Nel
frattempo avevo cambiato due posti
di lavoro. Prima lavorai con
l'Automobile Trading, una
concessionaria che vendeva le
vetture Morris, poi tramite il mio
amico Umberto Vasconi riuscii ad
entrare al C.R.E. (Corps Royals
Engineers del British Army). Il
mio lavoro consisteva nel caricare e
scaricare sui cartellini i pezzi di
ricambio degli automezzi. Niente di
particolare, però si faceva l'orario
unico 6.30-14.00, così avevo il
pomeriggio libero. Durante quel
periodo commisi un grosso errore di
cui in seguito mi sarei pentito.
Invece di applicarmi e cercare
di parlare l'inglese, ogni
volta chiedevo l'intervento
dell'interprete. E questo come
ripeto fu un grosso errore perché
avevo avuto la possibilità di
imparare la lingua e non l'avevo
sfruttata. All'epoca facevamo festa
la domenica e quindi era abitudine
di noi giovani andare al Circolo
Italia a vedere la partita di
pallacanestro poi verso le 17.00
c'era il thé danzante sino alle
20.00. Oltre al Circolo si poteva
ballare al Mac- cabi, Circolo Fiat
oppure al Malta House. Il presidente
del Circolo Italia all'epoca era
il Comm. Finocchiaro che
organizzava delle bellissime
serate. Ricordo con nostalgia il
“Ballo delle Rondini”, la
“Maggiolata fiorentina” e il
trittico composto dal ballo della
“Per- la”, dello “Smeraldo” e del
“Rubino”. Nella prima serata le
donne dovevano andare tutte vestite
di bianco, nella seconda di verde e
nella terza di rosso. Nella sala che
ospitava all'incirca 500 persone,
avevano tolto nel mezzo delle
mattonelle e avevano piantato un pe-
sco in fiore. Molte persone della
mia età ricorderanno quelle
serate.Si ballava il
“Boogie-Woogie”, lo “Spirù”, la
“Raspa”, ma io preferivo i lenti
come il ballo della mattonella. Un
pomeriggio invitai a ballare una
certa Fernanda. Quando si alzò mi
accorsi che era più alta di me e
non portava tacchi. Rimasi
imbarazzato mi sembrava che tutti mi
guardassero. Comunque finito il
ballo mi riproposi di non ballarci
più e quando la vedevo anche al
Circolo Fiat oppure al Malta House
le giravo sempre a largo. Mi ero
iscritto ad un corso d'inglese e chi
capita di posto davanti al mio
banco? Proprio quella Fernanda con
una sua mica Lucia. Ci furono i
primi approcci, inizialmente anche
un po' difficili, poi le invitai a
mangiare una pizza, accettarono e
così iniziai a frequentare
Fernanda. Con il gruppo dello
Scooter Club si andava a fare delle
passaggiate a Garian, a Tarhuna
oppure a Breviglieri dove c'erano
ancora degli italiani.
Mio
fratello Marcello mi prestava la
Lambretta, caricavo Fernanda dietro
e via con tutti gli altri. Facevamo
lunghe passeggiate per la città,
gite in barca nel porto, la domenica
ci ritrovavamo al Circolo Italia;
cominciava a piacermi questa
Fernanda, però rimaneva il fatto
che era più alta di me. Era figlia
unica, il padre era originario di
Massa e la madre di Seravezza, una
cittadina vicino a Lucca; da parte
di mia madre erano tutti di Firenze
e questo favorì la nostra amicizia.
Fernanda lavorava come dattilografa
presso l'Ufficio del Governo che
all'epoca era sotto
l'amministrazione Britannica.
Passarono alcuni mesi, poi un giorno
le chiesi se si voleva fidanzare con
me, allora avevo superato la mia
timidezza. Lei si mise a ridere e mi
disse: «Vuoi metterti con me per
divertirti, poi mi lasci e vai a
raccontare tutto ai tuoi amici. Non
ci penso neanche, scordatelo». «Ma
io voglio fare una cosa seria»
replicai. Ma non riuscii a
convincerla.
Intanto
era iniziata la stagione balneare.
Ci recavamo al Lido oppure a
Giorginpopoli o alla Piccola Capri,
però di solito andavamo ai Bagni
Sulfurei, così chiamati perché dalle
docce usciva acqua solforosa che
dicevano facesse molto bene alla
pelle. Tutte le occasio-ni erano
buone per restare soli nella cabina.
Ma lei teneva sempre la porta
aperta. Passarono un paio di anni e
nel 1955 ci siamo fidanzati
ufficialmente così Fernanda cominciò
a frequentare casa mia. Nel1956 mi
capitò la più grande disgrazia della
mia vita. Mia madre Jolanda,
quarantaquattrenne, non si sentiva
molto bene. Diverse visite mediche
alla fine le comunicarono che stava
entrando in meno-pausa. Invece dopo
due mesi le dissero che era in stato
interessante. Le venne prospettato
di abortire ma mia madre rifiutò e
disse: «Chissà dopo tre maschi
potrebbe essere la volta buona per
la femmina».
Io
avevo 23 anni e vedere mia madre con
il pancione mi dava fastidio e mi
sembrava una cosa ridicola. Però
malgrado tutto aspettavamo con ansia
e gioia l'evento. Il 25 giugno alle
ore 21.00 nacque mia sorella
Antonella e alla 23.00 mia madre
morì per emorragia. Chissà, forse se
fossimo stati in Italia mia madre si
sarebbe potutasalvare. Purtroppo
il destino aveva deciso così.
