Carmelo
R. VIOLA
»La
mia guerra»
(Tracce di Ricordi degli anni
1940-49)
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(Contiene in allegato “Una
polemica scolastica nella
Tripoli del 1948”)
Quaderno N.
13
Acireale-CT, agosto 1998
A
Pinuzza,
la
“sorellina” di
cui parlo
Quando
si entra nella terza età si ha una
grande nostalgia della prima. Forse
perché si vorrebbe ricominciare. Le
immagini di un tempo ti scompaiono
intorno ad una ad una come
inghiottite da nebbie e ti ritrovi
sempre più solo. Ma nuove immagini
sorgono e svettano: sono quelle dei
figli, dei nipoti, dei giovani che
t’ispirano fiducia, altri “te
stesso” che vivono oggi ciò che tu
hai vissuto alcuni decenni addietro.
Il nuovo occupa il vuoto lasciato
dal vecchio e ciò vuol dire che la
vita continua, e la vita vale sempre
più della pena di viverla. In queste
parole non c’è alcuna fede se non
quella che tutti dovrebbero avere
come una fiaccola che illumina le
tenebre dell’ignoto. Quando finisci
per bruciarti le mani, non ti rimane
che passarla ai nuovi arrivati in
cui ciascuno di noi, trasfigurato,
continuerà a vivere, con la stessa
fede, alimentata dal ricordo di noi.
Io
cessai di essere un bambino quando
scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e
contemporaneamente cominciò a
dissolversi quell’alone di
favolosità che avvolge la
fanciullezza nell’alveo di una
comunità affettiva. Per questo parlo
della “mia guerra”, da cui non sono
uscito né vinto né vincitore ma di
cui sono e resto un “resistente”:
altrimenti non sarei qui a parlarne.
Le
pagine che seguono contengono solo
delle tracce di ricordi che sono
andato scovando nella mia memoria e
annotando su fogli buttati via via
nel mucchio magmatico delle mie
carte, da cui rischio di essere
sommerso. Ora le riscopro, le
rielaboro e le offro alla lettura di
chi sa che la testimonianza della
vita vissuta supera sempre qualsiasi
finzione romanzesca.
Ho
sempre sognato di portare a termine
un’autobiografia ragionata - la
descrizione del mio “problema di
essere” - non per immortalare i
miei giorni, chissà quanto simili a
chissà quanti altri, benché ci sia
sempre, almeno per chi si racconta,
l’originale e l’irripetibile, ma per
continuare il mio discorso, sulla
ragione e il valore della vita,
anche attraverso un’autoanalisi,
possibilmente senza riserve.
Non
dispero di farcela. Queste pagine
potrebbero essere una vaga
anticipazione.
Acireale, 13 agosto del 1998
Carmelo R. Viola
*******************
La mia guerra
Inizio
Io
non sono mai stato militare e non
conosco le zone di guerra se non
attraverso le immagini dei mass
media - soprattutto della
televisione. Allo scoppio della
Seconda Guerra Mondiale ero
ancora solo un bambino. Né ho dovuto
sottostare al servizio di leva
perché i giovani del ‘28, residenti
a Tripoli, bersaglio
incessante dei bombardieri, prima
anglo-americani e poi nazisti, ne
vennero esentati. Ma non l’avrei
fatto comunque perché, quando mi
presentai alla visita di rito - con
ben cinque anni di innocente
ritardo, convinto di essere
esonerato anche da questa - ero
seriamente ammalato e venni
riformato per deficienza toracica.
L’accusa di renitenza - per altro
non disonorevole per un
antimilitarista - venne sciolta,
tuttavia, “in via amministrativa”
per l’attendibilità delle mie
giustificazioni e l’evidenza delle
mie cattive condizioni fisiche.
Ma
la guerra è come se l’avessi fatta
davvero: gli anni, che vanno dal ‘40
al ‘49, sono stati per me un
condensato di esperienza e di
sofferenza, che in genere non si
accumula in novant’anni di
“ordinaria esistenza”. E uno dei
fattori di quel “condensato” era
proprio il conflitto mondiale,
dapprima avvertito come una
parentesi eccezionale e man mano
percepito come sintomatologia di
un’umanità immatura che alla
naturale barbarie delle origini
aggiunge via via la tecnologia,
scientifica, del terrore.
