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Ogni volta che mi capita di vedere in televisione il popolare attore
comico Roberto Benigni, non posso fare a meno di pensare a mio zio
Mario.
Malgrado la sua cultura fosse diversa da quella di Benigni, credo che avrebbe potuto sfidarlo
tranquillamente in una di quelle gare in cui ad ogni
parola detta dall'avversario devi improvvisare e rispondere subito
con un'altra parola che faccia rima e con una strofa di senso
compiuto. Perde chi dei due per primo non trova la parola e la
strofa giuste. Questo tipo di gare si disputano ancora oggi nelle
domeniche invernali in un alcuni paesini toscani, sparsi nei
dintorni di Prato. Come Benigni, nella sua vita, mio zio aveva
sentito quasi sempre il desiderio istintivo di piacere alle persone
e di farle ridere.
Mario era il terzo, in ordine di età,
dei cinque figli di mio nonno Giuseppe e da mia nonna
Ninetta. Era nato il 18 Gennaio 1922 a Sfax, in Tunisia. Qualche
tempo prima mio nonno si era deciso a trasferirsi con
tutta la sua famiglia da Marsala, in Sicilia, a
Sfax, un piccolo e
ridente paese della Tunisia, che era ancora una protettorato francese. Mio nonno,
a bordo del suo veliero, aveva trasportato vino dalla
Sicilia alla Tunisia, per svariati anni. Nel 1927 aveva
ritenuto opportuno cambiare mestiere perchè pescare spugne sembrava
in quel momento un mestiere più redditizio. Questo fatto era
successo
quando il piccolo Mario aveva ancora cinque
anni. Proprio allora mio nonno aveva portato tutta la sua famiglia a
Zuara, un
paesino libico, quasi al confine con la Tunisia, a circa cento di
chilometri da Tripoli. Da fonti ben informate si diceva che i
fondali marini di Zuara fossero molto più ricchi di spugne ed
erano di una qualità più pregiata rispetto a quelli tunisini. In
quel tempo nel paesino di Zuara esisteva soltanto una
scuola elementare, dove mio zio aveva frequentato tutte le cinque
classi, distinguendosi per la sua arguzia e le sua intelligenza. Per
queste sue potenziali e buone
doti intellettive sarebbe stato giusto che avesse proseguito i suoi
studi, ma le ristrette condizioni economiche della sua
famiglia non glielo avevano permesso. A Zuara non esisteva una
scuola superiore ed
in mancanza d'altro, pur di fare qualcosa, mio zio aveva preferito
ripetere la quinta elementare.
Proprio
in quell'anno
nella sua classe era successo un episodio emblematico che avrebbe
continuato a contraddistinguere il suo carattere ribelle e non conformista
durante tutto l'arco della sua vita. Un suo compagno di classe,
inferiore a lui come profitto ma raccomandato, era stato
premiato dal suo maestro con una medaglia di merito. Mio zio
credeva giustamente di essere il migliore e quindi di aver subito un
grosso torto. per l'affronto subito, aveva reagito
d'impulso ed aveva scagliato il suo calamaio pieno d'inchiostro contro la lavagna. Dopo
questo
episodio, per punizione, era stato espulso definitivamente da
quella scuola. Il signor Ignazio
Sammartano, oltre ad essere il podestà di Zuara, era un esperto imprenditore
edile
ed un caro amico di mio nonno Giuseppe. D'accordo con mio nonno aveva
assunto Mario nella sua impresa edile. Insieme andavano
spesso a lavorare a Pisita, una località, distante circa
quaranta chilometri
da Zuara, proprio sul confine tra Libia e Tunisia, di fronte
all'isoletta di Feruat. Il piccolo Mario
aveva solo undici anni ed anche per questo motivo
veniva utilizzato solo per fare i lavori più umili, quali
sbucciare le patate o a fare le pulizie del cantiere. Erano lavori
che lui
non gradiva poichè avrebbe preferito imparare subito il lavoro di
muratore e mettersi in competizione con gli altri operai più
grandi di lui. Infatti
quel
lavoro non era durato molto, perchè Mario s'era
subito stancato di sbucciare patate e si sentiva sprecato a
continuare a fare quel tipo di attività. Qualche tempo dopo
si era presentato da suo padre ed gli aveva detto di voler cambiare
mestiere.
