Mio padre
Un fabbro per
amico
di
Domenico Ernandes
Padre, se anche tu non fossi il mio padre,
se anche fossi un uomo estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
Camillo Sbarbaro
Premessa
“Fare un lavoro che piace rende la vita interessante”
così mi diceva mio padre quando ero piccolo, ma allora io non
riuscivo a capirne il perché. Ora ripensandoci mi rendo conto di
quanto avesse ragione. Fortunatamente lui ha sempre amato il suo
mestiere di fabbro e ci ha messo tanta passione nell’esercitarlo,
anche se comportava tanta fatica e sacrifici. Per diventare un
bravo fabbro ha fatto tanta gavetta: ha cominciato da piccolo
come apprendista, poi ha lavorato come operaio specializzato e
all’età di quarant’anni è riuscito a coronare il suo sogno di
mettersi in proprio.
Era nato l’8 Luglio del 1909 in Sicilia, a Favignana, la
principale isola delle Egadi, da Domenico
Lorenzo e da
Francesca Arpaia. Era il loro terzo figlio e fu
battezzato col nome di Giuseppe Nicola, ma per tutti fu sempre
Peppino.
Per inquadrare meglio la sua
personalità ed il
suo modo di essere faccio un breve cenno alla storia dei suoi
genitori e al retroterra culturale dell’isola dove loro sono
vissuti e dove il piccolo
Peppino ha trascorso una parte della sua fanciullezza.
Mio nonno Domenico Lorenzo e mia nonna Francesca Arpaia
Mio nonno Domenico Lorenzo nacque a Trapani nel 1868. Al termine
delle scuole elementari andò a bottega da suo padre Nicolò, dove
imparò il mestiere di calzolaio. A venti anni fu mandato a
prestare servizio militare a Macomer
nel cuore della Sardegna.
Finita la leva tornò a Trapani e continuò a lavorare
nella bottega paterna anche se per poco tempo, perché
accadde un episodio che diede una svolta alla sua vita.
A questo proposito con alcune
testimonianze raccolte, andando a visitare Favignana nel 2006,
in un viaggio in Sicilia e con la mia immaginazione, ho cercato
di ricostruire l’atmosfera in cui si svolse l’incontro tra i
miei futuri nonni, Domenico Lorenzo e Francesca.
Mio nonno Domenico Lorenzo e mia
nonna Francesca
In una festosa domenica di giugno del 1893 il giovane calzolaio
si trovava a Favignana, per partecipare alla
Sagra del tonno, che
normalmente durava una settimana e
che si svolgeva tutti gli anni in occasione della
mattanza in cui si
celebrava annualmente
la fase finale della pesca del tonno rosso. Il tutto
avveniva nella tonnara di
Favignana con la partecipazione dei più abili pescatori del
luogo sotto la guida carismatica di un
rais, che era il loro
capo indiscusso. La mattanza dei tonni, che vanno a depositare
le loro uova a riva e che vengono intrappolati nella
camera della morte, è
un rito sanguinario e crudele,
ma allora rappresentava
l’unica possibilità per sfamare per
tutto l’anno le famiglie povere dell’isola.
Favignana – Un poster della sagra del
tonno ed una scena della mattanza
Salvatore Ernandes, rais della tonnara di Favignana ...Il tutto avveniva nella tonnara di Favignana con la partecipazionedei più abili pescatori del luogo, sotto la guida carismatica di un RAIS, che era il loro capo indiscusso... Guarda il video di Rai Storia relativo ad una tonnara a Favignana. Clicca QUI per vedere il video *****
In quella settimana, all’inizio del solstizio d’estate,
nell’aria si respirava un’atmosfera di festa. Quell’anno la
pesca era stata abbondante e la gente era particolarmente
euforica. Il pensiero andava alla scorta di tonno che
avrebbe potuto comprare a poco prezzo e che avrebbe
conservato nelle proprie
dispense, sotto sale o sott’olio per farlo durare più a lungo
possibile. Tutti i preti delle parrocchie avevano il loro bel da
fare nell’officiare funzioni religiose di ringraziamento ed in
lontananza si sentivano i rintocchi
delle campane che
suonavano a festa. La
piazza principale, quella di fronte alla Chiesa Matrice
dell’Immacolata Concezione, che era stata trasformata in
occasione della sagra in un mercato all’aperto, rigurgitava di
bancarelle che vendevano pane
cunzato (condito) e
carne di tonno a pochi centesimi.
La Chiesa matrice dell’Immacolata
Concezione di
Favignana
Qualcuno aveva già cominciato a cucinarla e l’aria era invasa da
un acre odore di legna
bruciata e da un delizioso profumo di carne alla griglia che
usciva dai comignoli delle case o dai cortili annessi. Una dolce
brezza di maestrale soffiava su Favignana e trasportava con se
in ogni angolo dell’isola la fragranza del pane e dei dolci
siciliani appena sfornati dai panifici e dalle pasticcerie. Ad
odorar meglio l’aria si respirava anche l’effluvio dell’amabile
vino zibibbo locale, che proveniva dalle grosse botti di rovere
della cantina della ricca Famiglia Florio, proprietaria
dell’isola. Era ormai tradizione che ogni anno per
la festa della sagra del tonno i
Florio offrissero gratuitamente a
tutti i partecipanti vino a volontà.
Una numerosa famiglia locale
festeggia la sagra del tonno
La giornata terminava con una grande festa danzante a cui
partecipavano tutti, grandi e piccini, allietata dai motivi
popolari di un gruppo musicale locale. In mezzo a tutta
quell’allegria, mentre l’orchestra suonava
Ciuri Ciuri, una
ritmata tarantella siciliana, il giovane Domenico Lorenzo
incontrò Francesca Arpaia, un’estroversa ragazza locale di
lontane origini campane, dai dolci occhioni neri, che oltre a
sapere danzare con grazia era anche bella. Un’abbagliante
scintilla scoccò fra loro e di colpo s’innamorarono.
Favignana 1895. Uno scorcio della
piazza principale di Favignana
Francesca era nata a Favignana il 2 giugno del 1873,
da Nicola Arpaia e da Ursula Venza. Il nonno paterno di
Francesca, Salvatore Arpaia, ormai deceduto, era un campano
giunto a Favignana come prigioniero politico, perché considerato
un rivoluzionario dalle autorità borboniche, mentre non era
altro che un
giovane ribelle che mal sopportava le angherie dei potenti. Il
padre di Francesca, Nicola, che invece aveva un carattere
disciplinato, era diventato un gendarme. Purtroppo morì in
giovane età nel 1891, ad appena 45 anni, pare ucciso durante un
conflitto a fuoco con dei fuorilegge. Francesca, insieme a sua
madre ed al resto della famiglia, non si perse d’animo e poiché
era una brava sarta allestì un piccolo laboratorio nella sua
casa. Domenico Lorenzo, che si era veramente innamorato di
Francesca, decise di abbandonare la bottega paterna a Trapani e,
pur di starle vicino, se
ne andò a vivere a Favignana. Qui a poco prezzo comprò degli
strumenti che servivano al suo mestiere come
lesina, punteruolo, trincetto, raspa, spago e colla; poi
affittò un
economico bilocale che utilizzò sia per abitarci che per
lavorare. Col consenso della mamma di Francesca, Ursula,
diventata da poco vedova, si fidanzarono ufficialmente ed
il 14 ottobre
nel 1895 si sposarono proprio nella Chiesa Matrice
dell’Immacolata Concezione, nella cui piazza antistante, si
erano incontrati per la prima volta
in un’atmosfera di festa. Dal loro matrimonio nacquero
nell’ordine quattro figli: Marietta, Orsolina,
Peppino e Concetta. Domenico
Lorenzo era un bravo calzolaio, faceva bene il suo lavoro, si
era fatto una buona clientela ed i suoi introiti crescevano.
Abitavano in un appartamento terra tetto, vicino al centro
cittadino che adibirono a casa e bottega,
casa e putia
come si dice in siciliano. La casa, che in quell’epoca era
ubicata in Via Paradiso 29 (ora Via Leonardo da Vinci), esiste
ancora.
