi furono poi definitivamente cacciati dai Romani che ultimarono la conquista dell'isola nel 210 a.C., riducendola al ruolo di prima provincia, fonte di ricchezza e base di espansione della Repubblica romana, proclamata nel 509 a.C. Durante il secolare dominio di Roma, la Sici­lia fu sovente teatro di guerre, tra cui quella combattuta da Sesto Pompeo, dominatore dell'isola, contro il giovane e aitante Ottavia­no Augusto, fondatore dell'Impero, che go­vernò saggiamente dal 31 a.C. al 14 d.C. Nel 304 d.C., durante il governo dell'impe­ratore Diocleziano, accanito persecutore dei cristiani, a Siracusa subì il martirio anche san­ta Lucia, giovane donna di nobile casato.

 

Dai barbari a Carlo d'Angiò

Nel 440 d.C. la Sicilia fu invasa dai Vanda­li, nel 493 dagli Ostrogoti di Teodorico e nel 535 fu facilmente conquistata dalle truppe del generale greco Belisario, inviato dall'impera­tore Giustiniano. Iniziò così un periodo di dominazione bizantina durato tre secoli. Nel­l'878 l'isola fu quasi interamente conquistata dagli Arabi, sotto il cui dominio ebbe un lun­go periodo di prosperità. Dal 1061 al 1091 fu conquistata dai Normanni, già insediati nel­l'Italia meridionale. Grazie all'investitura papale, la monarchia normanna di Sicilia go­dette di grande prestigio. I suoi tre sovrani: Ruggero Il, Guglielmo I e Guglielmo Il, che governarono complessivamente dal 1130 al 1189, col loro buon governo acquistarono in breve tempo la fedeltà e la devozione della popolazione latina, greca e araba. Nel 1194 il regno normanno di Sicilia passò, per eredità femminile, all'imperatore Enrico VI di Sve­via che aveva sposato Costanza, ultima erede di re Ruggero. Il loro figlio Federico Il, che regnò dal 1197 al 1250, portò la Sicilia al massi­mo splendore. Tenne corte a Palermo e fece di questa città un luminoso centro di cultura e di arte conosciuto e apprezzato in tutta Europa. Con la tragica morte di Corradino (1268), ultimo degli Svevi, la Sicilia fu sottomessa dalla dinastia francese degli Angiomi. Il ves­satorio governo di Carlo I d'Angiò e la prepo­tenza dei suoi soldati provocarono a Paler­mo, nel marzo 1282, l’insurrezione dei famosi Vespri Siciliani, che dilagò in tutta l'isola e fa­vori l'intervento di Pietro III d'Aragona e la cacciata dei Francesi dalla Sicilia.

 

Dagli Aragonesi a Garibaldi

Dopo vent'anni di guerra il figlio di Pietro III, Federico d'Aragona, fu riconosciuto re di Sicilia da Carlo Il d'Angiò. La pace di Calta­bellotta (1302) costituì la Sicilia in regno indi­pendente sotto lo scettro degli Aragonesi di Spagna. Nel 1410, con la morte di re Martino Il, l'isola passò a Ferdinando I, detto il Catto­lico, che in Spagna aveva riunito le corone d'Aragona e di Castiglia in un solo regno. Nel 1516 passò a Carlo V, il sovrano sul cui impe­ro «non tramontava mai il sole», tanto era vasto. Per effetto delle guerre dinastiche del seco­lo XVIII, la Sicilia fu dapprima ceduta al duca Vittorio Amedeo Il di Savoia, poi a Carlo IV d'Austria e infine, nel 1734, a Carlo Borbone. Sotto la dinastia dei Borboni vi ri­mase fino al 1860, cioè fino alla spedizione garibaldina dei Mille, che provocò la caduta del regno borbonico e l'unione dell'isola al resto d'Italia.

 

Dal 1860 ad oggi

Dopo il plebiscito dell'ottobre 1860 la sto­ria della Sicilia si identifica con la storia d'Ita­lia. L'isola condivise poi le drammatiche vi­cende della patria italiana nella prima e nella seconda guerra mondiale. Quest'ultima la vide in prima linea nel 1943 con lo sbarco an­glo-americano che provocò rapidamente la capitolazione italiana, firmata a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre 1943. Dal 15 mag­gio 1945 la Sicilia è Regione autonoma della nostra Repubblica, con statuto spe­ciale. Ora i molteplici problemi dei Siciliani fanno parte della complessa questione meri­dionale.

 

Arte e cultura

Specchio fedele della storia, l'arte e la cul­tura la ripetono e la documentano. E stato scritto che un viaggio in Sicilia è anche un viaggio nel tempo, oltre che nello spazio. Nu­merose e insigni testimonianze archeologiche ricordano la fantasia e le capacità costruttive dei Siciliani anche nell'antichità. Riguardo la cultura, così ha scritto R. De Gasperis: «Nu­trita di ellenismo e di romanità, aperta a tutte le influenze delle antiche civiltà mediterra­nee, coltivata nel Medioevo da principi illu­minati, arricchitasi di nuovi e luminosi valori durante l'Umanesimo, impreziositasi di con­tinuo per il confluirvi di elementi orientali e occidentali, la cultura è sempre fiorita in Sici­lia tanto nel campo della speculazione filoso­fica, quanto in quello della poesia, della letteratura e delle scienze». Lo stesso discorso si può fare per qualsiasi arte: architettura, scul­tura, pittura, musica, eccetera, che ha visto e vede la Sicilia alla ribalta dell'attività artistica nazionale e internazionale.

 

Folklore siciliano

Che cos'è il folklore? È l'insieme delle tra­dizioni popolari e delle loro manifestazioni: usi, costumi, musiche, canti, danze, leggen­de, proverbi, feste, artigianato, eccetera. «La Sicilia è sicuramente una delle regioni italiane che più ha mantenuti intatti gli aspet­ti della sua affascinante tradizione. Lo stesso isolamento economico, sociale e culturale, oltre che geografico in cui si è trovata per tan­ti anni, ha favorito il persistere di costumanze vecchie di secoli nelle quali non è difficile tal­volta riconoscere le origini e gli apporti deri­vati dai vari momenti storici e culturali» (Lo­retta Santini). Sono parte integrante del folklore locale il vivace carretto siciliano, tutto dipinto ed isto­nato con episodi che fanno rivivere le epiche gesta dei Paladini di Francia e dei loro avver­sari. A questa tradizione s'ispira anche il fa­moso e caratteristico Teatro dei Pupi.

 

Le feste     

Le feste e le manifestazioni popolari, espressive e coloratissime, sono un altro aspetto caratteristico del folklore siciliano. Le feste vere e proprie si riallacciano in gran parte alle tradizioni religiose e civili, assu­mendo particolare rilievo nelle famose pro­cessioni della Settimana Santa e nelle feste in onore dei Santi Patroni. Il folklore siciliano si riflette pure nell'artigianato, che rispecchia le influenze artistiche e culturali che i Greci, gli Arabi, i Normanni e gli Spagnoli esercita­rono sulle popolazioni dell'isola del sole. Ma la gente di santa Lucia, ovvero la gente di Si­cilia, eccelle anche per l'ospitalità, come af­ferma R. De Gasperis: «L'ospitalità siciliana è affidata in uguale misura al sentimento vivo e gentile di tutto un popolo per il quale l'ospi­te è sacro come lo era nella civiltà greca». Ci­viltà molto viva ai tempi di santa Lucia che, al dire di qualche biografo, era figlia di padre la­tino e di madre greca.

 

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Una bimba di nome Lucia

 

Scrivere o parlare di santa Lucia non è faci­le perché i dati storici e biografici giunti fino a noi sono veramente pochi e non permetto­no di tratteggiarne la figura con dovizia ed esattezza di particolari. Di questa popolaris­sima santa siracusana non sappiamo con cer­tezza la data di nascita, mentre conosciamo quella del martirio, avvenuto in Siracusa il 13 dicembre dell'anno 304 dopo Cristo.

 

Fonti storiche

Nell'introduzione al romanzo storico Lu­cia di René du Mesnil de Maricourt, pubbli­cato dalle Edizioni Paoline, cui faremo anche riferimento, Ampelio Crema ha scritto che «la prima e fondamentale testimonianza sul­l'esistenza di Lucia ci è data da un'iscrizione greca scoperta nel giugno del 1894 dal profes­sor Paolo Orsi nella catacomba di san Gio­vanni, la più importante di Siracusa: essa ci mostra che, già alla fine del quarto secolo o all'inizio del quinto, un siracusano - come si deduce dall'epigrafe alla moglie Euschia - nutriva una forte e tenerissima devozione per la "sua" santa Lucia, il cui anniversario era già commemorato da una festa liturgica. Tale iscrizione è stata trovata su una sepoltura del pavimento, incisa su una pietra di marmo quadrato, misurante cm 24x22 e avente uno spessore di cm 3, tagliata irregolarmente. Le due facce della pietra erano state ricoperte di calce: ciò indica che la tomba era stata violata».

 

L'epigrafe di Euschia o Umbrosa

Così suona l'epigrafe o iscrizione di Eu­schia, nome greco che significa Umbrosa:

Euschia, irreprensibile, vissuta buona e pura per circa 25 anni, morì nella festa della mia santa Lucia, per la quale non vi è elogio come conviene. Cristiana, fedele, perfetta, riconoscente a suo marito di una viva gratitudine.

Di santa Lucia esiste a Siracusa il «loculo», cioè la tomba primitiva, sulla quale fin dai tempi antichi sorse una chiesa, rifatta poi nel Seicento. Inoltre - come ha scritto Piero Bar­gellini nel suo libro I Santi del giorno (Ed. Vallecchi) - «esistono iscrizioni, che testifica­no una remota e fervida devozione per la Martire e un culto liturgico già stabilito dai primi secoli. Infine, esiste una di quelle "Passioni", attraenti come fiabe ed edificanti come una poesia mistica; una di quelle "Pass­ioni", con le quali la devozione dei fedeli ha ricamato di fantasia, sopra un canovaccio certamente storico».

 

Gli «Atti» e le «Passioni»

Fin dalle sue origini la Chiesa tributò una particolalre venerazione a quei cristiani che testimoniarono con atroci tormenti la loro fede in Gesù Cristo, attribuendo loro il nome di «martiri». Infatti, durante le persecuzioni contro i cristiani, la parola «martire», che in greco significa «testimone», indicò gli uomini e le dorne che testimoniarono con la morte cruenta ta fede che professavano. Ai sommi sacerdoti, che proibirono loro d'insegnare nel nome di Gesù, gli apostoli Pietro e Giovanni risposero: «Noi non pos­siamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). Altrettanto fecero i cri­stiani sopravvissuti alle persecuzioni: non po­terono tacere l'eroismo dei fratelli e delle so­relle che versarono il loro sangue per Cristo. Nacquero così gli Atti e le Passioni dei marti­ri. I primi sono documenti autentici, che ri­portano i verbali dei processi cui i martiri fu­rono sottoposti dai giudici pagani. I secondi, cioè le Passioni, furono invece costruiti con notizie tratte dai verbali, da informazioni cre­dibili, tessute su elementi storici conosciuti, ma quasi sempre ampliate dalla fantasia e dalla devozione popolare.

 

La «Passione» di santa Lucia

L'unica fonte antica, da cui attingere noti­zie sulla vita e sul martirio di santa Lucia, èappunto una leggendaria Passio (= passio­ne), redatta sia in greco che in latino tra il quinto e sesto secolo. L'autore di questa Passio - ha scritto Agostino Amore - «si rive­la un vero poeta, esperto scrittore e buon co­noscitore della letteratura cristiana. Proprio per queste sue caratteristiche letterarie la Passio fu molto letta e divulgata e lo stesso san Tommaso d'Aquino la citò due volte nel­la sua Summa Theologica». Inoltre la Passio­ne di santa Lucia acquista valore dalla sua «perfetta concordanza» con le memorie che di questa santa ci hanno lasciato papa Grego­rio Magno (590-604) nei suoi libri Sacramen­tario e Antifonario e il poeta sant'Adelmo (VII secolo) nel suo poema De Laudibus Vir­ginum. Altra conferma di quanto narra que­sta Passione è l'epigrafe greca di Euschia o Umbrosa di cui abbiamo già detto.