Il padre, vedendolo così depresso ed insoddisfatto del suo lavoro
con Sammartano, gli aveva chiesto se la sentiva di salire a bordo
del suo veliero e dargli una mano nel suo mestiere di pescatore
di spugne. Mario era così entusiasta di accettare questa nuova
offerta che non se l'era fatto ripetere due volte. A 14 anni era già diventato un
ottimo motorista ed un bravo sommozzatore. A diciannove anni era
stato richiamato alle armi e, dopo un testo attitudinale, era stato
inserito nel reparto delle telecomunicazioni dell'esercito in
qualità di marconista. nel frattempo per il suo coraggio e per la
sua intraprendenza era stato mandato in missioni particolarmente
delicate e pericolose oltre le linee nemiche. Per sua sfortuna, dopo qualche tempo, era stato
preso prigioniero dai francesi e portato ad
Orano, in Algeria, in
un campo di prigionia francese. Da lì era riuscito a mettere in
difficoltà il sistema di sicurezza del campo di prigionia per ben
due volte. Tutte e due le volte era stato ripreso e pestato a sangue.
Al termine della la guerra, con l'arrivo della pace, era rientrato a Marsala.
Non trovando altro lavoro più consono alle sue caratteristiche,
aveva iniziato a lavorare come muratore, nell'impresa edile di suo
zio Ignazio Anselmi, fratello di sua madre Ninetta. In quel periodo,
Giovanni, suo fratello, si stava sempre più affermando nel mondo del
pugilato, tanto che era diventato lo sfidante ufficiale per il
titolo di campione regionale dei pesi mosca. In palio oltre al
titolo ci sarebbe stata una bella somma di denaro, una "borsa" come
si dice in gergo, che sarebbe toccata al vincitore. A quel punto
Mario si era reso conto dell'importanza dell'evento ed aveva
lasciato la sua attività di muratore e si era messo a
fare il procuratore ufficiale di Giovanni, suo fratello
minore. Mario, oltre ad essere procuratore, faceva parte del
gruppo degli addetti al botteghino, dove venivano incassati i soldi
dei biglietti d'ingresso venduti al pubblico. Durante questo incontro, mio
zio Giovanni,
era stato colpito al viso da una testata irregolare del suo
avversario, tanto da subire una profonda ferita all'arcata
sopraccigliare, con tanta perdita di sangue. L'arbitro aveva fatto finta di non vedere la scorrettezza e,
di conseguenza, mio zio aveva perso
l'incontro per k.o. tecnico. Dopo che giudici dell'incontro avevano
annunciato con l'altoparlante la sconfitta di Salmeri, il pubblico
si era reso conto dell'ingiustizia subita da mio zio ed aveva cominciato a rumoreggiare
e a fischiare quello scandaloso verdetto. Gli animi si erano così
scaldati che c'erano stati dapprima alcuni timidi lanci di uova e
agrumi contro la postazione della giuria, poi era nata
spontaneamente una rissa
generale tra i sostenitori marsalesi e quelli palermitani. In quel frangente pare che mio zio Mario
non fosse rimasto con le mani in mano. Visto che era uno dei
responsabili della parte finanziaria dell'incontro si era fatto
giustizia da sè. Tanto per cominciare si era preso subito tutto
l'incasso dei biglietti d'ingresso del pubblico presente sugli
spalti. Questo denaro rappresentava la borsa in palio che
generalmente spetta al vincitore. Poi si era distinto per la sua capacità di malmenare in maniera scientifica sia
l'arbitro che alcuni membri della giuria. Non so se ci
fosse stato l'intervento degli agenti di polizia locale per sedare
la rissa, pare comunque che anche i vigili di Marsala avevano
ritenuto quel verdetto scandaloso. Dopo questo incontro
Giovanni aveva abbandonato il pugilato e Mario era rimasto senza
lavoro.
Il 10 ottobre del 1947,
sempre a Marsala, moriva improvvisamente sua madre Ninetta, ancora
giovane d'età, colpita da un attacco di appendicite acuta. Mario era
rimasto così profondamente prostrato ed addolorato per la perdita
prematura della sua cara mamma che, per un pò di tempo, era caduto
in depressione. Stanco di non trovare lavoro adatto alle sue
vere capacità, aveva deciso di
lasciare Marsala e tornare in Libia dai suoi parenti più
prossimi. Annoiato di dover aspettare i lunghi tempi burocratici
necessari ad avere rilasciato il visto d'ingresso sul passaporto
dalle autorità libiche, ed insieme al cugino minore Mario aveva deciso di entrare in Libia di
nascosto, da clandestino. Eludendo la vigilanza libica
entrambi erano
approdati sulle coste vicino a Zanzur. Poi, sempre di nascosto, si
erano spostati a Tripoli e si erano nascosti a casa dei miei
genitori in Sciara Camperio nella zona del Lido.