Favignana - La casa e bottega degli
Ernandes in Via Paradiso 29
Mio nonno Domenico Lorenzo amava la musica e come passatempo si
dedicava a suonare il clarinetto. Lo suonava così
bene che ben presto fu ingaggiato dal gruppo della banda
musicale locale. Purtroppo non fece in tempo a trasmettere al
piccolo Peppino
questa sua grande passione, perché l’11 novembre del 1916, alla
giovane età di 48 anni, si spense prematuramente colpito da un
cancro al colon.
Il piccolo orfano
Mio padre, divenuto orfano a soli sette anni, fu
costretto a dover
crescere in fretta. Abbandonò la scuola elementare per imparare
un mestiere e non pesare sul bilancio familiare. Allora era più
frequente l’usanza che il mestiere venisse tramandato da padre
in figlio, ma quella scomparsa prematura non lo permise. Fortunatamente
l’aiuto venne da suo padrino di battesimo, Giovanni Torrente, un
amico fraterno del padre. In paese lo chiamavano
Vanni
ferrareddu
perché era un uomo piccolo di statura e di professione faceva il
fabbro. Oltre ad
essere bravo nel suo mestiere restava simpatico alla gente per
il suo carattere gioviale e perché era sera fatta un’istruzione
da autodidatta. Aveva letto la
Divina Commedia e l’Orlando
furioso e ne recitava vari passi a memoria, ma coi ragazzi
riscuoteva più successo per tutte le storielle che conosceva su
Giufà. Comportandosi
da vero padrino,
U’ zu Vanni, così lo
chiamava mio madre, accolse il piccolo orfano nella sua officina
di fabbro, gli insegnò il suo mestiere e per un certo periodo di
tempo lo ospitò in casa sua, come fosse figlio suo. Nel
frattempo, la sua mamma, Francesca,
donna tenace e piena di iniziativa, con i pochi risparmi
lasciati dal defunto marito decise di aprire una piccolo negozio
di generi alimentari, allestendolo e ristrutturandolo da sola,
utilizzando così la bottega di calzolaio ormai in disuso. Con
questa piccola attività riuscì, per un certo periodo di tempo, a
mantenere la sua famiglia in maniera decorosa. Era l’anno 1918 e l’Italia aveva
vinto da poco la battaglia
di Vittorio Veneto contro
l’esercito
austro-ungarico,
quando
Orsolina, la secondogenita che aveva appena compiuto diciotto
anni, si trasferì a Tripoli in Libia, da qualche anno colonia
italiana, per sposarsi con Gabriele Ferrante, un giovane ed
intraprendente vedovo, di professione pescatore, armatore
di una flottiglia di
quattro pescherecci.
Mia zia Orsolina insieme a suo marito
Gabriele Ferrante
Quest’evento modificò anche il destino del piccolo
Peppino, perché nel
luglio del 1920, all’imberbe età di 11 anni, con indosso un
leggero vestitino alla marinara e con uno zaino a tracolla,
lasciò l’Italia e da Siracusa s’imbarcò da solo sulla
motonave Arborea per
recarsi a Tripoli, richiamato legalmente dalla sorella, che lo
accolse a braccia aperte nella sua casa. L’abitazione era
ubicata all’interno nella Città Vecchia, vicino al porto, non
lontano dal meraviglioso
Lungomare Bastioni.
Tripoli
anni ’30 - Lungomare Bastioni e a sinistra la Cassa di
Risparmio
Tripoli
A Tripoli Peppino si
diede subito da fare per
cercare lavoro e lo trovò come aiutante-fabbro in
un’officina vicina all’abitazione della sorella. Crescendo
ebbe modo di conoscere e
di stringere amicizia con il giovane Annibale Angelucci,
che abitava con la sua famiglia vicino ai Ferrante. Annibale,
più grande di lui di qualche anno, di li a poco avrebbe aperto
un’officina meccanica insieme al
cognato Gino Sesta, nella stessa zona. Comunque, al di là
dei semplici rapporti di lavoro, si erano venuti a creare tra le
famiglie dei Ferrante, degli Ernandes, degli Angelucci e dei
Sesta, insieme ad altre che abitavano nei paraggi, come i
Salmeri (cugini di mia madre) i Rinaudo e i D’Angelo e di alcune
famiglie di maltesi, dei sani e sinceri rapporti di amicizia e
di solidarietà. Amilcare Angelucci, figlio di Annibale, ex-lali
e nostro assiduo collaboratore dell’OASI, che in quel periodo
era ancora un bambino, mi ha riferito di alcuni suoi giovanili e
felici ricordi di mio padre da poco fidanzato con la graziosa
Francesca, la mia futura madre.
Annibale Angelucci con suo figlio
Amilcare
Alla fine del 1922, subito dopo l’avvento di Mussolini,
Francesca Arpaia, con la
piccola Concetta, lasciò Favignana per stabilirsi a Tripoli,
richiamata dalla figlia Orsolina.
Appena giunta Francesca
senza perdere tempo affittò un appartamentino vicino al
Monumento dei Caduti,
proprio accanto a quello di Orsolina, dove ci andarono a vivere
anche Peppino e la
sorellina Concetta. Con i soldi portati dall’Italia e con i
piccoli risparmi del figlio giovinetto comprò alcuni arnesi da
sarta come aghi, fili e ditali ed una macchina da cucire
Singer a pedale
di seconda mano e si mise a cucire
con successo abiti
semplici e a costi modici per la gente del quartiere.
Mia nonna Francesca e mia zia
Concetta ed il Monumento dei Caduti
La sua vita
giovanile
Non ho avuto modo di conoscere molti particolari della vita
giovanile di mio padre, anche perché in verità egli non era
molto propenso a parlare di sé, però qualcosa
me lo ha raccontato mia
madre. Pare che all’età di 10 anni, durante i festeggiamenti per
la sagra del tonno, alcuni sconsiderati lo fecero ubriacare col
vino e da allora, per repulsione all’alcool, divenne astemio. A
20 anni fu ritenuto idoneo per il servizio di leva e, come suo
padre, fu mandato in Sardegna, ma questa volta in un
posto di mare,
nell’Isola della Maddalena. Durante la leva alla mensa
militare il formaggio era la pietanza predominante, tanto che
sembra venisse servito mattina, mezzogiorno e sera, roba da fare
venire la nausea. Al termine del servizio tornò a Tripoli e da
allora non volle più saperne di assaggiare qualsiasi tipo di
formaggio ne di sentirne l’odore.
Il fidanzamento ed
il matrimonio
Correva l’anno 1936, era
iniziato il quindicesimo anno dell’era
fascista, e da poco
c’era stata la proclamazione dell’Impero,
quando successe un fatto che
diede una svolta alla vita di
Peppino,
ormai ventisettenne. Era un’assolata e serena domenica di
novembre, lui
fu invitato ad
andare a Zuara, un piccolo paese sul mare distante circa cento
chilometri ad ovest di Tripoli, a poca distanza dal confine con la
Tunisia. L'invito gli era stato recapitato dopo aver partecipato ad
uno dei tanti concorsi per provetti giovani saldatori che
venivano indetti dal regime fascista, in cui si era classificato tra
i primi tre. Questi dovevano ricevere un diploma ed essere premiati
dall’allora Podestà di Zuara, il signor Ignazio Sammartano,
patrocinatore di quello specifico concorso. In que periodo esisteva anche una strada ferrata, che portava in treno da Tripoli a Zuara e viceversa. Mio padre, che faceva parte
di quel ristretto gruppo, arrivò a Zuara in treno. Tra il pubblico c’era anche una
giovane e carina brunetta, quasi diciassettenne, di nome
Francesca, che abitava a Zuara e che insieme alla sorella
maggiore Maria assisteva alla cerimonia. Dopo la premiazione ci
fu un rinfresco in cui per caso
Peppino e Francesca
s’incontrarono, si parlarono e si fecero subito reciproca
simpatia. Dopo il rinfresco lui le propose di andare, insieme a
Maria ed ad una sua amica
e
agli altri due giovani saldatori vincitori, a fare una passeggiata nei
vicini dintorni. E dopo aver chiesto il permesso a mio nonno Giuseppe,
s'incamminarono verso il mare che era a circa un chilometro da
lì. Camminando e parlando, raggiunsero la spiaggia di Zuara
Marina, che stava alla sinistra del piccolo porto. Nonostante fosse novembre la
giornata era bella ed il mare era azzurro e calmo. Per gioco
qualcuno tirò un sasso liscio per farlo rimbalzare più volte
sulla superficie piatta del mare e gli altri per gioco lo imitarono.
