Mio padre

Un fabbro per amico

di

Domenico Ernandes

 

Padre, se anche tu non fossi il mio padre,

se anche fossi un uomo estraneo,

fra tutti quanti gli uomini già tanto

pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

Camillo Sbarbaro

 

Premessa

“Fare un lavoro che piace rende la vita interessante così mi diceva mio padre quando ero piccolo, ma allora io non riuscivo a capirne il perché. Ora ripensandoci mi rendo conto di quanto avesse ragione. Fortunatamente lui ha sempre amato il suo mestiere di fabbro e ci ha messo tanta passione nell’esercitarlo, anche se comportava tanta fatica e sacrifici. Per diventare un bravo fabbro ha fatto tanta gavetta: ha cominciato da piccolo come apprendista, poi ha lavorato come operaio specializzato e all’età di quarant’anni è riuscito a coronare il suo sogno di mettersi in proprio.

Era nato l’8 Luglio del 1909 in Sicilia, a Favignana, la principale isola delle Egadi, da Domenico  Lorenzo e da Francesca Arpaia. Era il loro terzo figlio e fu battezzato col nome di Giuseppe Nicola, ma per tutti fu sempre Peppino. Per inquadrare meglio la sua personalità  ed il suo modo di essere faccio un breve cenno alla storia dei suoi genitori e al retroterra culturale dell’isola dove loro sono vissuti e dove il piccolo Peppino ha trascorso una parte della sua fanciullezza.

 

Mio nonno Domenico Lorenzo e mia nonna Francesca Arpaia

Mio nonno Domenico Lorenzo nacque a Trapani nel 1868. Al termine delle scuole elementari andò a bottega da suo padre Nicolò, dove imparò il mestiere di calzolaio. A venti anni fu mandato a prestare servizio militare a Macomer  nel cuore della Sardegna. Finita la leva tornò a Trapani e continuò a lavorare  nella bottega paterna anche se per poco tempo, perché accadde un episodio che diede una svolta alla sua vita. A questo proposito con alcune testimonianze raccolte, andando a visitare Favignana nel 2006, in un viaggio in Sicilia e con la mia immaginazione, ho cercato di ricostruire l’atmosfera in cui si svolse l’incontro tra i miei futuri nonni, Domenico Lorenzo e Francesca.

Mio nonno Domenico Lorenzo e mia nonna Francesca

In una festosa domenica di giugno del 1893 il giovane calzolaio si trovava a Favignana, per partecipare alla Sagra del tonno, che normalmente durava una settimana e che si svolgeva tutti gli anni in occasione della mattanza in cui si celebrava annualmente la fase finale della pesca del tonno rosso. Il tutto avveniva nella tonnara  di Favignana con la partecipazione dei più abili pescatori del luogo sotto la guida carismatica di un rais, che era il loro capo indiscusso. La mattanza dei tonni, che vanno a depositare le loro uova a riva e che vengono intrappolati nella camera della morte, è un rito sanguinario e crudele, ma allora rappresentava l’unica possibilità per sfamare per tutto l’anno le famiglie povere dell’isola.

 

Favignana – Un poster della sagra del tonno ed una scena della mattanza  

Salvatore Ernandes, rais della tonnara di Favignana

...Il tutto avveniva nella tonnara di Favignana con la partecipazionedei più abili pescatori 

del luogo, sotto la guida carismatica di un RAIS, che era il loro capo indiscusso...

Guarda il video di Rai Storia relativo ad una tonnara a Favignana. Clicca QUI per vedere il video

*****

In quella settimana, all’inizio del solstizio d’estate, nell’aria si respirava un’atmosfera di festa. Quell’anno la pesca era stata abbondante e la gente era particolarmente euforica. Il pensiero andava alla scorta di tonno che  avrebbe potuto comprare a poco prezzo e che avrebbe conservato  nelle proprie dispense, sotto sale o sott’olio per farlo durare più a lungo possibile. Tutti i preti delle parrocchie avevano il loro bel da fare nell’officiare funzioni religiose di ringraziamento ed in lontananza si sentivano i rintocchi  delle campane che suonavano a festa.  La piazza principale, quella di fronte alla Chiesa Matrice dell’Immacolata Concezione, che era stata trasformata in occasione della sagra in un mercato all’aperto, rigurgitava di bancarelle che vendevano pane cunzato (condito) e carne di tonno a pochi centesimi.

La Chiesa matrice dell’Immacolata Concezione  di Favignana 

Qualcuno aveva già cominciato a cucinarla e l’aria era invasa da un acre  odore di legna bruciata e da un delizioso profumo di carne alla griglia che usciva dai comignoli delle case o dai cortili annessi. Una dolce brezza di maestrale soffiava su Favignana e trasportava con se in ogni angolo dell’isola la fragranza del pane e dei dolci siciliani appena sfornati dai panifici e dalle pasticcerie. Ad odorar meglio l’aria si respirava anche l’effluvio dell’amabile vino zibibbo locale, che proveniva dalle grosse botti di rovere della cantina della ricca Famiglia Florio, proprietaria dell’isola. Era ormai tradizione che ogni anno per la festa della sagra del tonno i Florio offrissero gratuitamente a tutti i partecipanti vino a volontà.  

Una numerosa famiglia locale festeggia la sagra del tonno 

La giornata terminava con una grande festa danzante a cui partecipavano tutti, grandi e piccini, allietata dai motivi popolari di un gruppo musicale locale. In mezzo a tutta quell’allegria, mentre l’orchestra suonava Ciuri Ciuri, una ritmata tarantella siciliana, il giovane Domenico Lorenzo incontrò Francesca Arpaia, un’estroversa ragazza locale di lontane origini campane, dai dolci occhioni neri, che oltre a sapere danzare con grazia era anche bella. Un’abbagliante scintilla scoccò fra loro e di colpo s’innamorarono. 

Favignana 1895. Uno scorcio della piazza principale di Favignana

Francesca era nata a Favignana il 2 giugno del 1873,  da Nicola Arpaia e da Ursula Venza. Il nonno paterno di Francesca, Salvatore Arpaia, ormai deceduto, era un campano giunto a Favignana come prigioniero politico, perché considerato un rivoluzionario dalle autorità borboniche, mentre non era altro che  un giovane ribelle che mal sopportava le angherie dei potenti. Il padre di Francesca, Nicola, che invece aveva un carattere disciplinato, era diventato un gendarme. Purtroppo morì in giovane età nel 1891, ad appena 45 anni, pare ucciso durante un conflitto a fuoco con dei fuorilegge. Francesca, insieme a sua madre ed al resto della famiglia, non si perse d’animo e poiché era una brava sarta allestì un piccolo laboratorio nella sua casa. Domenico Lorenzo, che si era veramente innamorato di Francesca, decise di abbandonare la bottega paterna a Trapani e, pur di starle vicino,  se ne andò a vivere a Favignana. Qui a poco prezzo comprò degli strumenti che servivano al suo mestiere come lesina, punteruolo, trincetto, raspa, spago e colla; poi affittò un economico bilocale che utilizzò sia per abitarci che per lavorare. Col consenso della mamma di Francesca, Ursula, diventata da poco vedova, si fidanzarono ufficialmente ed il 14 ottobre nel 1895 si sposarono proprio nella Chiesa Matrice dell’Immacolata Concezione, nella cui piazza antistante, si erano incontrati per la prima volta  in un’atmosfera di festa. Dal loro matrimonio nacquero nell’ordine quattro figli: Marietta, Orsolina, Peppino e Concetta. Domenico Lorenzo era un bravo calzolaio, faceva bene il suo lavoro, si era fatto una buona clientela ed i suoi introiti crescevano. Abitavano in un appartamento terra tetto, vicino al centro cittadino che adibirono a casa e bottega,  casa e putia come si dice in siciliano. La casa, che in quell’epoca era ubicata in Via Paradiso 29 (ora Via Leonardo da Vinci), esiste ancora.