Indescrivibile il caos nella mia
famiglia. Non avevamo parenti a
Tripoli e la prima cosa da fare era
pensare ad Antonella. Mio padre non
sapeva che cosa fare, i miei
fratelli erano più giovani di me,
perciò, dopo averne parlato, io e
Fernanda decidemmo di sposarci per
crescere mia sorella. Così il 30
luglio del 1956 nella Cappella del
Vescovo in Cattedrale ci sposammo.
Più che un matrimonio sembrava un
funerale: piangevano tutti. Andammo
ad abitare a casa di mio padre. Il
primo anno passò alla meno peggio;
tutti ci raccomandavano di non avere
figli perché dovevamo pensare ad
Antonella. Invece nel '58 nacque mia
figlia Jolanda. Quindi Fernanda
doveva occuparsi di una figlia, del
marito, di Antonella, di mio padre,
di mia nonna e dei miei due
fratelli. La cosa cominciava a
diventare pesante. Malgrado tutto
andammo avanti. Io, per
l'ennesima volta, avevo cambiato
lavoro e avevo trovato un posto
presso la Libya Motor S.p.a.,
filiale della Fiat a Tripoli. La
sede della concessionaria era in
sciara Istiklal e l'abitazione di
mio padre era a 50 metri di
distanza, le finestre dell'officina
davano sul cortile di casa
nostra. Quindi durante la
giornata facevo una scappata a casa
per aiutare mia moglie ed in
particolare mia sorella. Mio padre
però non aveva preso molto bene la
nascita di mia figlia perché pensava
che avremmo trascurato Antonella.
Iniziarono i primi screzi, poi un
giorno mi comunicò che la settimana
successiva avrei dovuto lasciare la
casa perché aveva trovato una vedova
che poteva rimpiazzare mia moglie e
me.
Finalmente ero entrato al Banco di
Roma, posto che molti avrebbero
desiderato; il mio stipendio era di
25 sterline libiche pari a circa
43.000 lire italiane. Riuscii a
trovare un appartamento in
Sciara Mizran al prezzo di 20
sterline libiche. Quindi mi
rimanevano solo 5 sterline al mese e
per tre persone era veramente poco.
Per fortuna che abitavamo vicino ai
miei suoceri e spesso andavamo a
pranzo e a cena da loro. Ogni tanto
alla sera andavo sul terrazzo e
pregando mi rivolgevo a mia madre.
Se è vero che i defunti ci ascoltano
perché non mi aiutava? Mi sono
sposato per tirare su mia sorella,
invece ora mi trovavo in questa
brutta situazione.
Qualcuno mi ascoltò perché dopo
un po' di tempo mi chiamò il
mio vecchio datore di lavoro
Salivetto dicendomi: «Sò che non te
la passi molto bene però hai una
casa molto grande, perché non dai
in affitto una stanza?» Non sapevo
come fare visto che per affittare
una stanza avrei dovuto arredarla.
Lui mi rispose: «A pianterreno ho
una stanza, dentro troverai un
letto, un armadio, un comò, un
comodino, un tavolo e due
sedie, sono tutte cose di
quando ero scapolo. Prendi tutto,
gli dai una lucidata e arredi la
stanza». Ringraziai ed il giorno
dopo con un mio amico libico che
lavorava in un mobilificio
caricai tutto con un furgone e
portai tutto a casa.
Una
settimana dopo la stanza era pronta
ed era venuta bene. Affittai la
stanza ad un libanese che era
impiegato presso la Base Americana
del Wheelus Field, usciva la alle
7.00 e rientrava la sera alle
20.00. Riuscii ad affittargli la
stanza per 20 sterline libiche al
mese. Praticamente l'affitto di casa
lo pagava lui. Economicamente
cominciavamo a stare meglio, così
iniziammo ad acquistare i mobili per
la nostra casa. Poiché mio fratello
mi aveva regalato la camera da letto
dopo una vincita al Casinò Uaddan,
comprammo per prima cosa la cucina
visto che non avevamo neanche il
tavolo. Sul baule che conteneva il
corredo di mia moglie improvvisavamo
la tavola da pranzo, mia figlia
mangiava sul seggiolone e questo era
tutto l'arredamento di casa. Con mio
padre le cose erano sempre un po'
tese perché Angela, la vedova, ci
aveva proibito di andare a casa per
vedere mia sorella poiché vedendoci
non si sarebbe affezionata a lei. In
effetti Antonella quando ci vedeva
ci faceva tante feste e aveva
iniziato a chiamare Fernanda
“mamma”; quindi, malgrado la cosa ci
rattristasse molto, rimanemmo
lontani per diverso tempo, poi piano
piano, specialmente in occasione dei
compleanni e durante le feste
ricominciammo a frequentarci. Mio
padre sembrava felice invece molto
tempo dopo ho saputo che le cose non
andavano come sembravano in
apparenza.
Io e
Fernanda avevamo fatto delle nuove
amicizie: Andrea e Adriana, Eugenio
e Tilde, Gianfranco e Floria, Gino e
Valeria, Antenore e Jolanda, Walter
e Santina, Giorgio e Franca, Santino
e Silvana: tutte coppie sposate;
spesso andavamo fuori a cena oppure
ci riunivamo in qualche casa per
giocare a carte: gli uomini facevano
il pokerino, le donne il Ramino
all'Ebrea, una variante della Scala
Quaranta.