Continuarono a divertirsi come bambini, risero, chiacchierarono
e senza accorgersene
Peppino e Francesca si presero per mano e s’innamorarono.
****
Dopo un paio di settimane e dopo averne parlato con sua madre, Peppino decise di tornare a Zuara e presentarsi a casa dei Salmeri per chiedere la mano della
giovane Francesca. La famiglia Salmeri viveva in un villino
tutto bianco ad un solo piano, coperto da una terrazza
da cui a nord
si vedeva il mare, ad
est il porto, a sud terra sabbiosa con alcuni alti cespugli di
tamerice e ad ovest i tetti di Zuara
Città. Il villino
si trovava a metà strada, sul rettilineo asfaltato e
quasi deserto, che andava da Zuara Marina a Zuara Città. Nel
mezzo del giardino c’era, oltre a dell’aiuole con pansè
multicolori e narcisi gialli, un vecchio e nodoso albero di
limone mentre ai lati si ergevano delle slanciate palme di
datteri col tronco ruvido e rugoso
e degli esuberanti eucaliptus. Non lontano da loro, dall'altro lato della strada, abitava
la famiglia del Podestà Sammartano.
Peppino, vestito per
l’occasione col suo abito migliore, fu ricevuto
nel salottino di casa
dal capofamiglia, mio nonno Giuseppe, ex maresciallo capo di
Marina, medaglia di bronzo al valor militare ed ora comandante
di due bastimenti battezzati "Maria" e "I due fratelli", attrezzati per la pesca delle spugne ed
ormeggiati, quando non navigavano, nel porto di Zuara.
Zuara - Il porto
L’ex Maresciallo di Marina, considerato da tutti i suoi
conoscenti un uomo dal carattere ferreo ed autoritario, tanto
che i suoi
cinque figli
gli si rivolgevano con rispetto dandogli del
vossia (equivalente
in italiano al lei),
prese del tempo prima di dargli una risposta definitiva. Per
saperne di più sul giovane Peppino, chiesa informazioni
all’agenzia tripolina
dell’OVRA, la polizia segreta dell’Italia fascista, dove
col suo passato militare aveva ancora delle conoscenze. Il
rapporto da Tripoli arrivò quasi subito ed era positivo. Secondo
queste informazioni il giovane ventisettenne Giuseppe Nicola
Ernandes risultava essere un grande lavoratore ed un ottimo
saldatore qualificato, percepiva
un buon stipendio, non aveva ne debiti in pendenza
ne vizi di gioco, era astemio, non fumava e soprattutto
non risultava essere un donnaiolo, era insomma una persona seria
ed affidabile. Malgrado ciò, mio nonno, dopo averlo convocato,
gli disse che al momento non gli poteva concedere la mano di
Francesca, perché sua figlia era ancora troppo giovane di età.
Comunque, avendolo preso in simpatia, gli propose la mano della
ventenne Maria, la figlia primogenita ancora nubile, che secondo
la mentalità e le usanze di quel tempo
si sarebbe dovuta
sposare per prima. Mio padre, non gli rispose subito e anche lui
prese tempo per pensarci, quasi come se giocassero una partita
di scacchi.
Nonno Giuseppe, nonna Antonina, mia
zia Maria e nonno Vincenzino
Gli sconsolati pianti ed i sospiri amari di Francesca,
l’intelligente flessibilità di mia nonna materna, Antonina
Anselmi, la buona parola
di suo fratello Vincenzino (che poi io chiamavo affettuosamente nonno), che conosceva
Peppino perché anche
lui abitava vicino all'ex Monumento dei Caduti, contribuirono a far
cambiare idea a mio
nonno e a fare in
modo che acconsentisse al loro fidanzamento. Dulcis in fundo,
da lì a qualche
settimana anche Maria, per la felicità sua e di tutti,
trovò un sicuro ed affidabile pretendente e questo facilitò ancora la
cosa. In un tiepido
pomeriggio di fine gennaio del 1937, all’ombra degli eucaliptus
del suo giardino, mio nonno organizzò un sobrio rinfresco,
riservato agli amici più intimi, per festeggiare e dare
l’annuncio ufficiale del fidanzamenti delle sue figlie, Maria e
Francesca.
Zuara maggio 1937 mamma e papà
fidanzati
Il
4 Dicembre 1937, proprio il giorno che mia madre compiva il
diciottesimo anno di età, i miei genitori si sposarono a
Tripoli, nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli, nella Città
Vecchia, vicino alla Scuola del Vicariato dei Fratelli delle
Scuole Cristiane di Sciara Espanyol ed andarono ad abitare in
uno appartamento delle
Case Operaie, vicino
alla Chiesa di Sant’Antonio, non lontano dalla Stazione
Ferroviaria di Tripoli.
Tripoli 04 dicembre 1937-
La Chiesa di Santa Maria
degli Angeli -
mamma e papà sposi
I suoi hobby
Credo che mio padre non abbia mai praticato sport agonistici,
forse perché troppo seriamente impegnato col suo lavoro ed anche
per la sua indole pacifica. Ricordo che da bravo isolano sapeva
nuotare bene e mi insegnò presto a farlo. Mi diceva - “Quando
batti le gambe tienile ben dritte
e la punta
dei piedi deve uscire dall’acqua, le braccia non devono essere
tese, ma leggermente piegate. Per respirare devi girare la testa
appena il braccio comincia a muoversi e poi ritorni con la testa
sotto appena il braccio sta uscendo dall’acqua”-
Questi concetti di base li ho ben presto assimilati e
col tempo
sono diventato un discreto nuotatore ma no ho mai avuto
molta resistenza alla fatica come lui.
Da solo percorreva a nuoto lunghe distanze, come quella che
andava dalla spiaggia del
Lido Vecchio fino allo
Scoglio grande per
distinguerlo da altri scogli più piccoli
sparsi verso est, tanto che si vedeva bene anche dal
Lido Nuovo e
dai Sulfurei. Dal
Lido Vecchio lo
Scoglio grande
distava circa ottocento metri, pertanto tra andata e ritorno i
metri era pressappoco milleseicento metri, che mio padre
percorreva in circa venticinque minuti, un tempo non rilevante
ma discreto. Mia madre, sulla terrazza della mia casa a Tripoli, in Via Manfredo Camperio 10, con vista del mare, della spiaggia del Lido vecchio e dello Scoglio grande (distante circa 800 metri dalla spiaggia).
Agosto 1949 (avevo quindi circa un anno), io con mio padre nella
Spiaggia del Lido Vecchio . (In alto a sinistra, si intravede
lo Scoglio grande).
*****
Peppino
da piccolo non aveva studiato musica e non aveva imparato a
suonare nessuno strumento, ma aveva il senso del ritmo
trasmessogli da entrambi i genitori. Ogni tanto nell’intimità
della casa, per fare ridere me e mia madre, batteva
i piedi, schioccava le dite e muoveva il capo
atteggiandosi a un
ballerino di flamenco. Nelle
feste danzanti se la cavava bene con i balli classici come il
tango ed il
walzer. Era lui che
conduceva con padronanza quando ballava con mia madre, che
invece era timida e leggermente impacciata. Quando gli capitava
di dover giocare a carte, preferiva la
briscola e lo
scopa. Conosceva
bene il gioco della
dama e me lo insegnò,
era così bravo che non ricordo di averlo mai battuto. Nei suoi
momenti liberi amava
ascoltare la musica, specialmente quella classica, ma non
disdegnava quella popolare. Amava la canzone napoletana di quel
periodo come
O sole mio,
Santa Lucia,
Catarì,
Core ‘ngrato,
Dicitincello vuje,
Funiculì funiculà,
I’ te vurria vasà,
Ninì Tirabusciò,
Santa Lucia luntana.
