LE VACANZE ESTIVE
Capitolo 18° |
(sottofondo
musicale :
Stessa spiaggia,
stesso mare
cantata da Mina
) |
Tripoli 1964 - Lido
Vecchio - da sinistra io, Piero
Provenzano e Tonino Virone |
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Nel
1960 le condizioni finanziare
della mia famiglia erano
notevolmente migliorate rispetto ai primi anni del 1950, tante che tutti e tre, mio padre, mia
madre ed io potevamo permetterci di andare ogni anno in vacanza in Italia.
Per andare a visitare questi
nostri parenti dapprima anche noi preferivamo viaggiare per
mare, pensando che fosse la cosa più sicura da fare, così
utilizzavamo la nave "Argentina", di cui serbo tanti bei ricordi
della mia infanzia. Negli anni successivi l'Argentina era stata
sostituita con un'altra nave, "La Città di Tunisi". Nel tardo pomeriggio ci imbarcavamo sulla nave
dal molo di Tripoli, e la mattina dopo eravamo già a Malta,
dove si faceva uno gradevole ed interessante sosta di mezza
giornata. La sera stessa arrivavamo a Siracusa, dove sbarcavamo e
proseguivamo il resto del nostro viaggio in treno per andare prima a
Marsala a visitare i miei
parenti materni e poi a Favignana, prendendo
l'aliscafo o il traghetto da Trapani, per vedere quelli
paterni. Per
andare in Calabria da mio nonno Giuseppe, che viveva a Natile Nuovo,
ripassavamo da Marsala e proseguivamo fino a Messina, per
attraversare lo Stretto col traghetto senza scendere dal treno e arrivare, sempre in
treno, a Bovalino Marina. Da lì prendevamo un autobus che ci portava
, attraverso i tornanti dell'Aspromonte, fino a
Natile Nuovo, che sembrava essere collocato in capo al mondo.
Quando anche mio zio Giovanni, il fratello più piccolo di mia madre,
si era andato a stabilire con la sua famiglia, in Lombardia, a
Robecco D'Oglio, ci faceva un giorno e mezzo di treno per arrivare
fin lassù.
Generalmente Marsala era la prima
delle nostre tappe. A Marsala, paese di nascita di mia madre,
alloggiavamo a casa di mia zia Franceschina , cugina di mia madre.
Franceschina era sposata con Nino Accardi, un diligente impiegato di
concetto che lavorava presso l'ufficio amministrativo della
rinomata casa vinicola Florio. La loro casa era ubicata in Via
Edmondo De Amicis. Io trascorrevo buona parte del mio tempo
giocando allegramente in compagnia di mio cugino Giacomo e con il
cugino più piccolo Enzo. Ricordo ancora che a casa loro mangiavamo
spesso a pranzo dei deliziosi piatti di aragoste cucinate in
diverse maniere. Una delle specialità culinarie della zia
Franceschina era il cuscus di pesce. Dopo aver speso circa una
settimana con loro Poi proseguivamo le nostre vacanze andando a
visitare i parenti di mio padre a Favignana e a Marettimo. A
Favignana c'era la sorella più grande di mio padre, Marietta
Ernandes, sposata Giangrasso. Sua figlia Francesca, mia cugina, si
era a sua volta sposata con un Ernandes, da cui erano nati Michele e
Mariangela , con cui giocavo perchè avevano più o meno la mia età. A
Marettimo, l'altra isola dell'arcipelago delle Egadi, ci abitava
un'altra sorella di mio padre, Concetta Ernandes, sposata con Nino
Sardina, un valente pescatore. Da questa unione erano nati
Emanuele, Domenico, Maria e Franca. Franca, la piccola dei quattro,
era quella con cui giocavo perchè aveva più o meno la mia età. Dopo
Marettimo proseguivamo il nostro viaggio per andare in Calabria a
trovare mio nonno materno Giuseppe e la sua seconda moglie Nunziata.
In Lombardia invece vivevano miei zii,
Giovanni Salmeri e
Bertilla.
