LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

LA  MIA  TRIPOLI 

Il Molo Beverello, a Napoli, è l’alfa del periodo più bello della mia esistenza. Di lì mi imbarcai per Tripoli, una sera afosa di fine agosto 1939.

La ragione per la quale lasciavamo la Romagna, che non è terra di migranti, non era economica né tanto meno politica o patriottica. Il babbo, due anni prima, era stato assalito da un forma  reumatica gravissima tanto  che i medici  temevano, se si fosse ripetuta, per la sua vita.

Allora la zia Domenica, sorella della mamma, conosciuta nel reparto ostetrico dell’Ospedale Coloniale come “la Ravaglioli”, una delle due ostetriche, che in dieci anni e passa aveva fatto nascere la metà dei bebé tripolini, italiani  e non, aveva organizzato il nostro trasferimento sulla quarta sponda, dove il clima era ben altra cosa. Questa la ragione.Ma anche  l’omega.

Al Beverello la Nave-Ospedale  Toscana, l’ultima a lasciare Tripoli prima dell’arrivo dei signori Inglesi, carica di feriti e di profughi come me, attraccò nel tardo gennaio 1943 verso mezzogiorno, in un nebbione incredibile per Napoli.

La nave ospedale Toscana

Venne la Principessa  Maria  José a salutarci, nella sua elegante uniforme di Crocerossina, circondata da un nugolo di dignitari. A tutti  noi donò arance. All’andata, stanchissimi, ci  ritirammo in un  cabina, vero e proprio forno.

...Venne la Principessa  Maria  José a salutarci...

 

La mattina dopo, nella sosta a Palermo, attraccammo accanto ad  un modernissimo incrociatore, vanto della Regia Marina, che  andrà a fondo a Capo Matapan, Fui affascinato dalla cerimonia che si ripeteva ogni volta che un ufficiale saliva a bordo .Tutti indossavano uniformi immacolate. L’ufficiale di servizio si fregiava di una sciarpa azzurra..

Tripoli si annunciò come una ininterrotta linea bianca all’orizzonte. Poi cominciammo a scorgere le palme,

Si affianca alla nave la lancia del pilota, a bordo c’è un arabo con la “takia”  bianca. Il  primo che vedo.

Devi chiamarli “Alì.” mi ammaestra un passeggero che vive qui da vent’anni. “ Tutti gli arabi li chiamiamo Alì, anche se hanno un nome diverso. Tu, chiamali come ti ho detto e vedrai che risponderanno.”

Il tragitto verso Città Giardino è lungo. Sulla nostra carrozzella passiamo accanto al castello. Percorriamo Corso Vittorio Emanuele. Il babbo mi indica la Palazzina del Governatore con i “meharisti” di guardia  col  “burnus” nero. Alla sua sinistra, ne costeggiamo il muro  di cinta, poi passiamo accanto ad un giardinetto di oleandri infine, traversata la larga strada che scende dalla Dahra, imbocchiamo via Tiravanti. Lì è la palazzina dove abiterò A due piani, col tetto a terrazza con le lavanderie e gli stenditoi.

Il Palazzo del Governatore Corso Vittorio

 

Bianca, come obbligatoriamente tutti gli edifici della città, conta quattro appartamenti e un garage, Sui due lati prospicienti la via pubblica è protetta da un’artistica  recinzione con mattoni  a calce, che disposti ad arte, formano  losanghe regolari con un bel gioco del vuoto sul pieno. Dietro di essa un giardinetto di piante assetate e di rossa terra. Agli altri due lati  da muri di cinta più o meno alti tre  metri, uno verso la villetta al fianco, l’altro ,sul dietro verso la villa dei Di Maio.

I ragazzi Di Maio, specialmente Ennio, Giorgio, di qualche anno più grande ci snobba un po’ – sono i miei  primi amici. L’approccio non è di certo protocollare. i miei  primi amici. L’approccio non è di certo protocollare. Nei primi giorni mi sorbisco il loro ritornello dall’alto del muro: “ A Rumagnò.”

...i miei  primi amici. Nei primi giorni mi sorbisco il loro ritornello dall’alto del muro: “ A Rumagnò.”...

 

Ad ottobre, Ennio me lo ritrovo compagno di classe alla Scuola Elementare Nicolò Tommaseo. Nel frattempo siamo divenuti amici complice un moschetto-giocattolo che il babbo mi ha comprato all’UPIM, una riproduzione fedele di quelli veri. Tutti vogliono imbracciarlo e puntarlo verso un bersaglio immaginario facendo” bum” con le labbra, allo scatto del grilletto.