Altro
fattore era una “guerra” tutta
privata, personale, intima e
silenziosa, fatta di conflittualità
affettive, di patemi d’animo, di
lagrime e di lacerazioni interne
delle quali ero spettatore e
vittima.
Sono
otto anni durante i quali scopro il
mondo attraverso la scoperta di me
stesso. Crescere (“adolescere”)
significa proprio questo. Io crebbi
in fretta seppellendo le illusioni
della fanciullezza ma
sostituèndovene delle altre senza
delle quali non sarei sopravvissuto.
La
“mia guerra” è soltanto un
accenno dello “scontro” con la
realtà vera, scontro con cui ho
dovuto fare i conti appena uscito,
traumaticamente - come spinto fuori
da occulti poteri malefici - dal
mitico baliatico materno:
l’iniziazione a un conflitto con
l’uomo e per l’uomo, che combatto
ancora, ormai da quasi sessant’anni,
confortato dalla crescente
convinzione che il mio simile, in
fondo, non è né bestia né angelo, ma
solo ciò che diventa, ciò che le
condizioni economiche e le vicende
esistenziali e storiche lo fanno
diventare.
*****************************
La “mia
guerra” ebbe inizio il giorno in
cui Mussolini dichiarò la sua
agli Alleati a fianco del
mostro nazista, cioè il 10 giugno
del 1940, con la differenza - direi
notevole - che io, contrariamente al
capo del fascismo, la dovetti
subire. La prima sensazione fu
quella di un bambino - quale io ero
ancora in realtà - che, in procinto
di raggiungere la propria madre
all’altro capo di un ponte, vede
crollare questo sotto i proprî
occhi. Questo voleva dirmi il lungo
e tempestoso scampanio della
chiesetta di Cosentini,
minuscola contrada rurale etnea,
dove mi trovavo, ospite dei nonni
materni, in attesa di ricongiungermi
ai miei genitori, appena emigrati a
Tripoli, dove anch’io,
burocraticamente, avevo già la mia
residenza anagrafica. Quello
scampanio mi sapeva di frastuono di
festa paesana ma copriva il suono
sinistro di un gong, che mi
annunciava l’inizio delle ostilità
dell’Italia e, per intanto,
l’impossibilità di ritrovarmi
insieme alla mia famiglia naturale e
a Pinuzza, la mia sorellina,
sei anni più giovane di me.
Mia
madre aveva seguìto mio padre
(emigrato nel 1939) affidandomi ad
un mio zio paterno di Acireale,
perché potessi (così mi si disse)
portare a termine il primo anno del
ginnasio dell’epoca. La mia prima
reazione, covata inconsciamente, fu
disastrosa. Senza sapere perché, fui
preso dal panico con tutti i sintomi
clinici del caso, che si
manifestavano appena mettevo piedi a
scuola: le dita mi si striavano di
bluastro (segno clinico di turbe
della circolazione), mi sentivo
inspiegabilmente angosciato, avevo
la mente annebbiata, accusavo conati
di vomito e sudavo freddo, finché,
preso da un’improvvisa impellente
urgenza intestinale, chiedevo ed
ottenevo il permesso di correre a
casa, non senza essere tacciato di
simulazione. Infatti, appena
“svincolatomi”, la mia crisi cessava
come per incanto. Mi si
rimproverava, con garbo, di mentire
per non andare a scuola - che io
amavo. Poi mi ripresi senza alcun
intervento medico e potei
raggiungere, con discreti risultati,
il traguardo. Avevo vinto una
battaglia ma mi aspettava il peggio.
Alla
prima visita del nonno materno, lo
volli seguire, percorrendo a piedi e
in salita, i sei chilometri di
distanza. Il padre di mia madre, già
settantenne, lo faceva con
naturalezza, anche col carico delle
bisacce. Allora il mezzo di
locomozione era un lusso. Durante la
lunga camminata mi trasfondeva tutta
la cultura orale di chi conosce
storia e poesia senza sapere né
leggere né scrivere. I miei nonni
erano contadini, piccoli
proprietari. Oggi si direbbero
“coltivatori diretti”. Vivevano in
una e di una semplicità biblica
traendo dalle loro fatiche il
necessario per stare bene ed essere
primitivamente felici, meno la
farina e parte del mangime degli
animali. La loro giornata lavorativa
non era inferiore alle quattordici
ore ma non accusavano stanchezza né
affezioni di sorta né conoscevano
medici.
