Eravamo
a casa del mio amico, l'Assessore
Massimiliano Sonetti, Vania, la moglie, aveva preparato
una cena fantastica tutta a base di
pesce. C'erano diversi invitati tra
cui il Segretario comunale Cerano e
signora, l'Assessore Paoli e
signora, un generale e signora, e
un sacerdote. Il padre era nato in
Egitto ed iniziò a parlare della
sua vita ma ben presto l'attenzione
si spostò su di me, perché
Massimiliano disse: «Sapete, Fabio
è nato a Tripoli, in Libia?» Venni
sollecitato a dire qualcosa e a
grandi linee cominciai a parlare
della guerra, la fuga in Italia,
sino alla cacciata da parte del
Colonnello Gheddafi di tutti gli
italiani là residenti. Ormai la cena
era terminata e guardando l'orologio
ci accorgemmo che si era fatta
mezzanotte. Ci apprestavamo a
rientrare quando il sacerdote
disse: «Perché non scrivi un libro
sulla tua vita?» «Padre» risposi
«io so raccontare i fatti perché li
ho vissuti personalmente, ma non ho
mai scritto niente». «Prova» ribadì
«non si sa mai, potrebbe essere
interessante special mente per i
giovani di oggi, per far capire loro
che cosa si prova quando si vivono
momenti di guerra». In effetti il
giorno dopo l'idea di scrivere il
libro mi rimuginava in testa. Che
faccio, ci provo? Ma a chi può
interessare? Alla fine mi sono
convinto: decisi di dividere in
quattro parti il diario della mia
vita: l'inizio della guerra il 10
giugno del 1940, la fuga in Italia,
il rientro a Tripoli nel 1947 e
l'espulsione dalla Libia nel 1970.
Tutto iniziò quel 10 giugno, avevo
otto anni, e tutta la mia famiglia
era riunita attorno ad una
vecchia Radio Marelli. Nonno
Beppino Naldini, nonna Zelia,
zio Mario, zio Luciano, babbo
Renato, mamma Iolanda e mio
fratello Marcello di cinque anni.
Gli altri miei zii, Renzo ed
Amelia, erano a casa loro. Erano
tutti attenti: parlava il Duce,
diceva che aveva consegnato la
dichiarazione di guerra
all'Inghilterra. Guardavo i miei
senza capire che cosa stesse
succedendo, però vedevo che le loro
facce erano preoccupate e mio nonno
disse:
«Qui
le cose si mettono male. Ho fatto la
guerra e so cosa vuol dire».
Intanto era giunta l'ora di pranzo e
mentre mangiavamo tutti parlavano di
questa guerra che stava arrivando.
Nel pomeriggio verso sera si
cominciarono a sentire degli
scoppi.
Qualcuno disse: «Stanno facendo le
prove».
Poi
gli scoppi si fecero più forti e più
vicini.
Mio
nonno ordinò: «Stanno bombardando!
Di corsa tutti da Miscerghi, ci sono
le cantine!» Miscerghi era un
commerciante arabo di alimentari.
Mia nonna Zelia prese la testa del
gruppo, malgrado i cento chili
di peso sembrava che volasse,
dietro tutta la famiglia. Dopo
un'ora il bombardamento era finito
e, passata la paura, uscimmo fuori
dal nostro rifugio: nonno Beppino ci
comunicò che erano stati aerei
francesi a gettare degli spezzoni.
Lui aveva visto tutto perché non
era entrato nel rifugio e si era
sistemato in un punto alto per poter
controllare meglio la situazione.
Lui aveva fatto la guerra per
diversi mesi...! Iniziò un periodo
di bombardamenti e la paura si
faceva sempre più grande, tanto che
mio padre decise che ci dovevamo
allontanare e andammo a Zuara, una
cittadina a 100 km da Tripoli.
La
famiglia che ci dette ospitalità si
chiamava Graziani ed erano pescatori
di spugne. Ricordo questa casa piena
di spugne ed io e mio fratello che
passavamo il tempo giocando con
quegli oggetti morbidi, non ne
avevamo mai visti tanti. Pochi
giorni dopo l’inizio della guerra,
il funerale di Italo Balbo,che ebbe
luogo il 29 giugno sul Lungomare di
Tripoli. La salma, poggiata su di un
affusto di cannone avvolta dalla
bandiera italiana, sfilò davanti a
migliaia di persone. Balbo era stato
abbattuto con il suo aereo dalla
contraerea della nave San Giorgio a
Tobruk, come si disse all’epoca, per
errore…
Intanto il fronte militare si era
spostato verso Sollum in Cirenaica,
le incursioni aree erano diminuite
ed i miei decisero di rientrare a
Tripoli. Eravamo rientrati da poco
quando il 21 aprile del 1941 avvenne
il bombardamento aereo-navale.
Mio
padre che era stato sotto-ufficiale
di marina diceva: «Sparano con i
381». In effetti oltre al
bombardamento aereo una squadra
navale inglese si era presentata
all'imboccatura del porto e aveva
iniziato il cannoneggiamento. Finita
l'incursione si seppe che un colpo
di cannone si era infilato nel
condotto di aerazione della
filiale della Banca d'Italia ed era
scoppiato nel rifugio: aveva fatto
una carneficina. Mia madre si
impressionò moltissimo e decise che
bisognava fuggire da Tripoli.
Mio nonno e mio padre
sarebbero rimasti lì, mia nonna,
mia madre, mio fratello ed io
saremmo andati in Italia, che era
molto più sicura; anche i miei zii
Mario e Luciano rientrarono in
Italia. Zio Mario all'epoca stava
studiando all'Università di Napoli
per prendere la laurea in Scienze
Orientali; era anche un bravo
pianista, era il pupillo di Padre
Illuminato Colombo, francescano, e
spesso veniva chiamato a suonare
l'organo durante le cerimonie
religiose nella cattedrale.
Dopo
circa un anno la guerra in Africa
Settentrionale terminò invece in
Italia durò fino al 1945 e noi la
vivemmo tutta. Una mattina ci
portarono verso l'aeroporto di
Castel Benito e c'imbarcammo su dei
bombardieri adibiti al trasporto di
donne e bambini verso Castelvetrano
in Sicilia. Il viaggio fu terribile.
Appena alzati in volo, molte persone
iniziarono a rimettere per i vuoti
d'aria. Era passata mezz'ora
quando in lontananza si vide
passare un aereo inglese che
sventagliò una raffica di mitraglia.
Anche il nostro mitragliere rispose
al fuoco. Dalla paura ci buttammo
tutti sull'impiantito dell'aereo in
mezzo al vomito. Forse quel primo
volo drammatico fece sì che in
futuro avrei sempre avuto paura di
viaggiare in aereo. Arrivati a
Castelvetrano fummo accolti da
alcuni incaricati che ci
comunicarono che eravamo PROFUGHI
DELLA LIBIA. In treno proseguimmo
verso Firenze dove mia nonna,
di origine toscana, aveva dei
parenti. Andammo ad abitare per un
certo periodo alla Costa Scarpuccia,
poi in via Belvedere nella zona di
San Niccolò proprio all'inizio
della scalinata che porta verso
il Piazzale Michelangelo. Iniziò
una odissea di fame e di stenti.