Era un un fan
del cantante fiorentino Carlo Buti, di cui conservò per qualche
tempo alcuni suoi dischi in vinile, mentre il grammofono a
valigetta, La voce del
padrone, venne regalato a dei cugini. Le canzoni erano
quelle che andavano per la maggiore come
Bambina Innamorata,
Portami tante rose,
Violino tzigano ,
Mamma, Signora Fortuna, Porta un bacione a Firenze, Firenze
sogna, Serenata celeste,
La via en rose, Vivere,
che mia madre,
dotata di una bella voce, cantava spesso. Negli anni
precedenti la guerra mio padre frequentava assiduamente il
Teatro Miramare ed il
Politeama, dove aveva assistito a spettacoli leggeri
dialettali in cui c’erano come
protagonisti i comici siciliani Angelo Musco e Rosina
Anselmi e quelli napoletani con Eduardo, Titina e Peppino De
Filippo, ma era stato presente anche a spettacoli teatrali
ed operistici. Tra le operette si ricordava di aver visto
in particolare Il
Paese dei campanelli
che citava spesso
e qualche volta
canticchiava i
motivi di opere come la
Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e i
Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.
Il cantante
Carlo Buti, un grammofono a valigetta, un suo disco e una
copertina dei Pagliacci
Le sue idee e la
sua cultura
Gli italiani che
vivevano in Libia non avevamo diritto al voto, ciò nonostante
mio padre seguiva attentamente le vicende della politica
italiana, tenendosi aggiornato con i resoconti dei quotidiani
italiani ed ascoltando la notizie alla radio. Pur essendo stato
da giovane
avanguardista, come
lo furono tanti altri
giovani della sua età,
non credo che fosse
stato intimamente fascistizzato, anzi era un uomo
di idee non estremiste.
Per quello che
ricordo negli anni ’50 nutriva una certa simpatia
per il PLI (Partito Liberale Italiano) quando questo partito aveva come segretario Giovanni
Malagodi, la cui politica
si distingueva per la sua
opposizione ai governi di centro-sinistra, rifiutando nello
stesso tempo ogni compromesso con i partiti di estrema destra.
Seguire i fatti della politica italiana gli dava la sensazione
di appartenere e di
sentirsi ancora legato all’Italia, suo paese natale. A Favignana
dovette lasciare forzatamente la scuola dopo la terza
elementare per la morte del padre,
ma a Tripoli,
appena ne ebbe l’occasione, frequentò per un anno le
scuole serali sino ad ottenere la licenza elementare.
Successivamente continuò a studiare da autodidatta, tanto che a
distanza di anni conservava dei sottili libricini di grammatica
con in appendice
degli esercizi di autoverifica. A casa nostra nel salotto
esisteva una libreria di legno massiccio color castagno scuro,
che prendeva mezza parete. Nello scaffale più in alto c’era una
vetrina e lì c’erano i libri
che mio padre leggeva e
di cui ricordo ancora alcuni titoli ed autori:
Navi e Poltrone,
Settembre Nero e Gli amici dei nemici
di Antonino Trizzino,
il
Don Giovanni in Sicilia
ed
Il bell’Antonio di
Vitaliano Brancati,
Gli indifferenti di Alberto Moravia,
Il Garofano rosso di
Elio Vittorini, I
Malavoglia e Mastro
Don Gesualdo di Giovanni Verga. Ricordo che, all'esame di maturità, avendo
letto in precedenza un paio di volte entrambi i due libri del Verga,
feci un buon tema di italiano, che aveva per argomento proprio I Malavoglia. Su uno degli scaffali
c’erano anche dei quaderni di esercitazioni per imparare l’Esperanto
ed una decina di
alcuni piccoli libri, ingialliti dal tempo. Erano un regalo d’infanzia
di Zu Vanni al
piccolo Peppino: I
racconti di Giufà.
Giufà era un
personaggio letterario della
tradizione orale
popolare della Sicilia e giudaico-spagnola,
assolutamente privo di ogni malizia e furberia, credulone,
facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere, un po'
simile al nostro Pinocchio.
Lui quei libri li conosceva quasi a memoria, perché prima glieli
aveva raccontati il suo padrino, poi li aveva letti da bambino ed infine li rileggeva a me di
sera, quando da piccolo, stentavo ad addormentarmi.
I libri Navi
e Poltrone, Mastro Don Gesualdo e due copertine dei racconti di
Giufà
Mio padre, come ‘U Zu
Vanni, conosceva un numero imprecisato di proverbi in
dialetto siciliano, che pronunciava quando se ne presentava
l’occasione. C’era un proverbio adatto
ad ogni circostanza.
Per i pigri: Ficu fatta,
càrimi ‘mmucca; per sollecitare a darsi da fare:
Aiutati ca Diu t’aiuta;
a proposito degli amici:
A megghiu parola è chiddha non diciuta ma attenziuni
testa ca nun parra si chiama cucuzza;
per gli impulsivi:
Prima di parlari mastica li paroli;
per gli
intraprendenti: Cu nesci
arrinesci; per
fare del bene: Fa beni e
scordatillu, fa mali e pensaci; per i ricchi:
A liggi è uguali pi tutti ma cu av’i picciuli si nni futti;
per chi non riusciva a mantenere un segreto:
Ammuccia, ammuccia, ca tuttu pari;
a proposito di cattive compagnie:
Cu va cô zuppu a l’annu
zuppìa; a
proposito di chi si era fatto una buona reputazione:
Fatt’a nomina e va curcati; per chi
aveva faticato tanto
con scarso
risultato:
Nuttata persa e figghia
fìmmina; per
una maggiore prudenza:
Cu cancia a strata vecchia ppi la nova, sapi ‘nso cu lassa ma
nun sapi ‘nso cu trova.
Mio padre
conosceva molte persone ma aveva pochi amici intimi,
“Un vero
amico è colui con cui puoi stare in silenzio”
mi diceva, ma stavolta in italiano.
Il suo lavoro
Aveva una corporatura media, una carnagione rosea, un viso ovale,
una fronte spaziosa, occhi castano chiari, naso regolare, labbra
carnose ed una fossetta accentuata sul mento, che, come diceva
mia madre, lo faceva assomigliare all’attore americano Kirk
Douglas. Da piccolo aveva avuto i
capelli
leggermente rossicci, che col tempo erano divenuti castano scuri;
da adulto la sua barba aveva ancora delle leggere sfumature
rossastre. Cominciò a perdere i primi capelli all’età di 26 anni
per poi divenire col tempo sempre più calvo.
Foto 17 – Un
ritratto di mio padre a 26 anni
Con il passare degli anni e con l’esperienza diventò un fabbro
provetto. Conosceva bene il suo mestiere, tanto che si era
specializzato nell’utilizzare vari tipi di saldatrici: quelle
elettriche, con diverse serie di elettrodi (acido, cellulosico,
al rutilo, ossidante e basico), e quelle ossiacetileniche. Si
era abbonato a riviste qualificate, che trattavano
quell’argomento, con cui si aggiornava, consultandole spesso.
In un cassetto del comò teneva riposto con orgoglio e con
affetto il diploma, che aveva conseguito nel 1936, rilasciato
dalle autorità fasciste che attestava la sua bravura di
saldatore specializzato, proprio quello che gli era stato
consegnato alla premiazione di Zuara.
Nel 1940, allo scoppio della guerra, venne arruolato
presso il Genio Civile di stanza a Tripoli. Il suo lavoro
consisteva nella riparazione di carri armati dell’Esercito
Italiano, parzialmente distrutti dal fuoco nemico, di cui ne
sistemava lo scafo corazzato ed i cingoli, utilizzando la sua
conoscenza di saldatore. Nel 1945, alla fine della guerra, trovò
subito lavoro nell’officina dei Fratelli D'Alba, (Ciccio,
Totò e Pietro), ubicata nella zona del Lido. L’anno dopo i miei
genitori lasciarono la loro dimora alle
Case Operaie e si
trasferirono nella zona del
Lido vecchio, prendendo in
affitto la casa di Via Manfredo Camperio numero 10, dove io sono nato
nell’agosto del 1948.