Quando
io percepì i rintocchi disordinati
delle campane mi stavo trastullando
gioiosamente accanto a mio nonno,
intento nelle sue consuete
occupazioni. Ero solito seguirlo
come un segugio mansueto e
scodinzolante. Lui era la mia
“università” e il più grande affetto
rassicurante del momento. Fu lui a
tradurmi il segnale acustico in
“notizia”, con una gioia amara, di
cui non mi resi conto sùbito.
Infatti, voleva dire che egli
avrebbe potuto tenermi ancora con sé
ma anche che il mio rientro in
famiglia sarebbe dipeso dalla fine e
dall’esito della guerra. D’altro
canto, io ero il suo unico nipote,
il suo più grande conforto, pari o
maggiore di quello della sua unica
figlia, mia madre.
Tuttavia,
quell’estate fui felice come un
fauno e certo non lo sarò mai più
come allora. C’erano tutti
gl’ingredienti per la percezione
edenica dell’esistenza: la prima
pubertà, gli affetti dei nonni, la
campagna , il miraggio messianico di
un cambiamento che mi avrebbe visto
giovane e riuscito in una terra
lontana assieme ai genitori e
soprattutto alla piccola Pinuzza,
che mi mancava come l’altra metà di
me stesso. Quella terra divenne per
me un vero “paradiso terrestre”:
imparai ad amare la natura nelle sue
manifestazioni più minuscole ed
elementari, con una partecipazione
quasi mistica e in una solitudine
quasi totale. Ma non mi sentivo
solo: avevo me stesso, i miei
pensieri, e la sensazione di
respirare all’unìsono con
l’universo, che ammiravo perfino in
una formica o in un filo d’erba.
Alternavo lunghe meditazioni a
peregrinazioni senza mèta. Talvolta
mi abbandonavo alla frenesia del
canto. Tanto non mi sentiva nessuno.
Mi divertivo a correre con un
cagnetto, “Giummareddu”
(gomitolino), costretto alla
catena perché nocivo all’orto,
mentre un gattino veniva a trovarmi
puntualmente a letto tutte le
mattine. Coltivavo fiori e piante
di legumi; mi battevo contro il
vento e non temevo la pioggia. Avevo
portato con me un libro di latino,
che amavo ripassare per non
dimenticare.
Annotavo
delle riflessioni sotto la dizione
“lontano dal prossimo”,
convinto che questo significasse
“più vicino per radici”, quindi
“genitori”. Cacciavo lucertole con
il nodo scorsoio e passerotti e
pettirossi con le trappole (ma solo
per poco perché me ne pentirò
presto) e acchiappavo i grilli con
le mani. Il vero giorno festivo non
era la domenica, ma il giorno in cui
mia nonna, con un supplemento di
fatica, faceva il pane e la
focaccia. Mangiavo uva e fichi a
sazietà senza pensare alla funzione
preventiva dell’acqua. Quella,
piovana, che bevevo, l’attingevo da
una cisterna minima infestata da
strani insetti neri, che restavano,
guizzanti, sulla pezzuola di lino
usata per filtrarla. Quando stava
per prosciugarsi, io stesso, con
l’aiuto di una cuginetta della
vicina Linera, alimentavo la
cisterna con l’acqua di un’altra,
più fonda, ubicata in un fondo dei
cosiddetti “Caddiddi” (Cardilli),
quasi attiguo, che i miei nonni
avevano l’incarico di custodire. Mia
nonna era bravissima nello scovare
ogni sorta di verdure mangerecce ,
di cui conosceva i più strani nomi
dialettali. Seguivo spesso anche lei
che, con il pretesto di “darci un
occhio”, era autorizzata a battere
la terra circostante per molte
centinaia di metri. Una volta scoprì
dei funghi, li sottopose alla prova
empirica dell’anello per la
commestibilità e li preparò in
padella. Mi chiedo come abbia fatto
a privarli di quell’odore
caratteristico che oggi trovo
nauseante..
