La stanza  di Fabio Chiodi

Fabio Chiodi

 DIARIO DI UN PROFUGO  di   Fabio Chiodi

 II°   parte

              

        Nel frattempo avevo cambiato due posti di lavoro. Prima lavorai con l'Automobile Trading, una concessionaria che vendeva le vetture Morris, poi tramite il mio amico Umberto Vasconi riuscii ad entrare  al  C.R.E.  (Corps  Royals  Engineers  del  British Army).  Il mio lavoro consisteva nel caricare e scaricare sui cartellini i pezzi di ricambio degli automezzi. Niente di particolare, però si faceva l'orario unico 6.30-14.00, così avevo il pomeriggio libero. Durante quel periodo commisi un grosso errore di cui in seguito mi sarei pentito.  Invece  di  applicarmi  e  cercare  di  parlare  l'inglese,  ogni volta  chiedevo  l'intervento  dell'interprete.  E  questo  come  ripeto fu un grosso errore perché avevo avuto la possibilità di imparare la  lingua e non l'avevo sfruttata. All'epoca facevamo festa la domenica e quindi era abitudine di noi giovani andare al Circolo Italia a vedere la partita di pallacanestro poi verso le 17.00 c'era il thé danzante sino alle 20.00. Oltre al Circolo si poteva ballare al Mac- cabi, Circolo Fiat oppure al Malta House. Il presidente del Circolo Italia  all'epoca  era  il  Comm.  Finocchiaro  che  organizzava  delle bellissime serate. Ricordo con nostalgia il “Ballo delle Rondini”, la  “Maggiolata fiorentina” e il trittico composto dal ballo della “Per- la”, dello “Smeraldo” e del “Rubino”. Nella prima serata le donne dovevano andare tutte vestite di bianco, nella seconda di verde e nella terza di rosso. Nella sala che ospitava all'incirca 500 persone, avevano tolto nel mezzo delle mattonelle e avevano piantato un pe- sco in fiore. Molte persone della mia età ricorderanno quelle serate.Si ballava il “Boogie-Woogie”, lo “Spirù”, la “Raspa”, ma io preferivo i lenti come il ballo della mattonella. Un pomeriggio invitai a ballare una certa Fernanda. Quando si alzò mi accorsi che era più  alta di me e non portava tacchi. Rimasi imbarazzato mi sembrava che tutti mi guardassero. Comunque finito il ballo mi riproposi di non ballarci più e quando la vedevo anche al Circolo Fiat oppure al Malta House le giravo sempre a largo. Mi ero iscritto ad un corso d'inglese e chi capita di posto davanti al mio banco? Proprio quella Fernanda con una sua mica Lucia. Ci furono i primi approcci, inizialmente anche un po' difficili, poi le invitai a mangiare una pizza, accettarono e così iniziai a frequentare  Fernanda.  Con il gruppo dello Scooter Club si andava a fare delle passaggiate a Garian, a Tarhuna oppure a Breviglieri dove c'erano ancora degli italiani. 

 

Mio fratello Marcello mi prestava la Lambretta, caricavo Fernanda dietro e via con tutti gli altri.  Facevamo lunghe passeggiate per la città, gite in barca nel porto, la domenica ci ritrovavamo al Circolo  Italia;  cominciava  a  piacermi  questa  Fernanda,  però  rimaneva  il fatto che era più alta di me. Era figlia unica, il padre era originario di Massa e la madre di Seravezza, una cittadina vicino a Lucca; da parte di mia madre erano tutti di Firenze e questo favorì la nostra amicizia. Fernanda lavorava come dattilografa presso l'Ufficio del Governo che all'epoca era sotto l'amministrazione Britannica.  Passarono alcuni mesi, poi un giorno le chiesi se si voleva fidanzare con me, allora avevo superato la mia timidezza. Lei si mise a ridere e mi disse: «Vuoi metterti con me per divertirti, poi mi lasci e vai a raccontare tutto ai tuoi amici. Non ci penso neanche, scordatelo».  «Ma io voglio fare una cosa seria» replicai. Ma non riuscii a convincerla.

 Intanto era iniziata la stagione balneare. Ci recavamo al Lido oppure a Giorginpopoli o alla Piccola Capri, però di solito andavamo ai Bagni Sulfurei, così chiamati perché dalle docce usciva acqua solforosa che dicevano facesse molto bene alla pelle. Tutte le occasio-ni erano buone per restare soli nella cabina. Ma lei teneva sempre la porta aperta. Passarono un paio di anni e nel 1955 ci siamo fidanzati ufficialmente così Fernanda cominciò a frequentare casa mia. Nel1956 mi capitò la più grande disgrazia della mia vita. Mia madre Jolanda, quarantaquattrenne, non si sentiva molto bene. Diverse visite mediche alla fine le comunicarono che stava entrando in meno-pausa. Invece dopo due mesi le dissero che era in stato interessante. Le venne prospettato di abortire ma mia madre rifiutò e disse: «Chissà dopo tre maschi potrebbe essere la volta buona per la femmina».

