Dopo aver appreso dalla televisione la
notizia della condanna del «mago» brasiliano
Mario Pacheco Do Nascimento, complice di Vanna Marchi,
mi è venuto in mente quanto mi raccontava mia madre da
piccolo, a proposito di un fatto legato al mondo della
magia, accadutole quando io non ero ancora nato. Anche
se in maniera un po’ controversa, mia madre si
considerava vittima della manipolazione e della
fraudolenta furbizia di questi manigoldi. Gente pronta
ad approfittare dell’ingenuità e della fragilità di
quelle persone che, in alcuni momenti o a seguito di
depressioni, sono particolarmente vulnerabili.
L'episodio che mi raccontò, avvenne a Tripoli, nel rione
del Lido nel 1944, esattamente quattro anni prima che io
nascessi.
Mia madre era sposata da circa tre anni quando purtroppo iniziò ad
avere problemi di salute: veniva colta spesso da forti coliche
intestinali. I medici le avevano diagnosticato dei
calcoli alla
cistifellea
e quantunque la loro diagnosi fosse giusta, non le avevano mai detto
che l’unico rimedio era
asportarli, intervenendo
chirurgicamente. In
seguito, a questo dolore fisico se ne aggiunse un altro di carattere
psicologico che forse l’addolorava maggiormente. Dopo oltre sei anni
di matrimonio, non aveva avuto ancora figli. Provava un certo
disagio nel non poter godere della gioia della maternità che ogni
giovane sposa desidera avere. Il fatto di non poter dare un figlio
a mio padre continuava ad essere per lei un’umiliazione, una
vergogna. Così era la mentalità in quegli anni.
Mentre mio
padre
era preso dal suo lavoro di fabbro nella sua officina, di fronte
alla
Stadio
Municipale, a qualche centinaio di metri da casa, mia madre si
occupava delle faccende domestiche. Le sue vicine l'andavano spesso
a trovare per farle visita nonché per aiutarla nei lavori di casa,
specialmente nei momenti in cui i dolori dovuti ai calcoli alla
cistifellea si facevano sentire maggiormente. Tra queste magnanime
donne ce n’era una che abitava nella stessa palazzina. Di lei mia
madre si fidava ciecamente, tanto che le aveva dato persino un
duplicato delle chiavi di casa perché potesse usarle in caso di
bisogno.
Un giorno l’amica le suggerì di andare da un’anziana signora araba
che, si diceva, avesse la doppia capacità di essere guaritrice e
fattucchiera. Le aveva però raccomandato di non far sapere nulla a
mio padre, perché la faccenda doveva restare un segreto tra donne.
Incuriosita da questa indicazione, mia madre iniziò a chiedere
qualche informazione, ma nessuno le seppe dire alcunché al riguardo.
L’unica indicazione utile ottenuta da questa sua sommaria indagine
fu che tale guaritrice era considerata una persona straordinaria,
fuori dal normale. Alcuni mormoravano che non si era mai sposata e
che, forse, fosse stato proprio questo il motivo per cui abitava da
sola in una
zeriba
fatta per lo più di vecchie lamiere e di fronde secche di alberi. La zeriba era
ubicata nella zona limitrofa al
Maccabi,
vicino al Lido.
Dopo alcune
rudimentali indagini, mia madre riassicurò
la sua amica che avrebbe accettato il suggerimento di
incontrare la fattucchiera. Forse perché intimorita e
particolarmente fragile in quel momento, le chiese di starle accanto
almeno per il primo incontro, ma questa, quasi vergognandosi, senza
guardarla in viso, le rispose – Cara, sai come vanno
queste cose in questo quartiere: la gente mormora e quasi quasi
anche i muri parlano. Chissà quali pettegolezzi ne potranno venire
fuori se la gente ci vedesse entrare insieme in quel posto. Fatti
coraggio e vai da sola. In fondo questa guaritrice che male ti
potrebbe fare? –
Così mia madre, convinta, andò a trovare la vecchia da sola.
L'anziana guaritrice si chiamava Leila (in arabo significa
“notte”) ed aveva l'abitudine di vestirsi tutta di nero.