Un giorno però i fratelli Di Maio esibiscono due moschetti di egregia fattura che sparano cartucce di legno. Se poi, al botteghino arabo che sta in Sciara ben Asciur, verso l’officina della FIAT, acquistiamo i fiammiferi controvento e spariamo quelli, con la loro vivida fiamma, l’effetto è grandioso. Ora il successo  presso la comitiva è tutto loro e il mio povero fucile perde ogni attrattiva..

In gruppo vociante giungevamo, in bicicletta fino al mercato della Dahra – ho visto su una mappa che esiste ancora come del resto il cimitero arabo -, per comprare le “sbule”, le pannocchie arrostite

Qui, mi è d’obbligo aprire il discorso su DugDug. Non credo vi  fosse a Tripoli bambino che non conoscesse il nome magico di questo venditore di giocattoli spesso, ricercati e costosi, che stava in Suk el Turk. Le magiche automobiline Schuco che evoluivano sapientemente sui tavoli, i sommergibili-giocattolo che si immergevano e procedevano in immersione, i soldatini della Lineol, così perfetti e tanto diversi da quelli nostrani, opera di figurinai lucchesi, per l’occasione dimentichi  dei pastori del Presepio.

...Le magiche automobiline Schuco che evoluivano sapientemente sui tavoli... ... i soldatini della Lineol, così perfetti e tanto diversi da quelli nostrani...

 

Vero e proprio antro fatato che avevo scoperto in occasione del Giorno dei Morti, insieme con la tradizione siciliana dei doni dei defunti ai bambini, del tutto sconosciuta  in Romagna.

Ma vi erano altre differenze: da noi, i doni li portava la Befana nella calza appesa al camino.

Per Natale solo dolci. Qui, viceversa li trovavi sotto  l’Albero di Natale anch’esso quasi sconosciuto nella semplice terra di  Giovanni Pascoli.

A Città Giardino  la presenza araba non era numerosa perciò i rapporti coi nostri coetanei arabi non erano frequenti e sovente subito conclusi col  ya uled, barra fissa

Tuttavia  da loro ho imparato a fabbricarmi una  di quelle fionde bibliche  fatte con uno spago e ad adoperarla seppure senza molta precisione.

Poi un giorno, un arabetto mi disse: “Guarda!” e subito col palmo della mano pressò la sabbia davanti a sé e, chiusa la mano a pugno, in modo che le dita fossero in alto e il polso in basso, vi impresse un segno che già lasciava pensare all’impronta di un piedino mozzo.. Quando con tocco lieve, ebbe marcato quattro punti circolari a corona della parte superiore, l’orma  apparve completa .

“ Vedi? “ concluse orgoglioso della mia meraviglia.

La mia maestra, alla Scuola Elementare Nicolò Tommaseo, nell’anno scolastico 1039-40, era la signora Aquaro. La ricordo con immenso affetto.  Una delle figure significative della mia esistenza.

Talvolta, nel pomeriggio andavamo a trovarla a casa. Abitava in Via Virgilio, se ben ricordo, che costeggia il lato posteriore della Palazzina del Governatore, all’incrocio con Sciara ben Asciur, vicino alle Case INCIS.

Mi ha insegnato il rispetto per  gli  altri che vivevano con noi Italiani: greci, maltesi, ma soprattutto arabi, specialmente in occasione del “ramadan” quando sotto il sole, camminavano come sonnambuli, a causa del digiuno.

Ricordo benissimo anche molti dei miei compagni e compagne.

Di Ennio Di Maio ho già parlato. Disegnerà l’omino di Lascia e Raddoppia e molti altri lavori farà per la RAI. Già allora aveva una grande propensione per il disegno.

... il mio amico  Di Maio disegnerà l'omino di Lascia o Raddoppia...

 

Vi dirò della Carretti, il cui padre morì nel rogo dell’aereo di Italo Balbo, con  Quilici e gli altri.  Nella parlata, conservava l’accento delle mie parti.

Di Fabio Guatelli che raggiungerà  i vertici di in una famosa multinazionale. Suo fratello Arturo, invece, diverrà una delle penne più apprezzate del Corriere della Sera, esperto di politica estera.

La governante, svizzera o tedesca che fosse, con  la sua erre strascicata, gli cantava, quando era ammalato “ Arturo, tamburo, duro come il muro;;”

Poi Licia Gallo, Paolo Amadio e Marina Berruti, con la sorella Liliana, più grande di qualche anno, figlie del capitano Berruti. Ho saputo che vive a Pescia.