 

Favignana - La casa e bottega degli Ernandes in Via Paradiso 29

Mio nonno Domenico Lorenzo amava la musica e come passatempo si dedicava a suonare il clarinetto. Lo suonava così  bene che ben presto fu ingaggiato dal gruppo della banda musicale locale. Purtroppo non fece in tempo a trasmettere al piccolo Peppino questa sua grande passione, perché l’11 novembre del 1916, alla giovane età di 48 anni, si spense prematuramente colpito da un cancro al colon.

 

Il piccolo orfano

Mio padre, divenuto orfano  a  soli sette anni, fu costretto a dover  crescere in fretta. Abbandonò la scuola elementare per imparare un mestiere e non pesare sul bilancio familiare. Allora era più frequente l’usanza che il mestiere venisse tramandato da padre in figlio, ma quella scomparsa prematura non lo permise. Fortunatamente l’aiuto venne da suo padrino di battesimo, Giovanni Torrente, un amico fraterno del padre. In paese lo chiamavano Vanni ferrareddu perché era un uomo piccolo di statura e di professione faceva il fabbro. Oltre ad  essere bravo nel suo mestiere restava simpatico alla gente per il suo carattere gioviale e perché era sera fatta un’istruzione da autodidatta. Aveva letto la Divina Commedia e l’Orlando furioso e ne recitava vari passi a memoria, ma coi ragazzi riscuoteva più successo per tutte le storielle che conosceva su Giufà. Comportandosi da vero padrino, U’ zu Vanni, così lo chiamava mio madre, accolse il piccolo orfano nella sua officina di fabbro, gli insegnò il suo mestiere e per un certo periodo di tempo lo ospitò in casa sua, come fosse figlio suo. Nel frattempo, la sua mamma,  Francesca, donna tenace e piena di iniziativa, con i pochi risparmi lasciati dal defunto marito decise di aprire una piccolo negozio di generi alimentari, allestendolo e ristrutturandolo da sola, utilizzando così la bottega di calzolaio ormai in disuso. Con questa piccola attività riuscì, per un certo periodo di tempo, a mantenere la sua famiglia in maniera decorosa.
Era l’anno 1918 e l’Italia aveva vinto da poco la battaglia di Vittorio Veneto contro l’esercito austro-ungarico
, quando Orsolina, la secondogenita che aveva appena compiuto diciotto anni, si trasferì a Tripoli in Libia, da qualche anno colonia italiana, per sposarsi con Gabriele Ferrante, un giovane ed intraprendente vedovo, di professione pescatore, armatore  di una flottiglia di  quattro pescherecci.

Mia zia Orsolina insieme a suo marito Gabriele Ferrante

Quest’evento modificò anche il destino del piccolo Peppino, perché nel luglio del 1920, all’imberbe età di 11 anni, con indosso un leggero vestitino alla marinara e con uno zaino a tracolla, lasciò l’Italia e da Siracusa s’imbarcò da solo sulla motonave Arborea per recarsi a Tripoli, richiamato legalmente dalla sorella, che lo accolse a braccia aperte nella sua casa. L’abitazione era ubicata all’interno nella Città Vecchia, vicino al porto, non lontano dal meraviglioso Lungomare Bastioni.

 

Tripoli  anni ’30 - Lungomare Bastioni e a sinistra la Cassa di Risparmio

 

Tripoli

A Tripoli Peppino si diede subito da fare per cercare lavoro e lo trovò come aiutante-fabbro in un’officina vicina all’abitazione della sorella. Crescendo  ebbe modo di conoscere e di stringere amicizia  con il giovane Annibale Angelucci, che abitava con la sua famiglia vicino ai Ferrante. Annibale, più grande di lui di qualche anno, di li a poco avrebbe aperto un’officina meccanica insieme al  cognato Gino Sesta, nella stessa zona. Comunque, al di là dei semplici rapporti di lavoro, si erano venuti a creare tra le famiglie dei Ferrante, degli Ernandes, degli Angelucci e dei Sesta, insieme ad altre che abitavano nei paraggi, come i Salmeri (cugini di mia madre) i Rinaudo e i D’Angelo e di alcune famiglie di maltesi, dei sani e sinceri rapporti di amicizia e di solidarietà. Amilcare Angelucci, figlio di Annibale, ex-lali e nostro assiduo collaboratore dell’OASI, che in quel periodo era ancora un bambino, mi ha riferito di alcuni suoi giovanili e felici ricordi di mio padre da poco fidanzato con la graziosa Francesca, la mia futura madre.

Annibale Angelucci con suo figlio Amilcare

Alla fine del 1922, subito dopo l’avvento di Mussolini,  Francesca Arpaia, con la piccola Concetta, lasciò Favignana per stabilirsi a Tripoli, richiamata dalla figlia Orsolina.  Appena giunta Francesca senza perdere tempo affittò un appartamentino vicino al Monumento dei Caduti, proprio accanto a quello di Orsolina, dove ci andarono a vivere anche Peppino e la sorellina Concetta. Con i soldi portati dall’Italia e con i piccoli risparmi del figlio giovinetto comprò alcuni arnesi da sarta come aghi, fili e ditali ed una macchina da cucire Singer a pedale di seconda mano e si mise a cucire  con successo abiti  semplici e a costi modici per la gente del quartiere.

Mia nonna Francesca e mia zia Concetta  ed il Monumento dei Caduti

  

La sua vita giovanile

Non ho avuto modo di conoscere molti particolari della vita giovanile di mio padre, anche perché in verità egli non era molto propenso a parlare di sé, però qualcosa  me lo ha raccontato mia madre. Pare che all’età di 10 anni, durante i festeggiamenti per la sagra del tonno, alcuni sconsiderati lo fecero ubriacare col vino e da allora, per repulsione all’alcool, divenne astemio. A 20 anni fu ritenuto idoneo per il servizio di leva e, come suo padre, fu mandato in Sardegna, ma questa volta in un  posto di mare,  nell’Isola della Maddalena. Durante la leva alla mensa militare il formaggio era la pietanza predominante, tanto che sembra venisse servito mattina, mezzogiorno e sera, roba da fare venire la nausea. Al termine del servizio tornò a Tripoli e da allora non volle più saperne di assaggiare qualsiasi tipo di formaggio ne di sentirne l’odore.

 

Il fidanzamento ed il matrimonio

Correva l’anno 1936, era iniziato il quindicesimo anno dell’era fascista, e da poco c’era stata la proclamazione dell’Impero, quando successe un fatto che diede una svolta alla vita di Peppino, ormai ventisettenne. Era un’assolata e serena domenica di novembre,  lui fu invitato ad andare a Zuara, un piccolo paese sul mare distante circa cento chilometri ad ovest di Tripoli, a poca distanza dal confine con la Tunisia. L'invito gli era stato recapitato dopo aver partecipato ad uno dei tanti concorsi per provetti  giovani saldatori che venivano indetti dal regime fascista, in cui si era classificato tra i  primi tre.  Questi dovevano ricevere un diploma ed essere premiati dall’allora Podestà di Zuara, il signor Ignazio Sammartano, patrocinatore di quello specifico concorso. In que periodo esisteva anche una strada ferrata, che portava in treno da Tripoli a Zuara  e viceversa. Mio padre, che faceva parte  di quel ristretto gruppo, arrivò a Zuara in treno.
Tra il pubblico c’era anche una giovane e carina brunetta, quasi diciassettenne, di nome Francesca, che abitava a Zuara e che insieme alla sorella maggiore Maria assisteva alla cerimonia. Dopo la premiazione ci fu un rinfresco in cui per caso Peppino e Francesca s’incontrarono, si parlarono e si fecero subito reciproca simpatia. Dopo il rinfresco lui le propose di andare, insieme a Maria ed ad una sua amica  e agli altri due giovani saldatori vincitori, a fare una passeggiata nei vicini dintorni. E dopo aver chiesto il permesso a mio nonno Giuseppe, s'incamminarono verso il mare che era a circa un chilometro da lì.  Camminando e parlando, raggiunsero la spiaggia di Zuara Marina, che stava alla sinistra del piccolo porto. 
Nonostante fosse novembre la giornata era bella ed il mare era azzurro e calmo. Per gioco qualcuno tirò un sasso liscio per farlo rimbalzare più volte sulla superficie piatta del mare e gli altri per gioco lo imitarono. Continuarono a divertirsi come bambini, risero, chiacchierarono e senza accorgersene Peppino e Francesca si presero per mano e s’innamorarono. 

