La
mia adolescenza non morì lentamente, fu assassinata dalla guerra del
1940 e conseguente cataclisma abbattutosi su di noi, del tutto
impreparati, che stavamo in Cirenaica, sotto forma di bombardamenti
diurni e notturni di cielo e di mare, caduta del fronte di Tobruk,
invasione di nemici, inglesi, marocchini, australiani, legionari
d’Algeria, una fuga senza preavviso con la promessa da parte delle
autorità che saremmo tornati a Bengasi entro quindici giorni.
Profughi
di Libia
Passarono
i quindici giorni, a dormire sulla paglia piena di pidocchi in una
scuola di Tripoli, poi ci imbarcarono sul“Conte Rosso”. Ancora sento i
brividi di terrore, quando il comandante ci disse, durante la
navigazione, di notte, che dovevamo buttarci a mare prima che
affondasse, se il transatlantico fosse stato silurato. Questo mi sembrò
alto quanto un grattacielo. Guardai dal parapetto il mare nero, là in
fondo, e pensai: “Non mi salverò, morirò annegata”.
Sbarcammo
a Napoli il primo febbraio del 1941 e con una Signorina che mia madre
conosceva e con altri profughi ci recammo in treno in una grande città
del Nord Italia. La
Signorina andò dai suoi parenti ma ritornò piangendo perché non fu
ospitata. La ricordo come una donna fragile. Ci raccontò la sua vita di
sacrifici: orfanella, aveva gestito il negozio dei genitori,consentendo
al fratello di laurearsi in ingegneria; pianse, cantò “San Francisco io
t’ho lasciata un dì”, incoraggiò se stessa, fidando per il suo avvenire
nel diploma di maestra e se ne andò a dormire a digiuno.
A
noi dissero, nell’alberghetto dove ci avevano gettato, di tornare al
nostro luogo d’origine perché Milano era piena di profughi, anche
Istriani, e non c’era da mangiare per noi nuovi arrivati. Scesi per comprare del
cibo, ma con tutti i soldi in mano ritornai in albergo senza niente.
Ricordo
di quella grande città, una strada fangosa per la nevedisciolta, il
cielo nero per la nebbia ed io che affondavo con i miei sandaletti
libici.
Laggiù
era primavera
Avevo
lasciato pochi giorni prima le margherite sui prati! Laggiù era
primavera! Avevo lasciato la tavola apparecchiata, sacchi di zucchero
nel deposito della nostra azienda che arrivavano fino al tetto,
fiaschetti di miele che ogni anno mi regalava Mahmud Scemsa - il capo
trasporti merci e custode dei cavalli dei carri - tutti ben allineati
sulla credenza accanto a una bottiglia di liquore Millefiori; casse di
caffè, di thè, damigiane di olio e di vino, scatole da cinque
chilogrammi di tonno sott’olio, galline in un recinto del giardino,
perché mio Padre buonanima, ipotizzando un assedio, aveva fatto queste
scorte.
A
Parma
Il
giorno dopo salutammo con una stretta al cuore la Signorina che ci
aveva fatto tanta simpatia e andammo a Parma dove lo zio Teodoro
Toscano, professore, fratello delle mie due nonne ci accolse con
indimenticabile ospitalità, mettendoci a disposizione la stanza dei due
figli in guerra. Abitammo in via del Correggio per un anno scolastico e
frequentai la quarta ginnasio. La scuola era nell’Oltre Torrente.
Quando nevicava i tram non facevano servizio e a me che sprofondavo
nella neve restavano piedi, gambe, calze e scarpe bagnati fin quando
tornavo a casa. A Parma il termometro scendeva sotto zero, lo zio
esclamava: “Siamo in Siberia!”. A Parma vivono ancora tre dei figli
dello zio: padre Pino, Pina, professoressa in lettere e Angelo,
otorinolaringoiatra, titolare di una casa di cura.