Io avevo 23 anni e vedere mia madre con il pancione mi dava fastidio e mi sembrava una cosa ridicola. Però malgrado tutto aspettavamo con ansia e gioia l'evento. Il 25 giugno alle ore 21.00 nacque mia sorella Antonella e alla 23.00 mia madre morì per emorragia. Chissà, forse se fossimo stati in Italia mia madre si sarebbe potutasalvare.  Purtroppo  il  destino  aveva  deciso  così.  Indescrivibile  il caos nella mia famiglia. Non avevamo parenti a Tripoli e la prima cosa da fare era pensare ad Antonella. Mio padre non sapeva che cosa fare, i miei fratelli erano più giovani di me, perciò, dopo averne parlato, io e Fernanda decidemmo di sposarci per crescere mia sorella. Così il 30 luglio del 1956 nella Cappella del Vescovo in Cattedrale ci sposammo.

Più che un matrimonio sembrava un funerale: piangevano tutti. Andammo ad abitare a casa di mio padre. Il primo anno passò alla meno peggio; tutti ci raccomandavano di non avere figli perché dovevamo pensare ad Antonella. Invece nel '58 nacque mia figlia Jolanda. Quindi Fernanda doveva occuparsi di una figlia, del marito, di Antonella, di mio padre, di mia nonna e dei miei due fratelli. La cosa cominciava a diventare pesante. Malgrado tutto  andammo  avanti.  Io,  per  l'ennesima  volta,  avevo  cambiato lavoro e avevo trovato un posto presso la Libya Motor S.p.a., filiale della Fiat a Tripoli. La sede della concessionaria era in sciara Istiklal e l'abitazione di mio padre era a 50 metri di distanza, le finestre dell'officina  davano  sul  cortile  di  casa  nostra.  Quindi  durante  la giornata facevo una scappata a casa per aiutare mia moglie ed in particolare mia sorella. Mio padre però non aveva preso molto bene la nascita di mia figlia perché pensava che avremmo trascurato Antonella. Iniziarono i primi screzi, poi un giorno mi comunicò che la settimana successiva avrei dovuto lasciare la casa perché aveva trovato una vedova che poteva rimpiazzare mia moglie e me.

Finalmente ero entrato al Banco di Roma, posto che molti avrebbero desiderato; il mio stipendio era di  25 sterline libiche pari a circa 43.000  lire italiane.  Riuscii  a  trovare  un  appartamento  in  Sciara Mizran al prezzo di 20 sterline libiche. Quindi mi rimanevano solo 5 sterline al mese e per tre persone era veramente poco. Per fortuna che abitavamo vicino ai miei suoceri e spesso andavamo a pranzo e a cena da loro. Ogni tanto alla sera andavo sul terrazzo e pregando mi rivolgevo a mia madre. Se è vero che i defunti ci ascoltano perché non mi aiutava? Mi sono sposato per tirare su mia sorella, invece ora mi trovavo in questa brutta situazione.

Qualcuno  mi  ascoltò  perché  dopo  un  po'  di  tempo  mi  chiamò  il mio vecchio datore di lavoro Salivetto dicendomi: «Sò che non te la passi molto bene però hai una casa molto grande, perché non dai in  affitto una stanza?» Non sapevo come fare visto che per affittare una stanza avrei dovuto arredarla. Lui mi rispose: «A pianterreno ho una stanza, dentro troverai un letto, un armadio, un comò, un comodino,  un tavolo  e  due  sedie,  sono  tutte  cose  di  quando  ero scapolo. Prendi tutto, gli dai una lucidata e arredi la stanza». Ringraziai ed il giorno dopo con un mio amico libico che lavorava in un  mobilificio  caricai  tutto  con  un  furgone  e  portai  tutto  a  casa.

Una settimana dopo la stanza era pronta ed era venuta bene. Affittai la stanza ad un libanese che era impiegato presso la Base Americana del Wheelus Field, usciva la alle 7.00 e rientrava la sera alle 20.00.  Riuscii ad  affittargli la  stanza per  20  sterline libiche al  mese. Praticamente l'affitto di casa lo pagava lui. Economicamente cominciavamo a stare meglio, così iniziammo ad acquistare i mobili per la nostra casa. Poiché mio fratello mi aveva regalato la camera da letto dopo una vincita al Casinò Uaddan, comprammo per prima cosa la cucina visto che non avevamo neanche il tavolo. Sul baule che conteneva il corredo di mia moglie improvvisavamo la tavola da pranzo, mia figlia mangiava sul seggiolone e questo era tutto l'arredamento di casa. Con mio padre le cose erano sempre un po' tese perché Angela, la vedova, ci aveva proibito di andare a casa per vedere mia sorella poiché vedendoci non si sarebbe affezionata a lei. In effetti Antonella quando ci vedeva ci faceva tante feste e aveva iniziato a chiamare Fernanda “mamma”; quindi, malgrado la cosa ci rattristasse molto, rimanemmo lontani per diverso tempo, poi piano piano, specialmente in occasione dei compleanni e durante le feste ricominciammo a frequentarci. Mio padre sembrava felice invece molto tempo dopo ho saputo che le cose non andavano come sembravano in apparenza.

Io e Fernanda avevamo fatto delle nuove amicizie: Andrea e Adriana, Eugenio e Tilde, Gianfranco e Floria, Gino e Valeria, Antenore e Jolanda, Walter e Santina, Giorgio e Franca, Santino e Silvana: tutte coppie sposate; spesso andavamo fuori a cena oppure ci riunivamo in qualche casa per giocare a carte: gli uomini facevano il pokerino, le donne il Ramino all'Ebrea, una variante della Scala Quaranta.

