Mio zio Mario grande

Capitolo 13°

(sottofondo musicale : Love Story colonna sonora film - musica di Francis Lai)

Mario Salmeri

 

<<< Ogni volta che mi capita di vedere in televisione il popolare attore comico Roberto Benigni, non posso fare a meno di pensare a mio zio Mario. Malgrado la sua  cultura fosse diversa da quella di Benigni, credo che avrebbe potuto sfidarlo tranquillamente in una di quelle gare in cui ad  ogni  parola detta dall'avversario devi improvvisare e rispondere subito con un'altra parola che faccia rima e con una strofa di senso compiuto. Perde chi dei due per primo non trova la parola e la strofa giuste. Questo tipo di gare si disputano ancora oggi nelle domeniche invernali in un alcuni paesini toscani, sparsi nei dintorni di Prato. Come Benigni, nella sua vita,  mio zio aveva sentito quasi sempre il desiderio istintivo di piacere alle persone e di farle ridere. 

Mario era il terzo, in ordine di età, dei cinque figli di mio nonno Giuseppe e da mia nonna Ninetta.  Era nato il 18 Gennaio 1922 a Sfax, in Tunisia. Qualche tempo prima mio nonno si era deciso a  trasferirsi con tutta la sua famiglia da Marsala, in Sicilia, a Sfax, un piccolo e ridente paese della Tunisia, che  era ancora una protettorato francese. Mio nonno, a bordo del suo veliero,  aveva trasportato vino dalla Sicilia alla Tunisia, per svariati anni. Nel 1927 aveva ritenuto opportuno cambiare mestiere perchè pescare spugne sembrava in quel momento un mestiere più redditizio. Questo fatto era successo    quando  il piccolo Mario aveva ancora cinque anni. Proprio allora mio nonno aveva portato tutta la sua famiglia a Zuara, un paesino libico, quasi al confine con la Tunisia, a circa cento di chilometri da Tripoli. Da fonti ben informate si diceva che i fondali marini di Zuara  fossero molto più ricchi di spugne ed erano di una qualità più pregiata rispetto a quelli tunisini. In quel tempo nel paesino di Zuara esisteva soltanto una scuola elementare, dove mio zio aveva frequentato tutte le cinque classi, distinguendosi per la sua arguzia e le sua intelligenza. Per queste sue potenziali e buone doti intellettive sarebbe stato giusto che avesse proseguito i suoi studi,  ma le ristrette condizioni economiche della sua famiglia non glielo  avevano permesso. A Zuara non esisteva una scuola superiore ed  in mancanza d'altro, pur di fare qualcosa, mio zio aveva preferito ripetere la quinta elementare. Proprio in quell'anno nella sua classe era successo un episodio emblematico che avrebbe  continuato a contraddistinguere il suo carattere ribelle e non conformista durante tutto l'arco della sua vita. Un suo compagno di classe, inferiore a lui come profitto ma raccomandato,  era stato premiato dal suo maestro con una medaglia di merito.  Mio zio credeva  giustamente di essere il migliore e quindi di aver subito un grosso torto.  per l'affronto subito, aveva reagito d'impulso ed aveva  scagliato il suo calamaio pieno d'inchiostro contro la lavagna. Dopo questo episodio, per punizione,  era stato espulso definitivamente da quella scuola.   Il signor Ignazio Sammartano, oltre ad essere il podestà di Zuara, era un esperto imprenditore edile ed un caro amico di mio nonno Giuseppe. D'accordo con mio nonno aveva assunto Mario  nella sua impresa edile. Insieme andavano spesso a lavorare  a Pisita, una località, distante circa quaranta chilometri da Zuara, proprio sul confine tra Libia e Tunisia, di fronte all'isoletta di Feruat. Il piccolo Mario aveva solo undici anni ed anche per questo motivo   veniva  utilizzato solo per fare i lavori più umili, quali  sbucciare le patate o a fare le pulizie del cantiere. Erano lavori che lui non gradiva poichè avrebbe preferito imparare subito il lavoro di muratore e mettersi in competizione  con gli altri operai più grandi di lui. Infatti quel lavoro non era durato molto, perchè Mario s'era subito stancato di sbucciare patate e si sentiva sprecato a continuare a fare quel tipo di attività. Qualche tempo dopo si era presentato da suo padre ed gli aveva detto di voler cambiare mestiere. Il padre, vedendolo così depresso ed insoddisfatto del suo lavoro con Sammartano, gli aveva chiesto se la sentiva di salire a bordo del suo veliero e dargli una mano nel suo mestiere di pescatore di spugne. Mario era così entusiasta di accettare questa nuova offerta che non se l'era fatto ripetere due volte. A 14 anni era già diventato un ottimo motorista ed un bravo sommozzatore. A diciannove anni era stato richiamato alle armi e, dopo un testo attitudinale, era stato inserito nel reparto delle telecomunicazioni dell'esercito in qualità di marconista. nel frattempo per il suo coraggio e per la sua intraprendenza era stato mandato in missioni particolarmente delicate e pericolose oltre le linee nemiche. Per sua sfortuna, dopo qualche tempo,  era stato preso prigioniero dai francesi e portato ad Orano, in Algeria, in un campo di prigionia francese. Da lì era riuscito a mettere in difficoltà il sistema di sicurezza del campo di prigionia per ben due volte.  Tutte e due le volte era stato ripreso e pestato a sangue. Al termine della la guerra, con l'arrivo della pace, era rientrato a Marsala.  Non trovando altro lavoro più consono alle sue caratteristiche, aveva iniziato a lavorare come muratore, nell'impresa edile di suo zio Ignazio Anselmi, fratello di sua madre Ninetta. In quel periodo, Giovanni, suo fratello, si stava sempre più affermando nel mondo del pugilato, tanto che era diventato lo sfidante ufficiale per il titolo di campione regionale dei pesi mosca. In palio oltre al titolo ci sarebbe stata una bella somma di denaro, una "borsa" come si dice in gergo, che sarebbe toccata al vincitore. A quel punto Mario si era reso conto dell'importanza dell'evento ed aveva lasciato la sua attività di muratore e si era messo a fare  il procuratore ufficiale di Giovanni, suo fratello minore.  Mario, oltre ad essere procuratore, faceva parte del gruppo degli addetti al botteghino, dove venivano incassati i soldi  dei biglietti d'ingresso venduti al pubblico. Durante questo incontro,  mio zio Giovanni,  era stato colpito al viso da una testata irregolare del suo avversario, tanto da subire una profonda ferita all'arcata sopraccigliare, con tanta perdita di sangue. L'arbitro aveva fatto finta di non vedere la scorrettezza e, di conseguenza, mio zio aveva perso l'incontro per k.o. tecnico. Dopo che giudici dell'incontro avevano annunciato con l'altoparlante la sconfitta di Salmeri, il pubblico si era reso conto  dell'ingiustizia subita da mio zio ed aveva cominciato a rumoreggiare e a fischiare quello scandaloso verdetto.  Gli animi si erano così scaldati che c'erano stati dapprima alcuni timidi lanci di uova e agrumi  contro la postazione della giuria, poi era nata spontaneamente una rissa generale tra i sostenitori marsalesi e quelli palermitani. In quel frangente pare che mio zio Mario non fosse rimasto con le mani in mano. Visto che era uno dei responsabili della parte finanziaria dell'incontro si era fatto giustizia da sè. Tanto per cominciare si era preso subito tutto l'incasso dei biglietti d'ingresso del pubblico presente sugli spalti. Questo denaro rappresentava la borsa in palio che generalmente spetta al vincitore. Poi si era distinto per la sua capacità di malmenare in maniera scientifica sia l'arbitro che alcuni membri della giuria.  Non so se ci fosse stato l'intervento degli agenti di polizia locale per sedare la rissa, pare comunque che anche i vigili di Marsala avevano ritenuto quel verdetto scandaloso.  Dopo questo incontro Giovanni aveva abbandonato il pugilato e Mario era rimasto senza lavoro.