 

Nascita di santa Lucia

Santa Lucia nacque a Siracusa nel quartie­re dell'Ortigia, fra il 280 e il 290 dopo Cristo. I suoi nobili genitori l'accolsero come prezio­so dono del Cielo, desiderato frutto del loro amore coniugale e giusto orgoglio della fami­glia cui appartenevano. Nel giorno del batte­simo le imposero il nome «Lucia», forse già presaghi della luminosa scia di santità che la loro prima ed unica figlia avrebbe poi lasciato nella Chiesa e nel mondo.

 

Un nome pieno di luce

Siccome il babbo di Lucia era di stirpe lati­na e la mamma di stirpe greca, probabilmen­te furono subito d'accordo sul nome scelto per la loro figlioletta. Lucia è infatti un bellis­simo nome pieno di luce. Riguardo la nostra martire siracusana, il Tillemont, appassionato ricercatore di cose antiche, nelle sue Memorie conferma senz'al­tro che il suo nome è «Lucia o Luce». Inoltre nella Sacra Scrittura i cristiani sono più volte chiamati «figli della luce», per cui non è az­zardato pensare che i genitori della nostra santa, nello sceglierle il nome, si siano ispirati ad alcuni brani della Bibbia.

 

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La città di Lucia

 

Siracusa, la storica città che diede i natali a santa Lucia, ebbe un passato glorioso. Fon­data nel 734 avanti Cristo da coloni greci di Corinto, acquistò in breve tempo grande po­tenza politica e commerciale, grazie anche alla sua ottima posizione sul mare. Ma agli inizi del quinto secolo, indebolita da contese, cadde sotto il dominio di Gelone, tiranno di Gela, che la elevò a capitale del suo regno do­nandole un periodo di grande prosperità. A Gelone successe il fratello Gerone, che sotto­mise Catania e sconfisse gli Etruschi di fronte a Cuma (474 a.C.) con una grande battaglia navale, instaurando così il dominio commer­ciale dei Siracusani su tutto il basso Tirreno. In questo periodo Siracusa estese il proprio dominio a quasi tutta la Sicilia e a buona par­te dell'Italia meridionale, vincendo anche, nel 415, la forte rivale Atene che mirava a ditruggerla. Nel quarto e nel terzo secolo avanti Cristo, con Dionisio il Vecchio, Dioni­sio il Giovane e Agatocle, ebbe poi alternan­ze di governo democratico e di tirannide.

 

Archimede difende Siracusa

Nella seconda guerra punica, Siracusa par­teggiò per i Cartaginesi, perciò fu occupata e saccheggiata dai soldati del console romano Marco Claudio Marcello (212 a. C.). «Il console Marcello - scrisse Sergio Martinelli - con una potente flotta bloccò ed espugnò Siracu­sa nonostante la strenua difesa della città, alla quale contribuì il più grande fisico del­l'antichità, Archimede: a quanto si dice, egli avrebbe costruito degli specchi (detti ustòri) che, riflettendo i raggi del sole, incendiavano a distanza le navi romane. Nell'orrenda stra­ge che accompagnò la presa di Siracusa, Ar­chimede fu ucciso per errore da un soldato romano, benché Marcello avesse ordinato di risparmiare la vita del grande scienziato». Dopo la conquista, Siracusa non ebbe più l'importanza di prima, pur conservando una posizione di rilievo nella provincia romana di Sicilia. Durante l'Impero iniziò una lenta e inarrestabile decadenza che si aggravò all'mi­zio del Medioevo. Occupata in seguito dai Vandali, dagli Ostrogoti, dai Goti, dai Bizan­tini, eccetera, seguì poi, in generale, le sorti della Sicilia.

 

Siracusa, la bella

La bella e potente città di Siracusa è situata sulla costa sud-orientale della Sicilia: parte nell'isoletta di Ortigia, sede del nucleo più antico, e parte nel retroterra siculo col quale è collegata da un ponte. Dispone di due porti: il Piccolo e il Grande, scalo di servizi maritti­mi per Malta e Tripoli. Il suo aspetto è quello di una città piena di vita e di colore. Però, su­bito, si scorgono le testimonianze del suo lun­go e glorioso passato: dall'Età classica, al Medioevo, al Barocco. Ma le vestigia della ci­viltà greca e romana sono la sua gloria mag­giore. Siracusa, infatti, faceva parte della Magna Grecia, cioè di quel territorio dell'Ita­lia meridionale detto «magna» a motivo delle numerose colonie greche che vi fiorirono tra l'ottavo e il terzo secolo avanti Cristo. Le più importanti furono Cuma, Napoli, Reggio Ca­labria, Crotone, Metaponto, Sibari, Taranto e, in Sicilia, Siracusa, Gela, Agrigento e Seli­nunte. Le bellezze naturali e artistiche di Siracu­sa, il suo splendido mare, le rappresentazioni classiche che in essa si svolgono, fanno della città di santa Lucia un'ambita mèta turistica.

 

Passeggiando nei quartieri

L'antica Siracusa era formata da cinque quartieri: Ortigia, l'isoletta in cui i greci emi­grati da Corinto fondarono il primo nucleo della città; Acradina, la «città esterna»; Ti-che, con un tempio dedicato alla «prospera fortuna» da cui le deriva il nome; Neapoli, la città nuova; Epipoli, la parte più elevata della città con fortificazioni adatte a respingere le incursioni nemiche provenienti dall'interno della Sicilia. Una di queste fortezze era l'Ab­dalon, un massiccio bastione eretto dai Greci. Passeggiando nella cerchia di questi primi­tivi cinque quartieri si possono ammirare i ru­deri dei templi di Apollo e di Giove; il Castel­lo Eurialo, altra formidabile fortezza fatta costruire da Dionisio il Vecchio; la grandiosa Latomia del Paradiso col famoso Orecchio di Dionisio e la Grotta dei Cordari; la Latomia dei Cappuccini e quella di santa Venera; l'im­ponente Teatro Greco, eretto nella prima metà del quinto secolo avanti Cristo e defini­to «Maximum» da Cicerone; la Fonte Aretu­sa, celebrata dai poeti antichi e legata a uno dei miti più toccanti e gentili.

 

Il Museo Archeologico

I monumenti posteriori da non trascurare sono il Duomo, antico tempio dorico della dea Atena (Minerva), trasformato in chiesa nel Medioevo; il Palazzo Bellomo, sede del­l'omonimo museo, e altri famosi palazzi; la Basilica di San Giovanni e la chiesa di Santa Lucia, mèta di continui pellegrinaggi dei suoi devoti. Di grande interesse per le sue raccolte ar­cheologiche e numismatiche è il Museo Ar­cheologico Nazionale, in piazza Duomo, elo­quente testimone di un passato glorioso, con preziose documentazioni riguardanti soprat­tutto l'epoca preistorica e le civiltà greca e ro­mana, nella quale visse santa Lucia.

 

La Fonte Aretusa

Passeggiando con mamma Eutichia nei quartieri dell'Ortigia, chissà quante volte la giovane Lucia avrà percorso quello splendido tratto di costa occidentale dell'isoletta chia­mato «La Marina», che termina a sud con la suggestiva Fonte Aretusa. Affascinata dalla bellezza della fontana e suggestionata dall'at­mosfera fantastica che l'avvolge, Lucia avrà chiesto più volte alla mamma di esporle i mi­tici fatti legati alla ninfa che le ha dato il nome.

 

Mamma Eutichia racconta

«Mamma, narrami ancora una volta la commovente storia della ninfa Aretusa il cui nome greco, come tu mi dicesti, significa vir­tuosa». «Per l'ennesima volta, mia dolce Lucia, ti ripeto che Aretusa era una ninfa d'Arcadia, boscosa regione greca ricca d'armenti e di ac­que. Gli abitanti di quella regione avevano un animo gentile e amavano molto la poesia e la musica». «Di chi era figlia Aretusa?». «Aretusa, figlia dell'antico dio del mare Nereo e della dea Dori o Donde, ebbe qua­rantanove sorelle: le Nereidi, belle e graziose ninfe marine». «Mamma, che facevano le Nereidi?». «Le Nereidi, divinità del mare come i loro mitici genitori, guizzavano fra le bianche spu­me dei flutti insieme ai delfini e ai tritoni. Amiche dei naviganti, folleggiavano scherzo­samente sulle onde marine per divertirli, ma li aiutavano anche a superare i pericoli che in­contravano durante il percorso. Una di esse, la bellissima Teti, era la mamma del mitico eroe greco Achille, il più forte dei guerrieri che combatterono contro la città di Troia. Rammenti, Lucia?». «Sì, rammento, ma desidero ascoltare an­cora una volta la delicata storia d'amore sbocciata tra la virtuosa Aretusa e il fedele Alfeo. Mi accontenti, mamma?». «Sì, bambina mia, ti accontento con molto piacere». E la nobile Eutichia riprese a nar­rare.

 

Alfeo e Aretusa

«Avvenne un fatto singolare: mentre la ninfa Aretusa si bagnava in un ruscello, fu vi­sta dal cacciatore Alfeo, che s'invaghì subito di lei e si lanciò in acqua per rapirla. Allora la ninfa fuggì invocando l'aiuto della casta Dia­na, dea della caccia e "signora dei monti, del­le verdeggianti selve, delle strade più riposte e dei fragorosi torrenti", come scrisse di lei il poeta latino Catullo». «Che fece la potente Diana per soccorrere la ninfa Aretusa?». «Diana tramutò la ninfa in fontana e il cac­ciatore in fiume. Poi apù la terra e condusse l'acqua della fonte per un cammino sotterra­neo fino all'isoletta di Ortigia. Ma l'amore te­nace e fedele di Alfeo lo spinse ad attraversa­re il mare per raggiungere l'amata. Quando vi giunse, unì le sue dolci acque a quelle lim­pide e fresche della Fonte Aretusa in una te­nera e perenne fusione. Questa mitica storia, ricca di fascino, ha ottimi insegnamenti anche per i cristiani, mia cara Lucia».

 

Celebrata dai poeti

«È vero, mamma, che la fontana Aretusa fu celebrata dal poeta greco Pindaro e dai poeti latini Virgilio e Ovidio?». «E vero, Lucia. La mitica storia d'amore di Alfeo e Aretusa fu tra le più celebrate dai poeti antichi e lo sarà anche da quelli futuri. Ma ora, bambina mia, ritorniamo a casa poi­ché il sole sta già calandosi nel mare e i nostri cari ci attendono per consumare la cena». Mentre il sole scompariva lentamente fra le onde dorate, le due donne 5 'incamminaro­no verso casa. Camminavano a passi lenti, la mano nella mano, godendosi la brezza ve­spertina e le bellezze naturali del percorso. Quando vi giunsero, sedettero nel «tricli­nium» (la sala da pranzo) e i servi, già in atte­sa, servirono loro la cena.        

 

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In casa di Lucia

 

Palazzo o villa, la casa di Lucia era senza dubbio una bellissima abitazione comoda e sfarzosa. A quel tempo le dimore dei ricchi avevano stanze pavimentate a mosaico e de­corate di affreschi, di fregi scolpiti, di statue di uomini illustri, di Penàti e di Lan (dèi cu­stodi della famiglia e della casa), come testi­moniano i resti archeologici delle antiche vil­le romane di Pompei. Imitando le abitudini dei Greci, i ricchi e i nobili romani costruivano i loro appartamen­ti privati attorno al «peristilium», che era un cortile circondato da eleganti colonne e ab­bellito da fiori e fontane. Inoltre avevano a loro servizio un consistente numero di schiavi e di servi, detti famigli.