Nel '61 nacque mia figlia Rossana. Intanto con l'avvento del petrolio la situazione finanziaria a Tripoli era cambiata. Per molti cittadini il tenore di vita si era elevato, le possibilità di lavoro aumentavano  e  c'era  un  benessere  generale.  Anch'io  economicamente cominciavo a stare bene, oltre al lavoro in Banca facevo altri lavori che mi portavano un discreto guadagno e non avevo più bisogno di dare in affitto la stanza. Certo i tempi in cui ero PROFUGO DELLA LIBIA erano lontani.

Ero stato chiamato a fare parte del Consiglio dell'Amministrazione del Circolo Italia come consigliere, prima sotto la Presidenza Salinos poi con la Presidenza Giannò. L'attività del Circolo per quanto riguarda feste, balli e divertimenti era un po' scaduta perché avevano aperto l'Uaddan di Mohamed Nga. Una bellissima struttura che dava sul porto di Tripoli con albergo, ristorante, cinema, night club e casinò. La maggior parte degli italiani lasciò il Circolo, in particolare i Vip che iniziarono a frequentare l'Uaddan, dove si giocava al Bingo e dove venivano organizzate serate con la partecipazione di Peppino di Capri, Rita Pavone, Milva, Mina ed altri. Invece al Circolo si faceva teatro, la prosa: venivano dall'Italia le sorelle Paola e Marisa Quattrini, Giulio Bosetti e ogni tanto veniva a trovarci, con la sua troupe, anche Mike Bongiorno, che per diversi anni presentò a Tripoli il Festival di Primavera al cinema Alambra.

Il  casinò  Uaddan,  dove  molta  gente  ci  lasciò  una  fortuna,  era  il regno dei due fratelli Elia e Giorgio Manthos e di mio fratello Marcello. Erano fissati e quasi tutte le sere lo frequentavano. In particolare Marcello poiché la sua maggior soddisfazione sarebbe stata

quella di fare saltare il banco. Intanto al Circolo Italia c'era una buona attività sportiva, con le sezioni di Box dirette da Moccero e Anastasi, ex campione italiano, la sezione di scherma con il maestro Foti e la scuola di danza classica diretta da Barbara Christides.

In quel periodo da un'idea di Roberto Longo, Roberto Marziani e Uccio Villari e Oreste Sagona era nato il “Venerdì Quiz”, spettacolo musicale a quiz. Io partecipai alla Quarta Edizione nel 1966 che mi vide coinvolto prima nell'organizzazione poi come attore insieme a Pino Teresi, Italo Paglialunga, Titti Marino, Hassen Kerbish, Tosca Fallico e altri.

 

 

Questo accadeva al Circolo Italiano tutti i Venerdì alle 18.30 congrande affluenza di pubblico sino al giugno del 1967, anno nel quale scoppiò in Medio Oriente la Guerra dei Sei Giorni, durante la quale alcuni manifestanti dettero fuoco al Circolo. Lì finì la mia carriera di attore. Se ne è parlato poco ma vorrei ricordare quel 5 giugno del '67. Alle 8.00 come al solito ero sul posto di lavoro: Agenzia n° 1 del Banco di Roma in Sciara Giama el Magarba. Vedevo per la strada un certo movimento di gente e molte persone che ascoltavano le radioline. Chiesi ai miei colleghi libici che cosa stesse succedendo mi risposero che Radio Cairo aveva comunicato che truppe egiziane avevano sfondato le linee israeliane e puntavano verso Tel Aviv. Mi sembrava strano perché la sera prima ascoltando la Radio italiana mi pareva che le cose non fossero proprio così. Comunque durante la notte potevano essere avvenuti dei cambiamenti. Intanto i manifestanti aumentavano e la tensione era sempre più forte. Telefonai acasa a Fernanda e mi disse che alla televisione la RAI aveva comunicato che le truppe israeliane comandate da Moshe Daian avevano messo in fuga le truppe egiziane e stavano puntando verso il Cairo. (Quando il tempo era bello a Tripoli si vedeva la TV italiana per riflesso). Quando la folla comprese che Radio Cairo aveva dato notizie false si scatenò. Cominciarono ad incendiare negozi, macchine e davano la caccia agli ebrei tripolini. Per noi dell'Agenzia arrivòl'ordine di chiudere tutto e rientrare a casa. Eravamo in sei: Nando Arcuri  funzionario, Adriano  Cornelli  al  portafoglio  estero,  Nedo Benci al controllo cassa, Abdalla Fathalla aiuto di cassa, Mansur usciere ed io cassiere. Così ci apprestammo subito ad uscire dalla porta di servizio quando si presentò una situazione drammatica. Il palazzo era abitato da due famiglie ebree, gli Hai Hacmun e i Sion Costantini. Avevano messo una grossa tavola di legno dalla porta agli scalini, le donne e i bambini tutti per terra che piangevano e Gina Hacmun, quella che conoscevo meglio perché veniva sempre in banca a fare i versamenti mi disse: «Chiodi, per favore non uscite, altrimenti entrano i dimostranti e ci ammazzano tutti».La situazione si faceva difficile poiché tutti noi avevamo le famiglie da proteggere e dovevamo andare a vedere che cosa fosse successo. Ci vennero in aiuto i due colleghi libici dicendo: «Facciamo così: usciamo prima noi, poiché essendo arabi, nessuno dirà niente, dietro seguiranno i quattro italiani e immediatamente dovete rimettere la tavola». Anche se gli arabi, gli italiani e gli ebrei fisicamente sono tutti uguali noi riuscivamo a distinguerci. Così facemmo in quel modo e la cosa andò bene. Eravamo appena usciti in Giama el Magarba quando alcuni manifestanti iniziarono a dar fuoco alla Simonds Farsons, negozio di proprietà di maltesi che vendeva prodotti alcolici.