Tripoli 1949 con i miei genitori
sulla finestra di casa in Via
Camperio 10
Negli anni ’50, con l’improvviso incremento del lavoro dovuto
alla scoperta dei giacimenti petroliferi, vari operai italiani,
forse i più intraprendenti e coraggiosi, decisero di mettersi in
proprio. Mio padre fu uno di questi. Nel 1953, dopo essersi
licenziato dall’officina dei
D’Alba, prese in affitto un ampio locale in Sciara Amerigo
Vespucci, proprio di fronte all’ingresso dello Stadio Municipale,
adiacente ad altri locali dove lavoravano altri artigiani:
falegnami, tra cui il suo fraterno amico e nostro vicino di casa
Michele Salemi e i fratelli Barabani che avevano un'officina meccanica.
Il locale aveva una forma rettangolare con un soffitto
alto ed una superficie di circa 150 metri quadrati. Comprò a
rate alcuni attrezzi usati ma funzionanti ed efficienti,
necessari per il suo lavoro. Aveva due grosse incudini, che
poggiavano su massicci tronchi di legno, una forgia a manovella,
martelli e mazze di ferro, magli, pinze, tenaglie, morse e
morsetti, un tornio elettrico, trapani elettrici con svariate
misure di punte, saldatrici elettriche e ad ossigeno, piegatrici
e tagliatrici di lamiere e tondini, diverse caprette in ferro su
cui appoggiare il materiale in costruzione, compassi grandi e
piccoli, un grande tavolo dove stendeva ed attaccava con delle
puntine i disegni dei lavori da eseguire. All’inizio, per dividere le spese si mise in società con
un certo Diego, un operaio specializzato proveniente da un’altra
officina, ma questi era un tipo ansioso e non adatto a lavorare
in proprio. Infatti dopo qualche mese chiese a mio padre la sua
parte di soldi e se
ne tornò a fare il dipendente. Per fortuna il lavoro non mancava, tanto che dopo due di anni di
attività mio padre riuscì ad ammortizzare le spese iniziali e ad
avere alla sua dipendenza tre operai, che col tempo diventarono
otto. Oltre a realizzare
cancelli, ringhiere, inferriate per porte e finestre, nel
tempo libero si dedicava a creare oggetti in ferro battuto, come
porta ombrelli, tavolini guarniti da ceramiche colorate,
candelabri, lampioni, che con oculatezza regalava ai suoi
migliori clienti. Nel 1959 la scoperta
di un ricco giacimento petrolifero a Zelten, nella
Cirenaica settentrionale, da parte della società americana
Standard Oil, segnò
l’inizio di una fase economica favorevole alle attività
imprenditoriali libiche e tripoline in particolare. Proprio in
quel periodo a mio padre capitò di conoscere alcuni ingegneri e
tecnici che lavoravano per conto di società petrolifere
internazionali, a cui regalò alcuni oggetti in ferro
battuto, che, come hobby, amava creare. Questi semplici ma graziosi regali fecero colpo su di
loro, tanto che gli faciltarono l'acquisizione di alcune importanti
commesse per la manutenzione di grosse condotte, che dall'interno del deserto
portavano il petrolio greggio fine alle coste mediterranee della
Sirte. A lungo andare questa sua iniziativa
risultò essere stata
un’ottima strategia di marketing. ****
Il suo lavoro era comunque vario. Nel 1960 fu contattato da un
amministratore della famiglia del Re libico
Sidi
Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi,
per la realizzazione di alcuni lavori di rifacimento di
ringhiere, cancelli ed inferriate all’interno della Palazzina
Reale, situata in Sciara
El-Nasser. Questa commessa lo impegnò per più di due mesi,
dandogli un buon profitto. A termine di tali lavori realizzò
alcuni caschi di
datteri in ferro battuto che regalò alla Famiglia Reale
e che furono appesi in cima ad alcune delle palme davanti
all’ingresso principale della palazzina. All’interno dei datteri
di ferro furono inserite delle micro lampadine elettriche così
da ottenere, al calar della sera, uno speciale effetto scenico.
Re Idris
e la Palazzina Reale
Ogni anno, generalmente dopo Pasqua, preparava, su ordinazione,
delle ancore galleggianti in ferro, con dei manicotti che
servivano a reggere le reti delle camere della morte, per la
mattanza dei tonni,
che avveniva generalmente nel mese di giugno. Tra gli acquirenti
di questi galleggianti ricordo il nome della famiglia Ricotti,
proprietaria della tonnara di Zavia. Non sempre i suoi clienti
avevano abbastanza denaro per pagare i lavori. Ricordo che fra
questi ce n’era uno che ricorreva al baratto come forma di
pagamento. Era un attempato pescatore libico di nome
Abdallah,
proprietario di un barcone a motore, che mio padre conosceva dai
tempi in cui lui faceva parte dell’equipaggio di pescatori di
suo cognato Gabriele. Ogni volta che Abdallah si recava in
officina con qualche pezzo rotto della barca da saldare, si
portava dietro una cesta di pesci. Il pesce preferito da mio
padre era il pesce
balestra, chiamato anche pesce
porco, un pesce dalla
forma arrotondata e dalla carne soda, che insieme allo scorfano
e alla cernia sono adatti per
preparare la zuppa di pesce o
ghiotta, che è il condimento per il
cuscusu alla
trapanese. Mia madre, che io ho sempre considerato una brava
cuoca, lo cucinava divinamente. Una volta capitò che Abdallah
portò a casa nostra una cesta con dentro una trentina di grossi
granchi pelosi di scoglio, buoni con il loro brodo ad insaporire un risotto
alla marinara. Mia madre versò i granchi, ancora vivi,
dentro un pentolone non molto fondo e lo riempì d’acqua
per sbollentarli. Prima di accendere il fuoco e di coprirli con
un coperchio, qualcuno bussò alla porta: era il postino che
aveva una raccomandata da far firmare. Mia madre, messa la firma
e presa la raccomandata, tornò in cucina e si accorse che alcuni
granchi erano nel frattempo usciti dalla pentola e si erano
sparsi sul pavimento. Pensò di averli raccolti tutti, invece il
giorno dopo, con sua grande sorpresa, ne trovò uno, ancora vivo
ma malandato, rifugiato sotto la
nostra vecchia ghiacciaia di legno.
La Domenica
Per tutto
l’anno mio padre lavorava dal lunedì al sabato, ad eccezione
delle feste comandate e delle domeniche.
La sua giornata lavorativa iniziava alle 7 del mattino e
si concludeva alle 19 della sera, con un’ora d’intervallo per il
pranzo, che consumava a casa. Solo la domenica si concedeva il
lusso di dormire fino alle nove del mattino. Da piccolo mia
madre mi dava il permesso di svegliarlo: così entravo nella sua
camera da letto, aprivo le tende, tiravo su la persiana per far
filtrare la luce e poi lo scrollavo. Una volta sveglio, lui
m’invitava a salire sul letto
e a giocare alla
lotta. Era un abitudinario. Verso le nove e trenta si alzava
dal letto per
andare in bagno a far toeletta. Quando ne usciva aveva il viso
ben rasato e profumato; il suo dopobarba preferito era
Old Spice,
un profumo di cui ancora ne ricordo la sua deliziosa fragranza.
Normalmente indossava un elegante vestito di
gabardine chiaro,
calzava un paio di signorili scarpe nere bucherellate sulla
punte che comprava da
Mazzarino, un’elegante calzoleria locale, metteva i gemelli
ai polsi della camicia, infilava il suo orologio a cipolla d’acciaio
Roamer, che aveva
avuto in eredità dal padre,
nel taschino del
gilet. In inverno indossava un pesante cappotto di loden
grigio scuro e qualche volta metteva sul capo un
signorile cappello di feltro Borsalino, che in quel periodo
andavano ancora di moda.
Un orologio Roamer dell'epoca
Tripoli 1955 una domenica
mattina a passeggio
con mio padre
Non guidava la
macchina e non ha mai voluto prendere la patente automobilistica,
così per muoversi si serviva di una robusta bicicletta, color
verde chiaro, una Legnano
senza cambio.
Quando io compii
tre anni decise, con mia grande gioia, che era venuto il momento
di portarmi con sé in giro la domenica mattina con la sua
bicicletta. Costruì appositamente per me un sellino di ferro e
lo fissò con dei robusti morsetti alla canna della bicicletta.