 

I genitori di Lucia

Santa Lucia ebbe genitori nobilissimi, for­se tra i più emergenti di Siracusa. Si può quin­di credere che la sua vita sia trascorsa tra gli agi e gli impegni dei nobili di quell'epoca. Non conosciamo il nome del babbo, che probabilmente era «Lucio» come nel roman­zo citato. Conosciamo invece quello della mamma: Eutichia, nome greco che significa «fortunata» o «buona fortuna». Il babbo di Lucia morì quand'era bambina. Toccò quindi a mamma Eutichia provvedere all'intera educazione della sua unica figlia, che si dimostrò sempre docile agli insegna­menti materni.

 

L'educazione

I Greci e i Romani di nobile stirpe procura­vano ai propri figli un'educazione adeguata per cui, secondo Giuseppe Maino, un biogra­fo della nostra santa, «possiamo pensare che anche la giovane Lucia abbia ricevuto la sua istruzione in una scuola, com'era costume nelle famiglie nobili, da maestri che le impar­tirono gli elementi delle lingue classiche, e poi le procurarono familiarità con i grandi scrittori di Atene e di Roma. A Siracusa in­fatti non mancavano pensatori, retori, do­centi di valore che avevano compiuto i loro studi in Atene, o erano Greci prigionieri di guerra, divenuti liberti, e destinati come do­centi nelle scuole o nelle case patrizie. Possia­mo pure pensare che non le sia mancata l'i­struzione propria delle giovanette del suo rango come l'arte del ricamo, allora tanto ap­prezzata, la ginnastica, la musica» e anche la danza.

 

La nuova religione

Comodamente sedute in un suggestivo an­golo dell'alberato giardino, le due donne par­lavano amabilmente della nuova religione. Mamma Eutichia rispondeva con sapienza alle numerose domande della sua bella e in­telligente figliola, avidissima di conoscere sempre meglio la storia del cristianesimo. «Mamma - domandò la giovane Lucia - dove nacque il cristianesimo?». «Bambina mia, il cristianesimo nacque in Oriente, precisamente in Palestina. Malgra­do le persecuzioni scatenate da alcuni impe­ratori romani, si propagò rapidamente in tut­ti i paesi del nostro bel Mediterraneo. Varcò le soglie delle umili capanne dei poveri e degli schiavi, le fastose dimore dei nobili e dei ric­chi e non esitò ad entrare nel superbo palazzo dei Cesari. Anche nella nostra splendida Si­racusa ha numerosi seguaci. Speriamo che il nostro fiero imperatore Diocleziano non sca­teni una nuova persecuzione contro i cristia­ni, altrimenti sono guai».

 

Il Nuovo Testamento

«Mamma, come ci furono trasmessi gli in­segnamenti del nostro divino maestro Gesù Cristo?». «Mia dolce Lucia, gli insegnamenti di Gesù ci furono trasmessi dai suoi discepoli, ma so­prattutto dai Vangeli, parola greca che signi­fica buona notizia. I quattro Vangeli compilati dagli evangelisti Marco, Matteo, Luca e Giovanni narrano la vita di Gesù dalla sua in­carnazione nel seno della Vergine Maria fino alla sua gloriosa risurrezione e ascensione al cielo. I quattro Vangeli, gli Atti degli Apo­stoli, le quattordici Lettere di san Paolo, le sette Lettere Cattoliche e l'Apocalisse di san Giovanni costituiscono il Nuovo Testamen­to, cioè la Nuova Alleanza o il Patto Nuovo contratto da Dio non soltanto con il popolo ebraico, come nel Vecchio Testamento, ma con l'intera umanità, redenta dalla morte in croce di Gesù Cristo, nostro Salvatore».

 

Le Lettere Cattoliche e l'Apocalisse

«Per favore, mamma, spiegami cosa sono le Lettere Cattoliche e l'Apocalisse». «Si chiamano Lettere Cattoliche quel gruppo di epistole che nel Nuovo Testamento sono collocate tra le Lettere di san Paolo e l'Apocalisse. Tale gruppo comprende: una lettera di san Giacomo, due di san Pietro, tre di san Giovanni, una di san Giuda. Fin dal se­condo secolo furono chiamate "cattoliche" perché erano indirizzate a tutte le Chiese. Queste lettere insistono soprattutto sulla ne­cessità di compiere opere buone, di fuggire il peccato e praticare le virtù. L'Apocalisse, in­vece, è un libro misterioso. Tramite visioni e profezie, san Giovanni ci rivela le sorpren­denti vicende mediante le quali la Chiesa rag­giungerà il suo trionfo finale».

 

Gesù istruisce le folle

«Mamma, che cosa insegnava Gesù?». «Mia cara bambina, Gesù insegnava soprattutto ad amare Dio e il prossimo. A tren­t'anni cominciò a predicare la buona novella agli Ebrei. Molti di loro lo seguirono convinti che fosse veramente il Messia preannunciato dai Profeti. Egli percorreva i villaggi e le città della Palestina. Ovunque passava le folle ac­correvano ad ascoltare le sue affascinanti pa­rabole, ricche di luminosi insegnamenti mo­rali. Gesù, unigenito Figlio di Dio, affermava che il Padre celeste è buono e misericordioso e ama di amore paterno tutti gli uomini, sen­za distinzione di colore o di razze». «Dio ama tutti dello stesso amore?». «Sì, bambina mia. Bianchi, neri, rossi e gialli, gli uomini e le donne sono tutti figli e fi­glie di Dio ed egli li ama dello stesso amore, senza alcuna distinzione: per lui sono tutti uguali. Anzi, tutti i popoli della terra sono chiamati ad accogliere la legge suprema del­l'amore verso Dio e verso il prossimo. Chi pratica gli insegnamenti di Gesù contenuti nei Vangeli può dirsi suo discepolo».

 

La condanna e la morte di Gesù

«Mamma, perché i Giudei condannarono a morte Gesù, che era così buono e misericor­dioso con tutti?». «Mia dolce Lucia, perché non sapevano quello che facevano. Mentre le folle seguiva­no Gesù, attratte dai suoi insegnamenti e dai suoi numerosi miracoli, e molti credevano che egli era veramente il Figlio di Dio inviato sulla terra a redimere gli uomini dal peccato, i sommi sacerdoti e i Farisei non riconobbero in lui l'atteso Messia. Allora Gesù fu accusa­to di sovvertire l'ordine sociale con la sua pre­dicazione e di infrangere la tradizione religio­sa giudaica. Fu perciò giudicato e condanna­to dal sinedrio di Gerusalemme, formato dal­le somme autorità civili e religiose. La con­danna fu poi confermata da Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea, che ce­dette al volere dei Giudei nonostante fosse convinto dell'innocenza di Gesù. Così il Divi­no Maestro, flagellato e incoronato di spine, deriso e sbeffeggiato dalla folla da lui benefi­cata, percosso e insultato dai soldati romani, curvo sotto l'enorme peso della croce carica dei peccati di tutta l'umanità, salì la collina del Gòlgota, o Calvario, dove fu crocifisso in mezzo a due ladroni. Morì pregando Dio Pa­dre per i suoi nemici, secondo la legge dell'a­more e del perdono che egli aveva sempre insegnato e praticato durante la sua vita terrena».

 

La mamma di Gesù

«Quando Gesù morì sulla croce, c'era an­che sua mamma con lui?». «Si, figlia mia. La mamma di Gesù, la san­tissima Vergine Maria, seguì il suo divin Fi­glio per tutta la vita ed era con lui anche nel­l'ora della sua tragica morte. Essa, pur col cuore straziato dal dolore, stava vicino alla croce con l'apostolo Giovanni e un gruppetto di pie donne, discepole di Gesù. Quando Gesù la vide accanto a Giovanni, il discepolo che egli amava tanto, disse alla madre: Don­na, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco la tua madre!. E da quel giorno Giovan­ni l'accolse nella sua casa».

 

Madre di tutti

«La Vergine Maria era d'accordo di acco­gliere Giovanni come figlio suo?». «Si, bambina mia. Maria di Nazaret era d'accordo. I discepoli del Signore Gesù erano già nel suo cuore, come lo erano tutti i figli e le figlie di Dio. Come Gesù, che morì in croce per la salvezza di tutti gli uomini e di tutte le donne, anche la Vergine Maria offrì al Padre celeste il suo immenso dolore per la loro redenzione. Nella persona dell'apostolo Gio­vanni, Gesù morente intese affidare a sua Madre tutto il genere umano ed ella lo accol­se con infinito amore. Noi, mia cara Lucia, dobbiamo amare tanto la Vergine Maria per­ché è nostra Madre e dobbiamo avere tanta fiducia in lei. Dobbiamo anche imitare le sue eccelse virtù per fortificarci nella fede e nella sequela di Gesù e, se sarà necessario, dobbia­mo saper morire per la fede che pratichia­mo».

 

Le virtù di Lucia

Dell'infanzia e dell'adolescenza della nobi­le vergine siracusana non abbiamo notizie certe. Le poche che ci sono pervenute illu­strano specialmente il suo glorioso martirio. Considerando tuttavia la sua morte eroica, possiamo credere che le virtù praticate da Lu­cia fossero essenzialmente queste: la fede, la preghiera, l'umiltà, la castità, la carità verso il prossimo, un fervido amore per Gesù Cri­sto e la sua Chiesa, che la spinsero a scegliere la verginità e il martirio. Dopo la morte del marito, mamma Euti­chia fece del suo meglio per infondere nella mente e nel cuore della figlia le eterne verità della religione cristiana e i suoi luminosi inse­gnamenti morali. E Lucia, docile all'azione dello Spirito Santo, si fortificava nella fede e nella pratica delle virtù «crescendo in età, sa­pienza e grazia» come il fanciullo Gesù, che amava con tutto il suo ardore giovanile.

 

Il voto

Gli efficaci insegnamenti di mamma Euti­chia sulla nuova religione penetrarono pro­fondamente nella mente e nel cuore della gio­vane e bella Lucia, tanto da spingerla a con­sacrare tutta la sua vita all'amore di quel Dio che si manifestava con forza e dolcezza alla sua anima pura e sensibile. Lucia non poté resistere alla soave voce dello Sposo divino che la invitava con insi­stenza:

Levati, amata mia, o bella mia, deh, vieni! Perché, ecco l'inverno è ormai passato, la pioggia non cade più e se n'è andata. Ifiori sono apparsi sulla terra, è giunto il tempo della potatura, già si sente la voce della tortora, già il fico mostra i primi suoi frutti, le vigne in fiore spandono profumi. Levati, amata mia, o bella mia, deh, vieni!

(Cantico dei Cantici I sezione 2°, versetti 10, 11, 12, 13) E Lucia rispose: «Eccomi, o mio Signore! Io sono tutta tua e mi consacro a te con voto di perpetua verginità».

 

Bellissima e virtuosa

Mentre si trovava in casa di Eutichia, il tri­buno Valerio domandò allo schiavo Pollione: «La tua padrona non ha una figlia?». «Si, o tribuno, e io benedico la mia schiavi­tù che mi permette di servire una persona così degna di venerazione. Nulla può paragonarsi all'ineffabile bontà del suo cuore. Ella non ha che quattordici anni, ma tutti sono stupiti del­la precoce intelligenza che si rivela in lei». «Qual è il suo nome?». «Il suo nome è Lucia, cioè luce. E questo è il nome che le conviene. In lei tutto è luce, tutto risplende di una bellezza radiosa; non tutti possono sostenere la luminosa dolcezza del suo sguardo. La sua capigliatura abbon­dante sembra illuminarsi ai riflessi del sole. Il suo contegno rivela, ad un tempo, la mode­stia di una vergine e la nobile sicurezza di una matrona, e il suo benevolo sorriso conquista i cuori. Vive ritirata con sua madre e le sue serve. Non suole comparire nelle riunioni nu­merose, ma quando la si vede, nelle prime ore del mattino, uscire di casa con la testa ve­lata e avvolta nella lunga stola bianca seguita dalla sua ancella, si può essere sicuri che si di­rige verso qualche luogo dove c'è una miseria da sollevare o una ferita da guarire. Un gior­no le rivolsi questa domanda: "Chi dunque, o nobile signora, ti ha insegnato a medicare così bene le piaghe dei poveri e degli schia­vi?". Rispose dolcemente: "Me l'ha insegna­to Uno, davanti al quale tutti gli uomini sono uguali. Egli in ogni povero e in ogni schiavo mi fa riconoscere un fratello, e una sorella in ognuna delle mie serve ». Questo dialogo, tratto quasi per intero dal già citato romanzo storico Lucia, evidenzia molto bene i tratti salienti dell'amabile perso­nalità della nobile fanciulla. Intanto la leggiadra Lucia comparve in giardino con una delle sue ancelle, conver­sando amabilmente con lei mentre passeggia­vano tra le aiuole adorne di fiori variopinti. Il tribuno Valerio la osservò senza essere visto. Constatò di persona che le parole dello schia­vo Pollione erano vere. E, in cuor suo, decise fermamente di chiederla in sposa.