****

Dopo un paio di settimane e dopo averne parlato con sua madre, Peppino decise di tornare a Zuara e  presentarsi a casa dei Salmeri per chiedere la mano della giovane Francesca. La famiglia Salmeri viveva in un villino tutto bianco ad un solo piano, coperto da una terrazza  da cui a nord  si vedeva il mare, ad est il porto, a sud terra sabbiosa con alcuni alti cespugli di tamerice e ad ovest i tetti di Zuara  Città. Il villino  si trovava a metà strada, sul rettilineo asfaltato e quasi deserto, che andava da Zuara Marina a Zuara Città. Nel mezzo del giardino c’era, oltre a dell’aiuole con pansè multicolori e narcisi gialli, un vecchio e nodoso albero di limone mentre ai lati si ergevano delle slanciate palme di datteri col tronco ruvido e rugoso  e degli esuberanti eucaliptus. Non lontano da loro, dall'altro lato della strada, abitava  la famiglia del Podestà Sammartano. Peppino, vestito per l’occasione col suo abito migliore, fu ricevuto nel salottino di casa dal capofamiglia, mio nonno Giuseppe, ex maresciallo capo di Marina, medaglia di bronzo al valor militare ed ora comandante di due bastimenti battezzati "Maria" e 
"I due fratelli", attrezzati per la pesca delle spugne ed ormeggiati, quando non navigavano, nel porto di Zuara.

Zuara - Il porto

L’ex Maresciallo di Marina, considerato da tutti i suoi conoscenti un uomo dal carattere ferreo ed autoritario, tanto che  i suoi  cinque  figli gli si rivolgevano con rispetto dandogli del vossia (equivalente in italiano al lei), prese del tempo prima di dargli una risposta definitiva. Per saperne di più sul giovane Peppino, chiesa informazioni all’agenzia tripolina  dell’OVRA, la polizia segreta dell’Italia fascista, dove col suo passato militare aveva ancora delle conoscenze. Il rapporto da Tripoli arrivò quasi subito ed era positivo. Secondo queste informazioni il giovane ventisettenne Giuseppe Nicola Ernandes risultava essere un grande lavoratore ed un ottimo saldatore qualificato, percepiva  un buon stipendio, non aveva ne debiti in pendenza  ne vizi di gioco, era astemio, non fumava e soprattutto non risultava essere un donnaiolo, era insomma una persona seria ed affidabile. Malgrado ciò, mio nonno, dopo averlo convocato, gli disse che al momento non gli poteva concedere la mano di Francesca, perché sua figlia era ancora troppo giovane di età. Comunque, avendolo preso in simpatia, gli propose la mano della ventenne Maria, la figlia primogenita ancora nubile, che secondo la mentalità e le usanze di quel tempo  si sarebbe dovuta sposare per prima. Mio padre, non gli rispose subito e anche lui prese tempo per pensarci, quasi come se giocassero una partita di scacchi.  

 

Nonno Giuseppe, nonna Antonina, mia zia Maria e nonno Vincenzino

Gli sconsolati pianti ed i sospiri amari di Francesca, l’intelligente flessibilità di mia nonna materna, Antonina Anselmi,  la buona parola di suo fratello Vincenzino (che poi io chiamavo affettuosamente nonno), che conosceva Peppino perché anche lui abitava vicino all'ex Monumento dei Caduti, contribuirono a far cambiare idea a  mio nonno e a fare in modo che acconsentisse al loro fidanzamento. Dulcis in fundo,  da lì a qualche settimana anche Maria, per la felicità sua e di tutti,  trovò un sicuro ed affidabile pretendente e questo facilitò ancora la cosa.  In un tiepido pomeriggio di fine gennaio del 1937, all’ombra degli eucaliptus del suo giardino, mio nonno organizzò un sobrio rinfresco, riservato agli amici più intimi, per festeggiare e dare l’annuncio ufficiale del fidanzamenti delle sue figlie, Maria e Francesca.

 Zuara maggio 1937 mamma e papà fidanzati

Il 4 Dicembre 1937, proprio il giorno che mia madre compiva il diciottesimo anno di età, i miei genitori si sposarono a Tripoli, nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli, nella Città Vecchia, vicino alla Scuola del Vicariato dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Sciara Espanyol ed andarono ad abitare in uno appartamento delle Case Operaie, vicino alla Chiesa di Sant’Antonio, non lontano dalla Stazione Ferroviaria di Tripoli.

 

 Tripoli 04 dicembre 1937-  La Chiesa di Santa Maria degli Angeli  - mamma e papà sposi

  

I suoi hobby

Credo che mio padre non abbia mai praticato sport agonistici, forse perché troppo seriamente impegnato col suo lavoro ed anche per la sua indole pacifica. Ricordo che da bravo isolano sapeva nuotare bene e mi insegnò presto a farlo. Mi diceva - “Quando batti le gambe tienile ben dritte e la punta dei piedi deve uscire dall’acqua, le braccia non devono essere tese, ma leggermente piegate. Per respirare devi girare la testa appena il braccio comincia a muoversi e poi ritorni con la testa sotto appena il braccio sta uscendo dall’acqua”- Questi concetti di base li ho ben presto assimilati e  col tempo sono diventato un discreto nuotatore ma no ho mai avuto molta resistenza alla fatica come lui. Da solo percorreva a nuoto lunghe distanze, come quella che andava dalla spiaggia del Lido Vecchio fino allo Scoglio grande per distinguerlo da altri scogli più piccoli sparsi verso est, tanto che si vedeva bene anche dal Lido Nuovo e dai Sulfurei. Dal Lido Vecchio lo Scoglio grande distava circa ottocento metri, pertanto tra andata e ritorno i metri era pressappoco milleseicento metri, che mio padre percorreva in circa venticinque minuti, un tempo non rilevante ma discreto.

Mia madre, sulla terrazza della mia casa a Tripoli, in Via Manfredo Camperio 10, con vista del mare,
della spiaggia del Lido vecchio  e dello Scoglio grande (distante circa 800 metri dalla spiaggia).
 

Agosto 1949 (avevo quindi circa un anno), io con mio padre nella Spiaggia del Lido Vecchio .

(In alto a sinistra,  si intravede  lo Scoglio grande).