Nel
'61 nacque mia figlia Rossana.
Intanto con l'avvento del petrolio
la situazione finanziaria a Tripoli
era cambiata. Per molti cittadini il
tenore di vita si era elevato, le
possibilità di lavoro aumentavano
e c'era un benessere generale.
Anch'io economicamente cominciavo a
stare bene, oltre al lavoro in Banca
facevo altri lavori che mi portavano
un discreto guadagno e non avevo più
bisogno di dare in affitto la
stanza. Certo i tempi in cui ero
PROFUGO DELLA LIBIA erano lontani.
Ero
stato chiamato a fare parte del
Consiglio dell'Amministrazione del
Circolo Italia come consigliere,
prima sotto la Presidenza Salinos
poi con la Presidenza Giannò.
L'attività del Circolo per quanto
riguarda feste, balli e divertimenti
era un po' scaduta perché avevano
aperto l'Uaddan di Mohamed Nga. Una
bellissima struttura che dava sul
porto di Tripoli con albergo,
ristorante, cinema, night club e
casinò. La maggior parte degli
italiani lasciò il Circolo, in
particolare i Vip che iniziarono a
frequentare l'Uaddan, dove si
giocava al Bingo e dove venivano
organizzate serate con la
partecipazione di Peppino di Capri,
Rita Pavone, Milva, Mina ed altri.
Invece al Circolo si faceva teatro,
la prosa: venivano dall'Italia le
sorelle Paola e Marisa Quattrini,
Giulio Bosetti e ogni tanto veniva a
trovarci, con la sua troupe, anche
Mike Bongiorno, che per diversi anni
presentò a Tripoli il Festival di
Primavera al cinema Alambra.
Il
casinò Uaddan, dove molta gente
ci lasciò una fortuna, era il
regno dei due fratelli Elia e
Giorgio Manthos e di mio fratello
Marcello. Erano fissati e quasi
tutte le sere lo frequentavano. In
particolare Marcello poiché la sua
maggior soddisfazione sarebbe stata
quella di fare saltare il banco.
Intanto al Circolo Italia c'era una
buona attività sportiva, con le
sezioni di Box dirette da Moccero e
Anastasi, ex campione italiano, la
sezione di scherma con il maestro
Foti e la scuola di danza classica
diretta da Barbara Christides.
In
quel periodo da un'idea di Roberto
Longo, Roberto Marziani e Uccio
Villari e Oreste Sagona era nato il
“Venerdì Quiz”, spettacolo musicale
a quiz. Io partecipai alla Quarta
Edizione nel 1966 che mi vide
coinvolto prima nell'organizzazione
poi come attore insieme a Pino
Teresi, Italo Paglialunga, Titti
Marino, Hassen Kerbish, Tosca
Fallico e altri.
Questo accadeva al Circolo Italiano
tutti i Venerdì alle 18.30 congrande
affluenza di pubblico sino al giugno
del 1967, anno nel quale scoppiò in
Medio Oriente la Guerra dei Sei
Giorni, durante la quale alcuni
manifestanti dettero fuoco al
Circolo. Lì finì la mia carriera di
attore. Se ne è parlato poco ma
vorrei ricordare quel 5 giugno del
'67. Alle 8.00 come al solito ero
sul posto di lavoro: Agenzia n° 1
del Banco di Roma in Sciara Giama el
Magarba. Vedevo per la strada un
certo movimento di gente e molte
persone che ascoltavano le
radioline. Chiesi ai miei colleghi
libici che cosa stesse succedendo mi
risposero che Radio Cairo aveva
comunicato che truppe egiziane
avevano sfondato le linee israeliane
e puntavano verso Tel Aviv. Mi
sembrava strano perché la sera prima
ascoltando la Radio italiana mi
pareva che le cose non fossero
proprio così. Comunque durante la
notte potevano essere avvenuti dei
cambiamenti. Intanto i manifestanti
aumentavano e la tensione era sempre
più forte. Telefonai acasa a
Fernanda e mi disse che alla
televisione la RAI aveva comunicato
che le truppe israeliane comandate
da Moshe Daian avevano messo in fuga
le truppe egiziane e stavano
puntando verso il Cairo. (Quando il
tempo era bello a Tripoli si vedeva
la TV italiana per riflesso). Quando
la folla comprese che Radio Cairo
aveva dato notizie false si scatenò.
Cominciarono ad incendiare negozi,
macchine e davano la caccia agli
ebrei tripolini. Per noi
dell'Agenzia arrivòl'ordine di
chiudere tutto e rientrare a casa.