Anche loro, qualche anno dopo, avevano deciso di lasciare la Libia e
di partire alla volta dell'Italia insieme alla loro prima figlia
Ninetta. Mia zia Bertilla, che da signorina faceva Posenato,
aveva una sorella di nome Miranda che era sposata con Domenico
Valvano, un vigile, ed insieme al loro figlio Vito vivevano a
Robecco d'Oglio. Questo è un paesino che dista pochi
chilometri da Cremona ed è situato sul fiume Oglio, non lontano dal
Po. Mio zio Giovanni, anche lui marinaio come il padre, aveva fatto
vari mestieri tra cui il pugile ed il muratore. Quando era giovane
era riuscito a disputare la finale per strappare lo scettro al
campione siciliano dei pesi mosca di allora . Al termine del match,
dominato da mio zio, il contrastato verdetto era stato di parità e
pertanto, per regolamento, il campione in carica manteneva lo
scettro. Il campione gli aveva concesso la rivincita, ma in quel
match mio zio aveva dovuto abbandonare l'incontro per una profonda
ferita all'arcata sopraccigliare, dovuta ad una testata
dell'avversario, non vista dall'arbitro. Dopo quell'incontro, finita
da poco la guerra, visto che non era riuscito a sfondare nel
mondo pugilistico aveva deciso di appendere i guanti al chiodo edi
dedicarsi ad altre attività. Aveva fatto il marinaio , poi aveva
imparato a fare anche il muratore. Giunto a Robecco aveva trovato
lavoro in una impresa edile. D'inverno però i lavori si fermavano
perchè era così freddo che la calcina gelava e non poteva
essere lavorata. La paga era scarsa ed ed il freddo umido della
Pianura Padana entrava nelle ossa. Era nata una seconda figlia,
Stefania, e subito dopo una terza, Maria Franca. Un altro
fratello di mia zia Bertilla, Ugo Posenato, che lavorava alla Snia
di Cesano Maderno aveva informato mio zio Giovanni che la fabbrica
assumeva nuova manovalanza. Così mio zio Giovanni nel 1962 era
partito da solo alla volta di Cesano ed era riuscito a farsi
assumere subito come operaio, addetto alla manutenzione di alcuni
macchinari che producevano filo per tessuti sintetici. Mio zio
Giovanni si era subito guadagnato la simpatia della dirigenza, per
la sua simpatia e per aver fondato per il circolo ricreativo
dopolavoristico degli operai della fabbrica un piccola scuola
amatoriale di pugilato. Nel 1964 era nata la quarta femmina, Giusy,
e da allora le sue ultime speranze di poter avere almeno un figlio
maschio si erano infrante. Dopo il pugilato si era impegnato
nell'allenare una sua squadra locale, l'Equipe 2000, con cui aveva
ottenuto dei lusinghieri risultati. Uno di questi ragazzi, il
portiere Rotella, aveva anche poi giocato come titolare di una
compagine di serie B.
Comunque era viaggi lunghi e faticosi da percorrere in treno
ed altre volte strani come mi capitò una volta, all'età di dieci
anni, per andare a visitare un amica d'infanzia di mia madre ,
che abitava a Castellamare di Stabia, un paese che si trova tra
Napoli e Sorrento. Quella volta a viaggiare eravamo soltanto
mio e mia madre, visto che mio padre non poteva muoversi da
Tripoli per un'urgente consegna di lavoro. Quando entrammo nella
stazione ferroviaria di Castellamare era ormai l'una di notte.
Un'ora tarda per disturbare la sua amica,quindi non restava altro
che trovare un albergo, che incautamente non avevamo prenotato. Era
un posto nuovo per noi, non sapevamo dove andare e avevamo un
urgente bisogno di trovare un letto dopo aver percorso un viaggio lungo e faticoso in
treno. Scesi dal treno fummo avvicinati da un facchino che aveva con
sè un carrello di ferro con le ruote. Senza avercelo chiesto aveva già caricato
le nostre valige sul suo carrello, assicurandoci , con aria
bonaria, che proprio
dietro l'angolo c'era un buon albergo con camere libere che lui
conosceva. Dopo averci fatto camminare per circa mezz'ora
finalmente arrivammo davanti alla porta d'ingresso di questo
albergo. Forse una trentina d'anni prima forse poteva anche essere
considerato un albergo di lusso, ma ora all'esterno appariva
decrepito e fatiscente. All'interno c'era un ampio salone, con un
enorme divano e delle poltrone con il tessuto comsumato,
mentre un vecchio ed enorme candelabro di ferro battuto pendeva
pericolosamente dal soffitto. Pagato il facchino, il portiere
dell'albergo, mezzo addormentato, ci diede le chiavi della stanza
numero 17. Mia madre già guardando il numero aveva storto la bocca.