 

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Il fidanzamento

 

La richiesta

Il giorno dopo, Valerio si presentò in casa di Eutichia per chiedere la mano di Lucia. «Nobile matrona - le disse - io amo tua fi­glia e sono qui per chiederla in matrimonio. Se accogli la mia richiesta, fra due giorni ri­torno per il fidanzamento». Ignara del voto di verginità fatto da Lucia, la nobile matrona rispose: «Mio caro tribuno, io so che queste nozze onorano la mia famiglia, perciò benedico la tua richiesta. Le qualità e le virtù di mia figlia ti renderanno felice. E anche la sua dote è considerevole». «Ti prego di credere, o nobile Eutichia, che nel mio sentimento per Lucia il denaro non c'entra, avendone io in abbondanza». «Ti credo, caro Valerio, perché conosco il tuo cuore nobile e generoso. Ritorna dunque fra due giorni con i testimoni che devono assistere al fidanzamento. Nel frattempo prepa­rerò l'animo di Lucia al lieto evento». Benché il giovane patrizio fosse pagano, era stimato sia dai parenti di Lucia che dai cit­tadini di Siracusa, per cui parve ad Eutichia che egli sarebbe stato un degno marito per la sua nobile figlia.

 

Il tribuno Valerio

Valerio era un patrizio romano dell'antica gente Valeria, la cui nobiltà risaliva ai tempi della Repubblica: «Egli era assai ricco e vive­va piacevolmente a Siracusa dove comanda­va con cinque colleghi la legione romana che vi stazionava. Il suo servizio complessiva­mente non lo occupava che per due mesi del­l'anno, tuttavia egli si era quasi definitiva­mente stabilito in quella città tranquilla la cui atmosfera, impregnata dal dolce profumo del clima e della poesia orientale, si accordava con la sua natura di sognatore e di filosofo, assai più che l'agitazione tumultuosa della ca­pitale, nella quale, tuttavia, la sua immensa fortuna e il suo nome illustre gli avrebbero permesso di condurre una vita sfarzosa e smagliante. Profondo conoscitore, come tut­ta la nobiltà romana, della letteratura greca, egli amava ritrovarla, per così dire, vivente in quell'antica colonia di Corinto, che attraver­so la dominazione romana aveva conservato molti riflessi della civiltà della madre patria. A Siracusa godeva pure il favore e l'amicizia del governatore e chiunque avrebbe potuto invidiare la sua posizione onorata e indipen­dente» (René du Mesnil de Maricourt). Si dice che il fidanzato di Lucia fosse un no­bile e ricco giovane di Siracusa, di cui non si conosce il nome. Ma siccome nella vita di questa santa la storia e la leggenda s'intrec­ciano, ci piace pensare che egli fosse proprio il nobile tribuno Valerio, come nel citato ro­manzo storico.

 

L'annuncio inatteso

Nel tardo pomeriggio Eutichia si recò nella stanza di Lucia dicendole amabilmente: «Ti dispiace se vengo a distrarti dalle tue care letture?». «No, madre mia. È sempre piacevole con­versare con te che mi ami tanto». «C'è pure un'altra persona che ti ama tan­to, mia dolce Lucia. È il nobile tribuno Vale­rio, amico del tuo defunto padre. Egli è venu­to stamane a farmi visita per chiederti come sposa. Considerando la sua ricchezza, la no­biltà del suo casato e le sue doti umane, io ti ho promessa a lui. Fra due giorni egli verrà per il fidanzamento». «Stamane, madre mia, ho visto di sfuggita il tribuno Valerio mentre conversava con te. Egli è un bel giovane, ma io so che è pagano e che venera gli dèi greci e romani. Egli non conosce i sublimi misteri della nostra fede e tanto meno Gesù Cristo, nostro unico Si­gnore». «È vero, figlia mia! Ma egli non è un paga­no vizioso. È onesto e generoso e saprà pro­teggerti e renderti felice».

 

L'obiezione di Lucia

Sorpresa dall'inatteso annuncio, Lucia si limitò ad obiettare: «Madre mia, come posso io fervente cri­stiana unirmi in matrimonio con un giovane pagano? Mi concederà egli di praticare la no­stra santa religione?». Eutichia non s'arrese alla saggia obiezione della figlia, ma le rispose amabilmente: «Tu sai, Lucia, che una cristiana può spo­sare un pagano, perché la Chiesa lo consente. L'apostolo Paolo, nella prima lettera ai Co­rinzi, dice infatti che il marito non credente è santificato nella moglie credente e viceversa. E tu, figlia mia, tramite questa unione potrai forse convertire al cristianesimo il tuo nobile sposo. Preparati a questa degna opera e Dio ti benedirà come ti benedice tua madre». Lucia non osò contraddire la madre né confidarle il segreto del suo voto di perpetua verginità. Le disse soltanto: «Sia come vuoi tu, madre mia. Se il buon Dio mi vorrà sposa del tribuno Valerio, sia fatta la sua volontà, ma se egli ha su di me al­tri disegni, sa certamente come realizzarli. Io mi abbandono totalmente a lui e lo prego così: Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi devo temere? Il Signore è sostegno alla mia vita, di chi avrò paura?» (Salmo 27[26J I versetto primo).

 

Il fidanzamento

Il giorno stabilito, verso l'ora seconda, considerata la più propizia per la cerimonia del fidanzamento, Valerio giunse in casa di Lucia con due amici che dovevano fungere da testimoni. La nobile Eutichia, che aveva im­piegato tutta l'arte della tenerezza materna per vincere la riluttanza della figlia, era feli­ce. Ma Lucia ottenne che la cerimonia fosse celebrata senza le consuete solennità. Accet­tò tuttavia d'indossare il costume ufficiale delle fidanzate. Giunta l'ora stabilita - narra René du Me­snil de Maricourt - «Lucia comparve vestita di una tunica bianca serrata ai fianchi con una cintura di lana; la sua capigliatura, divisa in sei trecce, era annodata sul capo a foggia di una torretta attraversata da un giavellotto d'oro e sormontata da una leggera corona di verbena e di maggiorana. Questa pettinatu­ra, imitando quella delle vestali, rappresen­tava la verginità della fidanzata; il giavellotto doveva ricordare la lotta ingaggiata durante il ratto delle Sabine, la cintura di lana era sim­bolo di unione. Il viso di Lucia era coperto da un velo chiamato "flammeo", appunto per­ché color di fiamma. Questo ornamento abi­tuale alle spose dei flàmini (sacerdoti delle varie divinità), ai quali era vietato il divorzio, doveva essere presagio di una lunga e felice unione».

 

La cerimonia

Fortificata dalla preghiera e piena di fidu­cia in Dio, Lucia si sforzava di apparire calma e sorridente. Pensava assai più alla conversione di Vale­rio che alle sue nozze. Rivolgendosi a Eutichia, il patrizio Valerio dichiarò di voler sposare sua figlia secondo le leggi. La nobile matrona diede il suo consen­so e la promessa di matrimonio fu redatta su un apposito foglio. I testimoni vi apposero in calce la loro firma. Allora il giovane tribuno si avvicinò a Lucia, le infilò al dito un anello di ferro pronunciando le parole rituali: «Io ti dono, o nobile figlia di Lucio e di Eu­tichia, questo anello come segno che io assu­mo l'impegno di essere tuo sposo, e della con­cordia perfetta che ormai ci deve unire». Lucia accettò l'anello e rispose con voce sommessa: «Valerio, voglia il Cielo che la nostra unio­ne di cuori sia perfetta quale io la desidero e che le nostre anime abbiano le medesime aspirazioni!». Pronunciate queste parole la nobile fan­ciulla si fece un ampio segno di Croce per te­stimoniare al suo fidanzato che era cristiana e mai avrebbe tradito la propria fede. Poi salu­tò amabilmente Valerio e i suoi amici e si di­resse, a passi svelti, verso il proprio apparta­mento.

 

Cecilia e Valeriano

Poco tempo dopo Eutichia raggiunse Lucia nel suo appartamento e la trovò in preghiera e in lacrime. «Che fai, figlia mia? Non sei felice di essere la promessa sposa del tribuno Valerio?». «No, madre mia. Durante la cerimonia di fidanzamento, io non pensavo alle mie noz­ze, ma alla vergine romana Cecilia, nobile matrona sposa del patrizio Valeriano, la qua­le subì il martirio a Roma forse nell'anno 230 d.C., quando regnava il moderato imperato­re Alessandro Severo». «Perché pensavi alla nobile Cecilia?». «Perché per amore di Gesù Cristo ha pro­fessato la verginità e subito il martirio. Nobi­le e ricca, si recava ogni giorno alla Messa di papa Urbano I nelle catacombe lungo la via Appia, attesa da una moltitudine di poveri che lei beneficava. Ebbene, madre mia, Ceci­lia fu data in sposa a Valeriano, ma si man­tenne vergine. Sai che cosa disse al suo sposo la sera delle nozze?». «Che gli disse, figlia mia?». «Quando egli si accostò teneramente a lei, così gli parlò: "Nessuna mano profana può toccarmi, perché un angelo mi protegge. Se tu mi rispetterai, egli ti amerà come ama me". Benché contrariato, il nobile Valeriano accolse il consiglio di Cecilia e si fece istruire e battezzare da papa Urbano, insieme al fra­tello Tiburzio. Condivise poi con la sua sposa lo stesso ideale di purezza e, come lei, subì il martirio per amore di Gesù Cristo».

 

La confidenza

«Che c'entra questa storia col tuo fidanza­mento?», replicò Eutichia. «C'entra, madre mia. Anch'io come la no­bile Cecilia mi sono consacrata a Dio con voto di perpetua verginità e anch'io penso già alla sera delle nozze quando dovrò dire al mio sposo le stesse parole che la vergine romana disse al patrizio Valeriano. Il tribuno Valerio accetterà di vivere con me come visse il nobi­le Valeriano con la sua amata sposa Cecilia? E se non accettasse, madre mia?». «Mia dolce Lucia, perché non mi confidasti questo tuo tremendo segreto? Se sapevo del tuo voto di perpetua verginità non ti avrei promessa al tribuno Valerio». «Mia cara madre, io compresi che tu volevi soltanto la mia felicità e non osai contraddirti né confidarti il mio segreto. Ma sono decisa a non violare la promessa fatta al mio divino Sposo, perché è molto meglio ubbidire a Dio che agli uomini». «È giusto, figlia mia! Lasciamo dunque che Dio sbrogli da solo questa ingarbugliata ma­tassa. Lui sa certamente come fare e lui prov­vederà». Terminato il colloquio, Eutichia informò la figlia dell'aggravarsi della fastidiosa malat­tia che da tempo l'aveva colpita come l'emor­roissa del Vangelo. Lucia consigliò la madre di recarsi in pellegrinaggio a Catania sulla tomba di sant'Agata per chiedere la guarigio­ne alla martire catanese, e si offrì affettuosa­mente di accompagnarla. Commossa e com­piacente, Eutichia acconsentì e pregò la figlia di volersi occupare personalmente dei prepa­rativi per la partenza.