Eravamo in sei: Nando Arcuri
funzionario, Adriano Cornelli al
portafoglio estero, Nedo Benci al
controllo cassa, Abdalla Fathalla
aiuto di cassa, Mansur usciere ed io
cassiere. Così ci apprestammo subito
ad uscire dalla porta di servizio
quando si presentò una situazione
drammatica. Il palazzo era abitato
da due famiglie ebree, gli Hai
Hacmun e i Sion Costantini. Avevano
messo una grossa tavola di legno
dalla porta agli scalini, le donne e
i bambini tutti per terra che
piangevano e Gina Hacmun, quella che
conoscevo meglio perché veniva
sempre in banca a fare i versamenti
mi disse: «Chiodi, per favore non
uscite, altrimenti entrano i
dimostranti e ci ammazzano tutti».La
situazione si faceva difficile
poiché tutti noi avevamo le famiglie
da proteggere e dovevamo andare a
vedere che cosa fosse successo. Ci
vennero in aiuto i due colleghi
libici dicendo: «Facciamo così:
usciamo prima noi, poiché essendo
arabi, nessuno dirà niente, dietro
seguiranno i quattro italiani e
immediatamente dovete rimettere la
tavola». Anche se gli arabi, gli
italiani e gli ebrei fisicamente
sono tutti uguali noi riuscivamo a
distinguerci. Così facemmo in quel
modo e la cosa andò bene. Eravamo
appena usciti in Giama el Magarba
quando alcuni manifestanti
iniziarono a dar fuoco alla Simonds
Farsons, negozio di proprietà di
maltesi che vendeva prodotti
alcolici.
Arrivò una camionetta della polizia,
ed anche se fino ad allora non si
erano mossi ed avevano lasciato
fare, a quel punto intervennero
gettando bombe lacrimogene che
fecero scappare e disperdere i
manifestanti da tutte le parti.
Anche il nostro gruppetto si
disperse ed io, mentre stavo
tornando verso casa per via Porta
Pia, vidi venirmi incontro un gruppo
di scalmanati con bastoni e spranghe
di ferro che gridavano: «Yudi, yudi»,
mi avevano preso per un ebreo.
Cominciai a correre velocemente in
direzione dell'Istituto dei Fratelli
Cristiani (in quella scuola avevo
fatto alcune classi elementari) e
per farmi aprire ilcancello gridavo:
«Fratello Amedeo, fratello Amedeo!»
Mi aprì fratello Piero, mi fece
entrare richiudendo immediatamente.
Il gruppo dei dimostranti iniziò a
battere sul cancello e dicevano in
arabo: «Atini yudi» che in italiano
significa “dacci l'ebreo”. Fratel
Piero aprì e disse: «Quello è
italiano, è cristiano, non è
ebreo». Mi avvicinai al cancello e
scambiai qualche parola con loro. Mi
chiesero scusa e andarono via. Certo
se non avessi trovato rifugio presso
i Fratelli non so come sarebbe
finita. Poi piano piano mi avviai
verso casa in sciara Mizran. Mia
moglie, le bambine e tutte le donne
che abitavano nel palazzo
piangevano, e avevano tanta paura;
entrato in casa, dalla finestra del
mio appartamento al secondo piano
vedevo alzarsi colonne di fumo in
diverse parti della città. La sera
prima, purtroppo, avevo parcheggiato
di fronte ad un bar la mia Fiat 1300
di colore bianco. I dimostranti
arrivati di fronte al bar buttarono
giù la porta e portavano fuori
lebottiglie di alcolici dandogli
fuoco, poi videro la mia vettura,
forse gli dava fastidio, la
rovesciarono su di un fianco e gli
dettero fuoco.
Provai a chiamare i pompieri per
telefono ma non arrivò nessuno.
Intanto in città erano successi
altri episodi spiacevoli in
particolare contro gli ebrei. Verso
sera finalmente la polizia iniziò ad
intervenire e le cose migliorarono.
Il giorno dopo tutti gli ebrei, una
collettività di circa cinquemila
persone in possesso di passaporto,
vennero accompagnati, con solo gli
effetti personali, all'aeroporto di
Gasr ben Gascir o al Porto e
lasciarono Tripoli. In città si era
sparsa la voce che la famiglia di
Hai Luzon era stata portata via e
non sapevamo che fine avesse fatto.
Tra la collettività ebraica avevo
diverse conoscenze ed amicizie come:
Vita Barda, Samuele Naaman, Vito
Halfon,Vittorio Mimun, le sorelle
Arbib, Nessim e Guido Hannuna, Dodi
Nahum, Dodi Zard, Fufi Nahum,
Dabbush e tanti altri; sono
trascorsi più di trent'anni e non li
ho più rivisti. Piano piano anche il
'67 venne dimenticato, ma è
storicamente accertato che quando
nel paese vengono perseguitati gli
ebrei prima o poi arrivano per tutti
guai più grandi.
Mio
fratello Mario si era fidanzato con
Cetty Gozzo; con il fratello della
ragazza, Luigi, aveva iniziato
una redditizia attività di
cartellonistica che fabbricava
insegne luminose. La ditta si
chiamava Liby-Plast e con
l'andata via degli ebrei, i
maggiori fornitori di materie
prime, dovettero restare chiusi per
un paio di mesi. Riprendemmo il
normale ritmo di vita ma i rapporti
con i libici andavano peggiorando in
special modo con le nuove
generazioni. La condizione della
donna era quella che creava maggiori
difficoltà. Le donne libiche
generalmente stavano in casa e
accudivano alla famiglia,
mentre
l'uomo era il padrone assoluto e
poteva fare ciò che voleva. Per
esempio se noi italiani andavamo a
ballare c'era sempre quello pronto
che voleva ballare con nostra moglie
o con la nostra fidanzata o nostra
sorella, mentre le loro donne
rimanevano chiuse in casa. Se
andavamo al cinema non sapevamo come
sistemare le donne perché c'era
sempre qualcuno che allungava le
mani. I libici diventavano sempre
più insofferenti verso gli europei,
ma nonostante questo nel corso degli
anni, avevo instaurato delle buone
amicizie con persone libiche.