Contrariamente all'usanza araba locale, non aveva un fazzoletto in
testa e i lunghissimi capelli bianchi erano coperti solo
parzialmente da uno sdrucito scialle nero. La sua fronte era ampia
ed i suoi occhi erano così neri e guizzanti che sembravano paralizzare
le persone con il suo sguardo magnetico. I suoi lineamenti erano
regolari e mostravano segni di un’antica bellezza ormai cancellata
dall'età. Leila accoglieva mia madre stando al centro della zeriba
e teneva le braccia conserte. Con una cadenza ritmica, batteva i
suoi piedi scalzi sul nudo terreno della zeriba e
contemporaneamente emetteva degli strani lamenti. L'ambiente all’interno della zeriba era pervaso da una vaporosa
coltre di fumo che usciva da alcune pagliuzze bruciacchiate, che
ardevano lentamente ed emanavano un profumo dolce ed inebriante. Una
leggera luce veniva dal tenue luccichio di alcuni lumicini, simili
a quelli che si vedevano un tempo bruciare nei cimiteri, e
rischiarava appena il viso della fattucchiera. Il pavimento era
parzialmente coperto di stuoie di paglia, mentre su alcuni scaffali
c'erano dei piccoli barattoli pieni di erbe essiccate ridotte in
polvere, di vari colori.
Forse per far risaltare maggiormente i suoi “magici” poteri, Leila
stupiva mia madre, citandole alcuni particolari di casa nostra e
riferendole di essere informata su tanti dettagli della sua vita
privata. Le diceva in quale posto dell'armadio si trovava un suo
cappotto con la pelliccia o quale era stata l’ultima volta che aveva
avuto una colica o addirittura cosa c’era scritto nella
lettera
di suo cugino Fortunato, disperso in guerra, che mia madre teneva
gelosamente nascosta in uno dei cassetti del suo comò. (N.d.R.:
questa lettera sarà uno degli argomenti di un mio prossimo articolo).
In questa prima fase del rapporto con la fattucchiera, mia madre
era stata talmente plagiata da Leila da credere veramente che
possedesse poteri soprannaturali.
Per
guarirle le coliche, le poneva le mani sul ventre, sulla parte
dolorante e dopo un po' i dolori scomparivano. Ai bordi della sua
zeriba,
Leila
coltivava alcune piantine, secondo lei, necessarie per la
preparazione dei suoi filtri. Le dava delle boccette con dentro una
pozione semiliquida, piuttosto amara, a base di aglio e basilico, da
bere prima dei pasti, per prevenire il dolore delle coliche
Un giorno mia madre le aveva parlato del suo problema di sterilità e
Leila, dopo averla guardata intensamente negli occhi, per qualche
secondo, le aveva stretto tra le mani il polso della sua mano
sinistro . Dopo aver
pronunciato qualcosa di
incomprensibile, l'aveva rassicurata, dicendole che nel suo destino
c'era scritto (maktub in arabo) che un giorno sarebbe restata
incinta. Per mia madre, che capiva l'arabo, quelle parole furono un
toccasana per il suo morale dato che ancora non aveva perso tutte le
speranze di partorire.
Leila
le diceva spesso che molti dei problemi delle persone
derivavano dal malocchio. Sapeva riconoscere una persona
che aveva il malocchio dall’aura
rossastra
che lo accompagnava ovunque. Diceva di possedere il potere sia per
vederlo che per toglierlo. Così quando vedeva l’aura del
malocchio
attorno a mia madre, lasciava i panni della guaritrice per vestire
quelli della fattucchiera.
La faceva sedere su una sedia e le
stringeva la fronte con le mani. Poi cominciava a salmodiare parole
incomprensibili: una specie di nenia. Le appoggiava sulla testa una
tazza d'argilla piena d'acqua dopo averci spruzzato alcune gocce d'olio d'oliva. L'olio, essendo più leggero
dell'acqua, galleggiava e assumeva strane forme, a cui la vecchia
sapeva dare una sua interpretazione ed un suo significato. Sapeva
individuare se veniva da una persona di sesso maschile o femminile
e quale fosse la sua intensità. Per toglierle il maleficio prendeva
un grosso pugno di sale da un sacco di juta e lo metteva dentro la
tazza, che si portava dietro andando fuori dalla zeriba. Una volta
fuori urlava al vento alcune parole incomprensibili, poi scavava una
piccola buca e vi rovesciava il liquido della tazza. Ricopriva la
buca con la sabbia e ritornava dentro la zeriba con la tazza vuota.
Prendeva un altro pugno di sale dal sacco e, con gesto rituale, lo
lanciava nel vuoto da dietro le sue spalle. Questo gesto completava
la prima parte del rito contro il malocchio.
Il malocchio, vero e proprio, veniva stroncato completamente solo
quando Leila emetteva un suono vocale, continuo
e liberatorio. Ricordo che mia madre sapeva imitare molto bene
questo suono, simile ad un trillo, che in arabo viene chiamato zagarit.