Ebbi
anche l’occasione di conoscere una
bella villeggiante catanese più
grande di me di quasi quattro anni.
Aveva capelli lunghi e la minigonna
dell’epoca. Ero orgoglioso perché
riservava la sua attenzione solo a
me nonostante la gioventù del paese
non avesse occhi che per lei. Ciò mi
faceva sentire più grande dei miei
undici anni, specie quando accettava
il mio braccio. Quando rientrò a
casa, la salutai con il primo bacio,
innocente, e una tristezza che non
mi conoscevo.
Nel
tardo autunno mio nonno mi
riaccompagnò dagli zii. La guerra
già infuriava. In città si parlava
di allarmi, di bombardamenti e di
altro estraneo alla mia esperienza
fatta del sole sorgente sullo
Jonio, che osservavo
direttamente mentre saltavo dal
letto pregustando il piacere dei
fichidindia, di canicole soporifere
che mi davano un’ebbrezza irreale,
di notti nere rese magiche dal
misterioso “rumore del silenzio” e
dal frinire ritmico delle cicale.
Una sera andammo in visita dalla zia
Angelina, sorella di mio
padre, la quale abitava una strana
casa a torretta. Una scaletta ripida
portava a più piani, ciascuno
costituito da un solo piccolo vano,
e sbucava su un’angusta terrazzina.
Mentre si parlava del più e del
meno, fummo sorpresi da detonazioni
simili ai botti delle feste paesane.
Gli adulti vollero raggiungere la
cima per curiosare. Io avevo la
sensazione di salire in cielo. Qui
potei ammirare un’insolita luminaria
di fuoco sul cielo della vicina
Catania. Vidi enormi “stelle
filanti” e delle sfere luminose
sospese per aria. La mia curiosità
morbosa si tramutò in crescente
apprensione. Cominciai a tremare
letteralmente come una foglia e mi
chiedevo cosa sarebbe successo se
quell’inferno si fosse spostato fin
sulle nostre teste. Ma ciò non
avvenne ed io riuscì a nascondere la
mia prima emozione “di guerra”.
Ma
fu proprio tale circostanza che ci
convinse (me soprattutto)
dell’opportunità di rientrare in
campagna (ritenuta zona fuori
pericolo). Così feci, con grande
sollievo mio, che mi sentivo al
sicuro da quanto avevo visto da
lontano, e altrettanta gioia - oh
quanto comprensibile! - dei miei
nonni, allietati da una compagnia
preziosa e insperata. Nel frattempo
avevo ricevuto una lettera di
Pippa, la ragazza di cui dicevo,
che mi descriveva la sua esperienza
in fatto di incursioni aeree e
chiudeva con tre paroline molto
promettenti ed elettrizzanti:
baci baci baci. Ma quei baci non
li avrò mai.
L’estate
precedente, del ‘39, mio padre,
rientrato da un primo felice
esperimento di lavoro a Tripoli,
aveva voluto coronare i suoi
sacrifici concedendosi una vacanza
balneare. A tal fine affittò una
stanza in famiglia nella frazione
marinara di S. Tecla, a pochi
chilometri da Acireale. Fino
a quel momento aveva sofferto tutta
la “fame nazionale” del regime. Non
mi ci volle molto per attaccarmi
pateticamente alla figlia dei
padroni di casa, una certa Tina,
quasi ventenne e abbastanza
belloccia. Al momento del commiato,
mi sciolsi in lagrime come una
fontana. Oggi mi rivedo nel bambino
che Modugno raffigura nella
versione scenica della sua bella
canzone “Piove”. Ero
inconsolabile perché, pur
allontanandomi solo di qualche
migliaio di metri, sentivo che non
avrei rivista, almeno chissà per
quanti anni, quella donna che avevo
espresso, sentite, il proposito di
“sposare” ignaro del significato
della parola. Ora, dopo quasi un
anno, che per un bambino ha il
sapore dell’eternità, me ne venne
una nostalgia imperiosa, e volli
inviarle un messaggio epistolare
ricevendone una risposta che tanto
m’inorgogliva quanto più sapevo
trattarsi di un mio segreto. Non era
amore il mio ma il bisogno quasi
mistico di ritrovarmi in un affetto
totale e protettivo, forse materno,
e non me ne davo, certamente, una
spiegazione.