Ricordo Ahmed Kerbish, Messaud
Zentuti, Orhan Caramanli, Mohamed
Mahfud, Mohamed Mabruck,
Taher Burscian, Taufik Laradi,
Hassen Kerbish, tra i colleghi
di banca rammento Arifi Lessued,
Abdalla Fathalla, Mohamed Burscian,
Mohamed Bheh, Mansur Gubbar,
Aissa, Milud, Basciaga, Buik, e
tanti altri di cui non ricordo il
nome.
Nel
lavoro s'incontravano difficoltà,
tutto doveva essere al 51%
capitale libico ed al 49% capitale
straniero. Anche le banche vennero
libicizzate: il Banco di Roma
diventò Umma Bank, il Banco di
Napoli Istiklal Bank ed il Banco di
Sicilia la Sahara Bank. Il Banco di
Roma era forse la più importante
banca che operasse a Tripoli anche
se c'erano diverse banche straniere:
la Barclays Bank, la British
Bank, Arab Bank ed il Credit Foncier.
Noi
impiegati eravamo riusciti a formare
una squadra di calcio ela domenica
sul campo di San Giuseppe
organizzavamo incontri interbancari.
Nel
periodo estivo frequentavo
l'Under Water Club poi diventai
socio del Beach Club e con il
gruppo dei miei amici andavamo
sempre lì. Dopo alcuni mesi entrai a
far parte del comitato che dirigeva
il Club. Il Presidente era A.
Kerbisc, mentre il gruppo dei
consiglieri era composto, oltre che
da me, da M. Barbera, P. De
Battista, M. Kogia e da F. Mefferd.
Anche come socio del Beach
Club riuscii ad organizzare
alcune serate molto divertenti:
alcune Caccie al tesoro, una Miss
Beach, Matilde De Luca, ed una
serata molto bella in maschera per
Carnevale. In qualsiasi gruppo o
club mi trovassi mi piaceva
organizzare sempre qualcosa. La
mattina mia moglie con le bambine
andava al Beach, alle una, quando
uscivo di Banca, andavo al Club,
facevo il bagno in mare, pranzavamo
al ristorante e dopo, qualche
volta, giocavo a tennis. Alle
16.00 rientravo in banca e alle
19.00 andavo di nuovo al Beach, dopo
cena giocavo a carte e a mezzanotte
tutta la famiglia rientrava a casa
in Sciara Mizran, e l'indomani si
ricominciava e questo per circa sei
mesi all'anno. In quel periodo
stavamo piuttosto bene ed in
particolare dal punto di vista
finanziario. L'amico Marangelli
diceva sempre: «Se un giorno
torneremo in Italia questa pacchia
finirà, allora vi accorgerete cosa
vuol dire vivere in Italia». In
effetti conoscevamo l'Italia come
turisti e non ci rendevamo conto
della realtà.
Arriviamo alla fatidica notte del 1
settembre del 1969. Ero stato
a giocare a carte con la mia famiglia
a casa di amici, rientrando a casa
verso le una non avevo notato niente
di strano, tutto sembrava normale,
avevo parcheggiato la macchina
quando sentimmo dei colpi di fucile.
Sul momento non ci feci caso, visto
che sapevo che era stata riaperta la
caccia alle gazzelle. Stavamo
andando a letto quando cominciai a
sentire colpi di arma da fuoco con
armi automatiche. A questo punto non
si trattava più di cacciatori ma
qualcosa di ben più grave. Piano
piano aprii una finestra e vedevo
gente in divisa correre. C'erano
alcuni poliziotti con le mani alzate
e dietro dei giovani, vestiti con la
divisa di marina e tute mimetiche
che gli puntavano il fucile alle
spalle. Non riuscivo a capire.
Sapevo che la polizia libica era ben
armata, perché si arrendevano?
Telefonai a mio fratello Marcello
che abitava in Sciara el Cahira
vicino a Maidan Asciuhada ex Piazza
Italia e anche lui stava vedendo che
la polizia si stava arrendendo. Sul
momento pensammo che forse
qualche nazione confinante,
Tunisia o Egitto, voleva occupare la
Libia perché c'era il petrolio e
avevano fatto un blitz militare.
All'esercito libico non ci pensammo
proprio perché sapevamo che era
composto da pochi uomini e male
armati con vecchi fucili del '91.
Dopo alcune ore cominciarono a
circolare delle camionette ed in
arabo, inglese ed italiano
comunicavano: «Qui il comando
della Rivoluzione, è stato
istituito il coprifuoco».
Iniziarono giorni pesanti pieni di
preoccupazione; le autorità
italiane, Consolato ed Ambasciata,
non facevano molto, oltre a
raccomandare di stare calmi.
Trascorsi alcuni giorni si venne a
sapere che il colpo di stato era
stato effettuato da un gruppo di
giovani ufficiali dell'esercito
libico e che il comando della
rivoluzione era stato preso da un
capitano ventisettenne,
improvvisamente diventato
colonnello: Muammar Gheddafi. Nei
giorni che seguirono, le
supposizioni cominciarono ad
affiorare in ognuno di noi.