Qualcuno, forse per
dispetto, ritenendoli delle spie, aveva denunciato la loro presenza di clandestini alle autorità locali. Per riuscire a stanarli la polizia locale aveva
fatto dei rastrellamenti a tappeto in varie case del Lido. Entrambi i cugini non solo
portavano lo stesso cognome ma anche lo stesso nome. Mario era
il nome del loro nonno , Mario Salmeri, e come si usava allora
ad entrambi era stato imposto lo stesso nome. Noi tutti, per
nominarli, li chiamavamo Mario grande, il fratello di mia madre,
e Mario piccolo, il cugino. Per maggior comodità e per
distinguerli l'uno dall'altro, da ora in poi, li chiamerò Mario grande
(nato nel 1922) e Mario piccolo (nato nel 1923). Per
un pò di tempo entrambi erano riusciti a beffare i controlli locali, giocando sull'equivoco e sul caso di omonimia. Un
mattina
appena spuntata l'alba, la polizia locale aveva fatto irruzione nella nostra casa
di Sciara Camperio ed avevano arrestato Mario piccolo. Lo avevano tradotto nelle carceri di Castel Benito
e , come si usava in quei tempi, i carcerieri avevano cominciato a
picchiarlo.
Il povero
Mario piccolo, per coprire il cugino più grande,
giocando sull'equivoco, continuava
stoicamente a a dire che di Mario Salmeri ce ne era uno solo e
non due.
Mia
madre andava spesso a trovarlo in carcere per portargli del cibo e
fargli coraggio.
Per fortuna, per un atto di clemenza
generale voluto dal Re Idris, era
stato scarcerato e
rimandato a casa.
Risolto questo problema, tutti e due, Mario grande e Mario piccolo,
avevano lasciato Tripoli ed erano tornati a Zuara. Mario
grande aveva lavorato anche per un breve periodo di tempo presso la
tonnara di Misurata del principe Paternò, occupandosi della
manutenzioni dei motori delle barche. Dopo questo breve intervallo i
due cugini, Mario grande e Mario piccolo avevano deciso insieme di imbarcarsi sui bastimenti dei loro
genitori, Il Maria ed I Due Fratelli, per aiutarli nella pesca
delle spugne. A Zuara, viveva una grande comunità di italiani,
tra questi c'erano anche le famiglie
dei due fratelli Rovecchio. Antonio Rovecchio aveva sposato
Giannina Renda ed
insieme avevano avuto tre figli, Cristina,
Maria e Renato.
Peppe
Rovecchio aveva sposato
Angelina Cannizzo (che attualmente è ancora viva ed
ha più di cento anni), e avevano avuto tre figli,
tutti maschi, Roberto,
Vincenzo e
Marcello. I velieri dei
fratelli Salmeri, Giuseppe e Vincenzo,
erano
usualmente ormeggiati nel porto di Zuara insieme ad altri velieri
quali l'Eleonora e il San Francesco di Rocco Rovecchio
(padre di Antonio, Peppe e Turi) e l’Amerigo Vespucci di Peppe Rovecchio.
Rocco e Peppe erano rispettivamente nonno e
padre di Vincenzo Rovecchio , poi
diventato giornalista del
Corriere di Tripoli. Insieme a questi c'era un altro veliero il Cristoforo Colombo
di Antonio Rovecchio, il padre di Cristina e di Renato.
Con i loro velieri solcavano le acque lungo la costa libica
per pescare le spugne, utilizzando dei palombari
professionisti. Come succede spesso nelle piccole comunità le
famiglie dei Salmeri e dei Rovecchio, anche perchè condividevano lo
stesso tipo di rischio e di lavoro, era diventate amiche. Mio nonno Giuseppe aveva anche battezzato il piccolo
Renato Rovecchio,
il futuro ciclista, che da adulto diventerà campione della Tripolitania.
Cristina, la figlia più grande di Antonio, in quel periodo era
fidanzata con un certo Paolo Fiorenza. Il padre Antonio aveva voluto a tutti
i costi che Cristina si fidanzasse con Paolo, perchè lo reputava un bravo ragazzo,
che aveva una sua officina di meccanico, che in fin dei conti,
per i magri tempi che correvano, era considerato un buon
mestiere. Cristina, forse per un fatto di pelle, non provava piacere
a stare insieme a Paolo, per
quanto questi fosse un bravo ragazzo.
Cristina è tuttora fatta a modo suo, per sua natura non è mai stata
un'ipocrita. Non si nasconde dietro ad un dito e , senza tanti
sotterfugi, quello che ha da dire, te lo dice in faccia. Un giorno, trovandosi
da sola con Paolo, gli aveva detto
chiaramente: " Paolo, amico bello, mi dispiace dirtelo, ma amare e non essere amati,
che tempo è? E' tempo perso.