Il percorso era sempre lo stesso. Ci fermavamo davanti
all’officina, lui l’apriva, dava un’occhiata all’interno e se ce
n’era bisogno metteva un po’ ordine sul tavolo dei disegni. Dopo
non più di un quarto d’ora risalivamo sulla bicicletta e
percorrevamo tutto il Corso Sicilia (Sciara Omar el Muktar) per
arrivare in Piazza Italia. Per me era piacevole sedere su quel
sellino, per lui io rappresentavo un trofeo da ostentare al
mondo intero. Lungo il percorso salutava gioiosamente
tutti i conoscenti che incontrava. Era così felice che
fischiettava motivi orecchiabili come
Nella vecchia
fattoria, I pompieri di Viggiù e
La mazurka della nonna, motivi che io non dimenticherò mai e
che tuttora quando li ascolto mi trasmettono
energia e gioia di
vivere.
La meta della
domenica mattina era il
Caffè Commercio,
un grande bar pubblico,
ubicato sotto gli archi di Corso Vittorio (poi
Sciara Istiklal),
dove si incontrava con molti suoi conoscenti amici artigiani.
All’interno e fuori del locale c’era un continuo andirivieni di
gente, sensali, commercianti, operai in cerca di lavoro ed un
sommesso chiacchiericcio, come in un mercato: tutti discutevano
animatamente e poi concludevano affari semplicemente con una
stretta di mano, sulla parola. Verso le undici lasciavamo il bar
e ci dirigevamo, cinquanta metri più avanti, alla
Edicola Filacchioni.
Lì comprava il quotidiano locale in lingua italiana,
Il Corriere di
Tripoli ed un
quotidiano di Roma,
Il Tempo. Per mia madre comprava
Grazia e
La Domenica del Corriere,
mentre per me
Il Corriere dei Piccoli
e
Topolino. Direttamente a casa per
posta gli arrivavano
tutti i numeri della
Selezione dal Reader’s Digest, a cui lui era abbonato e che
io poi leggevo avidamente. Più
avanti, a metà del Corso, c’era la
Pasticceria Campi
dove, quando avevamo amici o parenti ospiti a pranzo, comprava
un grande vassoio di paste dolci composto da
diplomatici, bignè al
cioccolato, strudel, bomboloni alla crema, cannoli
di ricotta e
babà, che metteva nel
portapacchi fissato sul retro della bicicletta, sopra il
copriruota.
Vari
tipi di dolci – da sinistra in alto: diplomatico, bignè al
cioccolato, bombolone, strudel, cannolo alla ricotta e babà
Verso
mezzogiorno, camminando sotto i portici del Corso, venivamo
investiti da una lunga fiumana di persone appena uscite dalla
Cattedrale dopo la Messa delle undici. Al ritorno a mezzogiorno
e trenta, puntuale come un orologio,
puntava direttamente a casa. Quando a pranzo eravamo solo
noi tre, dopo il pasto, si
accomodava in salotto su una delle comode poltrone imbottite e
rivestite in velluto color crema per leggere dapprima il
quotidiano locale e
poi quello di Roma. Alle quattordici e trenta
accendeva la radio, una mastodontica
Radiomarelli
Alcor a
valvole, foderata di radica, con tanti nomi di città sul
monitor e due enormi manopole che servivano a captare le onde
medie delle lontane stazioni italiane. Dopo vari tentativi e
tanti fruscii riusciva finalmente a sintonizzarsi sulla
simpatica ed esilarante trasmissione siciliana
Il Ficodindia,
che aveva per
protagonista
il bravo attore comico e teatrale Turi Ferro. Questi impersonava
Bastiano, un catanese
pieno di grande arguzia e malizia.
L’attore Turi Ferro e una Radiomarelli Alcor
Alle quindici,
finito il Ficodindia,
lui si dedicava alla lettura di uno dei suoi libri o a
uno dei
numeri della Selezione
dal Reader’s Digest. Alcune volte, nel tardo
pomeriggio, uscivamo da casa per andare, tutti e tre, in centro
con l’autobus che ci
portava a Piazza Castello, vicino all’imponente statua di bronzo
dell’imperatore libico-romano
Lucio Settimio Severo,
che lo raffigurava con la barba ed una torcia nella mano destra.
Foto 23 – La statua di
Lucio Settimio Severo e
Piazza Castello
Da
lì cominciava la nostra passeggiata domenicale. Si superava il
Castello Rosso, si
passeggiava lentamente lungo il bellissimo e panoramico
lungomare Adrian Pelt
adornato da un lungo filare di palme di datteri. Si arrivava
alla ridente Piazza
Gazzella, che raffigurava la statua bronzea di una
ammaliante donna nuda che tra tanti zampilli d’acqua abbracciava
una gazzella. Proprio in
corrispondenza di
questa piazza c’era, a due passi dal mare, il locale estivo
La Sirenetta.
Veduta del Lungomare
Adrian Pelt, con Piazza Gazzella ed in lontananza il Castello
Qui ci
sedevamo ad un tavolo e, al dolce suono di qualche simpatica
orchestrina, ci godevamo la vista dell’ ondeggiante movimento
delle navi in entrata ed in uscita dal porto. In alternativa,
quando pioveva, andavamo più avanti e ci rifugiavamo all’interno
del Circolo Italia,
dove nella sala del Teatro venivano organizzati spettacoli
a quiz, lotterie, tombole e feste danzanti. Un centinaio di
metri più avanti c’era il maestoso Albergo Casinò
Uaddan, ma lì non ci
entravamo perchè
bisognava vestirsi in maniera elegante e poi mio
padre lo considerava come un luogo di perdizione, per le
somme di denaro che si potevano perdere giocando alla
roulette o allo chemin de
fer. Al ritorno ci fermavamo in Piazza Cattedrale per
prendere una delle carrozze che sostavano accanto all’Ufficio
delle Poste. Mio padre lasciava a mia madre, una commerciante
nata, il compito di
pattuire con il conduttore il prezzo della corsa, anche perché
lei sapeva parlare l’arabo locale. Si partiva da una richiesta
di venti piastre per poi giungere, tra un
tira e molla e con grande
soddisfazione da ambo le parti, alla cifra di dieci
piastre. La trattativa faceva parte del costume locale, non
c’era gusto a comprare
e vendere senza contrattare. Era comunque bello andare in
carrozza, accompagnati dal lento e rassicurante clippete
cloppete degli zoccoli del cavallo sull’asfalto.
Tripoli anni '50 -
carrozze in Piazza Cattedrale
I suoi amici
Alcune volte, verso sera, alla fine della sua giornata
lavorativa, prima di rincasare per la cena, mio padre aveva
l’abitudine di fermarsi nell’officina meccanica del signor Quattrocchi,
per l’unico motivo di scambiare due chiacchiere. Concezio Quattrocchi, originario
di Sulmona, era una persona istruita e alla mano, che conduceva
un’officina di elettromeccanica e
che commerciava anche con i pezzi di ricambio di auto
rottamate. La sua officina era ubicata vicina a quella dei
D’Alba e con lo stabilimento
balneare del Lido, a due passi da casa mia. Era alto,
corpulento, coi capelli chiari e gli occhi azzurri.
Nel suo studiolo
sedeva su robusta
poltrona di legno con spalliera e braccioli molto alti,
tanto che a me appariva come un re longobardo assiso sul suo
trono. Era un incallito fumatore di toscanelli ed estimatore
della pipa, usava un tipo di tabacco aromatico che a me piaceva
tanto. In quello stanzino galleggiava costantemente una grigia e
densa nuvola di fumo con un odore acre e profumato insieme.
Concezio Quattrocchi e l’officina
Se mio padre tardava per l’ora di cena, sapevamo che si trovava
nell’officina di Quattrocchi, così, su richiesta di mia madre,
lo raggiungevo per sollecitarlo a tornare a casa. Spesso, oltre
a loro due, trovavo il signor Franco Virone, padre del mio
compagno di scuola e di gioventù Tonino. Virone era di
corporatura media, con un viso abbronzato, un paio di occhi neri
penetranti e dei baffi
appena accennati. Molte volte, dimentico del motivo che
mi aveva portato lì, restavo affascinato nell’ascoltare le loro
discussioni che spaziavano a tutto campo: dalla politica alla
religione, dall’economia alla scienza, dall’arte allo sport.
