ITALIANI BRAVA GENTE,

prima cacciati dalla Libia,

oggi profughi in patria.

di Massimo Manfregola  -  set 03, 2015


 

1970, profughi italiani di Libia sbarcano a Napoli. 

ROMA – I racconti e le memorie di Daniele Lembo sui profughi italiani in Libia, documentano un rapporto con il nord Africa che negli ultimi cento anni può considerarsi strettissimo. Prendo spunto proprio da un articolo che ha pubblicato Lembo sul suo sito web, il saggista e profondo conoscitore della storia del Novecento, nel quale rispolvera quelle che sono le vicende che hanno interessato quelle famiglie di origine italiana che si erano stabilite in Libia dopo la conquista dell’Impero Ottomano da parte dell’Italia contro i turchi nel lontano 1911 e successivamente con l’immigrazione colonica programmata del 1937.

Italo Balbo, designato governatore della Libia da Mussolini, visita i coloni italiani a Tripoli


Se è vero che le radici del passato ci inducono a comprendere meglio quelle che sono le necessità dalle quali filtrare le possibili soluzioni per il futuro, allora è bene che questi spunti e questi ricordi (anche drammatici per numerosi italiani dell’epoca) siano nuovamente un motivo di discussione, soprattutto in un momento in cui il flusso migratorio indiscriminato dai paesi africani come la Libia verso l’Italia riaccende un dibattito particolarmente critico sul monitoraggio e sulla difesa dei confini nazionali.

Il rapporto fra Italia e Libia è stato tanto stretto quanto conflittuale. Ma la rimozione collettiva della verità storica non può essere esente da conseguenze sulla consapevolezza dell’italiano medio, allergico ai libri di storia. La durata del Ventennio fascista, l’era coloniale, con la conquista della Tripolitania e della Cirenaica avvenuta il 4 ottobre 1911, aveva aperto nuovi scenari geopolitici, che hanno condizionato la storia italiana e di quei popoli africani che hanno condiviso una intesa strategica e solidale per lo sviluppo della prosperità e dello sviluppo economico del Paese. La loro terra coltivata dagli italiani, asfaltata dalle ditte italiane, arricchita dal lavoro degli italiani che con il loro ingegno ed i loro sacrifici avevano permesso ad un gruppo di tribù, schiave sotto gli Ottomani, di diventare un popolo e vivere da persone libere.


Il velivolo Farman, impiegato in Libia nel 1911 come bombardiere



Esiste dunque un legame con la Libia che nel Dopoguerra si interrompe prima con il Trattato di Pace del 1947 (nel quale fu imposto all’Italia di rinunciare alle colonie) e successivamente nel 1969 quando il dittatore Gheddafi operò una politica di “epurazione”, costringendo molti italiani divenuti ufficialmente cittadini libici (dopo che gli stessi avevano costruito strade, ospedali, porti, strutture alberghiere e ricettive, restaurato antichi siti di interesse storico, strappando al deserto la terra necessaria per colture di ogni tipo) a fare le valigie per tornare in Italia come profughi, con la sola concessione al seguito di qualche baule di cartone con dentro vestiti ed effetti personali. Provenivano dalla Sicilia e dal Veneto, oltre che dalla Calabria, la maggior parte dei coloni che riuscirono a rendere produttive le immense distese desertiche africane con dedizione e sacrificio e in condizioni climatiche spaventose.

Mu’ammar Gheddafi, dopo il golp del 1969. Insoddisfatto del governo guidato dal re Idris I, giudicato da Gheddafi e da altri ufficiali troppo servile nei confronti di Stati Uniti e Francia, il 26 agosto 1969 si pone alla guida del colpo di Stato organizzato contro il sovrano



Nel 1970, dopo la rivoluzione libica e la proclamazione della Repubblica popolare sociale della Libiaoltre ventimila italiani residenti in Libia furono espulsi dal paese africano, e venne loro confiscato ogni bene, in piena violazione con il trattato italo-libico del 1965, nato sulla base della risoluzione dell’Onu del 1950 che poneva precise condizioni sul rispetto dei diritti e degli interessi delle minoranze residenti in Libia. I primi furono gli americani, per lo più militari, che a Tripoli vivevano nella base aerea di Wheelus Field.

 

Due immagini della base area americana alla Mellaha, periferia di Tripoli, chiamata Wheelus Field

 

Almeno loro, a differenza della nutrita comunità italiana che fu lasciata isolata, poterono contare su organizzati ponti aerei, controllati da apposite portaerei americane, ancorate appena fuori dalle acque territoriali, per offrire supporto e sicurezza logistica ai loro connazionali.