 

*****

Peppino da piccolo non aveva studiato musica e non aveva imparato a suonare nessuno strumento, ma aveva il senso del ritmo trasmessogli da entrambi i genitori. Ogni tanto nell’intimità della casa, per fare ridere me e mia madre, batteva  i piedi, schioccava le dite e muoveva il capo  atteggiandosi a un ballerino di flamenco.  Nelle feste danzanti se la cavava bene con i balli classici come il tango ed il walzer. Era lui che conduceva con padronanza quando ballava con mia madre, che invece era timida e leggermente impacciata. Quando gli capitava di dover giocare a carte, preferiva la briscola e lo scopa. Conosceva  bene il gioco della dama e me lo insegnò, era così bravo che non ricordo di averlo mai battuto. Nei suoi momenti liberi amava  ascoltare la musica, specialmente quella classica, ma non disdegnava quella popolare. Amava la canzone napoletana di quel periodo come O sole mio, Santa Lucia, Catarì, Core ‘ngrato, Dicitincello vuje, Funiculì funiculà, I’ te vurria vasà, Ninì Tirabusciò, Santa Lucia luntana. Era un un fan del cantante fiorentino Carlo Buti, di cui conservò per qualche tempo alcuni suoi dischi in vinile, mentre il grammofono a valigetta, La voce del padrone, venne regalato a dei cugini. Le canzoni erano quelle che andavano per la maggiore come Bambina Innamorata, Portami tante rose, Violino tzigano , Mamma, Signora Fortuna, Porta un bacione a Firenze, Firenze sogna, Serenata celeste La via en rose, Vivere, che  mia madre, dotata di una bella voce, cantava spesso. Negli anni precedenti la guerra mio padre frequentava assiduamente il Teatro Miramare ed il Politeama, dove aveva assistito a spettacoli leggeri dialettali in cui c’erano come  protagonisti i comici siciliani Angelo Musco e Rosina Anselmi e quelli napoletani con Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, ma era stato presente anche a spettacoli teatrali  ed operistici. Tra le operette si ricordava di aver visto in particolare Il Paese dei campanelli  che citava spesso e qualche volta canticchiava  i motivi di opere come la Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e i Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

 Il cantante Carlo Buti, un grammofono a valigetta, un suo disco e una copertina dei Pagliacci

 

Le sue idee e la sua cultura

Gli  italiani che vivevano in Libia non avevamo diritto al voto, ciò nonostante mio padre seguiva attentamente le vicende della politica italiana, tenendosi aggiornato con i resoconti dei quotidiani italiani ed ascoltando la notizie alla radio. Pur essendo stato da giovane avanguardista, come  lo furono tanti altri giovani della sua età, non credo che fosse  stato intimamente fascistizzato, anzi era un uomo di idee non estremiste.  Per quello che  ricordo negli anni ’50 nutriva una certa simpatia per il PLI (Partito Liberale Italiano) quando questo partito aveva come segretario Giovanni Malagodi, la cui politica  si distingueva per la sua opposizione ai governi di centro-sinistra, rifiutando nello stesso tempo ogni compromesso con i partiti di estrema destra. Seguire i fatti della politica italiana gli dava la sensazione di appartenere  e di sentirsi ancora legato all’Italia, suo paese natale. A Favignana dovette lasciare forzatamente la scuola dopo la terza elementare per la morte del padre,  ma a Tripoli,  appena ne ebbe l’occasione, frequentò per un anno le scuole serali sino ad ottenere la licenza elementare. Successivamente continuò a studiare da autodidatta, tanto che a distanza di anni conservava dei sottili libricini di grammatica con  in appendice degli esercizi di autoverifica. A casa nostra nel salotto esisteva una libreria di legno massiccio color castagno scuro, che prendeva mezza parete. Nello scaffale più in alto c’era una vetrina e lì c’erano i libri  che mio padre leggeva e  di cui ricordo ancora alcuni titoli ed autori: Navi e Poltrone, Settembre Nero e Gli amici dei nemici  di Antonino Trizzino, il Don Giovanni in Sicilia ed Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, Gli indifferenti di Alberto Moravia, Il Garofano rosso di Elio Vittorini, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga. Ricordo che, all'esame di maturità, avendo letto in precedenza un paio di volte entrambi i due libri del Verga, feci un buon tema di italiano, che aveva per argomento proprio I Malavoglia
Su uno degli scaffali c’erano anche dei quaderni di esercitazioni per imparare l’Esperanto ed una decina di alcuni piccoli libri, ingialliti dal tempo. Erano un regalo d’infanzia di Zu Vanni al piccolo Peppino: I racconti di Giufà.  Giufà era un personaggio letterario della tradizione orale popolare
 della Sicilia e giudaico-spagnola, assolutamente privo di ogni malizia e furberia, credulone, facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere, un po' simile al nostro Pinocchio. Lui quei libri li conosceva quasi a memoria, perché prima glieli aveva raccontati il suo padrino, poi li aveva letti da bambino ed infine li rileggeva a me di sera, quando da piccolo, stentavo ad addormentarmi.

 I libri Navi e Poltrone, Mastro Don Gesualdo e due copertine dei racconti di Giufà

Mio padre, come ‘U Zu Vanni, conosceva un numero imprecisato di proverbi in dialetto siciliano, che pronunciava quando se ne presentava l’occasione. C’era un proverbio adatto  ad ogni circostanza. Per i pigri: Ficu fatta, càrimi ‘mmucca; per sollecitare a darsi da fare: Aiutati ca Diu t’aiuta; a proposito degli amici: A megghiu parola è chiddha non diciuta ma attenziuni testa ca nun parra si chiama cucuzza; per gli impulsivi: Prima di parlari mastica li paroli; per gli intraprendenti: Cu nesci arrinesci;  per fare del bene: Fa beni e scordatillu, fa mali e pensaci; per i ricchi: A liggi è uguali pi tutti ma cu av’i picciuli si nni futti; per chi non riusciva a mantenere un segreto: Ammuccia, ammuccia, ca tuttu pari; a proposito di cattive compagnie: Cu va cô zuppu a l’annu zuppìa; a proposito di chi si era fatto una buona reputazione: Fatt’a nomina e va curcati; per chi aveva faticato tanto con  scarso risultato: Nuttata persa e figghia fìmmina; per una maggiore prudenza: Cu cancia a strata vecchia ppi la nova, sapi ‘nso cu lassa ma nun sapi ‘nso cu trova. Mio padre conosceva molte persone ma aveva pochi amici intimi, “Un vero amico è colui con cui puoi stare in silenzio” mi diceva, ma stavolta in italiano.

 

Il suo lavoro

Aveva una corporatura media, una carnagione rosea, un viso ovale, una fronte spaziosa, occhi castano chiari, naso regolare, labbra carnose ed una fossetta accentuata sul mento, che, come diceva mia madre, lo faceva assomigliare all’attore americano Kirk Douglas. Da piccolo aveva avuto i capelli leggermente rossicci, che col tempo erano divenuti castano scuri; da adulto la sua barba aveva ancora delle leggere sfumature rossastre. Cominciò a perdere i primi capelli all’età di 26 anni per poi divenire col tempo sempre più calvo.

 

Foto 17 – Un ritratto di mio padre a 26 anni

Con il passare degli anni e con l’esperienza diventò un fabbro provetto. Conosceva bene il suo mestiere, tanto che si era specializzato nell’utilizzare vari tipi di saldatrici: quelle elettriche, con diverse serie di elettrodi (acido, cellulosico, al rutilo, ossidante e basico), e quelle ossiacetileniche. Si era abbonato a riviste qualificate, che trattavano quell’argomento, con cui si aggiornava, consultandole spesso.  In un cassetto del comò teneva riposto con orgoglio e con affetto il diploma, che aveva conseguito nel 1936, rilasciato dalle autorità fasciste che attestava la sua bravura di saldatore specializzato, proprio quello che gli era stato consegnato alla premiazione di Zuara.

Nel 1940, allo scoppio della guerra,  venne arruolato presso il Genio Civile di stanza a Tripoli. Il suo lavoro consisteva  nella riparazione di carri armati dell’Esercito Italiano, parzialmente distrutti dal fuoco nemico, di cui ne sistemava lo scafo corazzato ed i cingoli, utilizzando la sua conoscenza di saldatore. Nel 1945, alla fine della guerra, trovò subito lavoro nell’officina dei Fratelli D'Alba, (Ciccio, Totò e Pietro), ubicata nella zona del Lido. L’anno dopo i miei genitori lasciarono la loro dimora alle Case Operaie e si trasferirono nella zona del Lido vecchio, prendendo in affitto la casa di Via Manfredo Camperio numero 10, dove io sono nato nell’agosto del 1948.