Erano tutti e tre quasi coetanei, mio padre era del 1909,
Concezio del 1910 e Franco del 1912 ed
erano diventati orfani
troppo presto, lui a sette anni, Concezio a otto e Franco a
diciannove. Il fatto che si trovassero insieme forse non era un
caso, certamente c’era qualcosa che li legava: l’essere stati
costretti, sin da piccoli, ad affrontare le avversità della vita
e di aver iniziato da giovani a lavorare per non pesare
economicamente sulla propria famiglia.
Un altro suo caro amico era il nostro vicino di casa Michele
Salemi, Emilio per
gli amici. Dopo cena, nelle calde sere d’estate, era abitudine
che noi tre, mia madre, mio padre ed io, andassimo a trovare la
famiglia Salemi, che oltre a lui era composta da sua moglie Anna
e dai suoi due figli, Corrado e Mario.
Michele Salemi con la moglie Anna
Chiacchieravamo tranquilli, seduti sui freschi gradini di marmo
della veranda di casa loro, ubicata di fronte a casa nostra,
magari bevendo qualche bottiglia fresca di birra
Oea per gli uomini e
la bibita Sinalco
per le donne.
Emilio era una persona simpatica e piena di
humor, grazie alle
sue battute e alle sue storielle argute trascorrevamo delle
serate serene in un’atmosfera di calda amicizia. I Salemi
possedevano una macchina inglese, una
Hillman
bianca e rossa. Con
quella nei giorni festivi andavamo tutti insieme a fare dei
picnic nei dintorni di Tripoli. Generalmente si andava verso
ovest, cioè Zavia, Sorman, Sabratha, Marsa Zuaga e Zuara, e a
volte fino a Pisita, quasi al confine libico-tunisino, vicino alla piccola isola di Ferua che
emergeva solo con la bassa marea.
Il rapporto con
mio padre
Malgrado io fossi figlio unico non credo di essere stato molto
viziato dai miei genitori, in special modo da mio padre. Lui,
che da piccolo aveva conosciuto la miseria e qualche volta la
fame, pretendeva che io mangiassi tutto il cibo che mi si
metteva nel piatto, senza lasciare niente. Confesso che da
piccolo non sono stato un gran mangione, tanto che a volte a
pranzo lasciavo un po’ di pasta (generalmente spaghetti) nel piatto. Mia madre, per
mantenere la pace in famiglia, interveniva in mio soccorso. Me
li conservava nella ghiacciaia e me li scaldava per cena,
friggendoli in padella ed insaporendoli con un po’ formaggio parmiggiano
grattugiato e un uovo sbattuto. A me gli spaghetti piacevano di più cucinati in questo modo!
L’estate del 1958 me la ricordo bene. Avevo dieci anni e
al termine dell’esame della quinta elementare che avevo
sostenuto presso la scuola dei Fratelli Cristiani i risultati
sulla mia pagella erano risultati mediocri. Mio padre non prese
bene la cosa e per castigo mi impose
di andare a lavorare sia
al mattino che nel pomeriggio nella sua officina. Prese questa
decisione per due motivi: primo perchè non voleva che
restassi a ciondolare oziosamente per la strada, anche
per i problemi che in precedenza gli avevo procurato (vedi
l’ultimo mio articolo sull’ultima OASI - nda) e secondo
perché voleva che io fossi consapevole di quanto fosse duro e
faticoso fare un lavoro come il suo. L’idea di dover trascorrere
le mie vacanze estive in officina mi angustiava e mi intristiva.
C’erano i miei amici del Lido che si divertivano in spiaggia e
che mi reclamavano. Poi
io avevo già iniziato a “sospirare” per una ragazzina
della mia età che ricambiava i miei appassionati sguardi e per
me era davvero una
penitenza dover passare le mie vacanze in officina senza poterla
vedere. In quel frangente mi amareggiava ancora di più sentirgli
sentenziare in siciliano: “Ricordati,
cu ti voli beni ti fa
chianciri, e cu ti voli mali ti fa arridiri”.
Certamente
in cuor suo covava dei progetti ambiziosi sul mio
conto: sperava che io continuassi a studiare per ottenere ciò
che a lui non era riuscito, perché impedito dalla sorte avversa.
Già a quei tempi
mi spronava in continuazione ad imparare bene la lingua
inglese, per lui sicuramente la lingua del prossimo futuro. Devo
però ammettere che l’aver lavorato e faticato durante quelle
vacanze estive nella sua officina mi servì da lezione. Mi resi
conto che non ero adatto a fare quel tipo lavoro e che non ero
neppure dotato di quella manualità necessaria per farlo, cosa
che invece lui aveva. Memore di quell’esperienza negli anni
successivi mi impegnai di più negli studi tanto da superare gli
esami di Licenza Media e di Maturità Scientifica con dei
lusinghieri risultati finali. In quegli anni la nostra vita sembrava
procedere serenamente: gli introiti rivenienti dal lavoro
dell’officina miglioravano sempre di più, mia madre, che da anni
soffriva per dei calcoli alla cistifellea, si era sottoposta ad
un’operazione e da allora aveva cominciato a stare molto meglio,
il mio profitto a scuola era buono e mio padre ne era molto
felice. Ma come spesso accade nella vita una tempesta era in
agguato sulla nostra famiglia; come un fulmine a ciel sereno
arrivò un imprevisto, un
brutto imprevisto!
La malattia
Alla fine di marzo del 1966 mio padre fece una visita di
controllo medico per alcuni dolori che avvertiva da qualche
tempo allo stomaco. L’esito degli esami fu devastante: gli fu
riscontrato un tumore al colon in stato avanzato. Il nostro
medico di famiglia, il dottor Basile, gli suggerì comunque di
sottoporsi ad una operazione. A metà aprile partì per Roma,
insieme a mia madre, per sottoporsi ad un intervento chirurgico
presso il Policlinico Umberto I, in Viale Regina
Margherita. In quel triste e penoso periodo rimasi solo, anche
se fui ospitato temporaneamente a casa di mio zio Mario, un
fratello di mia madre, e di sua moglie Cristina Rovecchio, che
non finirò mai di ringraziare per il loro appoggio morale e la
loro ospitalità.
I
miei zii Mario Salmeri e Cristina
Rovecchio
Ai primi di maggio, eseguito l’intervento e asportato il tumore,
mio padre tornò a Tripoli e, sentendosi meglio,
ricominciò a lavorare nella sua officina. Intanto io,
superati con ottimi voti gli esami di
maturità liceale, avevo maturato la scelta di iscrivermi
alla facoltà di ingegneria civile al Politecnico di Milano. Così
per poter frequentare i corsi universitari, a metà ottobre del
1966 lasciai Tripoli e partii per l’Italia.
Andai a vivere a casa di mio zio materno Giovanni e di
mia zia Bertilla Posenato, a Cesano Maderno, un paese a circa 20
chilometri a nord di Milano, facendo il pendolare per arrivare
sino al piazzale Leonardo da Vinci, dove era ubicato il
Politecnico. Grazie anche alla loro solidarietà e comprensione
riuscii a superare i momenti di tristezza che mi attanagliavano
per essere lontano dalla mia famiglia.
I
miei zii Giovanni Salmeri e Bertilla Posenato
Purtroppo nel febbraio del 1967 le condizioni di salute di mio
padre cominciarono a peggiorare: il tumore maligno non era stato
del tutto estirpato durante l’operazione chirurgica
ed ora iniziava la fase
della metastasi. Mia madre, sempre più preoccupata e disperata,
mi telefonava con più frequenza per informarmi che ormai
mio padre non aveva più
la forza per recarsi in officina e che gli introiti si erano
ridotti. In quel periodo frequentavo tutti giorni l’università
per seguire le lezioni e per prepararmi a sostenere i miei primi
esami del biennio:
analisi matematica, disegno, geometria, fisica e chimica.
Malgrado avessi l’animo angosciato da quella situazione a metà
giugno superai nella prima sessione due esami: analisi
matematica e geometria e mi ripromettevo di superare gli altri
tre nella sessione di ottobre. Tornai a Tripoli a fine giugno,
quando ancora non si era spenta l’eco
della Guerra dei sei
giorni.