Vi
saremmo rimasti, ma fu tale la differenza di cibo, la preoccupazione
per mio Padre che era rimasto a Bengasi, fronte di guerra (richiamato alle armi
all’età di cinquantaquattro anni), la mancanza del mio quartiere,
l’angoscia di non essere nella mia casa, con le sue terrazze calde di
sole africano, il suo giardino, fu tale la sofferenza per la mancanza
del mio cagnolino Alidoro (voleva partire con me e si disperò come un
essere umano; inseguì l’autobus su cui mi trovavo con le sue zampette
veloci, fino ad Agedabia, poi non lo vidi più ePapà mi scrisse che era
ritornato a casa), fu tale il ricordo di coloro fra cui avrei scelto il
compagno della mia vita, degli operai e delle loro famiglie che mi
trattavano come una reginetta, e la mortificazione dovuta ad una
professoressa che con sottile ironia mi diceva “Come si vede che sei
meridionale, pronunci le vocali aperte”, che non mi funzionarono più
gli intestini. Ero piena di geloni. Lì compii i miei quindici anni, che
tutti dicono i più belli per una ragazza.
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La signora Nolfo, amica della
famiglia Privitera,
fu madrina di Prima Comunione di Silvia, sorella di Francesca |
Rosa Scuto fu madrina di Cresima
di Francesca Privitera |
I
cuginetti di Francesca Privitera, Elvira,Isabella e Giovanni Natrella |
Ritorno
al sole mediterraneo
Per
consiglio del medico ce ne andammo al Sud, alla ricerca del cibo e del
sole mediterranei. Recuperammo queste due cose, ma ci mancò soprattutto
quel filo invisibile della vera amicizia che lega le persone per
affinità spirituale e di problemi. Rintracciammo alcuni amici di
famiglia, sparsi per le regioni del Nord Italia, ma li perdemmo in
pochi anni, perché non resistettero all’impatto con una vita diversa,
ad una certa età, e senza soldi. Come aveva previsto il medico, mi
rifluì la vita, sin dalla prima aria iodata che respirai sul traghetto
Reggio-Messina. Appena arrivati nella città d’origine la amatissima zia
Laura, sorella dello zio Teodoro, mise subito a nostra disposizione la
sua casa e ci preparò del tonno con cipolle e contorno, fritte
nell’olio d’oliva e qualche goccia di aceto e pasta alla salsa di
pomodoro, maturato al sole.
Ricordo
che mi sentii ritornare la gioia di vivere quel giorno e mi rinforzai
subito. Al Nord, siccome era tempo di guerra, sul mercato c’era
soltanto pesce di fiume. In
famiglia ci confortavamo con le parole: “Fra quindici giorni tornerete”.
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Cosimo Privitera, fratello di Francesca, con l'amico Marcello
Banchieri. Cosimo e Marcello erano alunni dell'Istituto de La Salle di
Bengasi nel 1938 |
Ellen Sfairidios di atene, moglie di Adoni |
La signora Maria di Egina, sarta a Bengasi |
Storia
della seta in Sicilia
Quando
arrivammo al luogo d’origine, la città di Acireale ruotava attorno ad
altra politica. Papà, partito ragazzo, tornava dopo più di
quarant’anni, dopo aver partecipato a due guerre di cui una perduta.
Mia madre era fortemente demoralizzata e piangeva sempre. Quelle parole
ci davano la forza di vivere e la speranza di ritornare a vivere come
una volta. Tra noi e la città non c’era afflato, perché appartenevamo
alla classe sociale dell’alta borghesia della seta, letteralmente
scomparsa con le tariffe doganali del 1887, con cui iniziò
ufficialmente l’era del protezionismo industriale in Italia. (Vedi: Storia di Sicilia di R. Romeo e Memoria per la
libertà delle manifatture della seta nel Regno di Sicilia di Carlo Vanni).
Il
Vanni dice che l’arte della seta fu introdotta in Sicilia dal re
Ruggero II nel 1141 e che si mantenne alla maniera greca in privati
opifici e con private maestranze fino al 1514. L’Editto del 1781, dice
che il re Ferdinando IV concesse a tutte le popolazioni della Sicilia
la libertà delle manifatture della seta, che però dovevano essere
soggette ai tre Consolati di Palermo, Messina e Catania, istituiti
dall’imperatore Carlo V nel 1530. Fra le moltissime notizie del Vanni
per me è stato molto interessante sapere che il commercio della Sicilia
produceva 200 mila libbre di seta ogni anno per il bisogno delle
Nazioni estere. La legge delle tariffe doganali colpì in pieno
l’attività economica delle mie due nonne nella loro giovinezza. Anche i
miei genitori ne conobbero le conseguenze negative, perché
l’avvenimento era contemporaneo, essendo nati rispettivamente due anni
dopo, e otto anni dopo il 1887.