Tripoli 1949 con i miei genitori  sulla finestra di casa in Via  Camperio 10

Negli anni ’50, con l’improvviso incremento del lavoro dovuto alla scoperta dei giacimenti petroliferi, vari operai italiani, forse i più intraprendenti e coraggiosi, decisero di mettersi in proprio. Mio padre fu uno di questi. Nel 1953, dopo essersi licenziato dall’officina dei D’Alba, prese in affitto un ampio locale in Sciara Amerigo Vespucci, proprio di fronte all’ingresso dello Stadio Municipale, adiacente ad altri locali dove lavoravano altri artigiani: falegnami, tra cui il suo fraterno amico e nostro vicino di casa Michele Salemi e  i fratelli Barabani che avevano un'officina meccanica.  Il locale aveva una forma rettangolare con un soffitto alto ed una superficie di circa 150 metri quadrati. Comprò a rate alcuni attrezzi usati ma funzionanti ed efficienti, necessari per il suo lavoro. Aveva due grosse incudini, che poggiavano su massicci tronchi di legno, una forgia a manovella, martelli e mazze di ferro, magli, pinze, tenaglie, morse e morsetti, un tornio elettrico, trapani elettrici con svariate misure di punte, saldatrici elettriche e ad ossigeno, piegatrici e tagliatrici di lamiere e tondini, diverse caprette in ferro su cui appoggiare il materiale in costruzione, compassi grandi e piccoli, un grande tavolo dove stendeva ed attaccava con delle puntine i disegni dei lavori da eseguire. All’inizio, per dividere le spese si mise in società con un certo Diego, un operaio specializzato proveniente da un’altra officina, ma questi era un tipo ansioso e non adatto a lavorare in proprio. Infatti dopo qualche mese chiese a mio padre la sua parte di soldi  e se ne tornò a fare il dipendente. Per fortuna il lavoro non mancava, tanto che dopo due di anni di attività mio padre riuscì ad ammortizzare le spese iniziali e ad avere alla sua dipendenza tre operai, che col tempo diventarono otto. Oltre a realizzare  cancelli, ringhiere, inferriate per porte e finestre, nel tempo libero si dedicava a creare oggetti in ferro battuto, come porta ombrelli, tavolini guarniti da ceramiche colorate, candelabri, lampioni, che con oculatezza regalava ai suoi migliori clienti. Nel 1959 la scoperta  di un ricco giacimento petrolifero a Zelten, nella Cirenaica settentrionale, da parte della società americana Standard Oil, segnò l’inizio di una fase economica favorevole alle attività imprenditoriali libiche e tripoline in particolare. Proprio in quel periodo a mio padre capitò di conoscere alcuni ingegneri e tecnici che lavoravano per conto di società petrolifere internazionali, a cui regalò alcuni oggetti in ferro battuto, che, come hobby, amava creare. Questi semplici ma graziosi regali fecero colpo su di loro, tanto che gli faciltarono l'acquisizione di alcune importanti commesse per la manutenzione di grosse condotte,  che dall'interno del deserto portavano il petrolio greggio fine alle coste mediterranee della Sirte. A lungo andare questa sua iniziativa  risultò essere stata un’ottima strategia di marketing.

****

Il suo lavoro era comunque vario. Nel 1960 fu contattato da un amministratore della famiglia del Re libico Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, per la realizzazione di alcuni lavori di rifacimento di ringhiere, cancelli ed inferriate all’interno della Palazzina Reale, situata in Sciara El-Nasser. Questa commessa lo impegnò per più di due mesi, dandogli un buon profitto. A termine di tali lavori realizzò alcuni  caschi di datteri in ferro battuto che regalò alla Famiglia Reale  e che furono appesi in cima ad alcune delle palme davanti all’ingresso principale della palazzina. All’interno dei datteri di ferro furono inserite delle micro lampadine elettriche così da ottenere, al calar della sera, uno speciale effetto scenico.

 

Re Idris  e la Palazzina Reale

Ogni anno, generalmente dopo Pasqua, preparava, su ordinazione, delle ancore galleggianti in ferro, con dei manicotti che servivano a reggere le reti delle camere della morte, per la mattanza dei tonni, che avveniva generalmente nel mese di giugno. Tra gli acquirenti di questi galleggianti ricordo il nome della famiglia Ricotti, proprietaria della tonnara di Zavia. Non sempre i suoi clienti avevano abbastanza denaro per pagare i lavori. Ricordo che fra questi ce n’era uno che ricorreva al baratto come forma di pagamento. Era un attempato pescatore libico di nome Abdallah, proprietario di un barcone a motore, che mio padre conosceva dai tempi in cui lui faceva parte dell’equipaggio di pescatori di suo cognato Gabriele. Ogni volta che Abdallah si recava in officina con qualche pezzo rotto della barca da saldare, si portava dietro una cesta di pesci. Il pesce preferito da mio padre era il pesce balestra, chiamato anche pesce porco, un pesce dalla forma arrotondata e dalla carne soda, che insieme allo scorfano e alla cernia sono adatti per  preparare la zuppa di pesce o ghiotta, che è il condimento per il cuscusu alla trapanese. Mia madre, che io ho sempre considerato una brava cuoca, lo cucinava divinamente. Una volta capitò che Abdallah portò a casa nostra una cesta con dentro una trentina di grossi granchi pelosi di scoglio, buoni con il loro brodo ad insaporire un risotto alla marinara. Mia madre versò i granchi, ancora vivi,  dentro un pentolone non molto fondo e lo riempì d’acqua per sbollentarli. Prima di accendere il fuoco e di coprirli con un coperchio, qualcuno bussò alla porta: era il postino che aveva una raccomandata da far firmare. Mia madre, messa la firma e presa la raccomandata, tornò in cucina e si accorse che alcuni granchi erano nel frattempo usciti dalla pentola e si erano sparsi sul pavimento. Pensò di averli raccolti tutti, invece il giorno dopo, con sua grande sorpresa, ne trovò uno, ancora vivo ma malandato, rifugiato sotto la  nostra vecchia ghiacciaia di legno.

 

La Domenica

Per tutto l’anno mio padre lavorava dal lunedì al sabato, ad eccezione delle feste comandate e delle domeniche.  La sua giornata lavorativa iniziava alle 7 del mattino e si concludeva alle 19 della sera, con un’ora d’intervallo per il pranzo, che consumava a casa. Solo la domenica si concedeva il lusso di dormire fino alle nove del mattino. Da piccolo mia madre mi dava il permesso di svegliarlo: così entravo nella sua camera da letto, aprivo le tende, tiravo su la persiana per far filtrare la luce e poi lo scrollavo. Una volta sveglio, lui m’invitava a salire sul letto  e a giocare alla lotta. Era un abitudinario. Verso le nove e trenta si alzava dal letto  per andare in bagno a far toeletta. Quando ne usciva aveva il viso ben rasato e profumato; il suo dopobarba preferito era Old Spice, un profumo di cui ancora ne ricordo la sua deliziosa fragranza. Normalmente indossava un elegante vestito di gabardine chiaro, calzava un paio di signorili scarpe nere bucherellate sulla punte che comprava da Mazzarino, un’elegante calzoleria locale, metteva i gemelli ai polsi della camicia,  infilava il suo orologio a cipolla d’acciaio Roamer, che aveva avuto in eredità dal padre,  nel taschino del gilet. In inverno indossava un pesante cappotto di loden  grigio scuro e qualche volta metteva sul capo un signorile cappello di feltro Borsalino, che in quel periodo andavano ancora di moda.

Un orologio Roamer dell'epoca

Tripoli 1955 una domenica mattina  a passeggio con mio padre

Non guidava la macchina e non ha mai voluto prendere la patente automobilistica, così per muoversi si serviva di una robusta bicicletta, color verde chiaro, una Legnano senza cambio.  Quando  io compii tre anni decise, con mia grande gioia, che era venuto il momento  di portarmi con sé in giro la domenica mattina con la sua bicicletta. Costruì appositamente per me un sellino di ferro e lo fissò con dei robusti morsetti alla canna della bicicletta. Il percorso era sempre lo stesso. Ci fermavamo davanti all’officina, lui l’apriva, dava un’occhiata all’interno e se ce n’era bisogno metteva un po’ ordine sul tavolo dei disegni. Dopo non più di un quarto d’ora risalivamo sulla bicicletta e percorrevamo tutto il Corso Sicilia (Sciara Omar el Muktar) per arrivare in Piazza Italia. Per me era piacevole sedere su quel sellino, per lui io rappresentavo un trofeo da ostentare al mondo intero. Lungo il percorso salutava gioiosamente  tutti i conoscenti che incontrava. Era così felice che fischiettava motivi orecchiabili come  Nella vecchia fattoria, I pompieri di Viggiù e La mazurka della nonna, motivi che io non dimenticherò mai e che tuttora quando li ascolto mi trasmettono  energia e gioia di vivere.