Era stato scatenato un
progrom nei confronti della comunità ebraica, alcune delle
loro case e dei negozi era stati devastati, i loro beni
confiscati. Tutto mi sembrava così assurdo e surreale: alcuni
miei amici ebrei che speravo di incontrare erano stati costretti
a fuggire precipitosamente da Tripoli per non essere trucidati.
Ora mio padre, stremato dal male, giaceva nel suo letto ed era
diventato più magro ed apatico. Prima di arrivare a quelle
condizioni aveva
nominato un suo operaio specializzato come sostituto, facendo
con lui un patto non scritto di dividere gli incassi a metà.
Con mio padre ormai
prossimo alla sua fine ero consapevole che le cose non avrebbero
potuto andare avanti come prima e che i giorni della mia
spensieratezza giovanile erano davvero finiti. Dovevo diventare
adulto alla svelta.
I miei
rapporti con il sostituto in officina cominciarono a
deteriorarsi quando cominciai a capire che non rispettava gli
accordi presi con mio padre. Gli dissi che se le cose non
fossero cambiate sarei stato costretto a chiudere l’officina.
Lui continuò
imperterrito nel suo tran tran, mostrandosi poco intelligente e
non lungimirante. Mi rendevo conto che quei pochi soldi che
ricevevo non erano sufficienti per permettermi di continuare a
frequentare l’università, specialmente una facoltà impegnativa
come ingegneria, così mi misi subito a cercare un lavoro. A casa
di mia zia Cristina incontrai un suo cugino, Vincenzo Rovecchio,
che mi offrì di lavorare con lui a Il
Giornale di Tripoli,
un quotidiano locale di quattro pagine in lingua italiana,
fondato nel 1960 dal dottor Mohammed Murabet,
direttore responsabile,
con Vincenzo Rovecchio redattore capo e Alessandro Sammartano
alla cronaca. In
precedenza c’erano stati
Il Corriere di
Tripoli e l’Eco di Tripoli.
A me fu dato l’incarico di occuparmi della pagina
sportiva e mi fu corrisposto uno buono stipendio mensile:
centoventi sterline, che al cambio di allora equivalevano a
circa duecentomila lire italiane.
Mohammed Murabet e Vincenzo Rovecchio
Ad agosto di
quell’anno mio padre fu trasportato su una lettiga in aereo a
Roma, nello stesso ospedale dove era stato operato in precedenza,
per sottoporsi a un trattamento di chemioterapia. Anche in quel
frangente io rimasi a Tripoli da solo e fui ospitato
generosamente a casa dalla famiglia Salemi, a cui non mi
stancherò mai esprimere la mia riconoscenza per il loro appoggio
ed il sostegno morale che ricevetti in uno dei momenti più
infelici della mia vita. Così al mattino, prima di recarmi al
lavoro nella sede de Il
Giornale di Tripoli, che era in Sciara Baladia, la via che
portava al Municipio, passavo dalla nostra officina per
scambiare due chiacchiere con gli operai e con il sostituto per
accertarmi che tutto procedesse secondo gli accordi. Questi,
solo dopo la mia insistenza,
mi faceva vedere gli scarsi resoconti che scriveva su un
libraccio con una calligrafia indecifrabile. Quando gli facevo
notare che ricevevo solo un decimo dei soldi che qualche mese
prima mio padre portava a casa,
mi diceva, allargando le braccia ed incassando le spalle,
che non era colpa sua se c’era poco lavoro e se i clienti non
pagavano. Mi spinsi ad interpellare con discrezione alcuni
artigiani, amici di mio padre, delle officine accanto e questi
mi riferivano invece che
di lavoro ce n’era tanto e che in genere la clientela pagava. Mi
sentivo amareggiato e nello stesso tempo impotente a risolvere
il problema. Sentendo puzzo d’imbroglio continuai ad ammonire
più volte il sostituto che avrei chiuso l’attività se le cose
non fossero cambiate, ma lui parve fregarsene. Esasperato da
tanta improntitudine e falsità, decisi di passare dalle parole
ai fatti. D’accordo con mia madre andai al
Caffè Commercio per
trovare un eventuale acquirente dell’officina. In quell’ambiente
avevo la sensazione di essere come un agnello che va a cercare
cibo nella tana del lupo. Invece fui fortunato perché incontrai
Hag Latif, un ricco e
dignitoso commerciante libico con una folta barba bianca, che
indossava sempre un bianco barracano ed una
spessa
taghia
rossa in tessa e che era anche il proprietario del nostro
appartamento di Via Camperio.
Mi venne incontro e mi chiese come stava mio padre. Lo
conoscevo sin da quando ero piccolo così gli dissi in quale
situazione mi trovavo. Ci sedemmo ad un tavolo e mentre sorbiva
lentamente il suo caffè mi propose di comprare tutti gli
attrezzi della nostra officina. Ci mettemmo d’accordo per una
cifra che a me sembrò congrua, mi strinse la mano, si tocco il
petto e l’affare fu
concluso.
Hag
Latif con il suo barracano e la taghia rossa
Con quei soldi
pagai gli stipendi agli
operai, aggiungendo per tutti una generosa buona uscita, e non
ne volli più sapere di officina e di sostituti. A mio padre
c’erano voluti anni per costruirsi quella posizione e
quell’officina e in poco tempo tutto si era ridotto in cenere.
Ha ragione chi dice che nella vita
ci vogliono
anni per
costruire qualcosa
e
bastano pochi attimi
per
distruggerla. Comunque sia non mi sono mai pentito di aver preso
quella decisone e tuttora credo che sia stata,
almeno per me, la migliore soluzione.
La morte
A metà dicembre le condizioni di mio padre peggiorarono
notevolmente, così presi il primo aereo per Roma e corsi per
stargli vicino prima che fosse troppo tardi. Il tumore maligno
lo stavo consumando e quando lo vidi così stremato
e ridotto pelle ed ossa
mi sentii tremare le gambe. Per circa una settimana gli stetti
più vicino negli orari permessi per le visite. Era così anche
mentalmente indebolito che non mi chiese neppure come andava
l’officina ed io evitai di parlargliene. Mi chiese invece come
andavano i miei studi di Ingegneria
ed io gli
mentii dicendogli che andavano bene. Era il tardo pomeriggio del
22 dicembre quando, destandosi da uno dei suoi
continui dormiveglia e stordito dalla morfina che gli
iniettavano per placare i dolori, mi fece cenno con gli occhi di
avvicinarmi. Così gli andai vicino e gli strinsi la mano, che
era freddissima; accostai la mia testa alla sua fino a toccarla,
per sentire meglio cosa mi volesse dire. Con gli occhi lucidi ed
ingialliti dalla malattia, guardandomi negli occhi e con un filo
di voce mi sussurrò: - …Alla mamma…pensaci…tu…
.- mentre lei si girava dall’altra parte per non farsi
vedere che piangeva. Poi chiuse
lentamente gli occhi e pensai che si fosse assopito,
invece non si svegliò più. Chiamammo la caposala di turno che ci
confermò che il suo cuore aveva smesso di battere. Mi avvicinai
alla finestra e piansi in silenzio ed in lontananza vidi un
pettirosso che volava solitario e si posava, forse stanco, sul
ramo di un albero vicino. In lontananza un
mesto rintocco di
campane sembrava dare l’ultimo addio
ad uomo semplice, che
era stato felice per aver fatto un mestiere che gli piaceva.
Epilogo
Oggi quando penso a mio padre lo rivedo nella mia memoria come
in una pellicola in bianco e nero con fotogrammi rallentati. Lui
è nella sua officina, annerita dalla fuliggine, mentre sta
lavorando.
Ha il viso assorto e la
fronte imperlata di sudore, indossa una tuta blu
macchiata dalle salsedine del suo sudore. Con una mano gira la
manovella della forgia e con l’altra stringe con una grossa
pinza un tondino di ferro. Lo posa, ancora incandescente, su
un’incudine d’acciaio e lo modella con possenti colpi di
martello. Poi lo tempra lasciandolo sfrigolare in un secchio
pieno d’acqua. L’immagine poi svanisce.
E’ così che ti
ricordo papà!
Foto 31 – La sua ultima immagine
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