Alla
prestigiosa arte della seta appartenevano i miei genitori, che erano
figli di due sorelle. Le due nonne si chiamavano Isabella e Francesca
Toscano. Il loro padre, cioè il mio bisnonno era commerciante epigone
della seta, professore di lettere e pianista (da cui i nomi letterari
delle tre figlie. “Non gli usuali Carmelina e Concettina” - precisava
mia madre!). I Toscano abitavano nel quartiere Santa Maria del
Suffragio, a quei tempi fortemente industriale. Si identifica col
precedente confortevole centro della città, su un altopiano lavico, con
una stupenda veduta del mare Ionio. Una lunga strada porta ancora il
loro cognome; stretta, con varie curve, denota la sua urbanistica
medievale.
A
Santa Maria del Suffragio vi erano fondaci di grano e vino, vi fioriva
l’industria della seta. Santa Maria del Suffragio era al centro di una
strada che collegava il porto mercantile di Santa Maria La Scala con
Acireale; al “Tocco” le maestranze costruivano barche per la pesca
costiera. Molti nuclei familiari di questi tre luoghi densamente
popolati, incoraggiati dai legami di parentela, a causa del tracollo
delle industrie della Sicilia, emigrarono in massa, verso il 1900, in Cile, in Uruguay e
soprattutto in Argentina, dove si distinsero per ingegno e laboriosità
divenendo ben presto proprietari di flotte di pescherecci e di
industrie per la conservazione dei prodotti inerenti al mare.
Ancor
oggi i loro discendenti ritornano a Santa Maria La Scala per la festa
della Madonna loro patrona e per San Sebastiano. Ogni volta la memoria
si fa vita nuova. Nel
dicembre 1996 è stato stretto un vincolo di gemellaggio tra Santa Maria
La Scala e Mar del Plata. A Santa Maria La Scala alla presenza del
Sindaco di Acireale, nella calda e fraterna amicizia del gemellaggio,
tra processioni, funzioni, spettacoli pirotecnici, musiche bandistiche,
discorsi e targhe è stato suggellato il profondo antico e nuovo legame.
I
discendenti degli abitanti di Santa Maria La Scala che abitano a Mar
del Plata sono aggregati alla Parrocchia, la Sacra Famiglia, hanno una
riproduzione della Madonna della Scala e celebrano la sua festa nello
stesso giorno, come nel luogo d’origine.
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Bengasi,
(Lete) 24-5-1938. Seduti
al centro, in primo piano, la madre di Francesca Privitera col
cappellino ed il padre che sta fumando un avana. Francesca, col fiocco
in testa, è seduta al tavolino, sulla destra in foto, con Wally e
Marianna, figlie del maresciallo Rizza.
|
I nonni
La
legge del 1887 travolse anche la coltura del gelso, l’allevamento del
baco da seta, la tintoria delle stoffe. Intere famiglie della Sicilia e
del Sud crollarono economicamente, culturalmente, socialmente.
La
sorte del nonno paterno e materno seguì quella del bisnonno. Era un
costruttore edile, fra l’altro aveva costruito delle chiese in alcuni
Comuni; possedeva un palazzo sul corso Umberto, all’altezza del parco
comunale, a due piani, sei balconi per piano, per la residenza della
famiglia, e vari immobili a Sciarelle, in periferia; un “giardino”(così
qui vengono chiamati gli agrumeti) a Cannizzaro, una casa con vigneto a
Stazzo-Mare (oggi si dice la “seconda casa”), un podere e case ad
Aci-Catena. Siccome commercio, edilizia e cultura vanno in conseguenza,
dopo il crollo del commercio, crollò l’edilizia e mio Padre non si poté
dedicare agli studi, per di più, rimase orfano ancora ragazzo. La nonna
paterna rimase vedova con cinque figli; i parenti le dicevano: “Hai
bisogno? Vendi e mangia!”. Così tutto era stato venduto tranne la
legittima dei figli.