La meta della domenica mattina era il Caffè Commercio, un grande bar pubblico,  ubicato sotto gli archi di Corso Vittorio (poi Sciara Istiklal), dove si incontrava con molti suoi conoscenti amici artigiani. All’interno e fuori del locale c’era un continuo andirivieni di gente, sensali, commercianti, operai in cerca di lavoro ed un sommesso chiacchiericcio, come in un mercato: tutti discutevano animatamente e poi concludevano affari semplicemente con una stretta di mano, sulla parola. Verso le undici lasciavamo il bar e ci dirigevamo, cinquanta metri più avanti, alla Edicola Filacchioni. Lì comprava il quotidiano locale in lingua italiana,  Il Corriere di Tripoli ed un quotidiano di Roma, Il Tempo. Per mia madre comprava Grazia e La Domenica del Corriere, mentre per me Il Corriere dei Piccoli e Topolino. Direttamente a casa per posta gli arrivavano tutti i numeri della Selezione dal Reader’s Digest, a cui lui era abbonato e che io poi leggevo avidamente.  Più avanti, a metà del Corso, c’era la Pasticceria Campi dove, quando avevamo amici o parenti ospiti a pranzo, comprava un grande vassoio di paste dolci composto da diplomatici, bignè al cioccolato, strudel, bomboloni alla crema, cannoli di ricotta e babà, che metteva nel portapacchi fissato sul retro della bicicletta, sopra il copriruota. 

 Vari tipi di dolci – da sinistra in alto: diplomatico, bignè al cioccolato, bombolone, strudel, cannolo alla ricotta e babà 

Verso mezzogiorno, camminando sotto i portici del Corso, venivamo investiti da una lunga fiumana di persone appena uscite dalla Cattedrale dopo la Messa delle undici. Al ritorno a mezzogiorno e trenta, puntuale come un orologio,  puntava direttamente a casa. Quando a pranzo eravamo solo noi tre, dopo il pasto,  si accomodava in salotto su una delle comode poltrone imbottite e rivestite in velluto color crema per leggere dapprima il quotidiano locale e  poi quello di Roma. Alle quattordici e trenta  accendeva la radio, una mastodontica  Radiomarelli Alcor a valvole, foderata di radica, con tanti nomi di città sul monitor e due enormi manopole che servivano a captare le onde medie delle lontane stazioni italiane. Dopo vari tentativi e tanti fruscii riusciva finalmente a sintonizzarsi sulla simpatica ed esilarante trasmissione siciliana Il Ficodindia, che aveva per protagonista il bravo attore comico e teatrale Turi Ferro. Questi impersonava Bastiano, un catanese pieno di grande arguzia e malizia.

  L’attore Turi Ferro e una Radiomarelli Alcor

 

Alle quindici, finito il Ficodindia, lui si dedicava alla lettura di uno dei suoi libri o a uno dei numeri della Selezione dal Reader’s Digest. Alcune volte, nel tardo pomeriggio, uscivamo da casa per andare, tutti e tre, in centro con l’autobus che ci portava a Piazza Castello, vicino all’imponente statua di bronzo dell’imperatore libico-romano Lucio Settimio Severo, che lo raffigurava con la barba ed una torcia nella mano destra.

Foto 23 – La statua di Lucio Settimio Severo e  Piazza Castello

 Da lì cominciava la nostra passeggiata domenicale. Si superava il Castello Rosso, si passeggiava lentamente lungo il bellissimo e panoramico lungomare Adrian Pelt adornato da un lungo filare di palme di datteri. Si arrivava alla ridente Piazza Gazzella, che raffigurava la statua bronzea di una ammaliante donna nuda che tra tanti zampilli d’acqua abbracciava una gazzella.  Proprio in corrispondenza  di questa piazza c’era, a due passi dal mare, il locale estivo La Sirenetta. 

Veduta del Lungomare Adrian Pelt, con Piazza Gazzella ed in lontananza il Castello 

Qui ci sedevamo ad un tavolo e, al dolce suono di qualche simpatica orchestrina, ci godevamo la vista dell’ ondeggiante movimento delle navi in entrata ed in uscita dal porto. In alternativa, quando pioveva, andavamo più avanti e ci rifugiavamo all’interno del Circolo Italia,  dove nella sala del Teatro venivano organizzati  spettacoli a quiz, lotterie, tombole e feste danzanti. Un centinaio di metri più avanti c’era il maestoso Albergo Casinò Uaddan, ma lì non ci entravamo perchè bisognava vestirsi in maniera elegante e poi mio padre lo considerava come un luogo di perdizione, per le somme di denaro che si potevano perdere giocando alla roulette o allo chemin de fer. Al ritorno ci fermavamo in Piazza Cattedrale per prendere una delle carrozze che sostavano accanto all’Ufficio delle Poste. Mio padre lasciava a mia madre, una commerciante nata,  il compito di pattuire con il conduttore il prezzo della corsa, anche perché lei sapeva parlare l’arabo locale. Si partiva da una richiesta di venti piastre per poi giungere, tra un  tira e molla e con grande  soddisfazione da ambo le parti, alla cifra di dieci piastre. La trattativa faceva parte del costume locale, non c’era gusto a comprare  e vendere senza contrattare. Era comunque bello andare in carrozza, accompagnati dal lento e rassicurante clippete cloppete degli zoccoli del cavallo sull’asfalto.

 

Tripoli anni '50 -  carrozze in Piazza Cattedrale

 

I suoi amici

Alcune volte, verso sera, alla fine della sua giornata lavorativa, prima di rincasare per la cena, mio padre aveva l’abitudine di fermarsi nell’officina meccanica del signor Quattrocchi, per l’unico motivo di scambiare due chiacchiere. Concezio Quattrocchi, originario di Sulmona, era una persona istruita e alla mano, che conduceva un’officina di elettromeccanica e  che commerciava anche con i pezzi di ricambio di auto rottamate. La sua officina era ubicata vicina a quella dei D’Alba e con lo stabilimento  balneare del Lido, a due passi da casa mia. Era alto, corpulento, coi capelli chiari e gli occhi azzurri.  Nel suo studiolo  sedeva su robusta  poltrona di legno con spalliera e braccioli molto alti, tanto che a me appariva come un re longobardo assiso sul suo trono. Era un incallito fumatore di toscanelli ed estimatore della pipa, usava un tipo di tabacco aromatico che a me piaceva tanto. In quello stanzino galleggiava costantemente una grigia e densa nuvola di fumo con un odore acre e profumato insieme.

 

Concezio Quattrocchi e l’officina 

Se mio padre tardava per l’ora di cena, sapevamo che si trovava nell’officina di Quattrocchi, così, su richiesta di mia madre, lo raggiungevo per sollecitarlo a tornare a casa. Spesso, oltre a loro due, trovavo il signor Franco Virone, padre del mio compagno di scuola e di gioventù Tonino. Virone era di corporatura media, con un viso abbronzato, un paio di occhi neri penetranti e dei baffi  appena accennati. Molte volte, dimentico del motivo che mi aveva portato lì, restavo affascinato nell’ascoltare le loro discussioni che spaziavano a tutto campo: dalla politica alla religione, dall’economia alla scienza, dall’arte allo sport. Erano tutti e tre quasi coetanei, mio padre era del 1909, Concezio del 1910 e Franco del 1912 ed  erano diventati orfani troppo presto, lui a sette anni, Concezio a otto e Franco a diciannove. Il fatto che si trovassero insieme forse non era un caso, certamente c’era qualcosa che li legava: l’essere stati costretti, sin da piccoli, ad affrontare le avversità della vita e di aver iniziato da giovani a lavorare per non pesare economicamente sulla propria famiglia.