Arrivò una camionetta della polizia, ed anche se fino ad allora non si erano mossi ed avevano lasciato fare, a quel punto intervennero  gettando  bombe  lacrimogene  che  fecero  scappare  e disperdere i manifestanti da tutte le parti. Anche il nostro gruppetto si disperse ed io, mentre stavo tornando verso casa per via Porta Pia, vidi venirmi incontro un gruppo di scalmanati con bastoni e spranghe di ferro che gridavano: «Yudi, yudi», mi avevano preso per un ebreo. Cominciai a correre velocemente in direzione dell'Istituto dei Fratelli Cristiani (in quella scuola avevo fatto alcune classi elementari) e per farmi aprire ilcancello gridavo: «Fratello Amedeo, fratello Amedeo!» Mi aprì fratello Piero, mi fece entrare richiudendo immediatamente. Il gruppo dei dimostranti iniziò a battere sul cancello e dicevano in arabo: «Atini yudi» che in italiano significa “dacci l'ebreo”. Fratel  Piero  aprì  e  disse:  «Quello  è  italiano,  è  cristiano,  non  è ebreo». Mi avvicinai al cancello e scambiai qualche parola con loro. Mi chiesero scusa e andarono via. Certo se non avessi trovato rifugio presso i Fratelli non so come sarebbe finita. Poi piano piano mi avviai verso casa in sciara Mizran. Mia moglie, le bambine e tutte le donne che abitavano nel palazzo piangevano, e avevano tanta paura; entrato in casa, dalla finestra del mio appartamento al secondo piano vedevo alzarsi colonne di fumo in diverse parti della città. La sera prima, purtroppo, avevo parcheggiato di fronte ad un bar la mia Fiat 1300 di colore bianco. I dimostranti arrivati di fronte al bar buttarono giù la porta e portavano fuori lebottiglie di alcolici dandogli fuoco, poi videro la mia vettura, forse gli dava fastidio, la rovesciarono su di un fianco e gli dettero fuoco.

Provai a chiamare i pompieri per telefono ma non arrivò nessuno. Intanto in città erano successi altri episodi spiacevoli in particolare contro gli ebrei. Verso sera finalmente la polizia iniziò ad intervenire e le cose migliorarono. Il giorno dopo tutti gli ebrei, una collettività di circa cinquemila persone in possesso di passaporto, vennero accompagnati, con solo gli effetti personali, all'aeroporto di Gasr ben Gascir o al Porto e lasciarono Tripoli. In città si era sparsa la voce che la famiglia di Hai Luzon era stata portata via e non  sapevamo che fine avesse fatto. Tra la collettività ebraica avevo diverse conoscenze ed amicizie come: Vita Barda, Samuele Naaman, Vito Halfon,Vittorio Mimun, le sorelle Arbib, Nessim e Guido Hannuna, Dodi Nahum, Dodi Zard, Fufi Nahum, Dabbush e tanti altri; sono trascorsi più di trent'anni e non li ho più rivisti. Piano piano anche il '67 venne dimenticato, ma è storicamente accertato che quando nel paese vengono perseguitati gli ebrei prima o poi arrivano per tutti guai più grandi.

Mio fratello Mario si era fidanzato con Cetty Gozzo; con il fratello della  ragazza,  Luigi,  aveva  iniziato  una  redditizia  attività  di  cartellonistica che fabbricava insegne luminose. La ditta si chiamava Liby-Plast  e  con  l'andata  via  degli  ebrei,  i  maggiori  fornitori  di materie prime, dovettero restare chiusi per un paio di mesi. Riprendemmo il normale ritmo di vita ma i rapporti con i libici andavano peggiorando in special modo con le nuove generazioni. La condizione della donna era quella che creava maggiori difficoltà. Le donne libiche generalmente stavano in casa e accudivano alla famiglia,

mentre l'uomo era il padrone assoluto e poteva fare ciò che voleva. Per esempio se noi italiani andavamo a ballare c'era sempre quello pronto che voleva ballare con nostra moglie o con la nostra fidanzata o nostra sorella, mentre le loro donne rimanevano chiuse in casa. Se andavamo al cinema non sapevamo come sistemare le donne perché c'era sempre qualcuno che allungava le mani. I libici diventavano sempre più insofferenti verso gli europei, ma nonostante questo nel corso degli anni, avevo instaurato delle buone amicizie con persone libiche. Ricordo Ahmed Kerbish, Messaud Zentuti, Orhan Caramanli, Mohamed Mahfud, Mohamed Mabruck, Taher  Burscian,  Taufik  Laradi,  Hassen  Kerbish,  tra  i  colleghi  di banca rammento Arifi Lessued, Abdalla Fathalla, Mohamed Burscian,  Mohamed  Bheh,  Mansur  Gubbar, Aissa,  Milud,  Basciaga, Buik, e tanti altri di cui non ricordo il nome.