Il 10 ottobre del 1947,  sempre a Marsala,  moriva improvvisamente sua madre Ninetta, ancora giovane d'età, colpita da un attacco di appendicite acuta. Mario era rimasto così profondamente prostrato ed addolorato per la perdita prematura della sua cara mamma che, per un pò di tempo, era caduto in depressione.  Stanco di non trovare lavoro adatto alle sue vere capacità,  aveva deciso di lasciare Marsala e  tornare in Libia dai suoi parenti più prossimi. Annoiato di dover aspettare i lunghi tempi burocratici necessari ad avere rilasciato il visto d'ingresso sul passaporto dalle autorità libiche,  ed insieme al cugino minore Mario aveva deciso di entrare in Libia di nascosto,  da clandestino. Eludendo la vigilanza libica entrambi erano approdati sulle coste vicino a Zanzur. Poi, sempre di nascosto, si erano spostati a Tripoli e si erano nascosti a casa dei miei genitori in Sciara Camperio nella zona del Lido.

Qualcuno, forse per dispetto,  ritenendoli delle spie, aveva denunciato la loro presenza di clandestini alle autorità locali. Per riuscire a stanarli la polizia locale aveva fatto dei rastrellamenti a tappeto in varie case del Lido. Entrambi i cugini non solo portavano lo stesso cognome ma anche lo stesso nome.  Mario era il nome  del loro nonno , Mario Salmeri, e come si usava allora ad entrambi era stato imposto lo stesso nome. Noi tutti, per nominarli, li chiamavamo Mario grande, il fratello di mia madre,  e Mario piccolo, il cugino.  Per maggior comodità e per distinguerli l'uno dall'altro, da ora in poi, li chiamerò Mario grande (nato nel 1922) e Mario piccolo (nato nel 1923).  Per un pò di tempo entrambi erano riusciti a beffare i controlli locali, giocando sull'equivoco e sul caso di omonimia. Un mattina appena spuntata l'alba, la polizia locale aveva fatto irruzione nella nostra casa di Sciara Camperio ed avevano arrestato Mario piccolo. Lo avevano tradotto nelle carceri di Castel Benito e , come si usava in quei tempi, i carcerieri avevano cominciato a picchiarlo. Il povero  Mario piccolo, per coprire il cugino più grande,  giocando sull'equivoco, continuava stoicamente a  a dire che di Mario Salmeri ce ne era uno solo e non due.    Mia madre andava spesso a trovarlo in carcere per portargli del cibo e fargli coraggio.  Per fortuna,  per un atto di clemenza generale  voluto dal Re Idris,  era stato scarcerato e rimandato a casa.