Faceva freddo quell'inverno del
1941-1942 e noi non eravamo abituati
a tali temperature. La sera quando
andavamo a letto mia madre ci
metteva lo scaldino: era un
“trabiccolo” di legno dove veniva
agganciato un vaso di coccio con
della brace. Per me e mio fratello
era una novità (a Tripoli non c'era
certo bisogno di scaldare il letto)
e bisognava stare attenti a non
muoversi molto altrimenti lo
scaldino si poteva
rovesciare. La mattina appena alzati
prendevamo un po' di latte, un pezzo
di pane e andavamo subito a scuola.
Io facevo la quinta elementare, mio
fratello la seconda, presso la
scuola Demidoff di San Niccolò.
Firenze, 1942 – IV classe elementare
scuola Demidoff |
Prima della refezione alle ore 10.00
ci davano un cucchiaio di olio di
fegato di merluzzo. Aveva un
sapore disgustoso, ma eravamo
obbligati a prenderlo perché i
futuri soldati del Duce dovevano cre
scere forti e pronti al
combattimento.
Le
mie prime amicizie furono
Mario, Carla, Piero, Giovanna;
quest'ultima mi piaceva tanto,
era la figlia di una cugina
di mia madre e ogni volta che la
vedevo cominciavo a sentire qualcosa
di strano dentro di me e mi
rimescolavo tutto. Ancora non capivo
che cosa fossero queste sensazioni.
Chissà dove saranno adesso i miei
vecchi amici? Sono passati sessant'anni,
qualcuno non ci sarà più.
Ricordo che il divertimento di noi
ragazzi era la “sassaiola” rione
contro rione, oppure ci
arrampicavamo sulle mura per
andare a prendere i capperi.
Invece quando stavamo con le
ragazze, e questo era il gioco che
mi piaceva di più, recitavamo una
vecchia ballata popolare “La bella
Fantina”,
Dove vai, dove vai, Bella Fantina,
Vado a prender l’acqua per bere e
cucinar
Vado a prender l’acqua per bere e
cucinar…
E
l’”Olandesina”
Olandesina, mia fanciulla divina
Olandesina, tu appartieni al mio
cuor
Tu sarai sempre la mia più cara
bambina…
I
mesi passarono e finite le
elementari, iniziai a frequentare la
prima media. Appena alzato la
mattina mangiavo un pezzo di pane,
niente latte perché non c'erano i
soldi per comprarlo, poi di corsa mi
appostavo perchè volevo accompagnare
Giovanna che frequentava la mia
stessa scuola. Alla fine delle
lezioni, stessa cosa, la aspettavo
di nascosto e poi facendo finta che
la cosa fosse casuale andavamo a
casa insieme.
A
casa la miseria e la fame erano
sempre grandi. Mia madre aveva
venduto i pochi oggetti d'oro che
aveva e si era disfatta di tutto il
corredo; faceva i salti mortali per
trovare qualcosa da mangiare per
noi. Ogni tanto grazie a quel
certificato di PROFUGHI DELLA LIBIA
riuscivamo ad avere un po' di cibo
da qualche associazione.
Firenze, 1942 - Mamma Jolanda,
Marcello e Fabio in Piazza della
Signoria |
Intanto anche a Firenze c'erano
i bombardamenti. Molte volte
prima che suonassero le sirene per
dare l'allarme, le fortezze volanti
americane erano già sopra le nostre
teste. Terminato il bombardamento
noi ragazzi uscivamo dai rifugi e
andavamo subito in giro per
recuperare le schegge, a volte
ancora calde, per portarle
all'Opera Nazionale Balilla dove
venivano raccolte.
Finalmente, un giorno, arrivò anche
mio padre da Tripoli; ora le cose
sarebbero cambiate, pensavo, invece
non riusciva a trovare lavoro. In
Libia faceva l'assistente edile e
questa non era un'occupazione facile
da trovare. Venne a sapere che alla
TOD tedesca, il genio militare,
cercavano autisti. Si presentò e
fortunatamente venne assunto. Gli
diedero un'auto, una Lancia, che
avevano sequestrato al vescovo di
Ravenna e il suo lavoro consisteva
nell'accompagnare un capitano
tedesco nelle ispezioni che faceva
sopra a Vicchio di Mugello, verso
il Passo della Futa. I tedeschi
stavano approntando la famosa linea
gotica che avrebbe dovuto fermare
l'avanzata anglo americana. Il
capitano tedesco conosceva qualche
parola di francese, mio padre un po'
lo masticava e alla meno peggio si
capivano.
Quando erano sulle piazzole dove
avrebbero dovuto trovare posto dei
cannoni, il capitano aveva sempre
qualcosa da ridire. Spesso capitava
che il capo mastro non capisse ciò
che il capitano diceva, anche
perché non conosceva la lingua
tedesca, invece mio padre, avendo
fatto lo stesso lavoro, interveniva
spiegando che cosa intendesse dire
il capitano. Dopo alcuni interventi
un giorno mio padre fu mandato a
chiamare dal capitano che per mezzo
di un' interprete gli disse: «Prima
di fare l'autista che mestiere
facevi?»
E
mio padre rispose: «Non ho mai
fatto l'autista, ero assistente
edile».
Appena pronunciate queste
parole, il capitano gli disse:
«Dalla prossima settimana farai
l'assistente contrario a tre ditte
italiane e riferirai a me». In
poche parole doveva fare l'interesse
dei tedeschi. Certo mio padre non
era il tipo da far questo, comunque
le ditte per
tenerselo buono cominciarono ad
invitarlo a pranzo e a cena. Quando
si rese conto che lì c'era da
mangiare si fece prestare una
vettura, venne a Firenze, caricò su
moglie e figli e ci portò a Vicchio.
Anche noi fummo accolti bene,
spesso venivamo invitati a mangiare
da quei titolari di ditte:
prosciutto, pane casereccio,
fettuccine, polli arrosto, patatine
e tanta tanta frutta: non ci
sembrava vero! Per la fame
arretrata che avevamo, dopo quindici
giorni tutto questo cibo causò la
dissenteria a me e a mio fratello.
Intanto alcuni episodi riguardarono
mio padre ed uno di questi in
seguito gli salvò la vita. Un giorno
venne fermato da alcuni partigiani
della Brigata Garibaldi che gli
chiesero perché lavorasse con i
tedeschi. Mio padre rispose che era
PROFUGO DELLA LIBIA, aveva famiglia
e bisogno di lavorare, quindi causa
forza maggiore aveva dovuto
accettare la prima occasione
capitatagli. «Moro» gli dissero,
infatti mio padre d'estate
diventava scuro di carnagione
«sappiamo che ti comporti bene,
appena ti diciamo di andare, vattene
via».