Per la poca luce salivamo la scala che ci doveva portare alla nostra
stanza al primo piano. La scala era ricoperta da un vecchio tappeto
rosso sangue, con i listelli rotti. Salivamo le scale a
tentoni mentre le nostre immagini su riflettevano deformate su
enormi specchi appesi alle pareti. Nella nostra stanza c'era
un enorme letto matrimoniale ed un vecchio armadio probabilmente
costruito nel secolo precedente, che quando si apriva l'anta
emetteva un suono sinistro. Sdraiato sul letto mi
addormentai subito.
La mattina seguente, appena
aprii gli occhi, sentii mia madre che con voce imperativa mi
diceva:
-"Domenico andiamocene subito ,
i bagagli pronti sono" -
-"Ma che è successo?
Fammi almeno svegliare."-
"Andiamocene via subito
da questo posto" -
"-Ma mi vuoi spiegare che t'è
successo? Che c'è?"-
-"C'è che stanotte io non ho
chiuso occhio. In questa stanza ci saranno stati come minimo,
minimo almeno dieci camerieri, tutti vestiti di bianco, che
ballavano davanti al nostro letto.".
-"Ma dai, forse te le sei
sognati.".
-"Ma
quali sognati. Camerieri veri erano , con tutte facce strane.
Sbrigati andiamocene subito da questo posto. Anzi sai che ti dico,
dalla mia amica non ci andiamo neppure, ci inventiamo
una scusa, torniamocene subito a Siracusa, ci imbarchiamo
sull'Argentina e ce ne torniamo a casa".
E cosi fù. Rifacemmo indietro in
treno tutto il viaggio di ritorno non-stop, senza aver visto la sua
amica d'infanzia. Tutto questo per colpa di alcuni
strani fantasmi o camerieri, vestiti di bianco, come diceva lei,
scaturiti dalla fantasia di mia madre, probabilmente dovuta alla sua
stanchezza del viaggio in treno e allo spavento preso guardando gli
enormi specchi deformati dell'albergo. In seguito, raccontando
quest'episodio, continuava ad asserire che lei quei camerieri
danzanti li aveva visti per davvero danzare davanti al nostro letto
e che nessuno gli poteva togliere dalla testa che quei fantasmi
esistessero realmente.
Negli
anni successivi, partendo da Tripoli, avevamo cominciato anche
noi a prendere l'aereo. I motivi che ci avevano indotto a cambiare
mezzo di trasporto erano diversi e forse tutti validi.
Primo, da qualche anno il prezzo del carburante era sceso e così
anche il costo del biglietto aereo; secondo, viaggiando in l'aereo si
arrivava molto prima a destinazione; terzo, volare era una cosa
nuova e quindi maggiormente eccitante. In quel periodo gli aerei della
flotta Alitalia, la nostra compagnia di bandiera, la cui ultima sede
tripolina era stata in Sciara Haiti, volavano giornalmente
dall'aeroporto di Castel Benito (Tripoli) a quelli di
Fontanarossa (Catania) e di Fiumicino (Roma). Alcune volte, in
alternativa, quando spesse volte gli aerei Alitalia erano pieni,
volavamo anche con la linea aerea locale, la Libyan
Airlines, che era affidabile ed offriva un servizio di bordo
altrettanto ottimo. Devo confessare che, a partire dall'età di dodici,
l'età del mio sviluppo, andare in Italia in vacanza non sempre mi
piaceva, anzi, a dire il vero ci andavo malvolentieri. Dopo la
fine della scuola quasi tutti noi, ragazzi e ragazze del rione,
ogni mattina andavamo a piedi in spiaggia allo stabilimento balneare
del Lido Vecchio, che era a due passi da casa nostra. C'era
chi aveva la cabina per cambiarsi e chi no. Io non l'avevo e
andavo direttamente in spiaggia indossando il solo costume ed un paio
di ciabatte. Lì incontravo amici e amiche del rione con le
rispettive mamme. Ma c'erano anche altri ragazzi e ragazze che con i
loro genitori venivano da altre zone di Tripoli. Al Lido Vecchio mi
incontravo con i miei compagni di scuola dei Fratelli Cristiani Piero