 

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Pellegrinaggio a Catania

 

Tra Siracusa e Messina sorge Catania, im­portante città fondata dai Greci nel 730 a.C. Conquistata dai Romani nel 263, godette di grande prosperità durante l'epoca imperiale. Più volte devastata dalle eruzioni dell'Etna e da terremoti, tra cui quello disastroso del 1693 dopo Cristo, che la distrusse. Fu poi ri­costruita secondo un razionale piano urbani­stico al quale deve l'elegante fisionomia ba­rocca che conserva tuttora. Catania è illustre per molti titoli, ma specialmente per aver dato i natali ad una eroina del cristianesimo: sant'Agata, protettrice della città e orgoglio di tutti i Siciliani.

 

Agata, vergine e martire

Nobile e ricca giovanettà di Catania, Agata subì il martirio durante la persecuzione gene­rale ordinata dall'imperatore Decio col preci­so scopo di sradicare il cristianesimo in tutto l'Impero. A quel tempo in Catania viveva già una fio­rente comunità cristiana e Agata si era consa­crata a Dio con voto di perpetua verginità. La sua rara bellezza e il suo cospicuo patrimonio accesero una «violenta passione» in Quinzia­no, governatore della Sicilia, che la chiese in sposa. Respinto dalla nobile fanciulla, che già aveva scelto per sposo il Signore Gesù, la fece arrestare tentando invano di indurla a sacrificare agli dèi. Negli Atti latini del suo martirio si legge che Quinziano tentò inutil­mente di allontanarla dalla vita cristiana affi­dandola ad una famiglia molto corrotta. La sottopose poi ad orribili torture, tra cui il ta­glio dei seni. Straziata nelle membra, ma sal­da nella fede, Agata pregò così: «Ti ringrazio, o Signore Gesù Cristo, che ti sei ricordato di me e mi mandasti il tuo apo­stolo a confortarmi e a risanare le mie mem­bra». Terminata la preghiera, Agata s'accorse che le ferite del suo corpo erano guarite e le sue membra integre. Allora Quinziano, esa­sperato dalla resistenza fisica e spirituale del­la bellissima e virtuosissima fanciulla, la fece gettare sui carboni ardenti. Consunta dal fuo­co, la nobile catanese morì il 5 febbraio del­l'anno 251 dopo Cristo.

 

Secondo la leggenda

Scrisse a proposito Piero Bargellini nel già citato libro I Santi del giorno: «La leggenda c'informa poi della mala morte incontrata subito dopo dallo spietato pretendente, calciato dai cavalli ed affogato in un fiume. Dallo Sposo celeste, apparso biancovestito con un seguito di cento cavalieri, si dice inve­ce che sia stata recata sulla sua tomba, quasi un messaggio d'amore, la lapide con la ce­lebre iscrizione: Mentem sanctam, sponta­neam, honorem Deo et patriae liberatio­nem». Liberazione della patria, perché quando, un anno dopo, una grande eruzione dell'Etna minacciò con le sue lave la città della santa, bastò che i fedeli spiegassero sulla sua tomba, fuori Catania, il candido velo della fanciulla, perché la fiumana di fuoco si arrestasse libe­rando la città dal pericolo. «Da allora - prosegue Bargellini - sant'A­gata, infiammata dall'amore divino e arsa con i carboni della concupiscenza umana, viene invocata protettrice contro la violenza del fuoco e delle eruzioni».

 

Nel tempio di Agata

Accompagnate da alcuni servi e serve, già convertiti alla fede cristiana, Eutichia e Lucia s'imbarcarono per Catania. Giunsero in città nei primi giorni di febbraio dell'anno 301 e si recarono con altri pellegrini nel tempio di sant'Agata per partecipare alla santa Messa. Il brano evangelico di quel giorno narrava proprio la guarigione dell'emorroissa: «Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a gua­rire, si avvicinò a Gesù, gli toccò un lembo del mantello e subito il flusso di sangue si ar­restò. Gesù disse: "Chi mi ha toccato?". Mentre tutti negavano, Pietro rispose: "Mae­stro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiac­cia e tu chiedi chi ti ha toccato". E Gesù a lui: "Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me". Allora la donna, ve­idendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti emando e, gettatasi ai suoi pie­di, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l'aveva toccato, e come era subito guarita. Ma Gesù le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata, va' in pace!"» (dal Vangelo di Luca, cap. 8, versetti 43-48). Allora Lucia rivolse alla mamma queste parole: «Madre mia, se tu credi al Vangelo appena udito, e credi anche che sant'Agata, essendo morta martire per Gesù Cristo, gode di po­tente intercessione presso di lui, tocca con fede il sepolcro di lei e guarirai».

 

La guarigione

Terminata la celebrazione eucaristica, Eu­tichia esaudì il desiderio della figlia e con lei si accostò fiduciosa al sepolcro di Agata per chiedere insieme la guarigione dalla fastidio­sa malattia. Mentre pregavano con fervore, Lucia fu colta da un profondo sonno. Vide in sogno sant'Agata, ornata di splendide vesti e circondata dagli angeli, che le rivolse amore­volmente queste parole: «Lucia, sorella mia, vergine di Dio, perché chiedi a me quello che da sola puoi ottenere per tua madre? La tua viva fede ha giovato a tua madre, ed ecco che è risanata poiché tu hai preparato nella tua verginità un santuario gradito a Dio. E come per me Gesù Cristo ha reso celebre la città di Catania, così la città di Siracusa sarà grandemente glorificata da te!». Dopo le parole di Agata, Lucia si risvegliò e con viva commozione disse alla mamma:  «Madre cara, ecco che per grazia di Gesù Cristo e della sua serva Agata, tu sei guarita». Alle dolci parole della figlia, Eutichia con­statò di essere stata liberata dalla malattia. Ambedue genuflesse sul sepolcro di Agata sciolsero a Dio e alla vergine catanese un fer­voroso inno di ringraziamento. Poi Lucia dis­se sommessamente a sua madre: «Madre mia, ecco tu sei guarita per grazia di Dio e della sua santa martire e la tua pre­ghiera è stata realmente esaudita. Una cosa, però, ora ti chiedo: che non mi parli più di uno sposo terreno né che desideri vedere da me un frutto caduco. Ciò che proponesti di darmi in dote perché io fossi congiunta in ma­trimonio ad un uomo mortale, donalo a me che mi diparto verso uno Sposo immortale, poiché grandi doni ha promesso di dare a noi Cristo, nostro Dio». Ancora una preghiera di ringraziamento, poi le due donne uscirono dal tempio: Euti­chia in salute e rinvigorita nella fede; Lucia felice della guarigione della sua amata mam­ma e dell' assicurazione ricevuta da sant'Aga­ta di una duplice corona: quella della vergini­tà e quella del martirio.

 

La risposta di Eutichia

Il grande amore di Lucia per i poveri l'ave­va spinta a chiedere a sua madre la dote stabi­lita per le nozze, poiché desiderava soccorre­re i Siracusani che vivevano nell'indigenza. Ma Eutichia, che non aveva ancora raggiunto il grado di virtù della sua nobile figlia, le si op­pose dicendole: «Figlia mia, io ho conservato ed accresciu­to con nuovi acquisti i miei beni e quelli di tuo padre, perciò prenderai possesso di queste ricchezze dopo la mia morte, e allora ne po­trai disporre a tuo piacimento». L'inaspettata risposta della madre amareg­giò profondamente il cuore puro e sensibile di Lucia, che riprendendo coraggio subito le disse: «Madre mia, la tua proposta non è gradita a Cristo; ma se vuoi rendere grazie con le opere a chi ti ha beneficata con la guarigione, offrigli quelle cose di cui ti dovrai necessaria­mente spogliare quando morirai. Ciò che hai acquistato dàllo adesso e ciò che hai stabilito di dare a me in dote, dàllo a Cristo». Persuasa dalle convincenti parole della sua virtuosissima figlia, Eutichia le promise che avrebbe fatto secondo il suo volere. Intanto urgeva far ritorno a Siracusa.

 

Ogni cosa ai poveri     

Uno spettacolo nuovo e sconosciuto si svolse nella celebre città di Siracusa quando le due nobildonne cominciarono a distribuire ai poveri le loro ricchezze. Narra un biografo di santa Lucia, don Gio­vanni Roatta: «Poveri smunti dalle tribola­zioni e laceri nelle vesti, salivano ogni giorno a gruppi su per le lucide scale del palazzo di Eutichia, e convenivano in una elegantissima sala, ove una mano nobile, ma modesta e pie­tosa, lasciava cadere l'obolo nelle loro mani scarne. «Era questo un fatto non ancora visto nella ricca città di Siracusa, ove le case dei nobili patrizi gareggiavano nel lusso e nello sperpe­ro. La beneficenza non era conosciuta, i po­veri vilmente cacciati e disprezzati, e suonava come una parola stolta il detto di Cristo: "Quello che vi è di superfluo, datelo ai pove­ri". Lucia, invece, ben conoscendo che ciò che si dà ai poveri si dà a Gesù Cristo stesso, non prestò ascolto alla voce della carne e alle usanze dei tristi suoi tempi; essa, con nobile e fiero coraggio, incominciò a manifestare il suo amore a Cristo nella persona dei poveri, amore che, ben presto, avrebbe suggellato col martino».

 

La visita del fidanzato

Il mormorio dei nobili di Siracusa sullo straordinario movimento di persone che ruo­tavano intorno alla casa di Eutichia che, in­sieme alla figlia, distribuiva il ricavato dei loro beni ai poveri, giunse alle orecchie del fi­danzato di Lucia. Egli venne di persona a rendersi conto di quanto accadeva e chiese alla nobildonna che ne fosse della sua fidan­zata e a favore di chi si faceva la vendita di tutti quei beni, degli ornamenti e delle vesti. La nobile Eutichia rispose con una pietosa bugia: «Insperatamente la tua fidanzata ha trova­to un podere che dà una rendita di mille dena­ri l'anno: ella ha voluto comperarlo sotto il tuo nome e per questo ha bisogno di denaro». Per nulla convinto dalla spiegazione di Eu­tichia, il fidanzato di Lucia se ne andò tutta­via dicendo che avrebbe contribuito per metà al prezzo del terreno.

 

Gli editti

Istigato dal suo perfido cesare Galerio, l'augusto Diocleziano, fondatore della te­trarchia (= il governo dell'Impero a quattro persone: due augusti e due cesari), negli anni 303-304 dopo Cristo emanò ben quattro editti di persecuzione contro i cristiani. Il primo editto imponeva di distruggere le chiese e bruciare le Sacre Scritture e colpiva i nobili con la degradazione e i plebei con la perdita della libertà. Il secondo e il terzo, emanati pure nell'an­no 303, imponevano l'incarcerazione dei capi della Chiesa e la condanna a morte per chi non avesse sacrificato agli dèi pagani. Il quarto editto, del 304, imponeva indi­stintamente a tutti i cristiani di sacrificare agli dèi e colpiva con la condanna a morte coloro che si rifiutavano. Gli Atti dei Martiri, dell'inizio del quarto secolo, riferiscono come i fedeli preferivano morire tra atroci tormenti piuttosto di rinne­gare la fede cristiana.

 

Così scrisse Lattanzio

Lattanzio, uno dei più noti apologisti cri­stiani dell'epoca e testimone oculare di tante atrocità, così scrisse nel cap. 16 del suo De morte persecutorum: «La persecuzione deso­lava tutte le province dell'Impero. Ad ecce­zione delle Gallie, dall'Oriente all'Occidente tutto gemeva sotto il furore di questi tre bar­bari (Diocleziano, Massimiano e Galerio). Quand'anche io avessi cento lingue e cento bocche ed una voce di ferro, non arriverei mai a raccontare i diversi tormenti coi quali furono straziati i fedeli».