Nel  lavoro  s'incontravano  difficoltà,  tutto  doveva  essere  al  51% capitale libico ed al 49% capitale straniero. Anche le banche vennero libicizzate: il Banco di Roma diventò Umma Bank, il Banco di Napoli Istiklal Bank ed il Banco di Sicilia la Sahara Bank. Il Banco di Roma era forse la più importante banca che operasse a Tripoli anche se c'erano diverse banche straniere: la Barclays Bank, la British Bank, Arab Bank ed il Credit Foncier.

Noi impiegati eravamo riusciti a formare una squadra di calcio ela domenica sul campo di San Giuseppe organizzavamo incontri interbancari.

 

Nel  periodo  estivo  frequentavo  l'Under Water  Club  poi  diventai socio  del  Beach  Club  e  con  il  gruppo  dei  miei  amici  andavamo sempre lì. Dopo alcuni mesi entrai a far parte del comitato che dirigeva il Club. Il Presidente era A. Kerbisc, mentre il gruppo dei consiglieri era composto, oltre che da me, da M. Barbera, P. De Battista, M. Kogia e da F. Mefferd. Anche  come  socio  del  Beach  Club  riuscii  ad  organizzare  alcune serate molto divertenti: alcune Caccie al tesoro, una Miss Beach, Matilde De Luca, ed una serata molto bella in maschera per Carnevale. In qualsiasi gruppo o club mi trovassi mi piaceva organizzare sempre qualcosa. La mattina mia moglie con le bambine andava al Beach, alle una, quando uscivo di Banca, andavo al Club, facevo il bagno in mare, pranzavamo  al  ristorante  e  dopo, qualche  volta,  giocavo  a  tennis. Alle 16.00 rientravo in banca e alle 19.00 andavo di nuovo al Beach, dopo cena giocavo a carte e a mezzanotte tutta la famiglia rientrava a casa in Sciara Mizran, e l'indomani si ricominciava e questo per circa sei mesi all'anno. In quel periodo stavamo piuttosto bene ed in particolare dal punto di vista finanziario. L'amico Marangelli diceva sempre: «Se un giorno torneremo in Italia questa pacchia finirà, allora vi accorgerete cosa vuol dire vivere in Italia». In effetti conoscevamo l'Italia come turisti e non ci rendevamo conto della realtà.

 

Arriviamo alla fatidica notte del 1 settembre del 1969. Ero stato a giocare a carte con la mia famiglia a casa di amici, rientrando a casa verso le una non avevo notato niente di strano, tutto sembrava normale, avevo parcheggiato la macchina quando sentimmo dei colpi di fucile. Sul momento non ci feci caso, visto che sapevo che era stata riaperta la caccia alle gazzelle. Stavamo andando a letto quando cominciai a sentire colpi di arma da fuoco con armi automatiche. A questo punto non si trattava più di cacciatori ma qualcosa di ben più grave. Piano piano aprii una finestra e vedevo gente in divisa correre. C'erano alcuni poliziotti con le mani alzate e dietro dei giovani, vestiti con la divisa di marina e tute mimetiche che gli puntavano il fucile alle spalle. Non riuscivo a capire. Sapevo che la polizia libica era ben armata, perché si arrendevano? Telefonai a mio fratello Marcello che abitava in Sciara el Cahira vicino a Maidan Asciuhada ex Piazza Italia e anche lui stava vedendo che la polizia si stava arrendendo. Sul  momento  pensammo  che  forse  qualche  nazione  confinante, Tunisia o Egitto, voleva occupare la Libia perché c'era il petrolio e avevano fatto un blitz militare. All'esercito libico non ci pensammo proprio perché sapevamo che era composto da pochi uomini e male armati con vecchi fucili del '91. Dopo alcune ore cominciarono a circolare delle camionette ed in arabo, inglese ed italiano comunicavano:  «Qui  il  comando  della  Rivoluzione,  è  stato  istituito  il coprifuoco».

Iniziarono giorni pesanti pieni di preoccupazione; le autorità italiane, Consolato ed Ambasciata, non facevano molto, oltre a raccomandare di stare calmi. Trascorsi alcuni giorni si venne a sapere che il colpo di stato era stato effettuato da un gruppo di giovani ufficiali dell'esercito libico e che il comando della rivoluzione era stato preso da un capitano ventisettenne, improvvisamente diventato colonnello: Muammar Gheddafi. Nei giorni che seguirono, le supposizioni cominciarono ad affiorare in ognuno di noi. «Perché era avvenuto il colpo di stato? Chi lo aveva favorito?» Chi diceva che era stata la CIA americana, chi diceva che erano stati i Servizi Segreti Italiani, chi parlava di un colpo di stato parallelo che doveva avvenire con la complicità di elementi della casa reale. Discorsi ne furono fatti tanti ma la realtà non la conosceva nessuno. Comunque se i cittadini libici ritenevano giusto eliminare la monarchia ed instaurare una dittatura militare non spettava a noi italiani discuterne, l'importante era che non succedesse niente di male alla collettività italiana. Invece nel marzo del 1970 gli Inglesi vennero invitati a lasciare la base militare di Tobruk, nel giugno anche gli Americani devono lasciare la base del Wheelus Field. Non capimmo bene neppure questa azione. Perché due nazioni tra le più potenti del mondo stavano lasciando tutto e se ne stavano andando? Chissà, forse erano stati presi accordi segreti che nessuno conosceva.