Il suono dello zagarit si ottiene emettendo un suono con la bocca,
muovendo la lingua ed usando il diaframma, un muscolo respiratorio.
Quando c’è una festa o durante un
matrimonio le donne arabe generalmente, mentre danzano, emettono dei
trilli, delle grida di gioia in segno di augurio. Dopo aver
emesso quest'urlo liberatorio mia madre diceva di sentirsi meglio e
anche più sollevata. Era come se si fosse tolta un forte peso allo
stomaco.
Quando mia madre mi raccontò questo episodio, le chiesi: "Mamma,
perché non ti facevi accompagnare da papà in quel posto? Non avevi
paura ad andarci da sola?". Mia madre mi rispose che prima di
tutto aveva commesso il grosso errore di tenergli segreta la cosa e
che certamente un po' di paura l'aveva sempre avuta. Purtroppo era
rimasta così soggiogata dallo sguardo della vecchia che se ne
sentiva attratta. Era sempre desiderosa di andarla a trovare, come
l'ape viene attirata dal nettare dei fiori. In quel periodo mio
padre aveva cominciato a notare alcune stranezze nel
comportamento di mia madre, che continuava a chiedergli sempre più
soldi per la spesa giornaliera. Ovviamente i soldi servivano a
pagare la vecchia fattucchiera, ma lui, che era troppo preso dal suo
lavoro in officina, non lo poteva sapere.
Dopo
che erano passati circa due mesi da quando mia madre aveva
cominciato a frequentare la zeriba della guaritrice, un giorno
accadde un episodio assai strano. Mia madre, appena entrata nella
zeriba, aveva notato che Leila non si comportava nel solito modo.
Sembrava come se portasse in viso una brutta maschera. Dava
l’impressione di essere stanca, provata e ancora più vecchia di
quanto in realtà lo fosse. Come al solito l’aveva fatta sedere su
una sedia per iniziare a toglierle il malocchio. Durante questo
rito Leila sembrava irrequieta, quasi tormentata da qualcosa di
soprannaturale. Si era fermata d’improvviso, aveva fissato mia madre
negli occhi e le aveva urlato in arabo le seguenti parole : -
Stai attenta, una donna italiana, una tua amica, che abita vicino a
casa tua, è posseduta dal
diavolo!
–
Le parole che uscivano dalla bocca della vecchia rimbombavano dentro
la zeriba come un’eco infinita. Sembrava quasi che quella
terrificante voce non fosse neppure sua. Malgrado mia madre conoscesse bene l'arabo, era rimasta così
confusa, che sul momento non aveva afferrato tutto il significato
di quella esclamazione. Aveva capito solo la parola “diavolo” (shaitan
in arabo) ed anche per questo si era subito impaurita. Cosa
c'entrava il diavolo con quella storia? Inoltre era
rimasta notevolmente impressionata dal quell’inesplicabile tono
di voce, che era basso e grave, molto simile alla voce di uomo.
Subito dopo Leila, senza più forze, si era accasciata al suolo come
un fantoccio. Stesa su una delle stuoie della zeriba, aveva
continuato a dondolarsi e a lamentarsi, ripetendo un'incomprensibile
nenia. Intanto un fatto nuovo era accaduto: ora il suo
volto appariva diverso, i suoi lineamenti si erano addolciti, e
nell’insieme, tutta la sua persona aveva assunto un atteggiamento
di pace e tranquillità.
Mia madre era rimasta confusa e molto spaventata da quanto
stava succedendo. Aveva lasciata la vecchia, cosi come era, stesa
sulla stuoia, e se n’era tornata di fretta a casa.
Giunta
a casa, si era chiusa nella sua camera, si era sdraiata sul letto e
per un po' aveva pianto. Dopo questo sfogo si era sentita molto
meglio, stranamente sollevata e piena di energia. Aveva
la sensazione che finalmente un pesante velo si fosse
improvvisamente squarciato, tanto da permetterle di vedere le cose
più chiaramente. L’episodio accaduto nella zeriba l‘aveva fatta
ritornare dal fantasioso mondo del soprannaturale alla concretezza
“dei piedi per terra”. Si era svegliata da
quel profondo torpore che l’aveva attanagliata sin da quando aveva
cominciato a frequentare la fattucchiera ed ora invece si sentiva come liberata
da lacci invisibili che l’aveva presa prigioniera in un mondo
che non
sentiva suo. Progressivamente aveva cominciato a ragionare su ciò che la
vecchia le aveva detto in tutti quei mesi. Come mai la vecchia
conosceva tutti quei particolari sul suo conto? Perché la sua amica
lodava tanto i “poteri” della “maga?” Che cosa stava succedendo?