In
effetti spesso gli operai gli
chiedevano dei permessi con la
scusa di andare a tagliare il
fieno, ma lui sapeva benissimo che
andavano ai raduni con i partigiani.
«Andate, andatepure» mio padre
diceva loro «ci penso io».
Un
altro episodio interessante accadde
mentre veniva riparato un ponte: i
tedeschi, durante i lavori, avevano
piazzato una mitragliatrice
nell'eventualità di qualche
attacco. Finita la riparazione
se ne andarono lasciando per terra
un nastro di mitraglia. Mio padre
senza pensarci lo prese e lo portò
al comando tedesco; un tenente
tedesco lo ringraziò.
Il
capitano quando venne a conoscenza
del fatto andò su tutte le furie.
«Non sai che pericolo hai passato»
disse a mio padre «Se ti avesse
fermato una pattuglia tedesca ti
potevano mettere al muro e
fucilarti». Invece l'episodio si
sarebbe rivelato importantissimo in
un
futuro molto prossimo.
Le
truppe alleate stavano avanzando,
siamo nel '44, e una sera il
capitano chiamò mio padre e gli
disse: «René, domani noi partire
per Germania, tu venire con noi».
Mio padre rispose che l'indomani
mattina sarebbe partito con loro.
Invece i fatti non andarono così.
Poiché mia madre, mio fratello
ed io eravamo già rientrati,
mio padre durante la notte si
calò da una finestra e
attraversando la campagna si avviò
verso il capoluogo toscano. Ad un
certo punto si trovò costretto ad
attraversare una strada. Davanti a
lui c'era un'altra persona, in quel
momento passò una camionetta con tre
tedeschi che si fermarono a parlare
con quella persona e lo caricarono
sulla camionetta. Dopo parlarono
con mio padre e gli chiesero i
documenti; nel consegnarli si
accorse che a bordo c'era anche il
tenente a cui aveva consegnato il
nastro di mitraglia. Un po' a gesti,
un po' con il tedesco maccheronico
si fece capire. Il tenente si
ricordò del l'accaduto e gli disse:
«Tu buono camerata, puoi andare.
Raus».
Intanto riunita tutta la famiglia a
Firenze aspettavamo l'arrivo degli
americani.
Un
pomeriggio apparvero dei manifesti
che comunicavano alla popolazione
che avrebbero fatto saltare i ponti
e tutti coloro che abitavano vicino
dovevano trasferirsi nella zona di
Campo di Marte. Noi abitavano con
mio zio Mario in piazza Ferrucci
vicino al Ponte di Ferro. Mio padre
e mio zio riuscirono fortunatamente
a trovare un carretto caricarono le
poche cose che avevamo: materassi,
coperte, piatti, posate, qualche
bicchiere e via verso Campo di
Marte.
Non
sapevamo dove andare perché non
conoscevamo nessuno e mentre
attraversavamo una strada vedemmo
della gente che stava caricando una
macchina, mio padre si avvicinò e
chiese se sapevano dove potevamo
andare per trovare un posto per
sistemarci.
La
persona interpellata disse:
«Capitate a proposito. Sono il
direttore della filiale Lancia,
sopra la casa è vuota, potete
prendere il nostro posto, l'unica
cosa di cui deve occuparsi è il
magazzino ricambi situato qui
sotto: se vengono i tedeschi deve
aprire la porta e lasciarprendere
loro ciò che vogliono. Ora vado via
con la mia famiglia». Ci augurò
buona fortuna e partì. Molto
contenti andammo sopra e ci
accampammo. Mettemmo i materassi
per terra ed usammo le poche
stoviglie presenti nella cucina. La
sistemazione non era certo delle
migliori, ma eravamo contenti perché
avevamo trovato un tetto sulla
testa.
Durante la notte arrivarono i
tedeschi, bussarono, mio padre scese
di corsa, spalancò la porta, essi
entrarono, presero diversi pezzi di
ricambio e se ne andarono. Mio padre
fu rincuorato dal fatto che il suo
compito consistesse soltanto in
questo. Invece una sera i
tedeschi arrivarono con un
camion e due motociclette
cingolate, bussarono, poiché mio
padre tardò a scendere, con il mitra
fecero saltare la serratura ed
entrarono. Alcuni di loro, dalla
parte interna, salirono le scale
verso il nostro alloggio; mia madre
e zia Teresa erano giovani e
s'impressionarono moltissimo. Mio
zio si nascose, mio fratello ed
io rimanemmo attaccati a mia
nonna. Entrarono senza tanti
complimenti e dettero uno sguardo in
giro. Un soldato aveva attaccato al
petto una targa con scritto African
Corps. Mio padre capì che quello era
stato in Libia perciò gli disse che
anche noi eravamo PROFUGHI DELLA
LIBIA. Il tedesco capì e disse in un
italiano stentato: «Voi povera
gente, ma domani noi venire qui,
mettere bomba e tutto saltare». Poi
esclamò: «Raus» ed insieme ai
colleghi se ne andò.
E
così si ricominciava: caricammo il
carretto con le nostre carabattole e
ci mettemmo a cercare un posto
dove poter alloggiare. Qualcuno ci
comunicò che lì vicino c'era una
casa dove fino a poco prima aveva
alloggiato insieme alla sua famiglia
un uomo appartenente alla milizia
fascista. Adesso erano scappati. Mio
padre e mio zio aprirono la porta
colpendola violentemente con la
spalla ed entrammo. La casa era
deserta: c'erano soltanto dei mobili
coperti con delle lenzuola. Ci
accampammo lì alla meno peggio. Mio
fratello ed io ci mettemmo a
rovistare finché non trovammo una
cassetta di vini. Era probabilmente
un vino da enoteca liquoroso e
molto dolce ma bevibile a tal punto
che in poco tempo la mia famiglia ne
fece fuori subito due bottiglie. La
notte i grandi dormivano sul letto,
mio fratello ed io per terra.
L'indomani mattina mi recai con mia
nonna Zelia al forno per prendere il
pane, lì sentimmo dire dalla gente
che stavano arrivando gli americani.
Intanto i tedeschi
stavano lasciando la città e i
partigiani cercavano di occupare i
posti chiave. Nella città, e questo
era un grande problema, erano
rimasti dei franchi tiratori ed il
pericolo era sempre in agguato.
Nella nostra via non c'era più
acqua e bisognava andarla a prendere
con i secchi ma dovevamo
attraversare la via Masaccio dove
era appostato un franco tiratore che
non faceva sconti a nessuno, se
vedeva passare qualcuno sparava,
aveva fatto fuori diverse persone.
D'altra parte avevamo bisogno
dell'acqua; ci venne in soccorso un
sacerdote che fece una proposta ai
nostri genitori: «Io vado avanti con
la bandiera della Croce Rossa, se mi
fa passare seguono i ragazzi con i
secchi».