Arriviamo  al  21  luglio  1970  quando  Gheddafi  pronunciò  un  discorso con il quale comunicò che tutti gli italiani residenti in Libia dovevano lasciare il territorio e tutti i loro beni mobili ed immobili venivano confiscati e tornavano al popolo libico. Tutto questo come riscatto per le sofferenze subite dal popolo libico durante la colonizzazione. Indubbiamente durante la guerra Italo-Turca ci sono stati diversi morti, si sa le guerre portano a fare le cose più atroci. Quando gli venne data carta bianca il generale Graziani avrà sicuramente deportato ed impiccato molti arabi, anche se a quei tempi c'era l'abitudine di ingrandire le cose: se venivano uccisi dieci uomini veniva detto che le vittime erano cento, però in tutti gli anni che sono rimasto a Tripoli, dai libici non ho mai sentito ricordare quei fatti. L'unico caso che ricordo è quello dei pozzi di Sciara Sciat, dove venne sorpreso un drappello di bersaglieri i quali vennero tutti evirati ed uccisi. Basterebbe ricordare quello che hanno fatto i tedeschi in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale per rendersi conto delle atrocità che da sempre vengono commesse in nome della guerra.

Il colonnello ricordò solo i fatti che interessavano a lui e si dimenticò di dire che i nostri nonni, quando iniziò la guerra Italo-Turca, che  all'epoca  era  un  protettorato  turco,  trovarono  tanta  sabbia  e tante zeribe (capanne) per abitazioni. Noi abbiamo riconsegnato la Libia con strade, palazzi, ospedale, centrali elettriche, del gas, dell'acqua, villaggi e i nostri agricoltori hanno trasformato centinaia di ettari di deserto in uliveti, vigneti, agrumeti e campi di cereali: la nostra colonizzazione non è stata forte ma come si suol dire è stata all'acqua di rose. In quel momento un altro problema ci affliggeva: potevamo rientrare in Italia ma non sapevamo se il Banco di Roma ci avrebbe dato un posto di lavoro. Eravamo in possesso di una lettera in cui si  dichiarava  che  per  tutti  coloro  che  avessero  compiuto  cinque anni di servizio a Tripoli c'era la promessa di assunzione in Italia. Ma  il  dubbio  che  ci  tormentava  era  se  questa  promessa  sarebbe stata mantenuta. Eravamo circa una trentina di impiegati ad avere questo diritto, ma da Roma non arrivava nessuna comunicazione. Con  alcuni  colleghi,  tra  cui  Calderoni,  Arcuri,  Astuti,  Cornelli, Busetta, Cicerchia ed altri, prendemmo l'iniziativa di scrivere una lettera all'Avvocato Veronesi, Presidente del Banco di Roma e per conoscenza al Presidente del Consiglio, una al Ministro degli Affari Esteri, una al Ministro del Tesoro ed una al Ministro del Lavoro, facendo presente il deterioramento della situazione. Anche  il  Dr.  Borromeo,  Ambasciatore  d'Italia  in  Libia,  aveva inviato  un  telegramma  che  diceva:  “Personale  italiano  Banco  di Roma  contratto  locale  data  presente  situazione  desidera  venga impostato preciso programma graduale rientro Italia anche perché iniziato improrogabile rimpatrio famiglie et masserizie - STOP - Tale  programma  ritengono  non  più  dilazionabile  et  comunque  da concludere con totale rientro entro due tre mesi - STOP - Presente atmosfera periodo programmato per graduale rientro est sufficiente confermare spirito sacrificio et dedizione istituto personale in questione che però ora manca necessaria serenità per proseguire più a lungo propria opera a Tripoli - STOP”.

Passò un breve periodo e finalmente da Roma dalla Direzione Centrale della Banca arrivò il parere favorevole. Potevamo rientrare in Italia e a tutti i trenta dipendenti veniva confermato il posto di lavoro in Italia. A questo punto iniziarono giorni molto pesanti per tutti i cittadini italiani. Per settimane fummo costretti a svolgere diverse pratiche, con lunghe file sotto l'irresistibile caldo di agosto di 40°C all'ombra  sotto  il  controllo  dei  soldati.  Dovevamo  dimostrare  di aver pagato l'affitto di casa, la luce, il gas, l'acqua, dovevamo consegnare i titoli di proprietà delle abitazioni e dei negozi, consegnare le vetture agli incaricati e passare la censura sulle fotografie, poiché negli anni avevamo potuto fotografare qualche base militare. Le  mie  foto  riguardavano  la  mia  famiglia,  matrimoni,  battesimi, festività,  gite  a  Leptis Magna,  Sabratha,  Tunisi,  viaggi  in  Italia, quindi niente di compromettente.