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I
fratelli Dneini, Suleiman , Salah, Hassen nella loro fabbrica di
bibite. Lavorando nella ditta di Giuseppa Zappalà, madre di Francesca
Privitera, i signori Dneini appresero l’arte che attivarono in proprio
dopo la partenza degli italiani
|
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Raffa
Mansur con i figli.La famiglia Raffa d’estatelavorava in campagna con
icammelli e d’inverno si ritiravain via Sneidel.
|
L’emigrazione
di papà
Questo
periodo coincise con l’emigrazione dall’Italia che superò il mezzo
milione annuo di persone, nei primi dieci anni del 1900. Papà, a sedici
anni, emigrò a Malta (potentissima base navale dell’allora ricchissima
Gran Bretagna). Lavorò specialmente con gli Inglesi che lo pagavano con
le sterline d’oro, da lui custodite in una caratteristica cintura a
doppio fondo. Accumulato un gruzzolo, si imbarcò su un veliero che
faceva la spola Malta-Calamatta; intraprese l’importazione di spugne,
tessuti, tappeti e frutta secca.
Richiamato
alle armi, suo malgrado, dovette partire e partecipare alla guerra del
1911-12; meritò una medaglia di bronzo. Equipaggiato da viaggiatore,
fidando nelle proprie nozioni di Arabo e di Inglese commerciale, si
mise in cammino per rilevare le tattiche e le logistiche dei Turchi.
Congedato
in Libia diede 25.000 lire al prestito nazionale e virestò perché
invitato dal Governo Italiano della Libia. Era in atto l’ordinamento
della Colonia; c’era bisogno di uomini rispettosi della dignità dei
vinti che si dovevano soccorrere, erano stremati dalla guerra, dalla
carestia, dalla pestilenza.
Mio
padre fu apprezzato per le sue doti civiche e morali ed il Governo gli
affidò incarichi di responsabilità. Quando tornammo a Bengasi, dopo
diciassette anni, nel 1957, gli Arabi non lo avevano dimenticato, lo
aspettavano sulla banchina del porto, lo sollevarono e lo portarono in
trionfo sulle spalle, inneggiando il suo cognome, fino a una Ford
azzurra che lo attendeva, messa a disposizione da loro. Suonava il
clarino. Il clarino di ottone splendente, avvolto nel panno giallo oro,
custodito gelosamente nell’astuccio, rimase nel cassetto insieme alla
medaglia.
I
miei genitori, come cuginetti, si vollero bene sin da piccoli. Mio
Papà, una volta le regalò un veliero costruito in un guscio di noce,
raccontava la Mamma. Egli era dell’Ariete e Mamma del Capricorno: erano
affini, perfezionisti, tenaci sul lavoro. In Grecia vi era una ragazza
innamorata di lui, come Rossella perAshley: lo so da un raro accenno
che me ne fece (di ciò mi sento ancora privilegiata, perché lui era di
poche parole ed io non mi sognavo di fare domande indiscrete). Ma i
suoi ritorni frequenti erano da sua madre e da nonna Isabella che
stimava quel nipote affet-tuoso, dal cuore grande, dall’aria per nulla
provinciale.
La
Mamma
La
Mamma, da quanto ho capito, aveva un sacco di tabù sul matrimonio
(dovuta alla rigida educazione del collegio), frammischiati a
inconfutabili principi. Le avevano insegnato che i gradini dell’altare
del matrimonio sono i gradini del sacrificio, perché per seguire i
figli bisogna annullare se stessi, inoltre bisogna avere i mezzi per
nutrirli e sentire il dovere di creare solide basi su cui fondare la
famiglia. Questi principi Ella li lasciò in eredità a me. Papà per
farsi accreditare da mia nonna le mostrò i suoi risparmi e lei disse a
mia Madre in tono suadente: “Angileddu è beddu, ti vuole bene,
travagghia, avi la casa e i mobili, è sulu luntanu e non si fa mangiare
i soldi: sposalo figlia mia !”.