Noi
ragazzi inconsciamente ci
dichiarammo pronti mentre i nostri
genitori erano molto preoccupati.
Alla fine si decise di fare come
aveva detto il sacerdote. La cosa
andò bene: il franco tiratore ci
fece passare. Un giorno
nell'attraversare via Masaccio ero
rimasto un po' indietro nella fila,
ad un certo punto arrivò una vettura
con a bordo tre uomini e una donna.
Fecero scendere la donna che
chiedeva in tono supplichevole di
essere lasciata libera. La
lasciarono andare ma fatti pochi
passi dalla macchina partì una
sventagliata di mitra e la donna
cadde bocconi. Dalla vettura
gettarono un cartello dove c'era
scritto: “spia fascista” e
ripartirono velocemente. La
poveretta era morta. Dalla testa
usciva sangue e una materia
giallastra che penso fosse
cervello. Rimasi come impietrito,
meno male che il sacerdote mi venne
incontro correndo e mi portò via.
Finalmente arrivò il giorno della
Liberazione. Abitavamo a piano
terra quindi dalle fessure
delle persiane guardavamo quello
che succedeva. Lungo il muro del
palazzo in fila indiana davanti i
partigiani dietro le truppe di
colore: indiani, pakistani,
marocchini, degli inglesi e degli
americani neppure l'ombra.
Arrivarono, quando la città venne
ripulita dai franchi tiratori, con
le camionette e gettavano alla folla
cioccolata e sigarette. Intanto la
fame era sempre più forte, la
mattina mio padre usciva con la
speranza di prendere qualcosa da
mangiare. Ritornava con tre
carciofi, oppure quattro patate o un
cesto d'insalata. Bisognava
considerare che anche
economicamente stavamo molto
male. In compenso mamma
Iolanda era riuscita a conservare
un sacchetto con della farina di
piselli, quindi per circa un
mese mangiammo come primo
piatto tutti i giorni quella
polenta, poi se c'era qualcosa si
mangiava anche il secondo,
altrimenti si saltava. In seguito
per molto tempo mi bastava sentire
l'odore di quel pastone per avere
voglia di rimettere.
La
prima cosa che fecero gli alleati fu
quella di razionare il pane fatto
con la farina di riso: a noi, che
eravamo in cinque ne toccavano
0,750 grammi. Alle 5.30 del mattino
mi alzavo perché ero il più grande
tra i nipoti e andavo al forno per
prendere il posto nella fila. Verso
le 7.00 arrivava nonna Zelia e verso
le 8.00 portava il pane a casa.
Appena arrivava la nonna, mio
fratello Marcello ed io ci
precipitavamo, agguantavamo un
panino e lo dividevamo: questa era
la colazione. Mio padre invece, cosa
strana, appena arrivava il pane
usciva dicendo che quel pane non gli
piaceva. Io ero contentissimo perché
sapevo che la razione di mio padre
la potevamo mangiare Marcello ed io.
La sera mia madre abbrustoliva
dell'orzo che poi macinava e
preparava una specie di caffé. Mio
padre tirava fuori da un sacchetto
una galletta fatta con farina
di segale, dura che anche a
sbatterla contro l'angolo di un
tavolo non si rompeva. Poi la
metteva in una tazza, aggiungeva un
po' di zucchero ed il caffé
che
aveva fatto mia madre. Quando si era
ammorbidita controllava, perché
qualche volta affioravano dei
vermetti, scremava il tutto e
mangiava quella “sboba”. Non
riuscivo a capire come mai non gli
piacesse il pane del forno ed
invece mangiava quella
porcheria.
Solo
dopo un po' di tempo mi sono reso
conto perché mio padre diceva che
non gli piaceva il pane fatto con la
farina di riso: voleva lasciarne di
più per noi.
Dopo la liberazione siamo
rimasti a Firenze per alcuni
mesi. La situazione era brutta e la
fame era tanta, però non ci
lamentavamo, ognuno di noi accettava
la situazione con rassegnazione.
Alla fine babbo Renato decise che
bisognava andare a Roma dove
abitava
suo
fratello Nello con zia Serafina, zia
Carolina, Sandro e Roberto, che in
seguito sarebbe diventato un noto
giornalista. Una mattina, e lo
ricordo molto bene perché avevo la
febbre, montammo su un vagone di un
treno merci, in un angolo c'era
della paglia, mi sdraiarono lì
sopra e piano piano, dopo due
giorni di viaggio, arrivammo a
Roma. Zio Nello e famiglia abitavano
in via Principe Amedeo a due passi
dalla stazione di Roma Termini, ed
in
effetti stavano molto meglio di noi.
Almeno avevano da mangiare. Però non
potevamo trattenerci perché noi
eravamo in cinque, gli zii ed i
cugini erano in cinque e quindi
stavamo troppo stretti. Mio padre
si dava da fare per trovare
un'abitazione ma era una cosa
difficilissima. Finalmente dopo un
paio di settimane riuscì a trovare
un alloggio a Centocelle, in via dei
Castagni al numero 125. La casa era
già abitata da marito e moglie che
accettarono di dividere l'abitazione
con questa famiglia di profughi.
Dormivamo per terra con dei
materassi e una coperta, la cucina
era in comune quindi ci
avvicendavamo per preparare il
pranzo. Anche per il tavolo dovevamo
fare a turno perché ne avevamo
soltanto uno. Comunque alla meno
peggio andavamo avanti. Centocelle
in quel periodo era abitata da
molti borsari neri e persone dalla
dubbia moralità. Mia madre vedendo
quello che facevano gli altri,
pensando di fare qualche soldo, un
giorno mi disse: «Senti, domani
mattina presto andiamo a Roma in
piazza Vittorio, là vendono il pane
bianco, ne prendiamo una decina di
chili, poi con un tavolino e una
bilancia ti sistemi a piazza di
Mirti e vendi il pane. Che ne dici,
non è una bellissima idea?»
La
mattina dopo partimmo alle 5.00.
Verso le 7.30 ero già pronto sul mio
posto di lavoro. Purtroppo tra il
pane che mangiavo, perché la fame
era tanta, quello che sbagliavo a
pesare e quello che rimaneva, dopo
una settimana invece di guadagnare
qualche soldo abbiamo finito col
rimetterci. Allora smesso il periodo
di panettiere mio padre mi trovò
un lavoretto. C'era un vecchio
fruttivendolo che tutti i pomeriggi
con un carretto doveva andare a
prendere la verdura che arrivava
con il trenino. Da solo non ce la
faceva a spin gere il carretto ed io
tutti i santi giorni andavo ad
aiutarlo. Come ricompensa mi dava un
cavolo, oppure dei carciofi, o dei
peperoni, o patate secondo quello
che decideva. Di corsa portavo il
guadagno a casa e mamma Iolanda lo
cucinava. La mattina andavo a
scuola, frequentavo la seconda
media, nel dopopranzo alle 14.30
spingevo il carretto, facevo
velocemente un po' di compiti e poi
andavo a giocare. Quando uscivo per
andare con i compagni a giocare a
calcio mia madre mi faceva
lasciare le scarpe perché ne
avevo soltanto un paio e mi
servivano per andare a scuola e alla
messa la domenica, così uscivo con
gli zoccoli o scalzo. Ricordo ancora
qualche nome di quei ragazzi: Pietro
e Erichetta, Antonio, le sorelle
Olga, Ninni e Piera. Olga, la più
grande, aveva qualche anno più di me
e mi piaceva tanto. Ma ero molto
timido anche se sembravo un ragazzo
spigliato. Quando giocavamo facevo
in modo di stare sempre vicino a lei
e mi sentivo veramente felice.