«Perché era avvenuto il colpo di
stato? Chi lo aveva favorito?» Chi
diceva che era stata la CIA
americana, chi diceva che erano
stati i Servizi Segreti Italiani,
chi parlava di un colpo di stato
parallelo che doveva avvenire con la
complicità di elementi della casa
reale. Discorsi ne furono fatti
tanti ma la realtà non la conosceva
nessuno. Comunque se i cittadini
libici ritenevano giusto eliminare
la monarchia ed instaurare una
dittatura militare non spettava a
noi italiani discuterne,
l'importante era che non succedesse
niente di male alla collettività
italiana. Invece nel marzo del 1970
gli Inglesi vennero invitati a
lasciare la base militare di Tobruk,
nel giugno anche gli Americani
devono lasciare la base del Wheelus
Field. Non capimmo bene neppure
questa azione. Perché due nazioni
tra le più potenti del mondo stavano
lasciando tutto e se ne stavano
andando? Chissà, forse erano stati
presi accordi segreti che nessuno
conosceva.
Arriviamo al 21 luglio 1970
quando Gheddafi pronunciò un
discorso con il quale comunicò che
tutti gli italiani residenti in
Libia dovevano lasciare il
territorio e tutti i loro beni
mobili ed immobili venivano
confiscati e tornavano al popolo
libico. Tutto questo come riscatto
per le sofferenze subite dal popolo
libico durante la colonizzazione.
Indubbiamente durante la guerra
Italo-Turca ci sono stati diversi
morti, si sa le guerre portano a
fare le cose più atroci. Quando gli
venne data carta bianca il generale
Graziani avrà sicuramente deportato
ed impiccato molti arabi, anche se a
quei tempi c'era l'abitudine di
ingrandire le cose: se venivano
uccisi dieci uomini veniva detto che
le vittime erano cento, però in
tutti gli anni che sono rimasto a
Tripoli, dai libici non ho mai
sentito ricordare quei fatti.
L'unico caso che ricordo è quello
dei pozzi di Sciara Sciat, dove
venne sorpreso un drappello di
bersaglieri i quali vennero tutti
evirati ed uccisi. Basterebbe
ricordare quello che hanno fatto i
tedeschi in Italia durante la
Seconda Guerra Mondiale per rendersi
conto delle atrocità che da sempre
vengono commesse in nome della
guerra.
Il
colonnello ricordò solo i fatti che
interessavano a lui e si dimenticò
di dire che i nostri nonni, quando
iniziò la guerra Italo-Turca, che
all'epoca era un protettorato
turco, trovarono tanta sabbia e
tante zeribe (capanne) per
abitazioni. Noi abbiamo riconsegnato
la Libia con strade, palazzi,
ospedale, centrali elettriche, del
gas, dell'acqua, villaggi e i nostri
agricoltori hanno trasformato
centinaia di ettari di deserto in
uliveti, vigneti, agrumeti e campi
di cereali: la nostra colonizzazione
non è stata forte ma come si suol
dire è stata all'acqua di rose. In
quel momento un altro problema ci
affliggeva: potevamo rientrare in
Italia ma non sapevamo se il Banco
di Roma ci avrebbe dato un posto di
lavoro. Eravamo in possesso di una
lettera in cui si dichiarava che
per tutti coloro che avessero
compiuto cinque anni di servizio a
Tripoli c'era la promessa di
assunzione in Italia. Ma il
dubbio che ci tormentava era
se questa promessa sarebbe stata
mantenuta. Eravamo circa una
trentina di impiegati ad avere
questo diritto, ma da Roma non
arrivava nessuna comunicazione. Con
alcuni colleghi, tra cui
Calderoni, Arcuri, Astuti,
Cornelli, Busetta, Cicerchia ed
altri, prendemmo l'iniziativa di
scrivere una lettera all'Avvocato
Veronesi, Presidente del Banco di
Roma e per conoscenza al Presidente
del Consiglio, una al Ministro degli
Affari Esteri, una al Ministro del
Tesoro ed una al Ministro del
Lavoro, facendo presente il
deterioramento della situazione.
Anche il Dr. Borromeo,
Ambasciatore d'Italia in Libia,
aveva inviato un telegramma che
diceva: “Personale italiano
Banco di Roma contratto locale
data presente situazione
desidera venga impostato preciso
programma graduale rientro Italia
anche perché iniziato improrogabile
rimpatrio famiglie et masserizie -
STOP - Tale programma ritengono
non più dilazionabile et
comunque da concludere con totale
rientro entro due tre mesi - STOP -
Presente atmosfera periodo
programmato per graduale rientro est
sufficiente confermare spirito
sacrificio et dedizione istituto
personale in questione che però ora
manca necessaria serenità per
proseguire più a lungo propria opera
a Tripoli - STOP”.
Passò un breve periodo e finalmente
da Roma dalla Direzione Centrale
della Banca arrivò il parere
favorevole. Potevamo rientrare in
Italia e a tutti i trenta dipendenti
veniva confermato il posto di lavoro
in Italia. A questo punto iniziarono
giorni molto pesanti per tutti i
cittadini italiani. Per settimane
fummo costretti a svolgere diverse
pratiche, con lunghe file sotto
l'irresistibile caldo di agosto di
40°C all'ombra sotto il
controllo dei soldati. Dovevamo
dimostrare di aver pagato l'affitto
di casa, la luce, il gas, l'acqua,
dovevamo consegnare i titoli di
proprietà delle abitazioni e dei
negozi, consegnare le vetture agli
incaricati e passare la censura
sulle fotografie, poiché negli anni
avevamo potuto fotografare qualche
base militare. Le mie foto
riguardavano la mia famiglia,
matrimoni, battesimi, festività,
gite a Leptis Magna, Sabratha,
Tunisi, viaggi in Italia, quindi
niente di compromettente.