La
zia le diede man forte! Quando egli decise di sposarsi mia Madre
rimandò lui e la data di matrimonio di un anno perché doveva completare
una coperta a filé in stile greco-romano. Lui le disse: “Te la compro
uguale, non farmi ritornare solo”.
Lei fu irremovibile. Mi sottolineava:
“Quando una si sposa, da due, all’indomani, si può essere in tre. Come
avrei potuto finire la coperta a filé con i figli che fanno ngué-ngué
?”. Una vicina dirimpettaia le disse che aveva visto piangere Papà
mentre scendeva le scale. “Chi
lo sa se ritornerà?”. Quella coperta era l’orgoglio del corredo di mia
Madre e rimase come una beffa del destino nel baule, con tutto il suo
prezioso contenuto, a Bengasi. Chissà se quelli che profanarono quel
baule ne capirono il valore!
Nonna
Isabella
I
fratelli impedirono alla nonna Isabella di giungere al Diploma
Magistrale, perché aveva la colpa di essere bellissima e di avere tanti
corteggiatori, fra cui un professore di Catania; secondo i suoi
fratelli a causa della questione dei Consolati della seta e relative
opposizioni, controversie e rimostranze reciproche fra le due città,
suo marito non doveva essere un catanese. E così fu; il professore ebbe
l’ordine e la minaccia di non passare sotto i suoi balconi. La nonna
sposò uno della città di Acireale, non chi voleva lei. Era uno che non
aveva capito che il vento dell’industria aveva cambiato direzione. Gli
fecero “fare il fegato marcio” e morì lasciandola giovanissima con
quattro figli, di cui mia Madre era la più grandicella (14 anni), e con
pochi mezzi. Perciò mia nonna si sacrificò per far conseguire un titolo
di studio a mia Madre (e questa fu poi inflessibile a sua volta per
farmi completare gli studi).
La
Mamma aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento
elementare con 100 punti su 150 e il diploma della Scuola Professionale
Margherita di Savoia di Catania: ricamo punti 10, disegno e ornato
punti 8. All’attivo di mia Madre vi è una pubblicazione:
“L’insegnamento dei Lavori e dell’Economia domestica nelle scuole
elementari femminili. Luglio 1921”.
Mi
piace riportare il fine morale di questa pubblicazione: “La brava
massaia, oltre ad avvantaggiare il bilancio della sua casa, trova nel
lavoro la fonte migliore della serenità ed è distolta dai pettegolezzi,
dai dispiaceri, ai quali possono andare incontro le donneoziose. ... La
massaia quando constata che le fanciulle a scuola imparano meglio di
chi rimane a casa fa adempiere premurosamente l’obbligo scolastico alle
figlie”.
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Giarre,
27 luglio 1965. Francesca Privitera nel giorno delle nozze con il Prof.
Giuseppe Sparti.
|
“Questa
è la casa”
I
miei genitori lavoravano per evitare il ripetersi delle storie di
famiglie grame. Un giorno, a Bengasi, quando avevo nove anni ed ero già
signorina, mio Padre, mentre mi conduceva a passeggio, incontrò un
conoscente all’altezza del Viale Regina, angolo via Nabbus. Indicando un edificio,
disse orgogliosamente: “Questa
è la casa che darò a mia figlia in dote, quando si sposerà!”.
Mi
sentii al sicuro, a nove anni avevo già la dote!
“Mamma, perché non andiamo alle gite a
Derna, a Cirene, ad Apollonia?”. “Perché devo farti la dote. Il ferro
si batte quando è caldo. Ora ho il lavoro, non posso trascurarlo”.
Era
vero! Quel che
aveva indicato mio Padre, confermò quel che diceva la Mamma. Come la
coperta a filé per mia Madre rappresentava il completamento della sua
dote, così anch’io ero cresciuta senza accorgermene al culto della dote
e senza questa non concepivo il mio matrimonio. Quando rimasi lontana
da quella casa di cui mio Padre aveva detto a quel modo,
automaticamente per me, il matrimonio fu altrettanto lontano.
Agli
esami di maturità fiorì una simpatia fra me e un convittore maturando
del collegio Pennisi. I miei genitori erano scombussolati, non
giungevano entrate dalle rendite, ci sentivamo umiliati dalla guerra.