In
quel periodo accadde un fatto che ne
parlarono anche i giornali. Stavamo
giocando per la strada quando
vedemmo arrivare tanti carabinieri
con le camionette e due autoblindo e
avemmo una grossa paura, poi delle
persone più grandi di noi ci dissero
che andavano ad arrestare il Gobbo
del Quarticciolo. Dopo ho saputo che
si trattava di una specie di Robin
Hood che secondo il popolino rubava
ai ricchi per dare ai poveri.
Solamente dopo diversi anni, grazie
ad un film intitolato “Il Gobbo” del
regista Lizzani ho saputo che c'era
molto di più da raccontare. Il Gobbo
del Quarticciolo, alias Giuseppe
Albano, agì con la sua banda contro
i nazifascisti nella zona sud-est di
Roma tra il 1943 ed il 1945. Egli ed
i suoi compagni erano mossi da un
disagio sociale, che può essere
riassunto nelle condizioni di vita
miserevoli della loro borgata. Aderì
al Movimento Comunista d'Italia che
rifiutava l'atteggiamento di
collaborazione del Partito
Comunista Italiano col fronte dei
partiti antifascisti. Dopo la pace
la banda del Gobbo continuò una sua
guerra privata a carattere
banditesco, forse strumentalizzata
anche da gruppi interessati. Il 16
ottobre del 1946 venne ucciso dalla
polizia in un conflitto a fuoco a
via Fornovo, davanti la sede
dell'Unione Proletaria.
Intanto era nato mio fratello Mario.
Ora la famiglia era composta da mio
padre, mia madre, tre figli e mia
nonna. Non c'era da mangiare per
tutti e mio padre decise che io
sarei andato da mia nonna Antonietta
a Pantano Borghese, almeno avrei
mangiato perché in campagna si stava
molto meglio. Lasciai a metà la
scuola e andai a Pantano. Dopo un
paio di giorni di ambientamento, mia
nonna parlò con un capoccia il quale
mi comunicò che il mattino seguente
sarei uscito con le donne del paese
a zappettare l'erba cattiva intorno
al grano. Mi misero in mano una
zappa e guardando quello che
facevano le ragazze cercavo di
imitarle nel lavoro. Purtroppo dopo
due giorni il capoccia parlò con mia
nonna e gli disse che quello
non
era un lavoro per me, perché oltre a
zappare la gramigna zappavo anche il
grano. Mia nonna mi disse: «Voi
ragazzi di città non sapete fare
certi lavori, però non ti
preoccupare te lo trovo io un
lavoretto».
In
effetti parlò con il pecoraro del
paese e tutte le mattine all'alba lo
aiutavo a portare le pecore al
pascolo. Prima di uscire la nonna mi
dava un pane di campagna con del
pecorino, oppure con delle fette di
salame da una parte e dall'altra
della cicoria. La pagnotta mi doveva
durare sino al tramonto quando
rientravo con le pecore. Invece
verso le una avevo già spazzolato
tutto. Allora il pecoraro mi dava
del formaggio oppure della ricotta.
Un
giorno mi disse: «Sai fare le somme
e le sottrazioni?» Ed io risposi
soddisfatto: «Ma scherzi, ho fatto
la prima media!» E lui aggiunse:
«Allora se mi insegni io ti regalo
un canestrino di ricotta».
Contentissimo cominciai a spiegargli
le somme, e poiché già sapeva
contare, ben presto imparò anche a
farle per iscritto. Per la
sottrazione non feci in tempo,
perché un giorno mio padre mi venne
a prendere, gli avevano detto che se
volevamo tornare a Tripoli dovevamo
avvicinarci ed andare in Sicilia.
Quando arrivammo al campo profughi
di Siracusa non c'era più posto,
così molte famiglie vennero
alloggiate in una vecchia caserma
abbandonata che si
chiamava “La Statella”. Nella nostra
“abitazione” c'incontrammo con la
famiglia Santagati che i miei
conoscevano e da quel giorno il
rapporto di amicizia con Franco, uno
dei figli sarebbe durato sino ai
nostri giorni. L'interno della
caserma era diviso con delle tende
della grandezza all'incirca di una
stanza. Ogni famiglia aveva il suo
quadrato e lì c'erano i letti, le
valigie, e chi aveva il baule lo
usava come tavolo. La mattina
andavamo a turno nel bagno per fare
i bisogni e lavarsi e verso le 8.00
gli addetti arrivavano con un
pentolone e ci davano del latte e
caffé con del pane. Quella era la
colazione. Invece alle 12.00 sempre
con il solito pentolone, di quelli
in uso per il rancio dei militari,
portavano il pranzo, generalmente
minestrone. Mio fratello Marcello ed
io ci mettevamo in fila con le
cinque gavette ed attendevamo il
turno. Quando toccava a noi oltre la
minestra ci davano una pagnotta.
Inizialmente facevo il furbo, una la
facevo prendere a mio fratello, ed
una la prendevo io. Quando si
accorsero che eravamo fratelli si
arrabbiarono perché spettava una
pagnotta a famiglia. Ricordo che
quando arrivavano i due addetti che
ci portavano da mangiare dovevano
fare una trentina di scalini per
venire al primo piano dove c'erano
le famiglie e per le scale
gridavano: «Sbifa... sbifa...».
Quello era il segnale che si
mangiava per noi ragazzi, quindi di
corsa a prendere le gavette per
cercare di prendere i primi posti.
Una volta riempite le gavette si
andava in quella specie di camera
dove c'era un letto matrimoniale in
cui dormivano mio padre, mia madre e
mio fratello Mario che aveva
due
anni, nell'altro letto dormivamo
Marcello ed io con la testa ai lati
opposti. Mangiavamo il nostro
minestrone e un pezzo di pane a
testa: quello era il pranzo. La sera
facevamo la stessa cosa. Noi
ragazzi appena possibile
andavamo per la strada a
giocare, generalmente andavamo al
porto. Un giorno mentre
guardavo i picciotti che si
tuffavano dal molo qualcuno mi dette
una spinta e mi buttò in acqua. Non
sapevo nuotare e mi spaventai molto,
per fortuna che caddi vicino ad una
barca e mi aggrappai. Dal molo i
picciotti gridavano: «Nuotasse,
nuotasse», ma io ero paralizzato
dalla paura. Finalmente due ragazzi
più grandi di me si avvicinarono a
nuoto e mi spiegarono che dovevo
lasciare la barca ed andare
indietro, poi nuotando dovevo
tornare al posto di partenza. Il
primo giorno avevo troppa fifa, in
seguito tornai al molo e piano piano
imparai a nuotare. Tre anni dopo a
Tripoli avrei partecipato con gli
amici Franco Vecchiettini e Ovidio
Bracale alle gare di nuoto.