 

Il coraggio dei cristiani

Il cielo s'incupiva sempre più e la tempesta stava per scatenarsi sui cristiani. I tempi che correvano erano gravissimi. Si erano appena pubblicati gli editti di persecuzione degli im­peratori Diocleziano e Massimiano nei quali pareva che il paganesimo raccogliesse tutto il suo furore per dare alla Chiesa di Cristo l'ulti­ma battaglia. «Il paganesimo - scrisse Giuseppe Maino - aveva già acceso i suoi roghi, preparate le spade e gli uncini di ferro, messi in efficienza gli strumenti di tortura. Arrivavano negli an­fiteatri le belve, venivano sguinzagliati spioni e delatori perché denunciassero alla vendetta degli Imperatori la razza odiata dei cristiani. Ed essi presentivano l'appressarsi della tem­pesta; e con la preghiera, coi digiuni, con lo stringersi sempre più a Gesù, forza e corona dei combattenti, temperavano quel coraggio che aveva popolato il Cielo di martiri. La ver­ginità e la fede, tenendosi per mano come so­relle, entravano sicure e scintillanti di gioia nella terribile prova, alla quale già da tre se­coli erano avvezze. Il mondo pagano era stu­pito: si sentiva, suo malgrado, soggiogato dalla purezza delle vergini cristiane che, fra­gili e disarmate, non impallidivano davanti alle torture, e rifuggivano con disprezzo dalle voluttà che loro si offrivano. E al principio del quarto secolo, la verginità cristiana splen­deva di una luce e di una gloria straordi­nana». Alla gloriosa schiera delle vergini-martiri come Agata, Perpetua, Felicita, Cecilia, Agnese, eccetera, già venerate da tutta la Chiesa, ben presto si sarebbe aggiunta la no­bile siracusana Lucia, anche lei vergine e martire per Cristo.

 

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Dall'accusa al martirio

 

Un mattino di dicembre dell'anno 304 dopo Cristo, in una sala della casa di Eutichia si radunarono in preghiera madre e figlia con un folto gruppo di servi e serve, che gia prati­cavano con fervore la fede cristiana. Dopo la preghiera passarono alla conver­sazione, soffermandosi in particolare sul quarto editto di persecuzione emanato dal­l'imperatore Diocleziano e divulgato in tutto l'impero: editto accolto con perfida gioia dal feroce Pascasio, prefetto di Siracusa, che per­seguitando con zelo i cristiani sperava di otte­nere i favori degli augusti imperatori Diocle­ziano e Massimiano.

 

«Vattene e non tornare più»

Terminata la conversazione, un servo an­nunciò a Lucia l'inaspettata visita del suo no- bile fidanzato. Quando questi fu alla sua pre­senza, la modesta giovanetta non lo degnò neppure di uno sguardo, ma ne attese umil­mente le parole. Indignato da una così fredda accoglienza, il giovane tribuno espose con fierezza alla fi­danzata il motivo della sua visita sollecitan­dola alle nozze. Allora Lucia, più che mai de­cisa a non violare la sua verginità, gli disse ri­solutamente: «Vattene e non tornare più, poiché io mi sono da tempo promessa a un altro amante, che mi offre doni assai più preziosi dei tuoi. Egli mi ha già sposata con l'anello del divino amore ed io voglio mantenermi a lui sempre fedele, perché questo sposo è Gesù Cristo, il mio Dio».

 

L'accusatore

Colpito e amareggiato dalla strana rivela­zione di Lucia, l'aitante tribuno, senza più proferir parola, prese la via del ritorno. Egli sapeva della fede religiosa praticata dalla sua ex fidanzata e decise di vendicarsi dell'umi­liazione subita. Diresse quindi i suoi passi verso il palazzo del crudele prefetto che, siti­bondo di sangue cristiano, aveva già sguinza­gliato i suoi agenti alla ricerca dei seguaci del Nazareno.  Pascasio accolse con gioia satanica il giova­ne tribuno che accusò Lucia e sua madre di essere discepole di Gesù, il Profeta di Na­zaret condannato alla crocifissione. E il perfido prefetto iscrisse subito le due donne nell'elenco dei cristiani da arrestare e giudi­care. Nel frattempo, Lucia, che prevedeva or­mai prossimo il suo martirio, distribuì ai po­veri le sue ultime sostanze, memore delle pa­role del suo divino Sposo: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosi­na; fatevi borse che non invecchiano, un teso­ro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arri­vano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Luca 12,33-34).

 

L'arresto

Il prefetto Pascasio non tardò a ordinare l'arresto di Lucia e di sua madre. Del resto i soldati romani avevano già fatto diverse in­cursioni nelle Latomie (catacombe di Siracu­sa), dove i cristiani si radunavano per la cele­brazione dei Divini Misteri durante le persecuzioni. Già molti fedeli erano stati arrestati per ordine del feroce Pascasio, tra cui il ve­scovo della città con alcuni sacerdoti e diaco­ni, poiché all'epoca delle persecuzioni di Diocleziano la Chiesa siracusana era già ben costituita con gerarchia e numerosi fe­deli. Alcuni documenti cercano di collegare la nascita di questa Chiesa all'apostolo Pietro, che da Antiochia avrebbe inviato il proprio discepolo Marciano per fondarvi la comunità cristiana e guidarla come primo vescovo. Gli Atti degli Apostoli poi, al capitolo 28, regi­strano una sosta dell'apostolo Paolo, che nel­l'anno 61 dopo Cristo, proveniente da Malta, era diretto a Roma per essere processato: «Arrivati a Siracusa ci restammo tre giorni». E, conoscendo lo zelo dell'apostolo Paolo, possiamo ben credere che in quei tre giorni di permanenza in città egli abbia predicato ai Si­racusani il messaggio di Cristo. Che all'inizio del quarto secolo la Chiesa di Siracusa fosse già fiorente lo testimoniano anche i numerosi cimiteri cristiani di quell'e­poca e delle precedenti. La morte dei cristia­ni perseguitati era sempre preceduta da indi­cibili sofferenze, secondo la crudeltà dei giu­dici, e anche santa Lucia fu sottoposta a cru­deli tormenti.

 

L'interrogatorio

Lucia fu dunque arrestata e condotta alla presenza del prefetto Pascasio. Questi, che conosceva la giovane soltanto per fama, quando la vide se ne invaghì per la sua avve­nenza e per la sua modestia, e tentò con ogni mezzo di distoglierla dalla fede cristiana e in­durla a sacrificare agli dèi. Le rivolse quindi la parola in questi termini: «Tu, dunque, professi la religione cristia­na?». «Si, io sono cristiana». «Non conosci tu i decreti dei divini impera­tori Diocleziano e Massimiano, che ordinano a tutti i sudditi dell'impero di adorare e sacri­ficare agli dèi?». «Sacrificio puro presso Dio è visitare le ve­dove, gli orfani e i pellegrini, che sono in ne­cessità e afflizione. È già il terzo anno che of­fro al mio Dio tali sacrifici impiegando il mio patrimonio. Ed ora offro me stessa in obla­zione e il mio Dio disponga di me come più gli piace». Rispose sdegnato Pascasio: «Racconta queste cose agli stolti come te. Io eseguisco gli ordini degli imperatori e non posso udire simili stoltezze». Soggiunse Lucia: «Tu osservi i decreti degli imperatori ed io la legge del mio Dio. Tu fai il possibile per non recar ingiuria a quelli, e come oserò io contraddire il mio Dio? Tu ti sforzi di piacere ad essi, e io m impegno per la gloria del mio Dio. Fa' dunque come ti torna comodo, ma io opero secondo la mia coscienza». Replicò adirato Pascasio: «Tu hai prodigato le tue sostanze a uomini vani e dissoluti». «Io - rispose Lucia - ho riposto al sicuro il mio patrimonio e il mio corpo non ha seguito l'impurità». «Tu sei la stessa disonestà in persona», sog­giunse Pascasio. Rispose Lucia: «Siete voi che costituite la corruzione, di cui l'Apostolo dice: Voi corrompete le anime degli uomini per farli apostatare dal Dio vi­vente e servire al diavolo e agli angeli suoi che sono in perdizione; i quali, anteponendo la cadùca voluttà ai beni eterni, vengono esclusi dai gaudi sempiterni». Irritato a dismisura dalle franche risposte della giovane, Pascasio gridò: «Cessi la tua loquacità e se non vuol cessa­re la troncheremo passando ai tormenti».

 

«Io sono serva del Dio eterno...»

Alla minaccia di Pascasio, di farla tacere coi tormenti, Lucia rispose: «È impossibile porre silenzio ai detti del Si­gnore». «Le tue parole sono dunque detti del Si­gnore? Sei tu forse Dio?». «Io sono serva del Dio eterno - riprese Lu­cia. - Poiché egli ha detto: Quando sarete condotti davanti ai re e ai prìncipi, non vi date pensiero di cosa dovrete dire, perché non sie­te voi che parlate, ma è lo Spirito Santo che è in voi». Le chiese Pascasio: «Dentro di te c'è dunque lo Spirito Santo?». Rispose Lucia: «San Paolo dice: Coloro che vivono casta­mente sono templi di Dio e lo Spirito Santo abita in essi». Allora il perfido Pascasio le disse: «Ti farò condurre in un luogo infame, dove sarai costretta a vivere nel disonore, e così lo Spirito Santo fuggirà da te». Addolorata da queste diaboliche parole, ma fiduciosa nell'aiuto di Dio, Lucia riprese: «Il corpo non viene deturpato se non dal consenso della volontà, poiché se anche tu mettessi l'incenso nelle mie mani, Dio sa quello che è stato offerto. Egli scruta le co­scienze e aborrisce dal violatore della pudici­zia, come da un ladro e da un feroce assassi­no. Ché se tu comandi che io subisca una vio­lenza contro la mia volontà, la mia castità avrà il merito di una doppia corona». Stupito dal coraggio e dalla franchezza della giovane e fiducioso di poterla ancora convincere a sacrificare agli dèi, Pascasio ag­giunse: «Se non ubbidisci agli ordini degli impera­tori, incorrerai in spietati tormenti». E Lucia a lui: «Tu non potrai in alcun modo indurre la mia volontà al consenso del peccato. Ecco dunque, il mio corpo ti sta dinanzi disposto ad ogni tortura. Perché indugi? Metti in ope­ra ciò che vuole il diavolo, padre tuo!».

 

Il martirio

Il fiero Pascasio, ritenendosi provocato e umiliato davanti alla corte, furente di rabbia, ordinò ai lenoni d'impadronirsi della casta giovane e presentarla al ludibrio del popolo, affinché dopo essere stata violata la cogliesse la morte. Ma lo Spirito Santo la rese immobi­le e nessuno poté spostarla dal luogo in cui si trovava, nemmeno un migliaio di soldati che, legatala con funi alle mani e ai piedi, comin­ciarono tutti insieme a tirarla da ogni parte. Allora fremente di ira e di vergogna per lo smacco subito, il perfido Pascasio si giocò l'ultima carta, che si dimostrò tuttavia perdente. Ordinò che si attaccassero tante paia di buoi al fine di rimuovere l'immobile giova­ne. I buoi furono attaccati, eccitati, percossi, ma, nonostante la loro proverbiale forza, non riuscirono a spostarla di un millimetro. Lo Spirito Santo che era in lei operava con somma potenza, e gli espedienti dei persecu­tori nulla potevano contro l'eroica giovane.

 

L'ultimo tentativo

Grandemente umiliato dai prodigi che Dio operava per la sua martire, Pascasio s’avvici­nò a lei e scuotendola con rabbia le disse: «Quali sono le tue arti magiche, o Lucia?». «Queste non sono arti magiche, ma è la po­tenza di Dio». «Per qual ragione, o giovanetta, tirata da un migliaio di uomini non ti sei mossa?». «Quand'anche tu ne aggiungessi altre mi­gliaia, sentiranno in me lo Spirito Santo che dice: Mille cadranno alla tua sinistra e dieci­mila alla tua destra, ma non riusciranno ad avvicinarsi a te». Mentre l'iniquo Pascasio escogitava un supplizio capace di toglierle la vita, Lucia gli disse: «Misero Pascasio, di che ti affliggi? Perché impallidisci? Perché ti struggi di furore? Ecco, hai avuto la prova che io sono tempio del Dio vivente. Non ti resta ormai che crede­re anche tu nel Dio dei cristiani, che è l'unico vero Dio».