Risolto questo problema, tutti e due, Mario grande e Mario piccolo, avevano lasciato Tripoli ed erano tornati a Zuara.  Mario grande aveva lavorato anche per un breve periodo di tempo presso la tonnara di Misurata del principe Paternò, occupandosi della manutenzioni dei motori delle barche. Dopo questo breve intervallo i due cugini, Mario grande e Mario piccolo avevano deciso insieme di imbarcarsi sui bastimenti dei loro genitori,  Il Maria ed I Due Fratelli, per aiutarli nella pesca delle spugne. A Zuara, viveva una grande comunità di italiani,  tra questi c'erano anche le famiglie dei due fratelli Rovecchio. Antonio Rovecchio aveva sposato Giannina Renda ed insieme avevano avuto tre figli, Cristina, Maria e Renato.  Peppe Rovecchio aveva sposato Angelina Cannizzo (che attualmente  è ancora viva ed ha più di cento anni), e avevano avuto  tre figli, tutti maschi, Roberto, Vincenzo e Marcello. I velieri dei fratelli Salmeri, Giuseppe e Vincenzo,  erano usualmente  ormeggiati nel porto di Zuara insieme ad altri velieri quali  l'Eleonora e il San Francesco di Rocco Rovecchio (padre di Antonio, Peppe e Turi) e l’Amerigo Vespucci di Peppe Rovecchio. Rocco e Peppe erano  rispettivamente nonno e padre di Vincenzo Rovecchio , poi diventato giornalista del Corriere di Tripoli. Insieme a questi c'era un altro veliero il Cristoforo Colombo di Antonio  Rovecchio,  il padre di Cristina  e di Renato. Con i loro velieri solcavano le acque lungo la costa libica per pescare le  spugne, utilizzando dei palombari professionisti. Come succede spesso nelle piccole comunità le famiglie dei Salmeri e dei Rovecchio, anche perchè condividevano lo stesso tipo di rischio e  di lavoro, era diventate amiche. Mio nonno Giuseppe aveva anche battezzato il piccolo Renato Rovecchio, il futuro ciclista, che da adulto diventerà campione della Tripolitania. Cristina, la figlia più grande di Antonio,  in quel periodo era fidanzata con un certo Paolo Fiorenza. Il padre Antonio aveva voluto a tutti i costi che Cristina si fidanzasse con Paolo, perchè lo reputava un bravo ragazzo, che aveva una sua officina di meccanico,  che in fin dei conti, per i magri tempi che correvano,  era considerato un buon mestiere. Cristina, forse per un fatto di pelle, non provava piacere a stare insieme a Paolo, per quanto questi  fosse un bravo  ragazzo. Cristina è tuttora fatta a modo suo,  per sua natura  non è mai stata un'ipocrita. Non si nasconde dietro ad un dito e , senza tanti sotterfugi, quello  che ha da dire, te lo dice in faccia. Un giorno, trovandosi da sola con Paolo, gli aveva detto chiaramente: " Paolo, amico bello, mi dispiace dirtelo, ma amare e non essere amati, che tempo è? E' tempo perso. Mi capisci?". Paolo aveva subito capito che Cristina non lo voleva più come fidanzato e, da vero gentleman, senza reagire, ne era andato via da lei sconsolato. Lo stesso giorno Paolo, che era anche amico di Mario grande,  lo aveva incontrato casualmente per strada.  Vedendolo camminare mogio mogio, Mario grande gliene aveva chiesto il motivo. Paolo, che era suo amico, gli aveva confessato che era così giù di morale perchè la sua fidanzata, Cristina Rovecchio, quel giorno l'aveva lasciato per sempre. Mario grande, pur non mostrandolo chiaramente, in cuor suo era contento per quella notizia. Da un pò di tempo anche lui covava  una certa simpatia per Cristina, ma la  teneva gelosamente nascosta,  visto che Cristina era già  impegnata con Paolo, che era anche suo amico. Con un paese così piccolo si era subito sparsa la notizia della rottura del fidanzamento tra Paolo e  Cristina. Giacomo Cannucci, figlio di un rais tonnaroto e Mario piccolo,  il cugino di Mario grande, si erano messi in fila per presentarsi e chiedere la mano della bella Cristina.  Come si usava fare a quei tempi, entrambi le avevano portato un mazzo di fiori  e le avevano fatto un ufficiale dichiarazione d'amore.  Cristina, dal canto suo, li aveva ringraziati per la loro cortesia  ma aveva detto loro, chiaro e tondo, che voleva concedersi una pausa di riflessione e che al momento voleva stare sola. Un giorno era andata a Tripoli per ordinare un paio di scarpe da Mazzarino, che era uno dei più rinomati negozi di scarpe di Tripoli, e se li fatte mandare per corriera da sua zia Angelina Rovecchio, che abitava a Tripoli. Quando dopo qualche giorno le scarpe, confezionate in una bella scatola, erano arrivate, Cristina si era accorta  che i tacchi erano troppo bassi per i suoi gusti.  Era diventato nervosa per il disguido e  perchè li avrebbe voluto cambiare subito  ma non sapeva come fare.  