Un altro suo caro amico era il nostro vicino di casa Michele Salemi, Emilio per gli amici. Dopo cena, nelle calde sere d’estate, era abitudine che noi tre, mia madre, mio padre ed io, andassimo a trovare la famiglia Salemi, che oltre a lui era composta da sua moglie Anna e dai suoi due figli, Corrado e Mario. 

  Michele Salemi con la moglie Anna

Chiacchieravamo tranquilli, seduti sui freschi gradini di marmo della veranda di casa loro, ubicata di fronte a casa nostra, magari bevendo qualche bottiglia fresca di birra Oea per gli uomini e la bibita  Sinalco per le donne. Emilio era una persona simpatica e piena di humor, grazie alle sue battute e alle sue storielle argute trascorrevamo delle serate serene in un’atmosfera di calda amicizia. I Salemi possedevano una macchina inglese, una Hillman  bianca e rossa.  Con quella nei giorni festivi andavamo tutti insieme a fare dei picnic nei dintorni di Tripoli. Generalmente si andava verso ovest, cioè Zavia, Sorman, Sabratha, Marsa Zuaga e Zuara, e a volte fino a Pisita, quasi al confine libico-tunisino, vicino alla piccola isola di Ferua che emergeva solo con la bassa marea.       

  

Il rapporto con mio padre

Malgrado io fossi figlio unico non credo di essere stato molto viziato dai miei genitori, in special modo da mio padre. Lui, che da piccolo aveva conosciuto la miseria e qualche volta la fame, pretendeva che io mangiassi tutto il cibo che mi si metteva nel piatto, senza lasciare niente. Confesso che da piccolo non sono stato un gran mangione, tanto che a volte a pranzo lasciavo un po’ di pasta (generalmente spaghetti) nel piatto. Mia madre, per mantenere la pace in famiglia, interveniva in mio soccorso. Me li conservava nella ghiacciaia e me li scaldava per cena, friggendoli in padella ed insaporendoli con un po’ formaggio parmiggiano grattugiato e  un uovo sbattuto. A me gli spaghetti piacevano di più cucinati in questo modo!

L’estate del 1958 me la ricordo bene. Avevo dieci anni  e al termine dell’esame della quinta elementare che avevo sostenuto presso la scuola dei Fratelli Cristiani i risultati sulla mia pagella erano risultati mediocri. Mio padre non prese bene la cosa e per castigo  mi impose  di andare a lavorare sia al mattino che nel pomeriggio nella sua officina. Prese questa decisione per due motivi: primo perchè non voleva che  restassi a ciondolare oziosamente per la strada, anche per i problemi che in precedenza gli avevo procurato (vedi l’ultimo mio articolo sull’ultima OASI - nda) e secondo perché voleva che io fossi consapevole di quanto fosse duro e faticoso fare un lavoro come il suo. L’idea di dover trascorrere le mie vacanze estive in officina mi angustiava e mi intristiva. C’erano i miei amici del Lido che si divertivano in spiaggia e che mi reclamavano. Poi  io avevo già iniziato a “sospirare” per una ragazzina della mia età che ricambiava i miei appassionati sguardi e per me  era davvero una penitenza dover passare le mie vacanze in officina senza poterla vedere. In quel frangente mi amareggiava ancora di più sentirgli sentenziare in siciliano: “Ricordati, cu ti voli beni ti fa chianciri, e cu ti voli mali ti fa arridiri”. Certamente in cuor suo covava dei progetti ambiziosi sul mio conto: sperava che io continuassi a studiare per ottenere ciò che a lui non era riuscito, perché impedito dalla sorte avversa. Già a quei tempi mi spronava in continuazione ad imparare bene la lingua inglese, per lui sicuramente la lingua del prossimo futuro. Devo però ammettere che l’aver lavorato e faticato durante quelle vacanze estive nella sua officina mi servì da lezione. Mi resi conto che non ero adatto a fare quel tipo lavoro e che non ero neppure dotato di quella manualità necessaria per farlo, cosa che invece lui aveva. Memore di quell’esperienza negli anni successivi mi impegnai di più negli studi tanto da superare gli esami di Licenza Media e di Maturità Scientifica con dei lusinghieri risultati finali.
In quegli anni la nostra vita sembrava  procedere serenamente: gli introiti rivenienti dal lavoro dell’officina miglioravano sempre di più, mia madre, che da anni soffriva per dei calcoli alla cistifellea, si era sottoposta ad un’operazione e da allora aveva cominciato a stare molto meglio, il mio profitto a scuola era buono e mio padre ne era molto felice. Ma come spesso accade nella vita una tempesta era in agguato sulla nostra famiglia; come un fulmine a ciel sereno arrivò un imprevisto,  un brutto imprevisto!

 

La malattia

Alla fine di marzo del 1966 mio padre fece una visita di controllo medico per alcuni dolori che avvertiva da qualche tempo allo stomaco. L’esito degli esami fu devastante: gli fu riscontrato un tumore al colon in stato avanzato. Il nostro medico di famiglia, il dottor Basile, gli suggerì comunque di sottoporsi ad una operazione. A metà aprile partì per Roma, insieme a mia madre, per sottoporsi ad un intervento chirurgico  presso il Policlinico Umberto I, in Viale Regina Margherita. In quel triste e penoso periodo rimasi solo, anche se fui ospitato temporaneamente a casa di mio zio Mario, un fratello di mia madre, e di sua moglie Cristina Rovecchio, che non finirò mai di ringraziare per il loro appoggio morale e la loro ospitalità.

 

 

I miei zii Mario Salmeri e Cristina Rovecchio

Ai primi di maggio, eseguito l’intervento e asportato il tumore, mio padre tornò a Tripoli e, sentendosi meglio,  ricominciò a lavorare nella sua officina. Intanto io, superati con ottimi voti gli esami di  maturità liceale, avevo maturato la scelta di iscrivermi alla facoltà di ingegneria civile al Politecnico di Milano. Così per poter frequentare i corsi universitari, a metà ottobre del 1966 lasciai Tripoli e partii per l’Italia.  Andai a vivere a casa di mio zio materno Giovanni e di mia zia Bertilla Posenato, a Cesano Maderno, un paese a circa 20 chilometri a nord di Milano, facendo il pendolare per arrivare sino al piazzale Leonardo da Vinci, dove era ubicato il Politecnico. Grazie anche alla loro solidarietà e comprensione riuscii a superare i momenti di tristezza che mi attanagliavano per essere lontano dalla mia famiglia.

 

I miei zii Giovanni Salmeri e Bertilla Posenato 

Purtroppo nel febbraio del 1967 le condizioni di salute di mio padre cominciarono a peggiorare: il tumore maligno non era stato del tutto estirpato durante l’operazione chirurgica  ed ora iniziava la fase della metastasi. Mia madre, sempre più preoccupata e disperata,  mi telefonava con più frequenza per informarmi che ormai  mio padre non aveva più la forza per recarsi in officina e che gli introiti si erano ridotti. In quel periodo frequentavo tutti giorni l’università per seguire le lezioni e per prepararmi a sostenere i miei primi esami del  biennio: analisi matematica, disegno, geometria, fisica e chimica. Malgrado avessi l’animo angosciato da quella situazione a metà giugno superai nella prima sessione due esami: analisi matematica e geometria e mi ripromettevo di superare gli altri tre nella sessione di ottobre. Tornai a Tripoli a fine giugno, quando ancora non si era spenta l’eco della Guerra dei sei giorni.  Era stato scatenato un progrom nei confronti della comunità ebraica, alcune delle loro case e dei negozi era stati devastati, i loro beni confiscati. Tutto mi sembrava così assurdo e surreale: alcuni miei amici ebrei che speravo di incontrare erano stati costretti a fuggire precipitosamente da Tripoli per non essere trucidati.