 

Verso la gloria

Siccome la pena fissata dagli editti imperiali per i bestemmiatori degli dèi e per i maghi era il supplizio del fuoco, Pascasio, che rite­neva Lucia una maga, la condannò al rogo. Ma la martire disse al suo aguzzino: «Io pregherò il Signore nostro Gesù Cristo che questo fuoco non s’impadronisca di me. Dimostrerò che, avendo fede nella Croce di Cristo, ho impetrato un prolungamento della mia lotta, così farò vedere a te e ai cre­denti in Cristo la potenza del martirio, e ai non credenti toglierò l'accecamento dell'or­goglio». Al suono di queste ispirate parole, il pre­fetto, furibondo, ordinò che fosse acceso un gran fuoco intorno a Lucia e che fosse ali­mentato da legna di teda (pino selvatico mol­to resinoso), pece ed olio in quantità, affin­ché il corpo della caparbia vergine venisse consumato il più presto possibile. Si verificò allora un nuovo, straordinario prodigio: le fiamme che l'avvolgevano da ogni parte la la­sciarono illesa.

 

La profezia della martire

Era però giunta l'ora dell'atteso martirio in cui Lucia avrebbe finalmente potuto con­giungersi al suo Sposo celeste. Lucia sentiva ormai che la sua fine era prossima, perciò ri­volse al pubblico queste memorabili parole: «Ecco, io predico a voi che sarà data la pace alla Chiesa di Cristo. Diocleziano e Massimiano intanto cadranno dal trono imperiale e, come la città di Catania ha in venerazione sant'Agata, così voi onorere­te me per grazia del Signore nostro Gesù Cristo, osservando di cuore i suoi comanda­menti».

 

La morte di Lucia

Protervo e rabbioso nel vedere Lucia trion­fatrice su ogni prova, il perfido Pascasio ordi­nò di sgozzarla. Un soldato le si avvicinò e le trafisse la gola con un pugnale. Così la giova­ne nobildonna rese la sua splendida anima a Dio, suo Creatore e Sposo, e ricevette da lui la duplice corona della verginità e del marti­rio. Era il 13 dicembre dell'anno 304 dopo Cri­sto. In quello stesso giorno, a Nicomedia, l'imperatore Diocleziano, che si vantava di aver abolito il cristianesimo, fu colto da grave malore. Lattanzio asserisce che per più giorni fu creduto morto.

 

L'anno 305 dopo Cristo

Nell'introduzione agli Atti dei martiri, pub­blicato dalle Edizioni Paoline, Giuliana Cal­darelli scrisse: «L'anno 305 ebbe una partico­lare importanza nella storia dell'Impero e delle persecuzioni: Diocleziano abdicò, co­stringendo l'altro augusto, Massimiano, a fare altrettanto; i cesari Galerio e Costanzo Cloro divennero gli augusti d'Oriente e d'Oc­cidente, scegliendosi a loro volta, come cesa­ri, rispettivamente Massimino Daia e Co­stantino. Tuttavia il meccanismo della tetrar­chia non funzionò come Diocleziano aveva sperato, e le lotte e i disordini che seguirono all'abdicazione dell'imperatore durarono fi­no a che Costantino, eliminati i rivali, riunì nuovamente l'Impero nelle sue mani. Sui rapporti con i cristiani influirono le tendenze particolari (talvolta le rivalità) dei sovrani in lotta e la persecuzione iniziata da Dioclezia­no nel 303, dopo la sua abdicazione, si atte­nuò in Occidente fino a terminare nel 306 con Costantino. In Oriente, invece, attraverso complesse vicende, si mantenne più aspra per opera di Galerio, sobillato anche dal suo ce­sare Massimino Daia».

 

La pace promessa

Come narrò Eusebio, celebre storico del­l'epoca, per tutto l'Impero d'Occidente ven­ne rimessa la spada nel fodero. Si preparava così l'avvento del «Cristiano Impero» e il compimento dell'attesa pace profetata da Lucia. Infatti, pochi anni dopo la morte della martire siracusana, l'imperatore Costantino, eliminato, nel 312 dopo Cristo, il rivale Mas­senzio, l'anno seguente emanò da Milano un editto che concedeva definitivamente ai cri­stiani la libertà di culto, ponendo così fine alle persecuzioni. La Sicilia, però, godette la pace religiosa fin dall'anno 305, quando fu diviso l'Impero. Ciò avvenne per la mitezza d'animo dell'im­peratore Costanzo Cloro, marito di sant'Ele­na e padre di Costantino, cui era toccato in sorte l'Impero d'Occidente.

 

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Culto e folklore

 

Secondo gli Atti greci, noti anche come Co­dice Papadopulo, il racconto del martirio di santa Lucia termina così: «Nello stesso luogo dove rese lo spirito edi­ficarono a lei un tempio, nel quale i fedeli ac­corrono alle reliquie, ottenendo per sua in­tercessione grazie e guarigioni dalle malattie, glorificando il Signore Gesù Cristo, al quale sia onore e potenza nei secoli dei secoli. Amen».

 

I bellissimi occhi di Lucia

Come protettrice della vista, santa Lucia è generalmente invocata contro tutte le malat­tie degli occhi, compresa la cecità. L'iconografia ce la presenta sovente con la palma del martirio nella mano destra e con un piatto contenente un paio di bulbi oculari, sorretto dalla mano sinistra. Secondo la leggenda, il prefetto Pascasio si sarebbe invaghito di Lucia soprattutto per lo splendore degli occhi, limpidi e fulgenti come stelle. Ma, al fine di spegnere la neonata passione del fiero prefetto, la giovane e avve­nente nobildonna si sarebbe strappati gli oc­chi e glieli avrebbe inviati dentro un piatto d'argento. Tuttavia, questo episodio non si legge nella Passione della santa martire, ma probabilmente è stato inserito più tardi nel racconto della sua vita, forse sottraendolo alla leggenda di un'altra Lucia. A motivo di questo leggendario episodio, che sembra risalire soltanto al secolo decimo­quarto, e per il nome stesso di Lucia, che si­gnifica «luce», nacque poi una grande devo­zione popolare per la santa siracusana, invo­cata specialmente come protettrice degli occhi.

 

Il corpo di santa Lucia

Un editto imperiale dell'anno 290 dopo Cristo concedeva ai cristiani di assistere alla morte dei fratelli e delle sorelle di fede e di dar loro onorata sepoltura. Così, dopo l'eroica morte di Lucia, il suo corpo fu devotamen­te sepolto in un sarcofago all'ingresso delle catacombe di Acradina, dove la martire si era recata tante volte con la pia madre Eutichia per assistere alla celebrazione dei Sacri Mi­steri. Fino a quando il corpo di Lucia sia rimasto nel suo sepolcro non si sa. Non si sa neppure con precisione dove oggi si trovino veramen­te le sue preziose reliquie, perché due tradi­zioni differenti e contrastanti le indicano in luoghi diversi e nessuna delle due è storica­mente ineccepibile.

 

Le due tradizioni

Come scrisse Agostino Amore nella Bi­bliotheca Sanctorum, alla voce: «Lucia, santa martire di Siracusa», la prima tradizione è ri­ferita da una relazione del decimo secolo, in­serita da Sigeberto di Gembloux (m. 1112) nella biografia del vescovo Teodorico di Metz (m. 984), dove si narra che il vescovo, venendo in Italia con l'imperatore Ottone, si portò via molte reliquie di santi, che erano al­lora a Corfinium (= Péntima) nell'Abruzzo. Il fatto della traslazione a Metz di reliquie di santa Lucia, vere o presunte, è anche attestato dagli Annali della città, all'anno 970. Sor­ge però il dubbio se si trattasse di sole reliquie o di tutto il corpo e come Faroaldo, duca di Spoleto, l'abbia potuto avere e collocare a Corfinium. Lo stesso Sigeberto riferisce an­cora che il vescovo Teodorico, nel 972, innal­zò un altare in onore di santa Lucia e che, nel 1042, un braccio della martire fu donato al monastero di Luitbourg. La seconda tradizione è attestata da Leone Marsicano (m. 1115) e dal cronista veneziano Andrea Dandolo (m. 1354). Essa dice sostan­zialmente che da Siracusa le reliquie di santa Lucia sarebbero state trasferite a Costantino­poli dal generale greco Giorgio Maniace, per sottrarle al furore devastatore dei Saraceni. Quando poi, nel 1204, la città fu conquistata dai Crociati, sarebbero state da questi tra­sportate a Venezia e collocate nel monastero di San Giorgio. Questa seconda tradizione è la più comune e, forse, anche la più probabile.

 

Lucia e i Veneziani

Nel 1280 il corpo di santa Lucia sarebbe stato trasferito dal monastero di San Giorgio ad una chiesa dedicata alla santa (eccetto un braccio che sarebbe rimasto in San Giorgio), ma nel 1860 Pio IX l'avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera ancor oggi. E veramente - come riferisce Giuseppe Maino nel suo libro S. Lucia Vergine e Marti­re - «la cappella del corpo di santa Lucia in quella chiesa, bella e artistica come tutte le chiese di Venezia, in puro stile cinquecente­sco, adorna di marmi e di bronzi, è sempre stata oggetto di cure e devozione speciali da parte di quei fedeli. Il sacro corpo, elevato sopra l'altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, adorna di decorazio­ni e sormontata dalla statua della Santa. Sulla parete di sfondo due iscrizioni raccontano le vicende della traslazione e delle relative so­lenni festività». Giustamente, nel corso degli anni, i Siracu­sani hanno fatto vari tentativi per riavere il corpo della loro amatissima martire, ma i Ve­neziani, che le sono altrettanto devoti, non hanno voluto concederlo. A Siracusa si con­servano tuttavia alcune reliquie di santa Lu­cia, tra cui le sue vesti. Ma la reliquia più pre­ziosa è senz'altro il suo sepolcro, molto vene­rato dai Siracusani, che hanno elevato la san­ta martire a loro protettrice e patrona della città.

 

Il culto di santa Lucia 

Il più antico e autentico documento del cul­to tributato a santa Lucia è l'epigrafe di Eu­schia o Umbrosa di cui abbiamo già scritto nel quarto capitolo di questo libro. Secondo il «Breviario Gallo-Siculo», nell'anno 313, presso il sito dove fu sepolta santa Lucia, i Si­racusani le edificarono un tempio. All'inizio del sesto secolo, sotto il pontificato di san Gregorio Magno, al tempio fu annesso un monastero di Benedettini, l'ordine cui appar­teneva il pontefice. Qui crebbe san Zosimo, che fin da fanciullo ebbe in custodia il corpo della martire, di cui era devotissimo. Diventò abate del monastero e, nel 643, fu consacrato vescovo di Siracusa. Ma il culto di santa Lucia varcò ben presto i confini della Sicilia. Circa l'anno 384 sant'Orso, vescovo di Ravenna, le dedicò un tempio e papa Gregorio Magno, nel secolo sesto, fece costruire nella basilica di San Pietro una cappella in suo onore. Inol­tre lo stesso pontefice nei suoi Dialoghi parla di un monastero dedicato a santa Lucia, in Roma, mentre nel settimo secolo, papa Ono­rio I le consacrò una chiesa, oggi conosciuta col titolo di Santa Lucia in Selce.