Mi capisci?". Paolo
aveva subito capito che Cristina non lo voleva più come
fidanzato e, da vero gentleman, senza reagire, ne era andato
via da lei sconsolato. Lo stesso giorno Paolo, che era anche amico
di Mario grande, lo aveva incontrato casualmente per strada.
Vedendolo camminare mogio mogio, Mario grande gliene aveva chiesto il motivo. Paolo,
che era suo amico, gli aveva
confessato che era così giù di morale perchè
la sua fidanzata, Cristina Rovecchio, quel giorno l'aveva lasciato per sempre. Mario grande, pur non
mostrandolo chiaramente, in cuor suo era contento per quella
notizia. Da un pò di tempo anche lui covava una certa simpatia per Cristina,
ma la teneva
gelosamente nascosta, visto che Cristina era già impegnata con
Paolo, che era anche suo amico. Con un paese così piccolo si era
subito sparsa la notizia della rottura del fidanzamento tra Paolo e Cristina.
Giacomo
Cannucci, figlio di un rais tonnaroto e Mario piccolo, il cugino di Mario
grande, si erano messi in fila per presentarsi e chiedere la mano
della bella Cristina. Come si usava fare a quei tempi, entrambi le avevano portato
un mazzo di fiori e le avevano fatto un ufficiale
dichiarazione d'amore. Cristina, dal canto suo, li aveva
ringraziati per la loro cortesia ma aveva detto loro, chiaro e
tondo, che voleva concedersi una pausa di riflessione e che al
momento voleva stare sola. Un giorno era andata a
Tripoli per ordinare un paio di scarpe da Mazzarino, che era uno dei
più rinomati negozi di scarpe di Tripoli, e se li fatte mandare per
corriera da sua zia Angelina Rovecchio, che abitava a Tripoli.
Quando dopo qualche giorno le scarpe, confezionate in una bella
scatola, erano arrivate, Cristina si era accorta che i tacchi erano troppo bassi per i
suoi gusti. Era diventato nervosa per il disguido e
perchè li avrebbe voluto cambiare subito ma non sapeva come fare.
Era stato un caso che a risolverle questo problema era intervenuto
mio zio Mario grande. Proprio quando era arrivata la scatola di
scarpe incriminata, Mario grande si
trovava a casa dei Rovecchio per parlare d'affari con Antonio, il
padre di Cristina. Mario aveva sentito Cristina lamentarsi per quel
problema. " "Non ti preoccupare non c'è nessun problema, stai
tranquilla." le aveva detto sicuro di sè, "Domani devo andare
a Tripoli per ritirare un pezzo di ricambio, con l'occasione porto
le tue scarpe da Mazzarino e me le faccio sostituire con un altro
paio col tacco più alto". In realtà questa era una mezza verità. Mario grande non andava a Tripoli per ritirare
solo un pezzo di ricambio ma anche per un altro motivo. Da un pò di tempo faceva il
filo a due giovani e belle maestre, Wilma e Marcella,
quest'ultima figlia di Mazzarino. Ora gli si presentava un'occasione
unica, perchè, con un solo viaggio avrebbe potuto risolvere tre
problemi. Il pezzo di ricambio, le scarpe di Cristina e le due
maestre. Al
ritorno da Tripoli, Mario grande aveva
portato a Cristina il nuovo paio di scarpe col tacco alto.
Lei, con un bel sorriso affascinante, gli mostrava di aver
molto apprezzato il suo gesto. Quel sorriso di Cristina era stato
forse male interpretato da Mario grande. Va subito detto che Mario
grande, in fatto di donne, (in paese si bisbigliava che fosse uno
"sciupafemmine") era un tipo che andava per le spicce. Abilmente aveva convinto
Cristina a restare sola con lui e, senza tanti
preamboli, l'aveva attirata a sè e l'aveva baciata sulla
bocca. Cristina, forse perchè presa di sorpresa, si era subito
infuriata e gli aveva scagliato dietro la sua scatola con dentro tutte le
scarpe. Mario grande, che stava cominciando a conoscere il carattere
esplosivo di Cristina, aveva capito di aver precorso i tempi e se ne era andato via alla
chetichella. Dopo questo episodio, Cristina era rimasta così dispiaciuta
con sè stessa per
quella sua spropositata reazione, che si era ammalata.
Rimasta a letto con la febbre per una settimana, Mario grande, col
pretesto di dover parlare con il padre, era ritornato a trovarla.
Sperando di farsi perdonare, questa volta, con molto tatto e gentilezza, le
aveva portato sciroppi per la tosse e cioccolatini.