Tripoli, 1950 -
Franco Vecchiettini, Mario
Chiodi, Fiorentini |
Intanto mia nonna Zelia era
rientrata a Tripoli dove era rimasto
da solo mio nonno Beppino. Prima
dello scoppio della guerra diverse
famiglie italiane avevano mandato i
loro figli nelle colonie in Italia.
In seguito questi ragazzi, causa la
guerra, erano rimasti isolati dalle
loro famiglie per cinque anni.
Quindi le nostre autorità appena
possibile iniziarono a farli
rimpatriare verso la Libia. Mio
padre un giorno mi chiamò da
parte e mi disse seriamente:
«Fabio ormai hai quindici anni,
sei un uomo... dovrai andare da
solo in treno da Siracusa a Napoli,
lì sul molo cercherai il sig.
Brandino, dirai che sei mio
figlio, ci saranno tanti
ragazzi e ragazze, vedrai,
t'imbarcheranno su di una nave e
andrai a Tripoli dai tuoi nonni,
almeno lì potrai mangiare. Te la
senti?»
Ed
io risposi: «Va bene, vado». Mia
madre mi fece una tasca nelle
mutande e mi ci mise dei soldi poi
mi disse: «Stai attento a quello che
fai, Fabio, c'è tanta brutta gente
in giro. Vedi, non è che noi ti
vogliamo mandare via ma tu vai a
stare meglio, qui si muore di fame».
Baci, abbracci e partii con il mio
amico Franco. Da Siracusa a Napoli
ci mettemmo un paio di giorni,
avevamo trovato posto in un
carro-merci. Lì conobbi due ragazze:
Immacolata, Titti per gli amici, e
Livia. Titti era una bella biondina
tutta pepe ed entrai subito nelle
sue simpatie. Arrivati a Napoli
c'era un comitato che ci aiutava.
Gli addetti mi dettero una coperta
per la notte e dormii per terra tra
due casse vuote.
L'indomani mattina rintracciai
il signor Brandino che mi
disse: «Quando ti chiederanno, chi
hai a Tripoli risponderai i
genitori». In effetti feci come
disse lui e mi ritrovai imbarcato
sulla motonave “Campidoglio” con
qualche centinaio di ragazzi.
La prima notte andai a dormire
sottocoperta e la mattina appena
alzato vedevo diversi ragazzi che
rimettevano perché il mare era
mosso. Invece io avevo dormito tutta
la notte e mi sentivo bene. Appena
alzato, bevvi un po' di caffé e
latte e dopo cinque minuti cominciai
a rimettere tutto. Mi veniva lo
stimolo ma non mi usciva niente
perché avevo lo stomaco vuoto.
Finalmente qualcuno mi dette acqua e
limone e una pastiglia. Dopo un po'
cominciai a sentirmi meglio. Titti
mi disse: «Non andare a dormire
sotto, vieni sopra coperta e dormi
in mezzo a me e Livia». Puntuale
alla sera mi distesi in mezzo alle
due ragazze. Titti aveva un bel
petto e sentire per la prima volta
il calore di una donna mi fece uno
strano effetto, avevo il desiderio
di abbracciarla, ma non feci proprio
niente perché arrivò un prete con
una donna dell'or-ganizzazione,
alzò la coperta e disse:
«Tutti gli uomini a prua e le
donne a poppa. Guai a voi se
vi ritrovo insieme nuovamente,
specialmente quelli più grandi». Io
rimasi da solo, anche se Titti mi
chiamava, ma avevo paura che il
prete si arrabbiasse sul serio. Na-
poli, Siracusa, Malta e finalmente
Tripoli. Prima di entrare in porto
guardavamo la città dove eravamo
nati e sembrava un sogno. Le case
tutte bianche con le persiane verdi,
il lungomare, le moschee, il
castello, le palme. Nel 1947 Tripoli
era sotto l'amministrazione
britannica. Appena scesi a terra
il personale del British Army ci
fece incolonnare e ci portarono
dentro dei capannoni. Donne da
una parte e uomini dall'altra. Ci
fecero mettere tutti in mutande, poi
ci spruzzarono addosso una sostanza
bianca. Dicevano che era DDT. Un
medico ci fece una puntura sul petto
che era antidifterica, anticolerica
e antitifodea. Qualcuno sveniva,
qualcuno scappava e veniva riportato
indietro con la forza. Io ero
impressionato però mi sottoposi a
tutto ed uscii quasi subito. Ad
attendermi c'era mio nonno Beppino
ed appena mi vide disse: «Sei
cresciuto, però sei molto sciupato.
Vedrai la nonna ti ha preparato un
pranzetto coi fiocchi».
Arrivato a casa in via Platania, una
traversa di via Mario Sonzini,
trovai mia nonna che mi attendeva
davanti la porta, baci e abbracci e
subito in sala da pranzo. Non so
descrivere la mia contentezza:
prosciutto, salame, fettuccine al
ragù, bracioline fritte con patate,
frutta, banane, arance, datteri,
fichi, noci ed infine nonna
Zelia aveva fatto la zuppa inglese.
Iniziai a mangiare e mio nonno mi
guardava. Ad un certo punto esclamò:
«Ma da quanto tempo non mangi?»