 

Arrivato  nell'ufficio  della  censura  sullo  sfondo  c'era  una  gigantografia  che  rappresentava  alcuni  arabi  impiccati  con  la  dicitura: “La Libia perdona ma non dimentica”. Intanto un giovane ufficiale vestito in tuta mimetica con due pistole ai fianchi tipo cow-boy mi apostrofò in arabo:«Come  ti  chiami?  Che  cosa  hai  dentro  quella  scatola?»  Inizialmente capivo e gli rispondevo poi iniziò a parlare velocemente e non capivo più ciò che diceva. Allora cambiò tattica ed iniziando aparlare in italiano, mi disse anche: «Tu nato qui, perché non parli arabo? Senti come io parlo italiano». In effetti molti di noi, per nostra colpa, non parlavano bene l'arabo, perché fino ad un mese prima in città la maggior parte dei libici parlava la lingua italiana e ci capivamo benissimo. Pensai un momento e poi replicai: «Vede, Comandante, voi libici persone molto intelligenti, noi italiani duri, duri» battendo il pugno sulla mano aperta. A questo punto si sentì soddisfatto ed esclamò: «Jalla,  jalla,  emsci»  che  significa  “Svelto,  svelto,  puoi  andare”. D'altra parte dovevamo agire con una certa diplomazia perché se una persona si mostrava strafottente i rischi sarebbero potuti essere più gravi. Anche per andare al nostro Consolato e all'Ambasciata venivamo perquisiti e se avevamo somme di denaro oppure oggetti d'oro ci venivano confiscati. La Umma Bank, ex Banco di Roma, ci aveva liquidato il rapporto di fine lavoro e anche quello ci venne confiscato, e per finire ci vennero confiscati anche i contributi pensionistici pagati all'Ente assicurativo libico, vale a dire tredici anni di lavoro.

Mio fratello Marcello con il socio Paglialunga erano titolari di un negozio di ottica in Sciara 24 Dicembre; andarono per aprire il negozio per  prendere  alcune  cose  personali,  ma  trovarono  la  polizia  che consegnò loro una ricevuta con la quale veniva confiscata la loro proprietà.

Anche l'altro mio fratello, Mario, ed il suo socio Luigi Gozzo, titolari della Libya-Plast, che in quel momento si trovavano in Italia in ferie, non fu loro possibile rientrare a Tripoli e a causa della confisca persero tutto. Dovemmo subire tante umiliazioni che colpirono un po' tutti, anche se dobbiamo  dire  che  il  nostro  rapporto  con  la  popolazione  era  buono, perché, per quello che mi risulta, dei ventimila italiani residenti in Libia, nessuno è stato ferito o ucciso, perché se avessimo commesso qualcosa di grave nei loro confronti sicuramente quella sarebbe stata l'occasione per farcela pagare.

Una mattina si presentò da me un commerciante libico dicendomi: «Io dare per te 100 sterline libiche (circa 170.000 lire italiane), tu consegnare chiavi quando andare via», (molti libici non parlavano perfettamente l'italiano ma si facevano capire benissimo). La mia abitazione in affitto era composta da due camere da letto, la sala, la cucina, il bagno, tutto arredato molto bene, con televisore, condizionatore d'aria e forse il valore totale era superiore alle 100 sterline libiche, ma vista la situazione, accettai. Dovevo  inoltre  pensare  anche  ai  miei  suoceri  che  erano  anziani. Una mattina mia moglie mi telefonò dicendomi che mio suocero, Ferdinando Casali, era scomparso. Ed ora in una situazione caotica come quella non sapevo dove andare a cercarlo. Provai ad andare alla Polizia ma non sapevano dirmi niente, mi recai all'ospedale per vedere se fosse successa una disgrazia, ma non trovai nessuno; iniziai allora a passare la voce a diverse persone amiche per vedere se sapevano qualcosa. Nel tardo pomeriggio incontrai Giampaolo, un mio amico, che, appena mi vide, mi disse: «Fuori uno». Gli chiesi che cosa intendesse con quelle parole, e lui: «Questa mattina ero all'aereoporto quando ho visto tuo suocero. Era il primo della fila e a quest'ora sarà già in Italia». Finalmente avevo avuto qualche notizia. Telefonai a mio fratello Mario che era a Roma, che si mise alla ricerca di mio suocero e dopo diverse tentativi lo trovò in un centro profughi. Gli chiese il motivo per cui fosse scappato e lui rispose che aveva avuto paura e se ne era andato. Aveva preparato i documenti necessari all'espatrio, quelli di sua moglie li aveva lasciati in un cassetto, e senza dire niente a nessuno era fuggito. Non riuscivo a capire il perché; era sempre stato in buoni rapporti con tutti quindi non capivo quella fuga.  Era  rimasto  impressionato  da  tutta  la  situazione  che  si  era venuta a creare in quei giorni e aveva preferito scappare. Dopo alcuni giorni anche mia suocera partì per andare a raggiungere il marito. Anche la famiglia di mio fratello Marcello, mio padre, la vedova e mia sorella erano rientrati in Italia. Adesso stava alla mia famiglia lasciare la Libia. Tramite mio fratello Marcello che aveva delle conoscenze, ero riuscito a mandare via due bauli con le cose più voluminose e di valore dei nostri quattordici anni di matrimonio. Improvvisamente una mattina fummo svegliati da delle grida per strada. Era scoppiato il colera. Prima di partire, tutti dovevamo essere vaccinati altrimenti non venivamo autorizzati a lasciare il suolo libico. Dovevamo fare altre file, assistendo talvolta a scene drammatiche. Superato anche questo e altro ancora, ci apprestammo a partire.