Da allora aveva capito da quale lato prendere Cristina e aveva
cominciato a farle una corte soft, che Cristina aveva accettato
di buon grado. Poco dopo si erano
fidanzati ufficialmente. In quel periodo Mario grande si era distinto per le sue
qualità di valente sommozzatore, tanto che aveva contribuito in
prima persona al recupero
di una grossa nave l'Alato, su commissione del gerarca
fascista onorevole Caradonna, padre di quel
Giulio Caradonna,
deputato del MSI ed amico intimo di
Giorgio Almirante. Nel frattempo
Mario grande aveva smesso di lavorare con suo padre e si era messo in
società con Antonio Rovecchio, il padre di Cristina, facendo
il motorista sul veliero Le Tre Marie. La società era
durata poco per divergenza di vedute, poichè entrambi erano dotati
di un carattere forte. Malgrado questa rottura d'affari, il
fidanzamento di Mario grande e Cristina era
comunque continuato. Il
31 Luglio del 1954, Mario e Cristina celebravano le loro nozze
nella piccola Chiesa di Zuara. Quasi un anno
dopo, il 9 luglio del 1955, nasceva la loro primogenita
Ninetta. Con l'allargamento della famiglia, Mario aveva creduto bene
di terminare la sua esperienza marinara,
per cambiare completamente lavoro. Così si era trasferito con la sua
nova famiglia a Tripoli, andando a vivere in un
appartamento in Sciara Ettugrai, proprio dietro l'ospedale di Sciara
Ippolito Nievo. Lì, in società con due simpatici giovani, specializzati in
muratura, che si chiamavano Campo e Montenegro, aveva costituito un impresa edile di
costruzioni. Erano stati subito fortunati a vincere degli appalti
per la costruzione di bungalow in pieno deserto, per conto di alcune
compagnie petrolifere. Mario si era specializzato nel fare il
piastrellista, tanto che lo avevano battezzato il Re della mattonella, perchè in ogni cosa
che faceva diventava il migliore. Spesso sulla strade sterrate che
portavano al deserto
trovavano delle pietre minerali, tra cui alcune meravigliose
rose
del deserto, di cui me ne aveva regalata personalmente una. Una volte durante
la notte, in uno dei suoi viaggi di ritorno a casa,
aveva accidentalmente investito con la la sua macchina
una gazzella (uaddan).
Ricordo che mia zia Cristina l'aveva cucinata al forno e che
io, insieme ai miei genitori, ero stato invitato a
quel pranzo. A distanza di tempo, mia zia Cristina mi aveva
confessato che lo zio Mario aveva promesso a se stesso, dopo
aver raccolto quella gazzella ormai morente, con gli occhi
piangenti, che nella sua vita non avrebbe più mangiato carne di
gazzella.
Aveva contribuito, con i suoi
soci, alla realizzazione della Residenza del principe ereditario
libico, Ridàh Senussi, lavorando alla messa in posa del mosaico
della sua grande cupola. Questa residenza si trova ancora lungo la
strada che dal Castello porta verso la Mellaha, sulla parte
sinistra, che guarda il mare, oltre il Mehari e vicino alla Busetta.
Il 27 luglio1956, il giorno
successivo alla crisi del Canale di Suez, a Tripoli era stato imposto il coprifuoco
dalle autorità libiche.
Incidentalmente proprio quel giorno Mario grande era tornato precipitosamente dal deserto
con un gran febbrone, di origini incerte. Vista la situazione
contingente, non era stato facile reperire urgentemente un medico.
Fortunatamente era intervenuto il dottor De
Castro che gli aveva subito diagnosticato una pleurite acuta.
Mentre lui delirava per il gran febbrone, la
stessa sera del
27 Luglio del 1956, molti parenti, preoccupati per il
suo stato di salute, erano accorsi al suo capezzale, malgrado
ci fosse ancora il coprifuoco. Eccetto
la moglie Cristina, che era incinta della secondogenita Giovanna,
tutti erano a conoscenza della diagnosi del dottor De Castro: se
avesse superato la notte, le sue possibilità di guarigione sarebbero
aumentate. Per fortuna verso le undici
aveva cominciato a sudare in maniera così copiosa da inzuppare lenzuola e
materasso. Dopo quella sudata liberatoria, la temperatura era
finalmente scesa a valori normali. Il suo miglioramento, con
sollievo di tutti, era diventato sempre più
evidente. Durante la
sua convalescenza, durata più di venti giorni, Mario era tanto dimagrito.
Stranamente era diventato anche molto nervoso. Proprio durante la
sua convalescenza , guardandosi allo specchio e vedendo il suo viso
così dimagrito, aveva
preso uno di quei mattoni caldi, che generalmente gli mettevano sul
petto, come espettoranti, e l'avevo scagliato contro lo specchio,
mandandolo in frantumi.