Non mi fidanzai. Lui mi disse: “Hai anteposto lo studio all’amore”. Mi
resta un rimpianto per Vittorio, l’affabile ragazzo della provincia di
Caltanissetta.
Nel
1965 mi sposai con un professore di Matematica. Nel 1966 ebbi un
figlio, ne fui felice.
Per
molti anni non comprammo mobili e declinai matrimoni, perché secondo
noi tutto doveva ricominciare dalla nostra casa a Bengasi: lavoro,
guadagno, dote, pranzi, fidanzamento, matrimoni, vita e miracoli!
Perché lì era la nostra casa! Meno male che ci sostenne la speranza di
tornare a vivere come una volta, altrimenti ...
La
salute di Papà non era più quella di una volta, lo reggeva la sua
fortissima fibra. Passarono i giorni, i mesi, gli anni: diciassette
anni. Si parlò troppo tardi di ritorno ad una casa ridotta in polvere,
di cui esistevano soltanto, miracolosamente, il cancello, il viale e le
mura perimetrali. L’ambiente era ormai in lingua araba e inglese. Avrei
potuto impiegarmi, ma avrei dovuto rinunciare alla mia necessità
d’insegnare nelle scuole statali italiane, perché questo solo sapevo
fare bene ...
La
casa della frase di mio Padre, per me memorabile, era composta da due
appartamenti, con tre ingressi in via Nabbus e quattro magazzini con
retrobottega e balconi sul Viale Regina. Si vedeva lo stadio dalla
terrazza. Da qui una volta assistetti ad uno spettacolo in onore del
Re. Fra i tanti numeri ricordo una fanta- sia eseguita da cavalli e
cavalieri arabi che attraversavano cerchi di fuoco correndo al galoppo.
Mia Madre aveva fatto addobbare i balconi con dei drappi di seta
damascata, del suo corredo.
Nel
1960 alcuni conoscenti si presero la briga di condurci a rivedere quel
palazzetto. Un appartamento era abitato da una famiglia di Egiziani. La
signora inquilina ci offrì, molto compita, la limonata: quel giorno
faceva caldo, io avevo un groppo alla gola e non potei nemmeno berne un
goccio. Dal tono della voce, capii che la signora egiziana era mortificata per il mio
rifiuto ma lei, come tanti, non capiva il pianto del mio animo. Mi
venne alla mente il Manzoni: “Addio monti sorgenti dalle acque ed
elevati al cielo, cime note a chi è cresciuto tra voi, ville sparse e
biancheggianti sul pendio come branchi di pecore pascenti; addio!
Quanto è triste il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana! Ma
chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio
fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e
n’è sbalzato lontano, da una forza perversa!
Chi staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle
più care speranze, lascia quei monti, per avviarsi in traccia di
sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con
l’imaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!
Addio casa, addio chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno,
cantando le lodi del Signore”.
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Bengasi.
Dove sorgeva il palazzetto promesso in dote dal Padre alla figlia
Francesca, in via Nabbus,angolo viale Regina, ora sorge la costruzione
qui raffigurata. Il compratore ha abbattuto l’edificio preesistente ed
ha ricostruito con due sopraelevazioni in più. La foto, scattata a
Bengasi l’8 gennaio 1997, è stata inviata all’Autrice dall’Arch. Angelo
Nicosia.
|
Bengasi.
Matrimonio della figlia del Sig. Giardina.Da sinistra: un ex impiegato
di banca, Francesca Privitera, Maria Giardina, Giuseppe
Giardina, Concetto Giardina.