Liliana, attratta, nei suoi sogni adolescenziali, dagli ufficiali di marina. Un tenente di vascello le aveva donato una spilla  riproducente il cacciatorpediniere Turbine. Ne andava orgogliosa.

Fu lei a leggermi alcune pagine di un libro, una novità allora, che parlava delle tragiche vicende di agricoltori americani, cacciati dalle loro terre. Credo si trattasse di “ Furore “ di Steinbeck, uscito da in Italia, nonostante la guerra, per i tipi di Einaudi.

Di una mia compagna in particolare rammento il visino minuto.

Era graziosa. Di nome si chiamava Gabriella. Molto difficile il cognome. Potrebbe  essere Peyrache o Peugrache.

Mio nonno Luigi, durante il primo conflitto mondiale, ha combattuto  in Francia, a Bligny con la Divisione Alpi, riportandone qualche impedimento per aver respirato il gas.

Diceva che le battaglie del fronte italiano erano scaramucce, a paragone  di  quelle di lassù

Qualcosa per la Francia avrà pur fatto. Eppure, i primi a bombardarmi, appena  entrati in  guerra furono proprio i cugini d’Oltralpe.

Purtroppo c’era la guerra. La splendida Tripoli dalle tepide sere venate di vento, coi caffè- concerto (noi frequentavamo quello della Posta dove ascoltavo “Maria la O” e  la “ Paloma” di Iradier, nell’attesa di un bel cono al pistacchio , ma ne ricordo anche un altro, sotto la galleria De Bono, vicino alla Cattedrale).

Tripoli - La galleria De Bono

 

La dolce città dal magnifico lungomare con la Statua della Gazzella, col fascino notturno della Medina, Suk el Mushir particolarmente, dove i “grandi” bisbigliavano che in un locale, incubo delle mogli, le ballerine si esibivano senza veli. Anche la mitica adolescente berbera di cui si diceva si fosse invaghito il nostro governatore?

La dolce città dal magnifico lungomare con la Statua della Gazzella.... ...col fascino notturno della Medina, Suk el Mushir

Già, la Medina,  la storia, l’anima della città, appena passato l’arco di Piazza Castello. La chiesa più antica, la moschea più famosa e l’arco di trionfo romano e il museo e il sacrario dei caduti  ora distrutto. Tutto nel raggio di poche centinaia di metri

Ma il Casinò Uaddan rimane uno degli edifici più eleganti che abbia ammirato.

Tripoli - Piazza Castello con la statua di Settimio Severo Il Cinema Teatro Casinò Uaddan

C’era  il Gran Premio della Mellaha, non mancavano le partite di calcio.

La domenica, dopo la messa solenne in Cattedrale si passava da Dondena, appena aperto, per acquistare le sue delizie culinarie.

Tripoli - La Cattedrale Tripoli . La Chiesa di San Francesco

 

La mia parrocchia in verità, era San Francesco, su alla Dahra,  affrescata dal Funi con episodi della vita del santo, in stile giottesco.

A San Francesco ascoltavano  la Messa i Savoia, forse per non creare questioni di etichetta col governatore. O, forse, per la semplicità  di vita che li contraddistingueva. Lei, Jolanda,  la figlia del sovrano, vestita semplicemente, col velo in capo, pregava in mezzo alle altre donne, lui,  il conte Calvi di Bergolo, in divisa.

 

...Jolanda,  la figlia del sovrano, vestita semplicemente, col velo in capo, pregava in mezzo alle altre donne, lui,  il conte Calvi di Bergolo, in divisa...

 

Non di rado la mattina, andando a scuola in gruppo lo vedevamo scendere dalla Dahra sul suo calessino  sempre al tiro di splendidi cavalli. Si recava in caserma, credo nei pressi di Porta Benito Parrocchiano di San Francesco, ascoltavo messa in Cattedrale, quella del Governatore forse per vanità, forse per la coreografia o perché, in fin dei conti, era un avvenimento. Scendeva in auto scoperta dalla Palazzina alla Cattedrale, scortato dai Carabinieri a cavallo in divisa di gala col cappello a larga tesa e il pennacchio. Lungo la navata centrale era schierato un picchetto che presentava le armi al suo passaggio e al momento dell’elevazione. Qualche volta l’onore toccava ai Balilla e ai Marinaretti.