Era stato un caso che a risolverle questo problema era intervenuto mio zio Mario grande. Proprio quando era arrivata la scatola di scarpe incriminata, Mario grande si trovava a casa dei Rovecchio per parlare d'affari con Antonio, il padre di Cristina. Mario aveva sentito Cristina lamentarsi per quel problema. " "Non ti preoccupare non c'è nessun problema, stai tranquilla." le aveva detto sicuro di sè, "Domani devo andare a Tripoli per ritirare un pezzo di ricambio, con l'occasione porto le tue scarpe da Mazzarino e me le faccio sostituire con un altro paio col tacco più alto".  In realtà  questa era una mezza verità. Mario grande non andava a Tripoli  per ritirare solo un pezzo di ricambio ma anche per un altro motivo. Da un pò di tempo faceva il filo  a due giovani e belle maestre, Wilma e Marcella, quest'ultima figlia di Mazzarino. Ora gli si presentava un'occasione unica, perchè, con un solo viaggio avrebbe potuto risolvere tre problemi. Il pezzo di ricambio, le scarpe di Cristina e le due maestre.  Al ritorno da Tripoli, Mario grande aveva portato a Cristina il nuovo paio di scarpe col tacco  alto. Lei, con un bel sorriso affascinante, gli  mostrava di aver molto apprezzato il suo gesto. Quel sorriso di Cristina era stato forse male interpretato da Mario grande. Va subito detto che Mario grande, in fatto di donne, (in paese si bisbigliava che fosse uno  "sciupafemmine") era un  tipo che andava per le spicce.  Abilmente  aveva convinto Cristina a restare sola con lui e, senza tanti preamboli, l'aveva attirata a sè e  l'aveva baciata sulla bocca. Cristina, forse perchè presa di sorpresa,  si era subito infuriata e gli aveva scagliato dietro la sua scatola con dentro tutte le scarpe. Mario grande, che stava cominciando a conoscere il carattere esplosivo di Cristina,  aveva capito di aver precorso i tempi e se ne era andato via alla chetichella.  Dopo questo episodio, Cristina era rimasta così dispiaciuta con sè stessa per quella sua spropositata reazione,  che si era  ammalata. Rimasta a letto con la febbre per una settimana, Mario grande, col pretesto di dover parlare con il padre, era ritornato a trovarla.  Sperando di farsi perdonare, questa volta, con molto tatto e  gentilezza, le aveva portato  sciroppi per la tosse e cioccolatini. Da allora aveva capito da quale lato prendere Cristina e  aveva cominciato a farle una corte soft, che  Cristina aveva accettato di buon grado. Poco dopo si erano fidanzati ufficialmente. In quel periodo Mario grande si era distinto per le sue qualità di valente sommozzatore, tanto che aveva contribuito in prima persona  al recupero di una grossa nave l'Alato, su commissione del gerarca fascista onorevole Caradonna, padre di quel Giulio Caradonna, deputato del MSI ed amico intimo di Giorgio Almirante. Nel frattempo Mario grande aveva smesso di lavorare con suo padre e si era messo in società con Antonio Rovecchio, il padre  di Cristina, facendo  il motorista sul veliero Le Tre Marie.  La società era durata poco per divergenza di vedute, poichè entrambi erano dotati di un carattere forte. Malgrado questa rottura d'affari, il fidanzamento di Mario grande e Cristina era comunque continuato. Il 31 Luglio del 1954,  Mario e Cristina celebravano le loro nozze nella piccola Chiesa di Zuara. Quasi un anno dopo,  il 9 luglio del 1955, nasceva la loro primogenita Ninetta. Con l'allargamento della famiglia, Mario aveva creduto bene di terminare la sua esperienza marinara,  per cambiare completamente lavoro. Così si era trasferito con la sua nova famiglia a Tripoli, andando a vivere in un appartamento in Sciara Ettugrai, proprio dietro l'ospedale di Sciara Ippolito Nievo. Lì, in società con due simpatici giovani, specializzati in muratura, che si chiamavano Campo e Montenegro, aveva costituito un impresa edile di costruzioni. Erano stati subito fortunati a vincere degli appalti per la costruzione di bungalow in pieno deserto, per conto di alcune compagnie petrolifere. Mario si era specializzato nel fare il piastrellista, tanto che lo avevano battezzato il Re della mattonella,  perchè in ogni cosa che faceva diventava il migliore. Spesso sulla strade sterrate  che portavano al deserto trovavano delle pietre minerali, tra cui alcune meravigliose rose del deserto, di cui me ne aveva regalata personalmente una. Una volte durante la notte, in uno dei suoi viaggi di ritorno a casa, aveva accidentalmente investito con la la sua macchina una gazzella (uaddan). Ricordo che mia  zia Cristina l'aveva cucinata al forno e che io, insieme ai miei genitori, ero stato invitato a quel pranzo. A distanza di tempo, mia zia Cristina  mi aveva confessato  che lo zio Mario aveva promesso a se stesso, dopo aver raccolto quella gazzella ormai morente, con gli occhi piangenti, che nella sua vita non avrebbe più mangiato carne di gazzella.