 

Lucia nel Canone Romano

Papa Gregorio Magno (590-604), nei suoi libri Antifonario e Sacramentario scrisse l'Uf­ficio Divino da recitarsi e la santa Messa da celebrarsi in tutta la Chiesa nel giorno della festa di santa Lucia, il 13 dicembre. Decretò inoltre che il nome della martire siracusana fosse inserito insieme a quelli di altre sei donne martiri, tra cui sant'Agata di Catania, nel Canone della Messa, che qui trascriviamo: «Anche a noi tuoi ministri peccatori, ma fi­duciosi nella tua infinita misericordia, con­cedi, o Signore, di aver parte nella comuni­tà dei tuoi santi apostoli e martiri: Giovan­ni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i Santi: ammettici a gode­re della loro sorte beata non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdo­no. Per Cristo nostro Signore tu, o Dio, crei e santifichi sempre, fai vivere, benedici e doni al mondo ogni bene». (Preghiera Eucaristica o canone Romano).

 

Colletta della Messa di santa Lucia

Affinché l'intercessione di santa Lucia ac­cenda in noi il fuoco del divino amore, che at­tende di vedere la gloria del Signore nella vita futura, ecco come la preghiamo nella Messa del giorno della sua festa:

   «Riempi di gioia e di luce il tuo popolo, Si­gnore, per l'intercessione gloriosa della santa vergine e martire Lucia, perché noi, che festeggiamo la sua nascita al Cielo, possiamo contemplare con i nostri occhi la tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cri­sto, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli». (Proprio dei Santi /13 dicembre: Colletta della Messa di S. Lucia).

Sempre nel secolo sesto - nota Agostino Amore - «il nome di Lucia fu introdotto nel Canone di Milano e Ravenna, ed in quest'ul­tima città la sua immagine fu inserita nella teoria delle vergini del grandioso mosaico di S. Apollinare Nuovo». Il più antico Sacramentario contenente la festa di santa Lucia è il Gregoriano, mentre più tardi si trova anche nel Sacramentario Gelasiano di S. Gallo, del settimo secolo. Di questo secolo è pure l'Ufficio Divino compo­ sto da san Giovanni Damasceno e adottato dalla Chiesa greca, che commemora santa Lucia il 13 dicembre. Inoltre in Inghilterra, nel settimo secolo, il già citato sant'Adelmo scrisse in versi e in prosa la vita della santa martire siracu­sana.

 

Amata e venerata in tutto il mondo

La devozione a santa Lucia è estesa a tutto il mondo cristiano. Non vi è nazione o città che non abbia una chiesa, un altare, un orato­rio, una reliquia, una statua, un dipinto che ricordi e celebri la santa martire siracusana. Specialmente il 13 dicembre, giorno della sua festa, è venerata ovunque con sacre funzioni ed altre manifestazioni di affetto e devozio­ne. In Europa è conosciuta e venerata da una moltitudine di fedeli e molte donne vengono battezzate con questo nome. In Brasile c'è una città chiamata Santa Lu­cia, così pure in Africa, nel gruppo delle Isole di Capoverde. Negli Stati Uniti d'America, la città di Syracuse ha scelto per patrona santa Lucia: una scelta fatta anche da altre città nel resto del mondo. Il celebre Cristoforo Colombo, scopritore delle Americhe, volle chiamare «Santa Lu­cia» una delle piccole Isole Antille. Ma tra gli uomini illustri, devoti di santa Lucia, ricordiamo ancora i gia citati san Gre­gorio Magno e sant'Adelmo d'Inghilterra; poi sant'Ambrogio, san Leone Magno e san Giovanni Damasceno, nonché il sommo poe­ta Dante Alighieri che la ricordò alcune volte nella Divina Commedia. Ricordiamo anche il grande Alessandro Manzoni, che diede nome «Lucia» ad uno dei personaggi più cari e im­portanti del suo celebre romanzo I Promessi Sposi.

 

L'iconografia

La leggendaria vita di santa Lucia ha ispi­rato, nel tempo, numerosi poemetti, canti popolari e canti sacri, più una ricchissima ico­nografia, che per illustrarla adeguatamente occorrerebbero molte pagine. Ci limitiamo a dire che la martire siracusana viene rappre­sentata con vari attributi: gli occhi nel piatto, la palma, la lampada, il libro, il calice, le fiamme, la spada o il pugnale infitto nella gola, arma che concluse il suo martirio. Ad esempio: nella tavola dipinta da Piero Lorenzetti, nel 1340, per la chiesa di Santa Lucia delle Rovinate, in Firenze, la santa è rappresentata con la palma nella mano de­stra, la lucerna nella mano sinistra e la spada infitta nel collo. Inoltre sulla bocca della lu­cerna appaiono due occhi: attributo, questo, entrato più tardi nella tradizione iconografica di Lucia, ma che rimarrà costante, almeno nell'arte italiana (cf. la voce: Lucia, santa, martire, in Enciclopedia Cattolica, vol. VII). Come accadde per il culto, anche l'icono­grafia si è ampiamente diffusa in Europa e negli altri continenti.

 

Come i Siracusani venerano Lucia

Nella splendida cattedrale di Siracusa non poteva mancare una ricca e devota cappella dedicata alla patrona della città. La maestosa statua di santa Lucia, in lamina d'argento sbalzato, che in essa si venera, è opera dell'artista palermitano Pietro Rizzo, che la rea­lizzò nel 1616. In Siracusa si celebrano alcune feste in onore della santa patrona. Oltre la comme­morazione del suo martirio, il 13 dicembre, ogni anno, nella prima domenica di maggio, si celebra pure la festa del suo patrocinio. Questa festa, detta popolarmente «delle quaglie», fu istituita dal vescovo monsignor Francesco Elia e dal senato di Siracusa, in se­guito ad un prodigioso intervento della santa, che liberò la città dal pericolo della morte per fame. Infatti, nell'anno 1646, i Siracusani sof­frivano a causa di una straordinaria carestia. Allora il vescovo, dopo aver distribuito ai po­veri tutti i cereali disponibili, fece esporre la statua e le reliquie di santa Lucia nella catte­drale e indisse, per il 6 maggio, delle preghie­re pubbliche. La mattina del giorno 13 si cele­brò una Messa solenne e, mentre il popolo in­vocava con fervore la santa patrona, si vide volare per il tempio una colomba che si posò sul trono vescovile tra lo stupore generale. In quello stesso momento si udì una voce che annunciava l'arrivo di una nave carica di gra­no. La città fu così salvata dal flagello della fame. Il fatto, narrato nel «Manoscritto sulla Chiesa Siracusana» da un testimone oculare, il canonico De Michele, testimonia la poten­za d'intercessione di santa Lucia. A ricordo del prodigioso avvenimento, durante la pro­cessione della festa del Patrocinio, al passag­gio della statua della santa si rilasciano al li­bero volo delle colombe e delle quaglie. Di qui il nome di «Festa delle quaglie». Ma la statua di santa Lucia viene solennemente portata in processione anche il 13 dicembre (giorno del suo martirio) e in altre occa­sioni.

 

Folklore

La pietà popolare è sempre accompagnata dal folklore. Il culto di santa Lucia, che ha il suo centro in Siracusa, città natale della mar­tire, si estende in tutta la Sicilia, dove la santa è assai festeggiata con sagre e processioni. Il 13 dicembre i suoi devoti si astengono dal mangiar pane e pasta e si limitano ai legumi, verdure, panelle di farina di ceci e cuccia, cioè grano cotto e condito in diverse maniere. In alcuni casi si usa distribuire pane ai poveri o cuocere piccoli panini rotondi, chiamati «occhi di santa Lucia». Dalla Sicilia possiamo risalire a tutte le regioni d'Italia, dove la fan­tasia popolare e la devozione alla santa han­no originato tradizioni gentilissime. Nel Ve­neto, nel Trentino, in Austria, in Cecoslovac­chia e altrove, santa Lucia ha la stessa funzio­ne di san Nicola o della Befana. S'immagina che la santa, la notte della vigilia della sua fe­sta, passi presso le case dei bimbi buoni con l'asinello carico di doni, lasciando loro baloc­chi e confetti nonché una bacchettina. Espressione del culto popolare per santa Lucia sono gli ex-voto in cera o in lamina di argento con due occhi, oppure amuleti in me­talli vari della stessa foggia. Nella vigilia della festa della santa, in molti paesi viene osservato un rigoroso digiuno. Si crede che chi lo pratica, nella notte potrà vedere in sogno la sua futura consorte e viceversa.

 

Una interessante tradizione

Francia, Germania, Belgio, Olanda, Sviz­zera, Spagna, eccetera, insieme al culto colti­vano anche usanze locali relative alla festa, che sono abbastanza simili a quelle originarie della Sicilia. Ma la tradizione piu interessante si manifesta in Danimarca e in Svezia. In queste due nazioni del Nord-Europa, il 13 di­cembre viene festeggiato con la scelta di una «vergine saggia» che, scortata da compagne ugualmente vestite di tuniche bianche con una corona di sette candele sul capo, percor­rono le strade raccogliendo e portando i doni pre-natalizi nelle case, negli asili e nelle isti­tuzioni caritatevoli. Le parole di uno degli inni cantati dalle «Lucie» nordiche sono adat­tate al motivo della barcarola napoletana in­titolata «Santa Lucia». La «Lucia» svedese viene talvolta invitata a Siracusa, dove le si riserva un posto d'onore nelle solenni cerimonie celebrative della san­ta martire.

 

«Santa Lucia ti conservi la vista»

Nella Bibliotheca Sanctorum, alla gia citata voce: «Lucia, vergine e martire di Siracusa», Maria Chiara Celletti scrisse: «Questa prote­zione del bene più caro che abbia l'uomo, la luce degli occhi, è, infatti, la maggiore fonte di preghiere, scongiuri, poemi e proverbi po­polari. "Santa Lucia ti conservi la vista" è l'augurio del mendicante cieco ed è il benevo­lo e scherzoso rilievo dell'amico, che aggiun­ge "perché l'appetito ce l'hai La vergine siracusana, insomma, è al cen­tro di un mondo umano che spesso si procla­ma non credente, ma che è ossessionato dalle tenebre e che sente la necessità di affidare la sua più preziosa ricchezza, la luce, a qualcu­no che della luce di Dio è riflesso sulla Terra».

 

Preghiera a santa Lucia

O gloriosa santa Lucia, vergine e martire, che morendo hai preannunciato il trionfo della Chiesa cattolica, ottienile da Dio pace e unità. A noi, che fiduciosi t'invochiamo, ottienici un aumento di fede, di speranza, di carità verso Dio e verso il prossimo. Soccorri la nostra Patria, le nostre famiglie, la nostra società, bisognosa soprattutto della luce del Vangelo. Fa' che la pace di Cristo regni sempre nei nostri cuori. O santa della luce, protettrice della vista, donaci occhi sani e limpidi e purezza di co­stumi. Sostienici nella lotta contro il male, nelle prove quotidiane, e ottienici da Dio le grazie che attendiamo. Amen.

 

Scheda biografica di santa Lucia

 

280-290 d.C.: A Siracusa nasce santa Lucia da genitori di nobi­le casato. Il nome della madre è Eutichia: quello del padre non si conosce.

Febbraio del 301: Lucia e sua madre si reca­no in pellegrinaggio a Ca­tania presso il sepolcro di sant'Agata. Qui, Euti­chia, per intercessione della martire catanese, guarisce dalla fastidiosa malattia che, da lungo tempo, la faceva soffrire.

301-304: Lucia e sua madre vendo­no i loro beni materiali e ne distribuiscono il rica­vato ai poveri.

303-304: Con quattro editti, gli im­peratori Diocleziano e Massimiano  scatenano una feroce persecuzione contro i cristiani.

Dicembre del 304: Lucia,  arrestata  dagli agenti del perfido prefet­to Pascasio, viene inter­rogata e torturata.

13 dic. Del 304: Trafitta alla gola da una spada, Lucia muore mar­tire per Gesù Cristo.

313 d. C.: Col famoso Editto di Mi­lano, l'imperatore Co­stantino concede ai cri­stiani la libertà di culto, ponendo così fine alle persecuzioni. Il cristiane­simo trionfa.

Dal 313 in poi: Il culto di santa Lucia si estende in tutto il mondo.