Ormai
le era chiaro perché la vecchia sapesse tante cose sul suo conto. La
sospettata principale era proprio la sua amica, proprio quella che
lei aveva sempre considerato la più cara fra tutte. Con il duplicato delle chiavi che mia madre le aveva dato, lei
poteva entrare in casa in qualsiasi momento avesse voluto. Una volta
dentro, non aveva alcuna difficoltà a frugare e a curiosare tra le
cose di casa nostra e poi riferire utili informazioni alla
fattucchiera. Era forse successo come il Gatto e la Volpe, che si
erano approfittati dell'ingenuo Pinocchio? Mia madre, colta dai
dubbi e dai sospetti che neanche l’amicizia verso la sua amica
riuscivano a scacciare, non ce la faceva più a mantenere per sé
questo segreto. Ora si era finalmente decisa a confessare l'intera
faccenda a mio padre.
Appena mio padre
era tornato dal lavoro, prima che si mettesse a tavola per la
cena, si era premurata di farlo accomodare in poltrona e poi,
piangendo, gli aveva chiesto perdono e confessato tutto quello che
gli aveva nascosto in quei due mesi. Gli espose anche i forti
sospetti che aveva al
riguardo dell’amica. Mio padre, che le voleva bene e che conosceva
la sua giovanile ingenuità (tra mio padre e mia madre c'erano dieci
anni di differenza), l'aveva dapprima perdonata e poi consolata. Poi
le aveva solo suggerito di pazientare e di stare tranquilla, perché
prima di rovinare un'amicizia, doveva essere completamente sicura
dei suoi sospetti, acquisendo delle prove concrete. Cosa che in
effetti accadde.
Qualche giorno dopo quella confessione, mia madre aveva sentito
bussare alla sua porta. Aveva subito intuito che a bussare fosse
proprio lei, l’amica, che ora, solo a sentirne il nome, le creava
angoscia. Questa, dopo aver invano bussato una seconda volta, era
entrata usando le sue chiavi. Una volta all’interno aveva chiamato
più volte mia madre, che, chiusa nel bagno, non aveva risposto.
Ormai sicura di essere sola in casa, aveva cominciato a rovistare
nei cassetti del comò della camera da letto, facendo quello che
probabilmente aveva sempre fatto. A quel punto mia madre era uscita
silenziosamente dal bagno, attirata dal rumore da quell’aprire e
chiudere cassetti. Disorientata e sconvolta dall’inaspettata
apparizione di mia madre, era improvvisamente sbiancata in viso. Per
qualche attimo era rimasta immobile, con le chiavi in mano, come una
statua di sale, probabilmente paralizzata dalla sorpresa e dalla
paura. Vedendola in quello stato, mia madre aveva colto l’occasione
per strapparle di mano il duplicato delle chiavi di casa. L'amica,
probabilmente presa dalla vergogna, se ne era andata via, a capo
chino, senza dire una parola, ma confessando in quel modo di essere
in colpa.
Da allora, per un bel pezzo, non si erano più parlate. Dopo qualche
anno iniziarono a scambiarsi qualche freddo saluto. Quattro anni
dopo, nell'agosto 1948, qualche giorno dopo la mia nascita, “la
colpevole” si presentò a casa nostra accompagnata da suo marito.
Avevano portato un regalino bene augurante per me, il tanto
agognato erede maschio della mia famiglia, e si erano congratulati con i miei genitori
per il lieto evento. Poi lei, l'amica, sciogliendosi in lacrime,
aveva abbracciato mia madre e le aveva chiesto perdono per tutto
quello che era successo tra di loro in passato. Si giustificò
dicendo che tutto quello che era successo era stato interpretato
male e che lei aveva fatto tutto a fin di bene. Diceva che, essendo convinta che mia madre fosse depressa e
sofferente di mali solo psicosomatici, riteneva che Leila l’avrebbe
“guarita”. Rovistava in casa solo per passare utili informazioni alla fattucchiera, che
con le sue “rivelazioni” avrebbe acquistato prestigio e credulità.
Mia madre le credette sulla parola e ci volli credere anch’io, anzi fui sicuro
della sua buona fede. Del resto nonostante le numerose “incursioni”,
in casa nostra non era mancato mai nulla. Da allora
mia madre e
la sua amica si rappacificarono. Negli anni successivi i miei genitori cercarono di dimenticare
quell’ambiguo episodio.
