Qualche
sera prima dell’estremo addio (29 novembre 1994) mio Padre mi affascinò
con questo racconto che ricordo in omaggio della sua industriosa
giovinezza. Da lassù sorriderà per la mia attenzione
Il
faro dei Sabry
Un
giorno di un anno imprecisato un certo Alì propose a mio Padre in tono
di amicizia:
“Tu
venire seminare con me grano, fuori?”. ‘Fuori’ per l’Arabo bengasino
significa ‘lontano dalla città, all’aperto in territorio disabitato’.
“Per ogni sacco, cento sacchi” aggiunse Alì per invogliarlo.
La
terra rossa della Libia è famosa per la sua fertilità; proprio per
questo l’impero di Roma contava sul grano della Cirenaica, ricevuta in
dono da Tolomeo Apione. Mio Padre che aveva il carattere ottimista
dell’Ariete e del pioniere accettò con fiducia l’invito e concordarono
sui momenti della semina e del raccolto. Lui che si interessava di
ristrutturare qualche sua casa e del suo lavoro e non s’intendeva
soprattutto di semina, avendo respirato, in famiglia, aria di edilizia
anticipò i soldi ad Alì che pensò al resto. Quando giunse la primavera,
partirono insieme per vedere il loro campo, vi giunsero a cavallo, ma
di grano nemmeno l’ombra. Non si sa, forse non era mai spuntato; forse
era stato brucato dai cammelli o dalle pecore, forse non trovarono il
loro ‘fuori’. Così, dopo aver cercato inutilmente, perdendo tempo
prezioso, quando s’inoltrarono sulla strada del ritorno tramontò il
sole. Procedevano nell’oscurità, tra lande apparentemente senza segno
di vita, per compagnia avevano il freddo della notte desertica e
l’ululato delle iene. A quell’epoca, nella città di Bengasi vigeva il
coprifuoco alle 20, perché in Cirenaica vi erano i ribelli. L’Italia
aveva conquistato la fascia costiera della Lybia, ma non le oasi
dell’interno ed i ribelli combattevano ancora a favore della Turchia:
agguati mortali, dove restavano sul terreno i giovani dell’esercito
italiano ed i giovani del dominio senussita; il loro capo era Omar el
Muktar. Mio Padre si era prefisso di rispettare il coprifuoco, ma
questo era scaduto. Non fu un problema per Alì che se ne andò a dormire
nella sua tenda. A mio Padre, rimasto senza guida, non solo si presentò
il problema del coprifuoco ma, sconoscendo i luoghi, perse
l’orientamento; invece di avvicinarsi alla città se ne allontanò e
chissà dove andò a finire. Era poco più che un ragazzo, avrà avuto
venticinque o ventisei anni. Per obbedire alla Patria si era trovato in
Libia durante la guerra del 1911-12 e vi era rimasto su invito del neo
governo italiano della Cirenaica. Cavalca, cavalca, cominciò a sentire
la stanchezza. A mezzanotte percepì strani rumori, vide nel buio fuochi
per aria e fuochi che scoppiettavano davanti a lui, e, davanti alle
zampe del cavallo, delle ombre chiare che oscillavano avvicinandosi e
allontanandosi, tanto che il cavallo si imbizzarrì. Per quanto fosse di
carattere intraprendente, si sentì quasi abbandonare dal suo innato
ardimento. Quando fu a breve distanza, con presenza di spirito cominciò
a parlare in arabo alle ombre. Egli era molto generoso per natura e
questo fu nella sua vita un grande vantaggio, si faceva voler bene da
tutti, così distribuì alle ombre quel che aveva di soldi, sigarette e
non so quali altre cose e se li ingraziò. Gli Arabi chiamano Ginn le
ombre degli spiriti. Secondo la tradizione islamica sono esseri
suscettibili, popolano lo spazio fra terra e cielo, insidiano gli umani
i quali si difendono con formule propiziatorie ed offerte. Ma erano
proprio Ginn? No! Erano ragazzini arabi, che fluttuavano fra bianchi
barracani, volendolo impressionare come se fossero Ginn!