|
Bengasi
città
Bengasi era una città con molte caserme, la Moccagatta, la Torelli, la
Beati, l’Aeronautica Militare, l’Ala Littoria, gli edifici dei
Consolati, dei Vigili del fuoco, della Polizia, dei Carabinieri, del
Tribunale, del Governo, del Governatore, dei civili; l’aeroporto
di
Benina, l’idroscalo, il porto, il fonduk, i soûk, il mercato
metropolitano, vi erano cantieri navali e le fonderie di Concetto
Giardina, le tonnare di Igino Palla, le industrie tessili Kouzam, le
lavanderie Bombarda, la rinomata sartoria Barazzuti, le imprese di
costruzioni Fontana, Genna, Giardinella, la fabbrica di birra Cirene,
il cinema-teatro Berenice, il grande albergo Berenice, l’Import-export
e fabbrica di bibite analcoliche e sciroppi di Giuseppe Xuereb e
fratelli, colleghi di mia Madre che aveva la ditta Zappalà Giuseppa, la
fabbrica di bibite analcoliche Scarpaci ed altre ancora. Vi era la
floricoltura del signor Crocivera. “Fatemi morire tra i miei fiori”
furono le sue ultime parole ... Vi erano negozi fornitissimi di merce
orientale ed occidentale, unoera Fugardi, nell’allora via Generale
Briccola, numerose le esposizioni di mobili, Aprile ... Vi era la
Scuola Principe di Piemonte per i bambini arabi, la scuola elementare
per i tracomatosi e non, la scuola media e il liceo Giosuè Carducci,
l’Istituto La Salle dei Fratelli, la scuola elementare delle Suore
dell’Immacolata Concezione di Ivrea ... e vi era tanto altro di bello,
come il Museo Archeologico, il lungomare con due colonne su cui
poggiavano due sculture, la lupa di Roma e il leone di Venezia che alla
mia mente artistica ritornano spesso in sogno. Ferveva il
lavoro. Persone e famiglie arrivavano e partivano dall’Italia e per
l’Italia, dall’Africa Orientale e per l’Africa Orientale, da e per
tanti luoghi. Gli uomini erano in maggioranza rispetto alle donne.
Quando l’interesse nei miei riguardi diventava pressante scappavo
invariabilmente, avevo un animo di bambina in un corpo di donna.
Sognavo il Conservatorio. Mia Madre propendeva per l’Università.
Comunque la mia mente, in seguito alle parole di mio Padre, si era
figurata, di là da venire, di incedere solennemente in abito bianco
nella “nostra” cattedrale (che adoravo oltremodo perché l’avevo vista
costruire). Mi sembrò grandiosa da bambina e mi sembrò tale nell’età
matura. Alzando gli occhi, si vedeva del grigio di forma rotonda nella
cupola bianca, a causa di qualche bomba che vi aveva fatto un foro,
riparato, ma non ben rifinito.Nessuno della mia generazione si sposò in
quella cattedrale, eravamo giovanissimi quando ci fecero fuggire.
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Bengasi - Palazzo delle Poste e Telegrafi |
Bengasi - Palazzo del Governo |
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Porticato del Palazzo Littorio |
Salone del Municipio |
Profuga in
Italia
In Italia, scappavo come prima. Mi
avevano insegnato: “Italia, Italia, cinta dalle Alpi al mare, terra di
artisti, di martiri, d’eroi!” Nella mia ingenuità avevo la convinzione
che tutte le mie nuove
conoscenze fossero costituite da
artisti, martiri ed eroi. Me ne stavo tappata in casa con mia Madre, i
miei libri, la mia musica, in attesa di ritornare in Cirenaica, dove il
passeggio e il giro in bici non avevano significati reconditi.
Questo, se da un lato fu un bene,
dall’altro fu un impedimento perché mi mancarono la continuità delle
confidenze e lo scambio di opinioni con le mie vere amiche
dall’infanzia in poi. La prima volta che parlai in italiano a scuola,
le mie nuove compagne si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere e
a mia volta risi quando sentii parlare loro.
A Bengasi, Wanda Busulini, mi
raccontava le favole di sua composizione. Iniziava quando uscivamo
dalla sciara Sneidel e terminava al giardinetto di piazza del Re.
Quando ritornavo dal I° liceo Classico dove una professoressa di
Scienze mi diceva “Vattene a posto, due!” senza farmi iniziare a
parlare, mia Madre che mi aspettava mi confortava: “Anche oggi hai
pianto, lo vedo dagli occhi rossi. Dovrà venire il giorno che ce ne
andremo a casa nostra!”.
Mi fece perdere un anno dopo che
le svolsi una lavagna di valenze giustissime e dopo avermi detto:
“Brava, hai un’intelligenza, cerca di sfruttarla!”