Con  Fernanda  preparammo  quattro  valigie  con  effetti  personali.Con gli ultimi soldi libici acquistai quattro biglietti di prima classe dell'Alitalia. Il 24 settembre 1970 alle ore 9.00 eravamo all'aereoporto di Gasr ben Gascir. Sapevamo che sicuramente saremmo stati perquisiti;  addirittura  si  diceva  che  in  certi  casi  alcune  donne  in occasione dell'esodo degli ebrei da Tripoli, erano state sottoposte visite ginecologiche per vedere se nascondevano qualcosa. Infatti prima di passare la dogana ci dissero di accomodarci perché dovevamo essere perquisiti. Dividevano gli uomini dalla donne così io ero da una parte e mia moglie con le bambine dall'altra. Mi stavo spogliando quando il poliziotto che doveva perquisirmi mi disse: «Se tu dai qualche soldo per me io lasciare andare». Avevo 80 sterline libiche che avevo intenzione di cambiare in Italia, poiché all'epoca si poteva cambiare 20 sterline a persona. Dalla tasca interna presi una busta con i soldi e gli consegnai il tutto; il poliziotto guardò dentro la busta, sorrise e tutto compiaciuto, rivolto verso di me, disse: «Puoi rivestire, puoi andare, grazie».

Nel frattempo, da dove si trovava mia moglie provenivano delle grida: «Oro, oro!» Non capivo cosa stesse accadendo perché avevo raccomandato a mia moglie di tenere soltanto la fede matrimoniale e nessun altro oggetto di valore. «Da dove esce allora, questo oro?» continuavo a chiedermi. Di lì a poco compresi il malinteso: Fernanda aveva una bella borsa Mangiameli con due tracolle di metallo, una argentata e l'altra dorata. Quel giorno mia moglie aveva messo quella dorata nella borsa e le donne poliziotto che la stavano perquisendo avevano pensato fosse d'oro. Arrivò di corsa un ufficiale che dopo un veloce controllo realizzò che era metallo e ci lasciò andare. Alle 10.00 salimmo su un Caravel dell'Alitalia diretto a Roma e ci accomodammo in prima classe, dove i pochi passeggeri presenti avevano un trattamento migliore rispetto alla classe economica. Guardavo dal finestrino e vedevo Tripoli allontanarsi; pensavo a quando ero più giovane e a quanto avevo desiderato rivedere questa bella città: i suoi tramonti di un rosso acceso, Ghibli, il vento caldo del deserto, il bellissimo mare azzurro, adesso la stavo lasciando senza avere alcun rimpianto, dopo quello che era successo desideravo soltanto arrivare in Italia.

Sbarcati a Fiumicino ci vennero incontro un uomo ed una donna. La ragazza prese in consegna mia moglie e le bambine e si avviarono verso un ufficio. L'uomo mi invitò a scendere mentre continuava a guardarmi stupito, poiché provenivo dalla prima classe, alla fine mi chiese: «Scusi, siete turisti oppure PROFUGHI DELLA LIBIA?» Dopo ventitre anni ritornavo ad essere PROFUGO DELLA LIBIA, ma questa volta sarebbe finita molto, ma molto meglio.

Mentre mi apprestavo a concludere questo mio diario, mio fratello Mario ha ricevuto una lettera via e-mail dal mio caro amico Franco Vecchiettini. Franco lasciò Tripoli nel 1956 per andare in Venezuela, dove attualmente vive, ma gli è rimasto nel cuore un grande amore per quella terra. Proprio per questo motivo voglio qui di seguito trascrivere parte della lettera che ha scritto:

"... sparsi per il mondo continuiamo a volerci bene. peccato che destino abbia voluto che la Nostra Terra non fosse veramente nostra. Peccato che Gheddafi, il  cui Nazionalismo non censuro, non abbia tenuto conto che un inserimento tra Libici tutti sarebbe stato assai più conveniente e fruttifero per la sua Nazione. Che grande Nazione sarebbe stata la Libia con l'integrazione di Mussulmani, Cattolici ed Ebrei, tutti con un grande amore per quella terra che ci ha visto nascere. Peccato che Gheddafi non ha avuto questa visione! Oggi, forse internamente, se ne sarà reso conto. Purtroppo è troppo tardi. Noi siamo vecchi ed i nostri figli dalle mille e una nazionalità sono molto ma molto differenti da noi. Differente sarebbe stato se fossero nati e cresciuti laggiù, nel nostro ambiente, prolungando così la nostra vita, le nostre usanze, i nostri sentimenti, in una mescolanza di razze, che sarebbe stata indubbiamente assai positiva per la Nazione libica."

Fabio Chiodi

 

 Fine

* Pubblicazione autorizzata da Taggete Edizioni