«Cinque anni, nonno» gli
risposi. E così con quel ritmo
andai avanti per un mese, tanto è
vero che ingrassai circa dieci
chili. Mio nonno decise che dovevo
studiare per prendere la licenza di
terza media ai corsi serali. La
mattina invece sarei andato a
lavorare con lui. Mio nonno nacque a
Firenze e lasciato il servizio
militare dopo la guerra italo-turca
venne assunto a Tripoli come
segretario nella scuola Arti e
Mestieri, costituita dal governo
italiano per la formazione della
gioventù araba. In seguito venne
assunto come direttore nella ditta
Viganò, negozio di lusso, che
lavorava pellami. Dopo l'ultima
guerra teneva la contabilità della
ditta Journò, del Circolo Maccabi,
del Caffé del Corso e dei cinema
Odeon e Estivo Corso. Era una
persona intelligente, generosa,
sostenitore di tutti gli sport e
speaker ufficiale in diverse
manifestazioni sportive. Nella ditta
Elia Journò importavano impermeabili
dall'Inghilterra ed esportavano
bucce secche di arance che in
seguito servivano per preparare la
marmellata. Lavorai circa sei mesi
in quella ditta, poi venni a sapere
che cercavano un ragazzo in un
negozio di ottica. La ditta si
chiamava Ottica Salivetto e lì
iniziai ad imparare come si
tagliavano le lenti, come si
molavano e come si facevano le
piccole riparazioni: cerniere,
saldature. L'ottico, il signor Aldo,
era una persona che in vita sua
aveva fatto tutto da solo e cercava
di spiegarmi che con quel lavoro,
quando fossi stato più grande, avrei
preso il diploma di ottico, avrei
aperto un negozio e mi sarei reso
indipendente. Io ascoltavo ma dentro
di me volevo andarmene perché mi
sembrava un lavoro declassante fare
il ragazzo di bottega: volevo fare
l'impiegato. L'occasione si presentò
alcuni anni più tardi: Michele, un
mio amico, mi disse che al Wheelus
Field (Base Militare Americana)
cercavano personale. Non ci pensai
due volte. Poiché anche i miei
genitori ed i miei fratelli mi
avevano raggiunto a Tripoli, feci
assumere Marcello nel negozio di
ottica e andai a lavorare con gli
americani. Venni assegnato alla
squadra dei topografi anche se di
topografia non ne sapevo niente. La
mattina il geometra, il signor
Arena, responsabile del gruppo,
andava a rapporto dal grande capo
Mister Bush che ci assegnava la zona
di lavoro.
Tripoli, 1952
- Reparto topografi al
Wheelus Field |
Io
facevo lo strumentista, dovevo
leggere il tacheometro, Abdalla, il
libico, teneva la stadia che io
leggevo, poi c'era l'autista, di cui
non ricordo il nome, il quale
guidava il camioncino che avevamo a
disposizione per gli spostamenti.
Un
giorno Michele mi disse: «Stai
allegro, ogni tanto facciamo
festa».
«Come si fa?» gli chiesi.
Lui
mi spiegò che la mattina prendevamo
il pullman che la Base Militare
metteva a disposizione del
personale civile e andavamo verso
una località chiamata la Mellaha. La
Crow Steers Shepard, una ditta edile
americana, stava costruendo la pista
di atterraggio
dei
Jet proprio sul circuito
automobilistico, dove sino al 1940
si era disputato il Gran Premio
della Lotteria di Tripoli. Michele
mi spiegò ancora: «Vedi, ognuno di
noi ha un numero, quando arriviamo
stacchiamo il numero e lo gettiamo
dentro a quegli elmetti militari che
sono poggiati per terra. Quando
vedono il numero, per gli americani
vuol dire che siamo presenti al
lavoro. Ora ci sono due amici che
una volta alla settimana staccano i
nostri numeri così risultiamo
presenti e facciamo festa, la
settimana dopo noi rendiamo loro il
favore».
La
cosa andò molto bene per circa un
mese, poi gli americani cominciarono
a capire che qualcosa non andava e
così cambiarono il sistema e dovemmo
smettere di fare i furbi. Intanto
avevo conosciuto Marina che fu la
mia prima cotta: mi piaceva
moltissimo ma come al solito ero
timido. Ci vedevamo spesso alla
piccola Capri, uno stabilimento
balneare lontano qualche chilometro
da Tripoli. Andavamo a nuoto
alla zattera posta davanti allo
stabilimento e sott'acqua ci
baciavamo: avevo diciotto anni e
quelli furono i miei primi approcci.
Oggi la cosa per un giovane può
sembrare ridicola ma all'epoca era
già molto baciare una ragazza.
Intanto nel tempo libero avevo
intrapreso l'attività natatoria.
Partecipai a qualche gara sui
200 metri stile libero, poi
feci una traversata del porto di
2800 metri.
Quell'anno vinse Modugno, io arrivai
23°. Essendo miope e non vedendo
bene, sulle distanze lunghe non
riuscivo a tenere la direzione.
Passai quindi ad un altro sport,
provai la pallacanestro. Anche se
fisicamente non ero molto alto avevo
una buona elevazione.
Tripoli, 1951
- Una formazione del
basket FIAT |
Spesso stavo in panchina perché
alcuni ragazzi giocavano meglio di
me. Con altri amici formammo il
M.A.I.G.I. (Maltesi, Isreliani,
Arabi, Greci, e Italiani) squadra
multirazziale. Dopo formammo la
Briscola e partecipavamo ad incontri
amatoriali. In seguito ci
spon-sorizzò la Filiale della Shell
e con questa squadra iniziammo un
vero campionato. Dopo un anno
passammo al Circolo Fiat (a Tripoli
c'era una concessionaria Fiat con il
nome di Libya Motor) così riuscimmo
ad avere una migliore
sponsorizzazione. Poi formammo il
gruppo Bellono, Guastella, Coco,
Rigano, Murad Kogia, Samsonakis,
Nesmeian, Giorgio, Elia e Laki
Manthos, Fabio e Marcello Chiodi che
dopo due anni si sciolse. Mio
fratello Marcello andò a giocare con
il Circolo Italia “A” con il quale
vinse un campionato ed io con il
Circolo Italia “B”.
Con
Eugenio Bellono e Umberto Guastella
siamo carissimi amici da una vita;
con Umberto ho frequentato i corsi
serali e preso la licenza
commerciale; attualmente,
malgrado siano passati più di
cinquant'anni, spesso ci
sentiamo per ricordare con
nostalgia i vecchi tempi. Un giorno
organizzammo una partita di calcio
tra la squadra di pallacanestro
della Fiat e i giornalisti
tripolini. Arbitrava Antonio
Spanalatte. La partita era
amatoriale ma anche da ridere,
infatti durante la partita l'arbitro
doveva fare un bisogno e si
allontanò voltando le spalle al
campo. Durante questa operazione
qualcuno gridò: «Rigore!!». Senza
scomporsi, sempre girato, l'arbitro
fischiò il rigore contro la nostra
squadra. Mio fratello Marcello partì
in quarta per andare a prendere a
pugni Antonio. La cosa ci faceva
ridere perchè Marcello fisicamente
era la metà di Antonio. Per calmarlo
ci volle del tempo, forse mio
fratello era l'unico che avesse
preso sul serio quella partita.
Arrivò l'anno 1952 e a Tripoli
arrivarono la Vespa e la Lambretta,
nacquero così il Vespa Club ed
il Lambretta Club. Iniziarono le
prima sfide di velocità ed
iniziarono anche i primi incidenti
fortunatamente non gravi. Un giorno
il mio amico Bellono mi disse: «Qui
dobbiamo fare qualcosa
altrimenti qualcuno si ammazza.