Sembrava inoltre essere posseduto da una continua gelosia per la moglie
Cristina. Questa, dal canto suo, lo rassicurava in continuazione dicendogli
di non preoccuparsi e di stare tranquillo.
Evidentemente queste riassicurazioni non gli bastavano. Una sera, dopo essere stati
al cinema Rivoli con sua moglie Cristina, con la piccola Ninetta e
con suo cugino Mario piccolo era esploso in una delle sue
ormai frequenti scenate di gelosia. Rientrato in casa con la moglie
e la bambina, le aveva
urlato contro, dicendo che avrebbe visto Mario piccolo toccarle il braccio.
Cristina aveva cercato di spiegargli che in
realtà Mario piccolo non aveva fatto niente se non dare una carezza
alla piccola Ninetta. La cosa era finita lì e, superata la crisi
della pleurite, le scenate di gelosia erano per fortuna terminate. Cristina,
nel frattempo aveva dato alla luce la loro secondogenita
Giovanna,
nata il 13 maggio del 1957, mentre il 13 Marzo del 1961
partoriva l'unico erede maschio della sua famiglia e
ovviamente, per rispetto alla tradizione, era stato chiamato
Giuseppe.
Il suo lavoro nel deserto lo
impegnava a stare a lungo lontano dalla sua famiglia. Questi periodi
lavorativi duravano per lo meno un mese intero e a volte anche due.
Lui ed i suoi due soci lavoravano a progetto, se vincevano un
appalto, ci lavoravano giorno e notte fino a che non lo
portavano a termine. Quando, dopo un interminabile viaggio, mio zio
tornava a casa dal deserto per stare una settimana insieme
alla sua famiglia, era veramente stanco. Giunto a casa, abbracciava
calorosamente tutti i suoi, poi correva a sdraiarsi sul comodo
letto matrimoniale della sua camera da letto. Restava lì, nella
penombra di quella canera, per un pò, quasi volesse inebriarsi
del ritrovato dolce sapore della sua famiglia, che per
più di un mese gli era mancato. I suoi compagni di lavoro riferivano
che il locale nel deserto, dove lui alloggiava, era tutto tappezzato
di foto di sua moglie Cristina e dei tre figli, Ninetta,
Giovanna e Giuseppe. Quando era nel deserto non si rasava
quasi mai, così quando tornava a casa era quasi irriconoscibile per
la sua barba lunga, tanto che mia zia Cristina diceva che con
quella barba assomigliava a
Robinson Crusoe.
Nel giugno del 1967 circa seimila
ebrei italiani erano fuggiti da Tripoli, in conseguenza dello
scoppio della guerra dei sei giorni.
La polizia ed alcune frange estremiste della popolazione locale si
erano accanite contro l'inerme comunità ebraica residente a Tripoli,
provocando diciassette morti. Da allora era stato subito indetto il coprifuoco
dalle autorità locali. Alcune famiglie italiane ed anche libiche,
incuranti del rischio che correvano, continuavano a nascondere nelle
loro case alcuni ebrei fuggiaschi. Una sera mio zio Mario aveva
ricevuto una telefonata accorata da parte di Roberto Rovecchio, un
cugino di sua moglie Cristina. Roberto, quasi in lacrime,
aveva raccontato a mio zio quella che era successo ad una famiglia di
ebrei che abitavano nel suo stesso palazzo. Una banda inferocita di
giovani libici aveva forzato il portone ed erano entrati nella casa
di questa famiglia di ebrei. Li avevano minacciati con le armi, poi
li avevano caricati su un camioncino e se li erano portati via tra
le urla di disperazione ed i pianti di quei disgraziati.
Roberto
Rovecchio, sposato con Cloda e con due figli a carico, Giosi e
Gianluca, aveva paura che, per errore, potesse succedere qualcosa di
simile anche a loro. Mio zio Mario e il padre di Cristina, Antonio
Rovecchio, malgrado il coprifuoco, era andati in macchina con la
ferma intenzione di prelevare Roberto e famiglia e portarli
temporaneamente nella casa di Mario. Durante il percorso
sfortunatamente i due erano stati fermati da una pattuglia della
polizia, appostata con una camionetta in un angolo buio del centro
città. Il capo dei poliziotti, parlando in arabo aveva subito chiesto
loro patente e libretto. Per fortuna mio zio capiva e parlava bene
l'arabo, così il rapporto con il poliziotto si era subito
incanalato su binari di cordialità. Prima che potesse
consegnare i documenti, era giunta sul posto una banda di giovani
spavaldi, che si erano fermati proprio davanti a loro e, tra urli ed
insulti, avevano cominciato ad incitare i poliziotti a malmenare a
sangue i due "rumi", italiani, altrimenti ci avrebbero pensato loro.