Aveva contribuito, con i suoi soci, alla realizzazione della Residenza del principe ereditario libico, Ridàh Senussi, lavorando alla messa in posa del mosaico della sua grande cupola. Questa residenza si trova ancora lungo la strada che dal Castello porta verso la Mellaha, sulla parte sinistra, che guarda il mare, oltre il Mehari e vicino alla Busetta.

Il 27 luglio1956, il giorno successivo alla crisi del Canale di Suez,  a Tripoli era stato imposto il coprifuoco dalle autorità libiche. Incidentalmente proprio quel giorno Mario grande  era tornato precipitosamente dal deserto  con un gran febbrone, di origini incerte. Vista la situazione contingente, non era stato facile reperire urgentemente un medico. Fortunatamente era intervenuto il dottor De Castro che gli aveva subito  diagnosticato una pleurite acuta. Mentre lui delirava per  il gran febbrone, la stessa sera del 27 Luglio del 1956,  molti parenti, preoccupati  per il suo stato di salute, erano accorsi al suo capezzale,  malgrado ci fosse ancora il coprifuoco. Eccetto la moglie Cristina, che era incinta della secondogenita Giovanna, tutti erano a conoscenza della diagnosi del dottor De Castro: se avesse superato la notte, le sue possibilità di guarigione sarebbero aumentate.  Per fortuna verso le undici  aveva cominciato a sudare in maniera così copiosa da inzuppare lenzuola e materasso. Dopo quella sudata  liberatoria, la temperatura era finalmente scesa a valori normali. Il suo miglioramento, con sollievo di tutti, era diventato sempre più evidente. Durante la sua convalescenza, durata più di venti giorni, Mario era tanto dimagrito. Stranamente era diventato anche molto nervoso. Proprio durante la sua convalescenza , guardandosi allo specchio e vedendo il suo viso così dimagrito, aveva preso uno di quei mattoni caldi, che generalmente gli mettevano sul petto, come espettoranti, e l'avevo scagliato contro lo specchio, mandandolo in frantumi.