Ora mio padre, stremato dal male, giaceva nel suo letto ed era diventato più magro ed apatico. Prima di arrivare a quelle condizioni  aveva nominato un suo operaio specializzato come sostituto, facendo con lui un patto non scritto di dividere gli incassi a metà. Con mio padre ormai prossimo alla sua fine ero consapevole che le cose non avrebbero potuto andare avanti come prima e che i giorni della mia spensieratezza giovanile erano davvero finiti. Dovevo diventare adulto alla svelta.

I miei rapporti con il sostituto in officina cominciarono a deteriorarsi quando cominciai a capire che non rispettava gli accordi presi con mio padre. Gli dissi che se le cose non fossero cambiate sarei stato costretto a chiudere l’officina. Lui  continuò imperterrito nel suo tran tran, mostrandosi poco intelligente e non lungimirante. Mi rendevo conto che quei pochi soldi che ricevevo non erano sufficienti per permettermi di continuare a frequentare l’università, specialmente una facoltà impegnativa come ingegneria, così mi misi subito a cercare un lavoro. A casa di mia zia Cristina incontrai un suo cugino, Vincenzo Rovecchio, che mi offrì di lavorare con lui a Il Giornale di Tripoli, un quotidiano locale di quattro pagine in lingua italiana, fondato nel 1960 dal dottor Mohammed Murabet,  direttore responsabile, con Vincenzo Rovecchio redattore capo e Alessandro Sammartano alla  cronaca. In precedenza c’erano stati Il Corriere di Tripoli e l’Eco di Tripoli.  A me fu dato l’incarico di occuparmi della pagina sportiva e mi fu corrisposto uno buono stipendio mensile: centoventi sterline, che al cambio di allora equivalevano a circa duecentomila lire italiane.

  Mohammed Murabet e Vincenzo Rovecchio

Ad agosto di quell’anno mio padre fu trasportato su una lettiga in aereo a Roma, nello stesso ospedale dove era stato operato in precedenza, per sottoporsi a un trattamento di chemioterapia. Anche in quel frangente io rimasi a Tripoli da solo e fui ospitato generosamente a casa dalla famiglia Salemi, a cui non mi stancherò mai esprimere la mia riconoscenza per il loro appoggio ed il sostegno morale che ricevetti in uno dei momenti più infelici della mia vita. Così al mattino, prima di recarmi al lavoro nella sede de Il Giornale di Tripoli, che era in Sciara Baladia, la via che portava al Municipio, passavo dalla nostra officina per scambiare due chiacchiere con gli operai e con il sostituto per accertarmi che tutto procedesse secondo gli accordi. Questi, solo dopo la mia insistenza,  mi faceva vedere gli scarsi resoconti che scriveva su un libraccio con una calligrafia indecifrabile. Quando gli facevo notare che ricevevo solo un decimo dei soldi che qualche mese prima mio padre portava a casa,  mi diceva, allargando le braccia ed incassando le spalle, che non era colpa sua se c’era poco lavoro e se i clienti non pagavano. Mi spinsi ad interpellare con discrezione alcuni artigiani, amici di mio padre, delle officine accanto e questi  mi riferivano invece che di lavoro ce n’era tanto e che in genere la clientela pagava. Mi sentivo amareggiato e nello stesso tempo impotente a risolvere il problema. Sentendo puzzo d’imbroglio continuai ad ammonire più volte il sostituto che avrei chiuso l’attività se le cose non fossero cambiate, ma lui parve fregarsene. Esasperato da tanta improntitudine e falsità, decisi di passare dalle parole ai fatti. D’accordo con mia madre andai al Caffè Commercio per trovare un eventuale acquirente dell’officina. In quell’ambiente avevo la sensazione di essere come un agnello che va a cercare cibo nella tana del lupo. Invece fui fortunato perché incontrai Hag Latif, un ricco e dignitoso commerciante libico con una folta barba bianca, che indossava sempre un bianco barracano ed una  spessa  taghia rossa in tessa e che era anche il proprietario del nostro appartamento di Via Camperio.  Mi venne incontro e mi chiese come stava mio padre. Lo conoscevo sin da quando ero piccolo così gli dissi in quale situazione mi trovavo. Ci sedemmo ad un tavolo e mentre sorbiva lentamente il suo caffè mi propose di comprare tutti gli attrezzi della nostra officina. Ci mettemmo d’accordo per una cifra che a me sembrò congrua, mi strinse la mano, si tocco il petto  e l’affare fu concluso.

 Hag Latif con il suo barracano e la taghia rossa

Con quei soldi pagai gli stipendi  agli operai, aggiungendo per tutti una generosa buona uscita, e non ne volli più sapere di officina e di sostituti. A mio padre c’erano voluti anni per costruirsi quella posizione e quell’officina e in poco tempo tutto si era ridotto in cenere. Ha ragione chi dice che nella vita ci vogliono anni per costruire qualcosa e bastano pochi attimi  per distruggerla. Comunque sia non mi sono mai pentito di aver preso quella decisone e tuttora credo che sia stata, almeno per me, la migliore soluzione.

 

La morte

A metà dicembre le condizioni di mio padre peggiorarono notevolmente, così presi il primo aereo per Roma e corsi per stargli vicino prima che fosse troppo tardi.  Il tumore maligno lo stavo consumando e quando lo vidi così stremato  e ridotto pelle ed ossa mi sentii tremare le gambe. Per circa una settimana gli stetti più vicino negli orari permessi per le visite. Era così anche mentalmente indebolito che non mi chiese neppure come andava l’officina ed io evitai di parlargliene. Mi chiese invece come andavano i miei studi di Ingegneria  ed io gli  mentii dicendogli che andavano bene. Era il tardo pomeriggio del 22 dicembre quando, destandosi da uno dei suoi  continui dormiveglia e stordito dalla morfina che gli iniettavano per placare i dolori, mi fece cenno con gli occhi di avvicinarmi. Così gli andai vicino e gli strinsi la mano, che era freddissima; accostai la mia testa alla sua fino a toccarla, per sentire meglio cosa mi volesse dire. Con gli occhi lucidi ed ingialliti dalla malattia, guardandomi negli occhi e con un filo di voce mi sussurrò: - …Alla mammapensaci…tu… .- mentre lei si girava dall’altra parte per non farsi vedere che piangeva. Poi chiuse  lentamente gli occhi e pensai che si fosse assopito, invece non si svegliò più. Chiamammo la caposala di turno che ci confermò che il suo cuore aveva smesso di battere. Mi avvicinai alla finestra e piansi in silenzio ed in lontananza vidi un pettirosso che volava solitario e si posava, forse stanco, sul ramo di un albero vicino. In lontananza un  mesto rintocco di campane sembrava dare l’ultimo addio  ad uomo semplice, che era stato felice per aver fatto un mestiere che gli piaceva.

  

Epilogo

Oggi quando penso a mio padre lo rivedo nella mia memoria come in una pellicola in bianco e nero con fotogrammi rallentati. Lui è nella sua officina, annerita dalla fuliggine, mentre sta lavorando. Ha il viso assorto e la  fronte imperlata di sudore, indossa una tuta blu macchiata dalle salsedine del suo sudore. Con una mano gira la manovella della forgia e con l’altra stringe con una grossa pinza un tondino di ferro. Lo posa, ancora incandescente, su un’incudine d’acciaio e lo modella con possenti colpi di martello. Poi lo tempra lasciandolo sfrigolare in un secchio pieno d’acqua. L’immagine poi svanisce. E’ così che ti  ricordo papà!

Foto 31 – La sua ultima immagine

 

********

Homepage Ernandes vai su indice Ernandes