Arrivato nell'ufficio della
censura sullo sfondo c'era una
gigantografia che rappresentava
alcuni arabi impiccati con la
dicitura: “La Libia perdona ma non
dimentica”. Intanto un giovane
ufficiale vestito in tuta mimetica
con due pistole ai fianchi tipo
cow-boy mi apostrofò in arabo:«Come
ti chiami? Che cosa hai dentro
quella scatola?» Inizialmente
capivo e gli rispondevo poi iniziò a
parlare velocemente e non capivo più
ciò che diceva. Allora cambiò
tattica ed iniziando aparlare in
italiano, mi disse anche: «Tu nato
qui, perché non parli arabo? Senti
come io parlo italiano». In effetti
molti di noi, per nostra colpa, non
parlavano bene l'arabo, perché fino
ad un mese prima in città la maggior
parte dei libici parlava la lingua
italiana e ci capivamo benissimo.
Pensai un momento e poi replicai:
«Vede, Comandante, voi libici
persone molto intelligenti, noi
italiani duri, duri» battendo il
pugno sulla mano aperta. A questo
punto si sentì soddisfatto ed
esclamò: «Jalla, jalla, emsci»
che significa “Svelto, svelto,
puoi andare”. D'altra parte
dovevamo agire con una certa
diplomazia perché se una persona si
mostrava strafottente i rischi
sarebbero potuti essere più gravi.
Anche per andare al nostro Consolato
e all'Ambasciata venivamo perquisiti
e se avevamo somme di denaro oppure
oggetti d'oro ci venivano
confiscati. La Umma Bank, ex Banco
di Roma, ci aveva liquidato il
rapporto di fine lavoro e anche
quello ci venne confiscato, e per
finire ci vennero confiscati anche i
contributi pensionistici pagati
all'Ente assicurativo libico, vale a
dire tredici anni di lavoro.
Mio
fratello Marcello con il socio
Paglialunga erano titolari di un
negozio di ottica in Sciara 24
Dicembre; andarono per aprire il
negozio per prendere alcune cose
personali, ma trovarono la
polizia che consegnò loro una
ricevuta con la quale veniva
confiscata la loro proprietà.
Anche l'altro mio fratello, Mario,
ed il suo socio Luigi Gozzo,
titolari della Libya-Plast, che in
quel momento si trovavano in Italia
in ferie, non fu loro possibile
rientrare a Tripoli e a causa della
confisca persero tutto. Dovemmo
subire tante umiliazioni che
colpirono un po' tutti, anche se
dobbiamo dire che il nostro
rapporto con la popolazione era
buono, perché, per quello che mi
risulta, dei ventimila italiani
residenti in Libia, nessuno è stato
ferito o ucciso, perché se avessimo
commesso qualcosa di grave nei loro
confronti sicuramente quella sarebbe
stata l'occasione per farcela
pagare.
Una
mattina si presentò da me un
commerciante libico dicendomi: «Io
dare per te 100 sterline libiche
(circa 170.000 lire italiane), tu
consegnare chiavi quando andare
via», (molti libici non parlavano
perfettamente l'italiano ma si
facevano capire benissimo). La mia
abitazione in affitto era composta
da due camere da letto, la sala, la
cucina, il bagno, tutto arredato
molto bene, con televisore,
condizionatore d'aria e forse il
valore totale era superiore alle 100
sterline libiche, ma vista la
situazione, accettai. Dovevo
inoltre pensare anche ai miei
suoceri che erano anziani. Una
mattina mia moglie mi telefonò
dicendomi che mio suocero,
Ferdinando Casali, era scomparso. Ed
ora in una situazione caotica come
quella non sapevo dove andare a
cercarlo. Provai ad andare alla
Polizia ma non sapevano dirmi
niente, mi recai all'ospedale per
vedere se fosse successa una
disgrazia, ma non trovai nessuno;
iniziai allora a passare la voce a
diverse persone amiche per vedere se
sapevano qualcosa. Nel tardo
pomeriggio incontrai Giampaolo, un
mio amico, che, appena mi vide, mi
disse: «Fuori uno». Gli chiesi che
cosa intendesse con quelle parole, e
lui: «Questa mattina ero
all'aereoporto quando ho visto tuo
suocero. Era il primo della fila e a
quest'ora sarà già in Italia».
Finalmente avevo avuto qualche
notizia. Telefonai a mio fratello
Mario che era a Roma, che si mise
alla ricerca di mio suocero e dopo
diverse tentativi lo trovò in un
centro profughi. Gli chiese il
motivo per cui fosse scappato e lui
rispose che aveva avuto paura e se
ne era andato. Aveva preparato i
documenti necessari all'espatrio,
quelli di sua moglie li aveva
lasciati in un cassetto, e senza
dire niente a nessuno era fuggito.
Non riuscivo a capire il perché; era
sempre stato in buoni rapporti con
tutti quindi non capivo quella
fuga. Era rimasto impressionato
da tutta la situazione che si
era venuta a creare in quei giorni e
aveva preferito scappare. Dopo
alcuni giorni anche mia suocera
partì per andare a raggiungere il
marito. Anche la famiglia di mio
fratello Marcello, mio padre, la
vedova e mia sorella erano rientrati
in Italia. Adesso stava alla mia
famiglia lasciare la Libia. Tramite
mio fratello Marcello che aveva
delle conoscenze, ero riuscito a
mandare via due bauli con le cose
più voluminose e di valore dei
nostri quattordici anni di
matrimonio. Improvvisamente una
mattina fummo svegliati da delle
grida per strada. Era scoppiato il
colera. Prima di partire, tutti
dovevamo essere vaccinati altrimenti
non venivamo autorizzati a lasciare
il suolo libico. Dovevamo fare altre
file, assistendo talvolta a scene
drammatiche. Superato anche questo e
altro ancora, ci apprestammo a
partire.