Sembrava inoltre essere posseduto da una continua gelosia per la moglie Cristina. Questa, dal canto suo, lo rassicurava in continuazione dicendogli di non preoccuparsi e di stare tranquillo. Evidentemente queste riassicurazioni non gli bastavano. Una sera, dopo essere stati al cinema Rivoli con sua moglie Cristina, con la piccola Ninetta e con  suo cugino Mario piccolo era esploso in una delle sue ormai frequenti scenate di gelosia. Rientrato in casa con la moglie e la bambina,  le aveva urlato contro, dicendo che avrebbe visto Mario piccolo  toccarle  il braccio. Cristina aveva cercato di spiegargli che in realtà Mario piccolo non aveva fatto niente se non dare una carezza alla piccola Ninetta. La cosa era finita lì e, superata la crisi della pleurite, le scenate di gelosia erano per fortuna terminate.  Cristina, nel frattempo aveva dato alla luce la loro secondogenita Giovanna, nata il 13 maggio del 1957,  mentre il 13 Marzo del 1961  partoriva l'unico erede maschio della sua famiglia  e ovviamente, per rispetto alla tradizione,  era stato chiamato Giuseppe.

Il suo lavoro nel deserto lo impegnava a stare a lungo lontano dalla sua famiglia. Questi periodi lavorativi duravano per lo meno un mese intero e a volte anche due. Lui ed i suoi due soci lavoravano a progetto, se vincevano un appalto,  ci lavoravano giorno e notte fino a che  non lo portavano a termine. Quando, dopo un interminabile viaggio, mio zio tornava a casa dal deserto per stare una settimana  insieme alla sua famiglia, era veramente stanco. Giunto a casa, abbracciava calorosamente tutti i suoi,  poi correva a sdraiarsi sul comodo letto matrimoniale della sua camera da letto. Restava lì, nella penombra di quella canera,  per un pò, quasi volesse inebriarsi  del ritrovato  dolce sapore della sua famiglia,  che per più di un mese gli era mancato. I suoi compagni di lavoro riferivano che il locale nel deserto, dove lui alloggiava, era tutto tappezzato di  foto di  sua moglie Cristina e dei tre figli, Ninetta, Giovanna e Giuseppe. Quando era  nel deserto non si rasava quasi mai, così quando tornava a casa era quasi irriconoscibile per la sua barba lunga, tanto che mia zia Cristina diceva che  con quella barba assomigliava a Robinson Crusoe.

Nel giugno del 1967 circa seimila ebrei italiani erano fuggiti da Tripoli, in conseguenza dello scoppio della guerra dei sei giorni. La polizia ed alcune frange estremiste della popolazione locale si erano accanite contro l'inerme comunità ebraica residente a Tripoli, provocando diciassette morti. Da allora era stato subito indetto il coprifuoco dalle autorità locali. Alcune famiglie italiane ed anche libiche, incuranti del rischio che correvano, continuavano a nascondere nelle loro case alcuni ebrei fuggiaschi. Una sera mio zio Mario aveva ricevuto una telefonata accorata da parte di Roberto Rovecchio, un cugino di sua moglie Cristina. Roberto, quasi in lacrime,  aveva raccontato a mio zio quella che era successo ad una famiglia di ebrei che abitavano nel suo stesso palazzo. Una banda inferocita di giovani libici aveva forzato il portone ed erano entrati nella casa di questa famiglia di ebrei. Li avevano minacciati con le armi, poi  li avevano caricati su un camioncino e se li erano portati via tra le urla di disperazione ed i pianti di quei disgraziati. Roberto Rovecchio, sposato con Cloda e con due figli a carico, Giosi e Gianluca, aveva paura che, per errore, potesse succedere qualcosa di simile anche a loro. Mio zio Mario e il padre di Cristina, Antonio Rovecchio, malgrado il coprifuoco, era andati in macchina con la ferma intenzione di prelevare Roberto e famiglia e portarli temporaneamente nella casa di Mario. Durante il percorso sfortunatamente i due erano stati fermati da una pattuglia della polizia, appostata con una camionetta in un angolo buio del centro città. Il capo dei poliziotti, parlando in arabo aveva subito chiesto loro patente e libretto. Per fortuna mio zio capiva e parlava bene l'arabo, così il  rapporto con il poliziotto si era subito incanalato  su binari di cordialità. Prima che potesse consegnare i documenti, era giunta sul posto una banda di giovani spavaldi, che si erano fermati proprio davanti a loro e, tra urli ed insulti, avevano cominciato ad incitare i poliziotti a malmenare a sangue i due "rumi", italiani, altrimenti ci avrebbero pensato loro.  Il capo della polizia, che doveva essere una persona abbastanza corretta ed equilibrata,  non era assolutamente d'accordo con le loro richieste. Era scoppiata subito una rissa tra i poliziotti e la banda dei giovani, che tra l'altro erano superiori come numero a quello dei poliziotti. A peggiorare la situazione i giovani avevano con sè manganelli,  coltelli e probabilmente  delle pistole. Mio zio Mario ed Antonio si sentivano come due vasi d'argilla in mezzo a tanti vasi di ferro. Silenziosamente, mentre gli altri continuavano ad insultarsi e a litigare fra loro, avevano cominciato a camminare lentamente  all'indietro e, sempre a ritroso, senza far rumore  erano risaliti in macchina. Mentre la rissa tra poliziotti ed i giovani continuava, entrambi erano riusciti ad arrivare fino alla casa di Roberto ed avevano trasportato lui, Cloda e ed i bambini al sicuro fino a casa di mio zio. Qualche giorno dopo  questo episodio, probabilmente per lo spavento preso,  mio zio Mario era stato colto da un violento scompenso cardiaco, che lo aveva completamente debilitato.