Se noi formiamo lo Scooter Club
possono aderire al Club sia Vespisti
che Lambrettisti così cesseranno le
rivalità». Si formò l'associazione:
Bellono fu scelto come Presidente ed
io come Segretario. Al nuovo Club
aderirono molti scooteristi e le
cose migliorarono. Iniziarono le
gare di regolarità, le gare di
lentezza, le gimkane, tutte con
premi che venivano offerti dai
negozianti tripolini. Alcuni
partecipanti furono Vasconi,
Finocchiaro, Sbona, Farinelli, Gava,
Consoli, Grassi,
Cavallari, Marcello Chiodi, Manthos,
Drago, Bertuzzi, Piva, Haddad,
Bellono, Fumagalli, Arcangeli, Meli
e molti altri di cui non ricordo il
nome. Insieme facevamo le riunioni
dello Scooter Club la sera nel
cortile di fronte la casa di mio
padre, le scorrazzate alla
Dahra o sul Corso con tappa
alla latteria Girus o alla
Triestina, spesso organizzavamo
delle cene a base di cuscus preso al
ristorante Tureia, di
arancini di riso e di burich,
una specie di calzone con ripieno
di patate, prezzemolo ed aglio
oppure di uova. Eravamo giovani e
ci divertivamo tanto.
Mio
fratello Marcello, di carattere
diverso dal mio, fissato per il
gioco, roulette, carte, corse di
cavalli, ai tempi dello Scooter Club
era fidanzato con Adriana. In
seguito ad una litigata si
lasciarono e i genitori di lei, per
farle dimenticare l'ex fidanzato, la
mandarono da alcuni parenti a Tunisi
distante 850 km da Tripoli. Dopo
circa un mese Marcello decise di
andare a far pace e nell'occasione
tentò anche di battere il record di
tempo in scooter Tripoli-Tunisi.
All'epoca in Tunisia erano iniziate
le lotte per l'indipendenza dalla
Francia ed agivano i Fellah, quindi
l'impresa era pericolosissima.
Malgrado il parere negativo di mio
padre, partì con la sua lambretta
125, stabilì il record e fece pace
con la fidanzata.
Intanto avevo fatto amicizia con
Mohammed Mabruk, un giovane
libico. Parlava benissimo l'italiano
perché aveva studiato in scuole
italiane, era di buona famiglia: la
madre apparteneva alla famiglia
Caramanli, vecchia famiglia
libica di una certa importanza.
Era titolare di un piccolo negozio
di profumeria in Sciara 24 Dicembre.
Spesso con altri amici andavo a
trovarlo anche perché avendo delle
possibilità economiche superiori
alle nostre da lui si poteva fumare
sigarette molto buone e costose.
Ricordo che quando erava- mo tra noi
fumavano le Gefara, sigarette locali
dal tabacco molto forte che non
costavano molto. Io accendevo la
sigaretta, a metà la fumava Eugenio
Castagna ed alla fine, con uno
spillo, Umberto Gerbino fumava la
cicca. Invece quando andavamo da
Mohammed ci faceva trovare le Navy
Cut, le Capstan, Senior Service,
Camel, Lucky Strike, Chesterfield.
Ogni tanto Mohammed organizzava
delle cuscusate (il cuscus per gli
arabi è come per noi la
pastasciutta): a queste mangiate
partecipavano tante persone ma
ricordo soltanto Castagna, Gerbino,
Ranfagni, De Bono, Taher Burscian,
Azzurrini.
Tripoli, 1948
- Una cuscusata con gli
amici tripolini |
Un
giorno mi presentarono Miriam, una
ragazza molto bella, forse in quel
periodo una tra le più belle ragazze
italiane a Tripoli.
Tripoli 1951 - Ai
giardinetti con due
amiche |
Miriam era molto corteggiata ed
essere riuscito a fare la sua
conoscenza per me era una cosa
eccezionale. Penso di essermi
innamorato subito di lei. Facevamo
passeggiate ai giardinetti, andavamo
in barca al porto, frequentavamo il
thè danzante al Circolo Italia, ogni
occasione era buona per stare con
lei. Spesso veniva con noi anche
la sua amica Maria Luisa, a
me però interessava Miriam.
Questa amicizia andò avanti per
diversi mesi ma per colpa della mia
stupida timidezza, quando eravamo
soli non avevo il coraggio di
rivelarle i miei sentimenti. Un
giorno la vidi sottobraccio al mio
amico Uccio che era più grande di me
e questo mi fece rimanere molto
male. Per diverso tempo non mangiai
più, non volevo vedere gli amici,
poi piano piano superai la delusione
e mi venne in aiuto una mia amica
sposata. La frequentavo da diverso
tempo e spesso andavo da lei per
confidarle le mie pene. Lei mi
consolava a parole e cercava di
sbloccarmi dalla mia timidezza. Poi
un bel giorno le cose ci sfuggirono
di mano e finimmo a letto. A quel
punto non capii più niente, mi ero
innamorato della mia amica sposata e
iniziò un periodo d'incontri
segreti: quando il marito usciva per
andare a lavorare andavo a trovarla
a casa, oppure lei veniva a trovarmi
sul posto di lavoro e dentro un
deposito abbandonato amoreggiavamo.
La
cosa andò avanti per circa una
anno poi dovetti accettare un
lavoro fuori Tripoli e la cosa finì.
A questo proposito voglio raccontare
un fatto a cui non sono mai riuscito
a dare una spiegazione. Ero
rientrato in Italia ed un giorno
sentii il desiderio di rintracciarla
e dato che eravamo sotto lo feste di
Natale, pensai che quella poteva
essere una buona occasione per
chiamarla. Abitava a Roma, riuscii
a trovare il suo numero
telefonico e la chiamai. Mi
chiedevo se dopo venti anni si
ricordasse ancora di me.
Al
telefono rispose lei: «Pronto chi
parla?»
«Pronto signora come sta?»
«Scusi ma chi parla?» riprese lei.
«Non
le posso dire il nome, deve
indovinare», cercavo di scherzare.
«Guardi non mi sento molto bene, se
non mi dice chi è riattacco»
rispose lei.
«Un
attimo per favore. Deve andare con
il pensiero a molti anni fa, è stata
una grande passione».
Rimase un po' in silenzio, poi
disse: «Sei Fabio?»
Quando risposi che ero io lei iniziò
a piangere. Io pensai che dopo venti
anni fosse ancora innamorata di me.
Lei
mi chiese ancora: «Come mai mi hai
telefonato?»
Ed
io replicai: «Ho sentito il bisogno
di chiamarti per farti gli auguri».
Lei
insistette affinché la richiamassi
molto presto, mentre continuava a
piangere. Ero rimasto un po' scosso
e mi chiedevo perché piangesse così
tanto. Passarono alcuni giorni, poi
una sera mi telefonò l'avevano
dimessa dall'ospedale, non c'era
più niente da fare». Allora capii
perché continuava a piangere quando
l'avevo chiamata: non era ancora
innamorata di me, ma sapeva che se
ne sarebbe andata via per sempre.
Non sono mai riuscito a capire
perché dopo venti anni ho sentito il
bisogno di chiamarla prima che
morisse.
Fabio Chiodi
Fine
prima parte |