Il capo della polizia, che doveva essere una persona abbastanza
corretta ed equilibrata, non era assolutamente d'accordo con
le loro richieste. Era scoppiata subito una rissa tra i poliziotti e
la banda dei giovani, che tra l'altro erano superiori come numero a
quello dei poliziotti. A peggiorare la situazione i giovani avevano
con sè manganelli, coltelli e probabilmente delle
pistole. Mio zio Mario ed Antonio si sentivano come due vasi
d'argilla in mezzo a tanti vasi di ferro. Silenziosamente, mentre
gli altri continuavano ad insultarsi e a litigare fra loro, avevano
cominciato a camminare lentamente all'indietro e, sempre a
ritroso, senza far rumore erano
risaliti in macchina. Mentre la rissa tra poliziotti ed i giovani
continuava, entrambi erano riusciti ad arrivare fino alla casa
di Roberto ed avevano trasportato lui, Cloda e ed i bambini al
sicuro fino a casa di mio zio. Qualche giorno dopo questo episodio,
probabilmente per lo spavento preso, mio zio Mario era stato
colto da un violento scompenso cardiaco,
che lo aveva completamente debilitato.
Il 19 Agosto 1970, quasi un anno
dopo il colpo di stato,
Mario con la sua famiglia lasciava definitivamente Tripoli per
andare a Roma. Sapevano che chiunque partiva doveva portare
dietro con sè solo poche valigie e pochi soldi. Così era stato
deciso per ordine dal comando della giunta militare del colonnello
Gheddafi. Nelle dogane, sia all'aeroporto che al porto, prima
dell'imbarco, tutti gli italiani dovevano essere perquisiti,
da cima a fondo. Mio zio aveva deciso di
viaggiare per mare, anche perchè era più facile trasportare più
roba. Il programma era di imbarcarsi dal molo di Tripoli sulla
nave della società Tirrenia, "La Città di Tunisi" . Di lì sarebbero
sbarcati a Napoli e poi avrebbero proseguito in treno per Roma.
A Tripoli, Il giorno prima della loro partenza, era scoppiata
un'epidemia di colera. Loro, come tutte le persone in partenza
erano stati obbligati ad andare in piena notte al pronto soccorso,
per farsi vaccinare ed avere un certificato valido che lo
attestasse. Senza mostrare quel certificato il comandante della nave
non li avrebbe accettati a bordo. Qualche giorno mia zia Cristina
aveva cucito nel fondo di alcune loro borse, un sottofondo, dove vi
avevano nascosto gioielli, soldi e tutto ciò che di piccolo e di
prezioso si potesse portare. Si era sparsa in giro la voce che
alcuni italiani, dopo una minuziosa perquisizione, in cui
erano saltati fuori soldi o gioielli erano stati bloccati alla
dogana e mandati in carcere. Era successo che mentre il resto
della famiglia partiva con la disperazione di non poter vedere più
il loro caro, questo veniva tradotto in carcere, interrogato e
qualche volta anche bastonato. I più dopo qualche giorno venivano
rilasciati grazie all'intervento dell'Ambasciata Italiana a Tripoli.
Mio zio Mario e mia zia Cristina, con la loro figlia maggiore
Ninetta, Giovanna e il piccolo Giuseppe, sapevano di rischiare per
quelle loro borse col sottofondo e pertanto avevano il cuore in
tumulto. Mia zia Cristina aveva visto che uno degli addetti alla
dogana era un libico di Zuara, che
lei conosceva, sin da quando era giovane. Si era avvicinata a lui e
l'aveva salutato. In quel momento aveva capito che quello per loro
sarebbe stato un giorno fortunato. L'amico zuarino l'aveva
riconosciuta e prontamente senza controllare niente aveva apposto la
sua autorizzazione all'imbarco. Grande era stato il loro sollievo
quando ero tutti saliti a bordo sulla Città di Tunisi e questa, dopo
una veloce manovra, si era allontanata dalle acque del porto. Molti
italiani, sentendosi ormai al sicuro, scaricavano la loro
rabbia, accumulata in tutti quei giorni di tensione, prima della
partenza, lanciando improperi contro Gheddafi e la sua giunta
militare. Tutto era filato liscio, fina a quando la nave era
arrivata nel porto di Napoli. La nave era stata ormeggiata nel porto
ma non era stato dato ai passeggeri l'ordine di scendere. Il motivo
era che le autorità locali, avendo saputo dell'epidemia di colera
scoppiata a Tripoli, non concedeva ai passeggeri della nave,
proveniente da Tripoli, di scendere. Dopo mezza giornata di
tira e molla. alla fine l'autorizzazione era arrivata e tutto
si era accomodato.