Il 19 Agosto 1970, quasi un anno dopo il colpo di stato,  Mario con la sua famiglia lasciava definitivamente Tripoli  per andare a Roma. Sapevano che chiunque partiva doveva portare dietro con sè solo poche valigie e pochi soldi. Così  era stato deciso per ordine dal comando della giunta militare del colonnello Gheddafi. Nelle dogane, sia all'aeroporto che al porto, prima dell'imbarco,  tutti gli italiani dovevano essere perquisiti, da cima a fondo.  Mio zio aveva deciso di viaggiare per mare, anche perchè era più facile trasportare più roba.  Il programma era di imbarcarsi dal molo di Tripoli sulla nave della società Tirrenia, "La Città di Tunisi" . Di lì sarebbero sbarcati a Napoli e poi avrebbero proseguito in treno per Roma.  A Tripoli, Il giorno prima della loro partenza, era scoppiata un'epidemia di colera.  Loro, come tutte le persone in partenza  erano stati obbligati ad andare in piena notte al pronto soccorso, per farsi vaccinare ed avere un certificato valido che lo attestasse. Senza mostrare quel certificato il comandante della nave non li avrebbe accettati a bordo. Qualche giorno mia zia Cristina aveva cucito nel fondo di alcune loro borse, un sottofondo, dove vi avevano nascosto gioielli, soldi e tutto ciò che di piccolo e di prezioso si potesse portare. Si era sparsa in giro la voce che alcuni italiani, dopo una minuziosa perquisizione,  in cui erano saltati fuori soldi o gioielli erano stati bloccati alla dogana e mandati in carcere.  Era successo che mentre il resto della famiglia partiva con la disperazione di non poter vedere più il loro caro, questo veniva tradotto in carcere, interrogato e qualche volta anche bastonato. I più dopo qualche giorno venivano rilasciati grazie all'intervento dell'Ambasciata Italiana a Tripoli. Mio zio Mario e mia zia Cristina, con la loro figlia maggiore Ninetta, Giovanna e il piccolo Giuseppe, sapevano di rischiare per quelle loro borse col sottofondo e pertanto avevano il cuore in tumulto. Mia zia Cristina aveva visto che uno degli addetti alla dogana era un libico di Zuara, che lei conosceva, sin da quando era giovane. Si era avvicinata a lui e l'aveva salutato. In quel momento aveva capito che quello per loro sarebbe stato un giorno fortunato. L'amico zuarino l'aveva riconosciuta e prontamente senza controllare niente aveva apposto la sua autorizzazione all'imbarco. Grande era stato il loro sollievo quando ero tutti saliti a bordo sulla Città di Tunisi e questa, dopo una veloce manovra, si era allontanata dalle acque del porto. Molti italiani, sentendosi ormai al sicuro, scaricavano la loro rabbia, accumulata in tutti quei giorni di tensione, prima della partenza, lanciando improperi contro Gheddafi e la sua giunta militare.  Tutto era filato liscio, fina a quando la nave era arrivata nel porto di Napoli. La nave era stata ormeggiata  nel porto ma non era stato dato ai passeggeri l'ordine di scendere. Il motivo era che le autorità locali, avendo saputo dell'epidemia di colera scoppiata a Tripoli, non concedeva ai passeggeri della nave, proveniente da Tripoli, di scendere.  Dopo mezza giornata di tira e molla. alla fine l'autorizzazione era arrivata  e tutto  si era accomodato.