Con
Fernanda preparammo quattro
valigie con effetti personali.Con
gli ultimi soldi libici acquistai
quattro biglietti di prima classe
dell'Alitalia. Il 24 settembre 1970
alle ore 9.00 eravamo all'aereoporto
di Gasr ben Gascir. Sapevamo che
sicuramente saremmo stati
perquisiti; addirittura si
diceva che in certi casi
alcune donne in occasione
dell'esodo degli ebrei da Tripoli,
erano state sottoposte visite
ginecologiche per vedere se
nascondevano qualcosa. Infatti prima
di passare la dogana ci dissero di
accomodarci perché dovevamo essere
perquisiti. Dividevano gli uomini
dalla donne così io ero da una parte
e mia moglie con le bambine
dall'altra. Mi stavo spogliando
quando il poliziotto che doveva
perquisirmi mi disse: «Se tu dai
qualche soldo per me io lasciare
andare». Avevo 80 sterline libiche
che avevo intenzione di cambiare in
Italia, poiché all'epoca si poteva
cambiare 20 sterline a persona.
Dalla tasca interna presi una busta
con i soldi e gli consegnai il
tutto; il poliziotto guardò dentro
la busta, sorrise e tutto
compiaciuto, rivolto verso di me,
disse: «Puoi rivestire, puoi andare,
grazie».
Nel
frattempo, da dove si trovava mia
moglie provenivano delle grida:
«Oro, oro!» Non capivo cosa stesse
accadendo perché avevo raccomandato
a mia moglie di tenere soltanto la
fede matrimoniale e nessun altro
oggetto di valore. «Da dove esce
allora, questo oro?» continuavo a
chiedermi. Di lì a poco compresi il
malinteso: Fernanda aveva una bella
borsa Mangiameli con due tracolle di
metallo, una argentata e l'altra
dorata. Quel giorno mia moglie aveva
messo quella dorata nella borsa e le
donne poliziotto che la stavano
perquisendo avevano pensato fosse
d'oro. Arrivò di corsa un ufficiale
che dopo un veloce controllo
realizzò che era metallo e ci lasciò
andare. Alle 10.00 salimmo su un
Caravel dell'Alitalia diretto a Roma
e ci accomodammo in prima classe,
dove i pochi passeggeri presenti
avevano un trattamento migliore
rispetto alla classe economica.
Guardavo dal finestrino e vedevo
Tripoli allontanarsi; pensavo a
quando ero più giovane e a quanto
avevo desiderato rivedere questa
bella città: i suoi tramonti di un
rosso acceso, Ghibli, il vento caldo
del deserto, il bellissimo mare
azzurro, adesso la stavo lasciando
senza avere alcun rimpianto, dopo
quello che era successo desideravo
soltanto arrivare in Italia.
Sbarcati a Fiumicino ci vennero
incontro un uomo ed una donna. La
ragazza prese in consegna mia moglie
e le bambine e si avviarono verso un
ufficio. L'uomo mi invitò a scendere
mentre continuava a guardarmi
stupito, poiché provenivo dalla
prima classe, alla fine mi chiese:
«Scusi, siete turisti oppure
PROFUGHI DELLA LIBIA?» Dopo ventitre
anni ritornavo ad essere PROFUGO
DELLA LIBIA, ma questa volta sarebbe
finita molto, ma molto meglio.
Mentre mi apprestavo a concludere
questo mio diario, mio fratello
Mario ha ricevuto una lettera via
e-mail dal mio caro amico Franco
Vecchiettini. Franco lasciò Tripoli
nel 1956 per andare in Venezuela,
dove attualmente vive, ma gli è
rimasto nel cuore un grande amore
per quella terra. Proprio per questo
motivo voglio qui di seguito
trascrivere parte della lettera che
ha scritto:
"...
sparsi per il mondo continuiamo a
volerci bene. peccato che destino
abbia voluto che la Nostra Terra non
fosse veramente nostra. Peccato che
Gheddafi, il cui Nazionalismo
non censuro, non abbia tenuto conto
che un inserimento tra Libici tutti
sarebbe stato assai più conveniente
e fruttifero per la sua Nazione. Che
grande Nazione sarebbe stata la
Libia con l'integrazione di
Mussulmani, Cattolici ed Ebrei,
tutti con un grande amore per quella
terra che ci ha visto nascere.
Peccato che Gheddafi non ha avuto
questa visione! Oggi, forse
internamente, se ne sarà reso conto.
Purtroppo è troppo tardi. Noi siamo
vecchi ed i nostri figli dalle mille
e una nazionalità sono molto ma
molto differenti da noi. Differente
sarebbe stato se fossero nati e
cresciuti laggiù, nel nostro
ambiente, prolungando così la nostra
vita, le nostre usanze, i nostri
sentimenti, in una mescolanza di
razze, che sarebbe stata
indubbiamente assai positiva per la
Nazione libica."
Fabio Chiodi
Fine
|