Provenzano e Tonino Virone. Molte volte andavamo insieme nella
spiaggia accanto del Lido Nuovo, dove incontravamo un altro compagno di
scuola, Giancarlo Biscari, ed un caro amico ebreo, nostro coetaneo,
Ariel Raccah, fratello del famoso pugile tripolino Vittorio Raccah,
autore di indimenticabili incontri di boxe nel ring del Circolo
Italia con l'altro eccellente pugile, Giovanni Tantillo. C'erano altri
amici come Gianni Fakouri, Enzo vaccarini, fratello di Umberto e
Michele Spina. Poi anche alcune ragazze, nostre coetanee, che avevamo
cominciato a frequentare al Lido Nuovo , tra queste Marisa
Nannini e Marika Gendusa. Era cominciato già per me e per i miei
coetanei il periodo della pubertà, quando sia ragazzi che ragazze
facevano gruppo a sè e da entrambi i gruppi partivano già le
prime occhiate furtive, i primi rossori, i primi ammiccamenti, i primi
segnali di comunicazione non verbale. Era anche il periodo che nelle
sale cinematografiche tripoline proiettavano spesso film
mitologici, in cui erano protagonisti Ercole, Maciste e Sansone.
I nostri eroi da imitare erano i mitici attori Steve Reeves ,
Gordon Scott e Victor Mature. In spiaggia coperti solo dai
nostri costumi da bagno, con il busto eretto, petto in fuori,
pancia in dentro, facevamo comicamente mostra dei nostri scarsi
pettorali ed addominali per assomigliare a quei personaggi
muscolosi, pensando di piacere alle femminucce. Queste ci guardavano
e sorridevano con sufficiente benevolenza, poi i loro occhi
maliziosi correvano ad ammirare i ragazzi più grandi, quelli che
gli addominali li avevano sviluppati davvero. Quando stavamo solo
tra noi ragazzi, ci divertivamo a giocare sulla sabbia con le
palline di vetro colorate, facevamo lunghe nuotate, camminavamo a piedi
lungo la battigia con dei secchielli per andare dove c'era uno scoglio
che aveva un'abbondanza di granchi, gamberetti e ricci. Per arrivare a
questo scoglio bisognava camminare lungo la battigia dalla parte
opposta al Lido Nuovo, fino a quasi l'altezza dello stadio Maccabi.
Questo stadio, che prima di diventare esclusivamente un campo di calcio
di secondo ordine, dove si allenavano molte squadre di serie A
tripoline. Un tempo , attorno al campo di calcio, lo stadio aveva avuto
una magnifica pista ovale dove si svolgevano numerose competizioni di
speedway, che richiamavano tanto pubblico. Nello stabilimento balneare
del Lido Vecchio c'era anche un piccolo bar dove potevamo giocare a
calcio-balilla o a flipper. In un angolo del locale c'era un jukebox,
che a quell'epoca a Tripoli rappresentava una novità. Se si
giocava a calcio-balilla e nel bar entrava improvvisamente qualche
ragazzina che si conosceva e che magari piaceva a qualcuno di
noi, davamo una gomitata all'interessato per attirare la sua
attenzione. Gli interessati più timidi e vergognosi diventavano subito
rossi in viso. Forse avrebbero voluto parlare, ma cominciavano a
balbettare e si impappinavano oppure abbassavano la testa e
facevano finta di continuare a giocare a calcio balilla, senza sapere
che cosa altro fare. Debbo confessare che a me, spesse volte, capitava
di fare proprio così. Invece quelli più sfacciati e sicuri di sè
, sorridendo disinvoltamente alla ragazza, si avvicinavano al jukebox,
inserivano un gettone, selezionavano un disco e guardandola negli occhi
le dedicavano una canzone. In maniera pensavano di dichiarare alla
ragazza il loro amore, quasi sempre platonico, come un tempo lo
facevano gli innamorati quando , attraverso un menestrello,
dedicavano una serenata alla loro amata.
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