Dopo aver proseguito in treno, tutti e cinque avevano trovato alloggio nel campo profughi di Alatri, chiamato Le Fraschette, dove un tempo erano stati rinchiusi alcuni prigionieri politici. Mario era rimasto per qualche tempo senza lavoro, poi nel 1972 la situazione si era sbloccata e finalmente aveva trovato posto, come magazziniere, presso l'Azienda telefonica di Stato. Purtroppo inaspettatamente, alla giovane età di 53 anni, a causa di un  infarto, si spegneva il 2 Ottobre del 1975, mentre riposava sul suo letto.

Ricordo lo zio Mario, come una persona sveglia, dall'allegria contagiosa e dalla personalità aperta, a volte un pò istrionesca. Sapeva far ridere la gente, sapeva stare in gruppo e proprio in gruppo dava il meglio di sè, con i suoi aneddoti, le sue barzellette, la sua mimica facciale e vocale. Il suo tempo libero lo trascorreva leggendo molto. Sfornava un proverbio dietro l'altro, specialmente quelli siciliani che erano molto arguti, come ad esempio questi che ricordo: 

Fimmini, fulmini, ricittaculu di li puci e nimici di la paci.

Femmine e fulmini, ricettacolo delle pulci e nemici della pace.

Cuomu s'arriddhuciu lu addhu ri Sciacca!, a essiri pizzuliatu ri la ciocca!
Come si è ridotto il gallo di Sciacca!, ad essere beccato dalla chioccia!

Ficu fatta, càrimi 'mmucca!

Fico maturo, cadimi in bocca! (Si dice di chi vorrebbe evitare le fatiche minime).

Era bravo anche con gli scioglilingua. Il suo preferito era:

Apelle, figlio d'Apollo, fece una palla di pelle di pollo, tutti i pesci vennero a galla, per vedere la palla di pelle di pollo, fatta d'Apelle, figlio d'Apollo.

Sapeva come raccontare le barzellette, conosceva d'istinto  i tempi tecnici. Forse, se avesse avuto possibilità di studiare,  sarebbe diventato un bravo attore. Intercalando l'italiano ad alcune espressioni in siciliano mi narrava spesso alcuni racconti di Giufà, che era un curioso personaggio popolare. Giufà era una delle figure tipiche del finto sciocco, che riesce a proporsi per la sua arguzia e la sua  comicità. Mario conosceva a memoria decine e decine  di queste piccole storie di Giufà.  Io ne ricordo bene una che voglio riferire. Giufà  era stato denunciato per avere rubato delle mele da un albero e, per non finire in carcere, aveva subito assunto un avvocato. Questo avvocato era giovane ed un pò inesperto e, spavaldamente, aveva detto a Giufà di non preoccuparsi,  perchè avrebbero vinto tranquillamente la causa con due sole parole magiche, che l'avvocato conosceva. Durante il suo discorso di difesa l'avvocato, sembrava come un disco che era incantato, perchè continuava a ripetere solo due parole: "Ingachi ? (chi?)  Ingacomo? (come?)". Il giudice, che non era dotato di molta pazienza, era arrivato alla conclusione che  quel giovane avvocato dovesse essere un cretino e di conseguenza anche l'accusato che lo aveva scelto  non potesse essere da meno. Senza indugi, aveva pensato che, nell'incertezza,  è sempre meglio condannare che assolvere. Grazie all'inesperienza del suo giovane avvocato e alla filosofia spicciola del giudice, Giufà era stato condannato, senza alcuno sconto, ad una settimana di carcere. Quando Giufà era uscito dal carcere era piuttosto incazzato. Il giorno dopo il giovane avvocato era passato da casa di Giufà per ritirare la sua parcella. Giufà, ancora furioso per aver perso una settimana in carcere, con un sorriso ironico gli aveva   ripetuto quelle due curiose parole: "Ingachi ? (chi?) , Ingacomo? (come?)". L'avvocato intuendo  lo stato d'animo di Giufà e  guardando il suo viso feroce,  aveva capito che non solo non sarebbe mai stato pagato ma che se non se fosse andato subito via avrebbe rischiato anche di essere picchiato.

Ciao zio, ovunque tu sia!

Scommetto che continui ancora a far ridere i tuoi amici, raccontando le tue simpatiche barzellette. >>>