Con la guerra ogni gaiezza svanì d’un tratto. La notte, regnava l’oscuramento. Chiusi o poco semi-deserti i locali pubblici, Dai negozi erano scomparsi  i prodotti di lusso e gli alimentari, specialmente quelli voluttuari liquori, cioccolato.

Dovunque un greve senso di aspettativa.

Intanto si costruivano i primi rifugi antiaerei - uno, pubblico, anche in Piazza Medaglie d’Oro, al lato opposto a quello dove qualche tempo prima era stato raso al suolo un antico marabutto-.

A scuola ci insegnarono come buttarci a terra in caso di esplosioni, come proteggere i timpani dal fragore delle esplosioni. Strisce di carta adesiva traversavano i vetri delle finestre

Quelle della nuova aula  alla Tommaseo erano rivolte verso il porto per cui durante le incursioni, maggiore era il fragore degli scoppi dell’antiaerea e delle bombe .Una volta fummo sorpresi da un attacco improvviso.

Mentre suonavano, tardivamente le sirene, la maestra ordinò: “.In piedi! In fila per uno, prima le bambine, in rifugio!” E noi obbedimmo ordinati senza correre. Lei veniva per ultima..

Anche la scuola era mutata di molto. La maggioranza degli allievi, specialmente i rampolli dei dirigenti erano già partiti per l’Italia. Altri si erano rifugiati in remoti villaggi agricoli. I fratelli Di Maio, al Villaggio Giordani. Per sfuggire alle incursioni aeree inglesi che, in fondo non erano gran cosa.

Del resto, anche noi in famiglia si presero alcune misure per meglio proteggerci.

In occasione della prima incursione francese, per qualche giorno ci ritirammo ad Ain Zara. Al suolo si trovavano ancora facilmente proiettili del fucile “91”.quelli spuntati a differenza delle pallottole inglesi o tedesche.

Per un certo tempo, la notte trovammo rifugio nei sotterranei dell’Ospedale Coloniale.

Se il fronte era vicino le incursioni erano più frequenti, quasi ogni notte. Quando i nostri respingevano il nemico a maggior distanza, si diradavano,

A partire dal’41, la sera ci trasferivamo a Fonduk el Togar, abbastanza lontano dalla città, insieme alla famiglia Coltelli, romagnoli come noi e al “cavaliere” che viveva qui fin dagli anni del primo conflitto mondiale e parlava l’arabo come un arabo. Io ne imparai qualcosa con la facilità e la rapidità dei bambini...

Di Fonduk el Togar  non ho dimenticato lo spettacolo notturno della contraerea, stelle filanti di morte e scoppi improvvisi. In quei terribili momenti, le orfanelle delle suorine di Corso Sicilia recitavano:

“Santa Maria Maddalena, fa che non suoni la sirena,/che non vengan gli aeroplani,/fammi dormire fino a domani.”

Una notte vedemmo cadere un aereo nemico imprigionato dai  fasci delle fotoelettriche.

Lo sgomento che provocarono in me i lamenti funebri di donne arabe in una zeriba non lontana.

Il calcio di un cammello, gli scorpioni neri che, se accendevamo il lume, si scorgevano lungo le pareti, ma soprattutto la vista di mio padre che, nel vano delle finestra scarica la sua “ Beretta” nel buio, imitato dal Coltelli, ad un’altra finestra. Sostenevano che alcune ombre – c’erano dei cammellieri o beduini accampati vicino – si erano avvicinate alla casa.

Al  Fonduk ho imparato ad apprezzare i tre tè della tradizione, l’ultimo dei quali conla”cacauia”. Anche se li versava, con movimenti sapienti del polso, ora avvicinando, or allontanando la cuccuma dal bicchierino, un anziano  dagli occhi cisposi che di tanto in tanto non sdegnava di sfiorare.

Naturalmente eravamo accosciati all’araba.

Dal 1941 ho cominciato a frequentare la scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Era più vicina alla mia nuova abitazione o forse “ le Tommaseo “ erano state chiuse per mancanza di allievi. Noi “insabbiati” eravamo rimasti davvero pochi in città.

Anni or sono, ricevetti una lettera  gentile con la quale mi si chiedeva di riallacciare i rapporti coi “ Fratelli” ,come ex allievo. Era un periodo turbolento della mia esistenza: non risposi, anche se ben presto  cominciai a pensare di aver perso un’occasione per riagganciare il mio passato.

Risalivo Via Roma ed entravo da un  cancello che dava sul fianco dell’edificio delle Scuole, mentre l’entrata principale era in via Mazzini. Mi trovavo davanti ad una piccola piantagione di banani.