A differenza di quanto accade oggi, tutti gli italiani che si imbarcarono da Tripoli destinati a fare ritorno in Patria, furono bloccati dalle autorità militari italiane sulla nave «Sicilia» al largo del Golfo di Napoli, le quali, prima di autorizzare lo sbarco, fecero lunghi ed estenuanti controlli sanitari e amministrativi ai nostri connazionali (già umiliati dall’avvenuta espulsione), secondo un “protocollo di accoglienza” molto diverso rispetto a quello che viene eseguito con estrema disinvoltura nei confronti di profughi e clandestini che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste. Il primo abbraccio ai profughi di casa nostra, lo regalò la generosa cittadinanza napoletana, con un caloroso applauso che accompagnò l’attracco della nave in porto.

Coltivazioni dei coloni italiani in Libia, strappate alla sabbia del deserto

 

Allora il Governo italiano stimò in 200 miliardi di lire il solo valore immobiliare, che superava i 400 milioni di lire se alla prima stima si aggiungeva anche quella relativa ai depositi bancari e alle attività imprenditoriali ed artigianali con relativo avviamento. Attualizzati ad una stima fatta nel 2006, l’esproprio ai danni dei profughi italiani si aggirava a circa 3 miliardi di euro.

Già in quella occasione lo Stato italiano si mostrò più una matrigna che una madre affettuosa nei confronti dei suoi stessi figli ai quali il colonnello Gheddafi confiscò tutto quello che avevano, negando loro persino il diritto di profughi.

 

1970, la nave «Sicilia» con i profughi italiani pronti a sbarcare nel porto di Napoli, mentre la popolazione locale li festeggia

 

Mai vi è stato un provvedimento ad hoc che prevedesse l’adeguato risarcimento per la confisca del 1970. Inoltre gli aventi diritto hanno beneficiato solo delle provvidenze previste dalle leggi di indennizzo a favore di tutti i cittadini italiani che hanno perso beni all’estero.

L’appropriazione di ogni bene dei cittadini di origine italiana del 1970 è stata giustificata da Gheddafi (allora capo della Libia) come parziale ristoro dei danni derivanti dalla colonizzazione, una sorta di acconto sul preteso saldo che oggi riesce ad ottenere, anche se la distinzione da parte del leader libico fra beni confiscati e le responsabilità delle vittime della stessa è sempre stata netta.

 

Napoli 1970, i profughi italiani molto provati dopo il lungo viaggio e le lunghe attese prima dello sbarco nella città partenopea

Tripoli 1991, Stretta di mano fra Andreotti e Gheddafi dopo la firma su un’intesa sulle armi chimiche

 

Il Governo italiano da parte sua non ha mai preteso dai libici il rispetto del Trattato violato ricorrendo alla prevista clausola arbitrale (art. 9) né hai mai posto sul tappeto il valore di quei beni “restituiti” al popolo libico se non altro per diminuire le pretese del Colonnello. Nell’accordo Dini-Mountasser del luglio 1998 che doveva chiudere tutto il contenzioso non si fa minimamente cenno al valore dei beni confiscati agli italiani.

 

2004, Gheddafi e Romano Prodi, presidente della Commissione europea

 

Paradossalmente risulta dunque assai miope la visione dello Stato italiano rispetto al suo stesso passato, dal quale sembrerebbe voler prendere le distanze, rispetto alle vicende che hanno caratterizzato la politica italiana a partire dall’era Giolitti fino al lancio intimidatorio (contro la base statunitense del centro Loran) dei due missili Scud lanciati nel 1986 dal colonnello Gheddafi sulle coste di Lampedusa.

 

 

Roma 2009, Berlusconi e Gheddafi. Quella di Roma fu l’ultima visita in Italia del Colonello libico

 

Una signora italiana, vissuta per molti anni a Tripoli fino al 21 luglio del 1970, giorno in cui la radio locale comunicò l’elenco completo degli italiani che dovevano lasciare la Libia, sostiene che Il petrolio nascosto sotto le sabbie del Sahara ha portato alle popolazioni africane la ricchezza ma non la voglia di civiltà e di progresso.