Dopo aver proseguito in treno, tutti e
cinque avevano trovato alloggio nel campo profughi di Alatri,
chiamato Le Fraschette,
dove un tempo erano stati rinchiusi alcuni prigionieri politici.
Mario era rimasto per qualche tempo senza lavoro, poi nel 1972
la situazione si era sbloccata e finalmente aveva trovato posto, come magazziniere, presso
l'Azienda telefonica di Stato. Purtroppo inaspettatamente, alla giovane età di 53 anni, a causa di un infarto,
si spegneva il 2 Ottobre del 1975, mentre riposava sul suo letto.
Ricordo lo zio Mario, come una
persona sveglia, dall'allegria contagiosa e dalla personalità aperta, a volte un pò istrionesca. Sapeva
far ridere la gente, sapeva stare in gruppo e proprio in gruppo dava il
meglio di sè, con i suoi aneddoti, le sue barzellette, la sua mimica
facciale e vocale. Il suo tempo libero lo trascorreva leggendo molto.
Sfornava un proverbio dietro
l'altro, specialmente quelli siciliani che erano molto arguti, come
ad esempio questi che ricordo:
Fimmini,
fulmini, ricittaculu di li puci e nimici di la paci.
Femmine e
fulmini, ricettacolo delle pulci e nemici della pace.
Cuomu s'arriddhuciu lu addhu ri
Sciacca!, a essiri pizzuliatu ri la ciocca!
Come si è ridotto il gallo di Sciacca!, ad essere beccato dalla
chioccia!
Ficu
fatta, càrimi 'mmucca!
Fico
maturo, cadimi in bocca! (Si dice di chi vorrebbe evitare le fatiche
minime).
Era bravo anche con gli scioglilingua.
Il suo preferito era:
Apelle,
figlio d'Apollo, fece una palla di pelle di pollo, tutti i pesci
vennero a galla, per vedere la palla di pelle di pollo, fatta d'Apelle,
figlio d'Apollo.
Sapeva come
raccontare le barzellette, conosceva d'istinto i tempi
tecnici. Forse, se avesse avuto possibilità di studiare,
sarebbe diventato un bravo attore. Intercalando l'italiano ad
alcune espressioni in siciliano mi narrava spesso alcuni racconti di
Giufà,
che era un curioso personaggio popolare. Giufà
era una delle figure
tipiche del finto sciocco, che riesce a proporsi per la sua arguzia
e la sua
comicità.
Mario conosceva a memoria decine e decine di queste piccole storie di Giufà.
Io ne ricordo bene una che voglio
riferire. Giufà
era stato denunciato per avere rubato delle mele da un albero e, per non finire in carcere, aveva subito assunto un avvocato. Questo avvocato
era giovane
ed un pò inesperto e, spavaldamente, aveva detto a Giufà di non preoccuparsi,
perchè avrebbero vinto tranquillamente la causa con due sole parole
magiche, che l'avvocato conosceva. Durante il suo
discorso di difesa l'avvocato, sembrava come un disco che era
incantato, perchè continuava a ripetere solo due parole: "Ingachi ? (chi?) Ingacomo? (come?)".
Il giudice, che non era dotato di molta pazienza, era arrivato alla
conclusione che quel giovane avvocato dovesse essere un
cretino e di conseguenza anche l'accusato che lo aveva scelto
non potesse essere da meno. Senza indugi, aveva pensato che,
nell'incertezza, è sempre meglio condannare che assolvere.
Grazie all'inesperienza del suo giovane avvocato e alla filosofia
spicciola del giudice, Giufà era stato condannato, senza alcuno
sconto, ad una settimana di carcere. Quando Giufà era
uscito dal carcere era piuttosto incazzato. Il giorno dopo il
giovane avvocato era passato da casa di Giufà per ritirare la sua parcella. Giufà,
ancora furioso per aver perso una settimana in carcere, con un
sorriso ironico gli aveva ripetuto
quelle due curiose parole: "Ingachi
? (chi?) , Ingacomo? (come?)". L'avvocato
intuendo lo stato d'animo di Giufà e guardando il suo
viso feroce, aveva capito che non solo non sarebbe mai stato
pagato ma che se non se fosse andato subito via avrebbe rischiato
anche di essere picchiato.
Ciao zio, ovunque tu sia!
Scommetto che continui ancora a far ridere i tuoi amici, raccontando
le tue simpatiche barzellette.
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