Salivo le scale. Le aule erano al piano superiore. Con me anche mio fratello Ettore in prima classe.

Dai “Freres” ho frequentato la quinta elementare e il primo trimestre della scuola media, sul finire del 1942.

Tripoli - Istituto dei Fratelli Cristiani

L’atmosfera era molto diversa da quella della scuola precedente. La classe era maschile, i miei compagni, provenienti da diverse zone della città o da centri minori, non furono mai anche vicini di casa e soprattutto compagni di giochi

Diversa la   mia collocazione valoriale di nuovo venuto in una classe  da tempo omogenea.

Diverso, almeno all’inizio, il rapporto col docente, lungi  dalla dolcezza protettiva della signora Aquaro, nel quale poi, oltre che il maestro, individuavo il sacerdote, che mi  metteva in soggezione

Quella scuola che molto ha contribuito a formare la mia personalità ha anche lasciato in me un segno.

Non è una massima, non è un precetto . E’ una melodia che porterò con me fino in fondo

Sento suonare la squilla della sera/ che dolcemente invita alla preghiera/ e pace implora al  ciel  per l’alma mia /Ave Maria, Ave Maria.”

Non ho mai cessato di pensare  che riuscimmo a superare i quotidiani disagi ed i frequenti pericoli, in zona d’operazioni, perché la nostra era una famiglia unita.

Ciò, da un lato, mi dava coraggio, dall’altro mi creava improvvisi sgomenti quando il babbo, ormai in divisa, per motivi di servizio o del lavoro al giornale non poteva rimanere con noi la notte.

 Codesto timore  mi apparirà in seguito come un triste presagio. Certo è che il distacco da lui era per me – che non ero né timido né pavido -  lancinante.

 Il numero tre mi terrorizzava, pensando che significava la mancanza di una di noi. E questo immaginavo temevo, potesse riguardare  essenzialmente il babbo, esposto ai rischi della guerra.

Caro babbo, che, quando ancora frequentavo la quinta, mi insegnasti i primi rudimenti della grammatica latina e mi donasti un libro per imparare il Tedesco, venuto allora di gran moda.

Su una bellissima raccolta fotografica di animali feroci, edita da Hoepli c’è la  tua dedica, ma soprattutto una data: Natale 1942 .Meno di un mese  dalla tua scomparsa..

La mattina del 13 gennaio 1943, vennero a prenderti con un camioncino. Caricarono il tuo bagaglio militare. Ti sedesti in cabina, accanto a un soldato.

Guardavi fisso davanti a te. Io ti guardavo a mia volta, agitando le mani nel saluto.

Avrei voluto dirti chissà cosa o non volevo che quello fosse un saluto. Rimasi muto e ne porto il rimorso.

Subito all’inizio delle ostilità, il grande “choc” per la fine immatura del nostro Governatore. Dolore profondo e sentito di noi “nazionali”, ma  specialmente di quegli Ebrei che aveva sempre protetto.

Il Governatore di Libia, Italo Balbo

Anche in tale triste occasione le illazioni e le cattiverie si sprecarono.

Il gaudio per la nostra avanzata al di là della “palificata” e fino a Sidi Barrani durò lo spazio di un mattino

Un nemico meglio attrezzato per la guerra di movimento, di fronte alle nostre elefantisiache divisioni di fanteria , con la rapida avanzata dell’inverno 1940, ci gettò nella disperazione, alimentata fra l’altro dal disfattismo costituzionale di noi Italiani non meno che da settori delle  forze armate contrari al regime e alla sua guerra..

Allora si cominciò ad ascoltare Radio Londra col risultato di confonderci ancora di più con le panzane del nemico in aggiunta a quelle dei nostri bollettini. Accoglievamo amorevolmente i profughi della Cirenaica, i naufraghi.

Intanto contavamo i pezzi d’artiglieria e i mezzi  corazzati che, appena sbarcati, transitavano in città. Erano  pochi, almeno per la nostra aspettativa.

Una mattina percepii un’esplosione tremenda e mi parve perfino di aver visto proiettati in aria  frammenti o oggetti. Al porto erano esplosi il Birmania e il Città di Bari, almeno uno carico di munizioni. Fatalità? Sabotaggio? Azione di incursori nemici? Era il marzo 1941.