Conseguii la Maturità classica in
Collegio. La Madre Superiora Teresa Mirone era di famiglia distinta e
di spiritualità rara. Il Preside, sacerdote, Don Matteo Fresta, e padre
Aiello, professore di latino e di greco del Pennisi, lo stesso. Furono
egregi nei miei riguardi, fecero valere i miei meriti e primeggiai.
Sono molto riconoscente a queste tre persone di Dio.
Il
“non-ritorno”
Purtroppo il giorno di tornare a
casa nostra non ci fu. Mio Padre, dopo che fu riorganizzata la
situazione politica, riassunse servizio al Ministero delle Colonie,
soppresso e incorporato nel Ministero degli Esteri. Rimase a Roma con i
suoi compagni di sventura ad aspettare la pensione, veniva in licenza,
noi andavamo da lui.
A Roma non vi erano case. Vi era
un parente che approfittava del suo stato di avvilimento e gli diceva
di non cercare. “Tanto fra un paio d’anni Lei se ne tornerà al paese”
gli disse una volta dinanzi a me. Il parente era pensionato e vedovo ...
Così restammo tagliati fuori per
sempre dai compaesani bengasini che risiedevano a Roma.
Si dice: “Compagni in duolo, gran
consolo”.
Poche persone, per esempio la mia
madrina di Cresima, signora Rosa Scuto, moglie del capitano Giuseppe,
profuga, esortarono mia Madre a uscire dalla sua situazione
problematica.
Mia Mamma pianse anni e anni,
pensando alla lontana promessa : “Tornerete fra quindici giorni”.
Se Lei piangeva io non ridevo.
Un giorno a sua insaputa,
presentai i suoi documenti al Provveditore agli Studi, per farla
immettere nella graduatoria degli incarichi e supplenze. Riprese
l’insegnamento cominciando dalla scuola popolare serale, ebbe ottimi
riconoscimenti sia dall’ispettore Vincenzo Sciacca, sia dall’ispettrice
Minerva Impalà che dagli alunni-lavoratori abitanti in frazioni
prevalentemente agricole, per i quali fu una “Mamma Margherita”, perché
aveva doti organizzative e abnegazione.
Questi alunni, certe sere,
lasciavano la scuola dove erano iscritti e andavano nella scuola dove
c’era mia Madre, perché s’era fatta la fama di avere un buon metodo di
insegnare, specialmente l’aritmetica. Così come aveva scritto nella sua
pubblicazione Ella trovò nel lavoro la fonte migliore della serenità.
Andò in pensione con il minimo. Papà morì nel suo letto, assistito
amorevolmente da noi, a quasi 76 anni e mi disse: “Ringrazio Dio di
essere arrivato a questa età”.
Da 14 anni in poi la mia vita fu
irta di avvenimenti tragici. La nostra adolescenza di ragazzi profughi
di Libia non era trascorsa in modo naturale, era stata troncata come
una sinfonia interrotta all’improvviso. Mi toccò comportarmi da
maggiorenne pur non avendone l’età, studiare in mezzo ad ostacoli,
guidare mio fratello, sostenere moralmente i miei genitori che la
guerra colse mentre erano immersi alacremente nelle loro attività e che
da adulti erano diventati bambini, senza un appiglio per risollevarsi.
Compresi che la mia vita era in un’altra dimensione. Si erano chiuse
contemporaneamente e per sempre cento porte, bisognava aprirne altre.
Mi preparai all’indipendenza economica mediante l’impegno nello studio
e mi dedicai con serietà all’insegnamento.
Quante generazioni di giovinetti
sono passati da me. A loro ho dato tutto il Bello, il Giusto, il Vero
che conosco. Durante tutti quegli anni imparai ad aspettare, da Colui
che è dappertutto e che mi dava la letizia, un’altra gioia, diversa da
quella perduta
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Ines Maganza
(negozio di biciclette) |
Bengasi,
1957. Da sinistra: Angelo Privitera, di spalle; Alì Scemsa, ex
dipendente della Ditta Giuseppa Zappalà; Francesca, seduta; la madre di
Francesca e l’autista.
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Bengasi -
Lungomare e Cattedrale |
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