Personalmente ho un ricordo positivo di questa donna e di suo
marito. Per me prendeva spesso fra
sue braccia
come fossi suo figlio. In alcune vecchie fotografie del mio album
sono ritratto insieme a loro e la mia espressione è felice. Suo
marito, era un uomo semplice e buono. Grandi lavoratori, che col
tempo erano riusciti ad acquistare una porzione di villetta con
giardino ed un albero di fico, a
Collina Verde.
Spesso noi andavamo a trovarli per fare insieme un picnic all'aria
aperta. Una coppia che mi è stata sempre simpatica. Non avendo avuto
figli, (lei aveva avuto un parto prematuro e da allora aveva perso
ogni speranza poter partorire), mi portavano spesso dei giocattoli
in regalo. Uno di questi apparteneva a quella specie di giocattoli
dell'infanzia, che entrano nella storia della tua vita e che non si
dimenticano mai. Era una
trottola
tutta decorata con stelle, scoiattoli e strani omini, che quando
girava emetteva il suono di una sirena.
Una volta, tornando sull’argomento, chiesi a mia madre se a distanza
di anni fosse rimasta sempre dello stesso parere. " E' mai possibile
che fosse così intelligente da mettere su tutta quella tresca solo a
“fin di bene” e non invece per fini meno nobili?" Mia madre mi
rispose che era certa della sua buona fede e che, comunque non era
certo stato colpa della sua vicina. Questa non era cattiva ma,
probabilmente in quel particolare momento, era stata posseduta dal
diavolo, di cui mia madre, ne credeva l’esistenza.
Quando tra me e
mia mia madre si parlava del diavolo, io ero assalito
dal terrore e dalla paura Mia madre che lo sapeva, con fare pacato, mi diceva di
non preoccuparmi perché ormai tutto era tornato ad essere
tranquillo. Ogni cosa era tornata al suo posto, perché a casa nostra
il diavolo era stato sconfitto. Mi diceva (e ci credeva veramente)
che tutta quella vicenda si era risolta bene, grazie alla sacra
intercessione di
Santa Rita
da Cascia. Lei si rivolgeva con devozione a questa Santa,
protettrice dei casi difficili ed aveva sempre pensato che, attraverso le sue
preghiere, questa era intervenuta con una Forza Benigna sulla
vicenda. Il potere divino, superiore ad ogni altro potere, anche
quello malefico del diavolo, aveva costretto la fattucchiera a
parlarle e a svelarle la verità. Il resto della vicenda si sistemò
da solo.
P.S.
Anche se i tempi cambiano, le nuove generazioni hanno un ottimo
grado d’istruzione e la tecnologia avanza, nonostante tutto,
congenite debolezze e paure irrazionali permangono ancora tutte.
Ancora oggi purtroppo esistono delle persone che credono di trovar
rimedio ai loro mali e alle loro disgrazie ricorrendo a “maghi” e
relativi talismani.
Da grande e con più esperienza
ho sempre giudicato mia madre come una persona buona ma anche
ingenua, che credeva, in maniera esagerata, nella bontà del
prossimo, senza alcuna discriminazione. Quando era in vita non
ho mai osato contraddirla in questa sua filosofia , che io non ho
mai condivisa e continuo tuttora a non condividere. Per esempio,
l'effetto benefico delle pozioni di basilico ed aglio sulle
coliche di mia madre è scientificamente spiegabile dal fatto che le
foglie e le sommità fiorite del basilico vengono utilizzate
per preparare degli infusi che hanno azione sedativa, antispastica
delle vie digerenti, stomachica e diuretica, antimicrobica. Inoltre
il basilico è utilizzato contro l'indigestione e come vermifugo
dalla medicina omeopatica. Il consumo di aglio dà un generale senso
di benessere all'organismo per la sua azione anti batterica quindi
anti infettiva. Il malocchio, come la superstizione, sono antiche
credenze dell'uomo, che ancora oggi lo affliggono. Forse queste
credenze sono dettate dall'ignoranza o dalla paura che assale l'uomo
quando non riesce a spiegare logicamente alcuni fenomeni che gli si
presentano. Personalmente credo che ci sia una spiegazione razionale
a tutto e quando non riusciamo a capire ci rifugiamo nel
soprannaturale. Il teorema teologico del diavolo è un argomento così
vasto e complesso che non me la sento di affrontare in questa sede.
Credo di essere un credente, ma sono anche una persona razionale ed
uno scettico all'ennesima potenza. Spero che il Signore non me ne
voglia per questo mio modo di essere e che, quando verrà il mio
momento, mi accetterà così come sono.
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