1941 - Il porto di Tripoli illuminato dai borbardamenti Porto di Tripoli - La motonave Birmania mentre affonda

 

Di lì a poche settimane il terrificante bombardamento navale. Quando  udimmo le prime esplosioni pensammo a bombe d’aereo  cadute vicinissimo. Ma gli sconsiderati che sfidavano la morte sul tetto-terrazzo dell’ospedale, per godersi la scena dell’incursione, sentenziarono che c’era qualcosa di strano: troppi bengala troppe segnalazioni. Non bombe d’aereo infatti ma granate da 381,che le navi di sua maestà britannica graziosamente ci inviarono.

La mattina seguente la città era stordita, annichilita. Trovavi schegge lunghe un braccio e pesanti qualche chilo. Usciti dai rifugi pensammo di trovarla completamente rasa al suolo. Fortunatamente non era così, ma l’effetto psicologico fu profondo. Quando rividi  il babbo che, quella notte era in servizio, mi parve  un miracolo..

Per rivivere un’esperienza altrettanto sconvolgente bisogna andare ai primi  bombardamenti americani nel ’42.

La prima volta, vidi aerei  lucenti ai raggi del sole, altissimi. Parevano innocui, ma poco dopo si scatenò il putiferio.

Di lassù, dove solo la contraerea della Marina poteva  minacciarli, avevano sganciato il loro carico di morte.

Indiscriminatamente, a differenza degli Inglesi che cercavano l’obbiettivo militare e che, colpito per errore l’ospedale, avevano presentato le scuse.

Sotto le loro bombe, nella serata del 13 gennaio 1943 salperà il sommergibile Narvalo, col suo equipaggio, con alcuni   ufficiali inglesi e americani, prigionieri, sotto la scorta di un ufficiale e di cinque giovanissimi Bersaglieri, con sei ufficiali del Genio, fra cui il babbo, a guardia di casse di documenti del Comando Superiore Genio Africa Settentrionale. Il giorno seguente quasi tutti incontreranno la morte. Sotto le bombe americane, pochi giorni dopo il resto della famiglia, si imbarcherà sulla Nave-Ospedale Toscana, per tornare in Italia verso un duro destino.

...Sotto le loro bombe, nella serata del 13 gennaio 1943 salperà il sommergibile Narvalo, col suo equipaggio...
clicca sulla foto e guarda il filmato

Ricordo tuttavia volentieri l’anno del ’42. Il fronte a cento chilometri da Alessandria, a più di mille dalla nostra città.

Quantità immense di ogni ben di Dio erano state catturate nei magazzini frettolosamente abbandonati dal nemico. Sgranocchiavamo gallette inglesi semi-dolci, si mangiava corned-beef dalla sua scatoletta  a parallelepipedo.

Per Corso Vittorio Emanuele, ufficiali australiani prigionieri, eleganti nei loro lunghi cappotti, passeggiavano scortati da un nostro ufficiale. Mi divertiva vederli salutare il babbo, in divisa, portando di scatto la mano tesa al loro cappellone dalla falda rialzata

Per Via Roma venivano  mostrati alla popolazione i carri Mark 4 catturati.

Avevamo a servizio una giovane ebrea. Un soldato arabo, senza essere un vero e proprio attendente, faceva giornalmente dei servizi per noi.

Lei non comunicava con lui se non  attraverso mia madre: “ Signora, dì ad Alì di comprare il sale.”

Tutto franò d’un tratto. L’oasi affollata di automezzi e soldati; le vie di comunicazione intasate. Vennero a salutarci soldati tedeschi, nostri amici, ora avviliti e timorosi  degli attacchi aerei. Era la ritirata.

Il babbo e la mamma non ci trasmisero mai le loro ansie. Una volta sola li sentii ipotizzare una ritirata in autocarro verso la Tunisia coi Balzani, autotrasportatori romagnoli  che vivevano a Porta Benito.

Invece tutto era stato pianificato. Il babbo, giunto in Italia col sommergibile avrebbe raggiunto la sede assegnatagli, ad Arezzo. Noi, in seguito, ,ci saremmo riuniti a lui..

Quella mattina, insolitamente, verso le dieci la mamma ci condusse fuori di casa. Serrò la porta con due mandate.

Ci avviammo verso i rifugi dell’ospedale, passando  per sentieri traversi, con alla nostra destra la villa dei Karamanli dalle ampie vetrate.

Rimanemmo nel rifugio  fino a quando qualcuno ci condusse al molo. Era ormai buio quando uscimmo dal porto.

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Ilario Mantellini.Via Giovanni Bianchi,6. 47121 Forlì   Tel. 054361286     ilario4mantellini@gmail.com



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