Oggi molti italiani avvertono la stessa percezione che avevano i nostri profughi che provenivano dalla Libia e dalla Tunisia, ossia, quella di una mancanza di protezione nel loro stesso paese d’origine. Le politiche antitetiche rispetto agli interessi della nazione e sempre più convergenti nei riguardi di una oligarchia sempre più stringente di politici e affaristi moderni e dei banchieri europei e americani, rischia di spezzare il precario equilibrio sociale che ancora oggi sopravvive al cospetto delle più grandi contraddizioni fra nord e sud del Paese. Gli ultimi governi hanno finito per accelerare questa percezione di insicurezza che rischia di compromettere definitivamente ogni speranza di rinascita.

La cultura e il genio italiano, che nei secoli ha contribuito a delineare gli scenari del mondo moderno, è come se avessero perso le loro difese immunitarie, trasformando l’immagine di un paese che un tempo incarnava la bellezza e la salute, in un volto dai tratti appesantiti, ormai spento e stanco.

 

Tre personaggi famosi nati tutti a Tripoli, e figli di emigrati in Libia, prima dell’obbligo di rimpatrio di Gheddafi nel 1970. Da sinistra l’attrice Rossana Podestà, Franco Califano e il calciatore Claudio Gentile, campione del mondo 1982



 

La Libia ai tempi del colonialismo

Dati sulla popolazione  – Il censimento del 21 aprile 1936 aveva dato per la Libia 839.524 ab. (di cui 772.999 tra Musulmani e Israeliti, 66.525 regnicoli e stranieri). Al 30 giugno 1939 si avevano circa 918.000 ab. (di cui 770.000 Musulmani, 30.000 Israeliti e 118.000 regnicoli e stranieri). Vi era stato un forte aumento di Italiani per l’immigrazione soprattutto agricola nei comprensorî di colonizzazione; ma anche la popolazione libica aveva avuto un notevole incremento per le migliorate condizioni generali e sanitarie del periodo di pace.

L’avvaloramento agrario – Dal 1937 ha inizio, nella politica italiana di avvaloramento agrario della Libia, la fase della colonizzazione contadina ufficiale dell’Ente della colonizzazione per la Libia per conto dello stato (il cosiddetto piano dei ventimila, dal numero dei coloni che dovevano essere annualmente avviati in Libia): ma il piano era appena all’inizio dell’esecuzione quando fu interrotto dalla guerra. In un censimento effettuato nel 1938 nelle quattro provincie libiche risultavano in funzione 840 aziende agricole su una superficie coltivata di 187.749 ettari.

L’opera di avvaloramento continuò negli anni 1939-40, superando, tra imprese private e colonizzazione ufficiale, i 200.000 ettari. Nella Cirenaica erano sorti dieci villaggi, oltre varie concessioni e aziende private, con 2755 famiglie (oltre 10.000 componenti). Sette villaggi costruiti in Tripolitania dall’Ente di colonizzazione della Tripolitania presso Misurata, Azizia e Tarhuna e altri nove costruiti per opera dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, senza contare le concessioni private e quelle dell’Azienda tabacchi italiana al Garian accoglievano 3960 famiglie con 23.919 componenti.

Le provvidenze stabilite per i metropolitani furono estese nel 1937 anche ai libici. Negli anni 1939-40 furono inaugurati in Cirenaica i villaggi musulmani di Zahra (Fiorita), el-Fager (L’Alba), Chadra (verde), Nahida (Risorta), Gedida (Nuova), Mansura (Vittoriosa); in Tripolitania furono inaugurati i villaggi di: Maamura e Naima.

La produzione del grano nei soli villaggi dell’Ente della colonizzazione in Cirenaica toccò nel 1937-38 un massimo di 94 mila quintali su 10 mila ettari di seminato. Alla stessa epoca in Cirenaica risultavano messi a dimora 197 mila olivi, 209 mila mandorli, 3.278.000 viti; 177 mila piante fruttifere varie e 97 mila piante forestali. In Tripolitania fino al 1940 erano stati piantati quasi 2 milioni di olivi, 1 milione e mezzo di mandorli, oltre mezzo milione di piante da frutto varie e trenta milioni di viti, considerate come coltura transitoria di primo rendimento. L’entità di queste cifre, che rappresentano lo sforzo di avvaloramento agrario del 1929-40, deve esser valutata considerando il fatto che esse corrispondono a quattro-cinque volte il numero degli olivi e alberi da frutta posseduti dalla Libia nel 1911. Una fitta rete stradale alberata, boschi, piante frangivento avevano trasformato vaste contrade già abbandonate alla saltuaria coltura dei nomadi.

Massimo Manfregola