Raccontò
loro che aveva perduto la strada per Bengasi, essi gliela indicarono e
lo accompagnarono per un buon tratto, indi si congedarono da buoni
amici, raccomandandogli la luce del faro. La notte era senza luna. Ad
un tratto mio Padre vide una luce mobile, era il faro del porto che
proiettava i suoi raggi fendendo l’oscurità notturna; questo fu
l’ancora della sua salvezza. L’entusiasmo innato non lo aveva
abbandonato e decise di seguire il fascio che si perdeva in una
lontananza indefinita illuminando il mare e si diresse con matematica
certezza verso la periferia di Bengasi. Giunse alla grande porta Sabry,
dove entravano quelli che provenivano dal Gebel, località abitata da
negri Sudanesi, dove vi era un palmeto, tra le spiagge e le sebke. Tra
le sebke, il mare, il villaggio di negri, il palmeto e la porta Sabry
la vigilanza del coprifuoco risultò nulla. Era notte fonda, la città
era immersa nel silenzio; sistemò il cavallo nella scuderia e sognò di
andare finalmente a riposare.
La
storia non finisce qui. Per evitare rumori alla padrona di casa ed ai
vicini, decise di non aprire il portone. Si recò in un fonduq, dove vi
era una carbonaia con la porta aperta e facendo un piccolo spiazzo con
le mani si riparò lì in mezzo, con tutti i vestiti ed aspettò con santa
pazienza l’orario decente per rientrare.
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Bengasi 1930.
Faro della Testata Molo Italia |
Gite
al Lete
Varie
volte andai al Lete con i miei, in gita sociale o familiare. Lete si
trova a 9 km. da Bengasi.
Nella
mitologia greca, Lete è il fiume dell’oblio nell’oltretomba, a cui,
secondo Platone, dovevano abbeverarsi le anime destinate a nuovi corpi.
Nella Divina Commedia, il Lete è collocato nel Paradiso Terrestre.
Nelle sue acque che danno l’oblio dei peccati trascorsi,Matelda immerge
Dante per renderlo degno di “salire alle stelle”. Le numerose
depressioni con i giardini, che esistono nel territorio del Lete,
nell’antichità furono identificati con gli orti delle Esperidi. Presso
il Lete sorge una palazzina che veniva adibita a ricevimenti politici o
privati. Vi era stato accolto, con grandi onori, anche Mussolini. Lungo
i viali di eucalipti e nel piazzale antistante venivano preparate
lunghe tavolate e tavolini per consumare i pranzi delle gite.
Inoltrandoci lungo l’imboccatura delle depressioni di natura carsica,
si aveva l’impressione, d’estate, di scivolare sull’oro, tanto
luccicavano le stoppie dardeggiate dal sole. Invece ci si sentiva
sbalorditi se lo sguardo indagava oltre il ciglio delle doline, perché
si scopriva il fitto fogliame di piante coltivate che erano vive grazie
all’acqua del Lete il quale scorreva per breve tratto all’aperto prima
di perdersi in una grotta. Erano piante di fiori, di fichi, di ulivi,
di aranci, di limoni; si restava attoniti a causa di tanti colori,
fragranze, silenzi, interrotti dal cinguettio degli uccelli; l’animo
navigava in un paradiso naturale ... Ad un certa ora andavamo alla
barcheggiata, nel chiuso della grotta, e in qualche passaggio si doveva
abbassare un po’ il capo per non urtare contro la roccia. Le acque
della grotta erano illuminate da faretti rossi, bianchi, verdi, gialli,
azzurri che rendevano il luogo dì sogno.
Terminato il giro uscivamo a rivedere la luce naturale e si tornava a
casa felici e contenti.
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La Grotta d'ingresso al fiume Lete |
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Bengasi di notte . Anno 1930 |
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Bengasi 1950 |
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