In
casa degli zii c’era Razziedda,
mia cuginetta, mia coetanea, mia
inseparabile compagna di giochi e di
liti. Per ragioni di famiglia
c’eravamo conosciuti solo a sette
anni ma avevamo simpatizzato sùbito
e ci volevamo bene, senza saperlo,
di un bene che ci porterà ad unirci
per tutta la vita. Tuttavia, questo
non bastò a trattenermi benché in
campagna non avessi proprio nessuno
che valesse più di lei. Il ritorno
mi permise, in compenso, di
aggiungere all’esperienza delle
gioie estive della vita campestre
quella delle gioie invernali. A
quell’età per uno come me anche un
temporale, con lampi, tuoni e vento,
è una meraviglia e uno spettacolo da
non perdere, da godere e meditare.
Le frasche secche, la terra bagnata
e lo scroscio della pioggia che
avanza, ogni cosa aveva un odore che
m’inebbriava, quasi un potere
afrodisiaco, il sapore di un piacere
selvaggio, che la civiltà della
tecnica e del cemento ha distrutto.
Il canto, arabo, del carrettiere che
percorreva , sonnecchiante e stanco,
la Via Fossa Gelata,
lasciandosi riportare a casa da un
cavallo esperto e paziente, nel
silenzio di una campagna solitaria,
o il borbottio dell’Etna, alto fino
al cielo, tutto era una rapsodia di
sensazioni e di emozioni che nessun
melodramma può riprodurre.
La
recita del rosario - unica pratica
religiosa di quella casa - mia nonna
la intercalava petulantemente , ma
con disarmante candore , di tutto il
promemoria delle cose fatte o da
fare, come si vede nelle più
divertenti commedie siciliane “alla
Martoglio”. Era la celebrazione di
un rito propiziatorio, durante il
quale io mi divertivo davvero,
aggiungendo frizzi grossolani,
sopportato amorevolmente dagli
“officianti”. Ma io amavo i miei
nonni al punto che avrei digiunato
per loro se fosse stato necessario.
Più volte, recandomi al centro di
Cosentini per delle commissioni,
sapevo a chi vendere delle uova
sottratte al pollaio della nonna ma
solo per conservarne il ricavato.
Non avendo nulla di mio, potevo solo
risparmiare sulla loro...
ricchezza. Così riuscì a
raccogliere circa cinquanta lire,
una discreta sommetta, che darò loro
al momento della mia partenza.
Un
mattino, percorrendo il solito
stretto viottolo sopraelevato,
scivolai giù lungo un lato dello
stesso lacerandomi letteralmente
tutto il fianco sinistro contro le
punte aguzze del muro a secco,
scomparendo, in un baleno, alla
vista di mia nonna che mi seguiva e
che mi vide risalire immediatamente
grondante sangue. Si prodigò a
fasciarmi le ferite, dopo averle
irrorate di succo di limone. Non si
fece altro e la guarigione mi lasciò
solo delle lunghe cicatrici. La
“notizia”, che non mancai di
trasmettere ai miei genitori, forse
con tono poco rassicurante,
esprimeva anche lo stato d’animo di
un figlio che cominciava a sentire,
nonostante tutto, la mancanza della
propria famiglia. E spronò mia
madre ad accentuare le sue pressioni
presso le autorità per ottenere il
permesso speciale di venirmi a
prelevare nonostante lo stato di
guerra. E di lì a poco ci riuscì. La
mia gioia fu quella della
liberazione da una specie di “esilio
in patria”, anche se cullato da
quegli affetti, profondi e sinceri,
che solo i nonni sanno dare, ma fu
mutilata dall’incauta fretta di mia
madre - forse troppo giovane per
rendersene conto - di comunicarmi
che fra lei e mio padre esisteva un
conflitto ormai insanabile. Un
altro fronte della “mia guerra” era
così aperto.
******************
Finalmente
la partenza. Da Cosentini ci
recammo ad Acireale,
ovviamente a piedi. Mio nonno li
percorreva con disinvoltura quei sei
chilometri più sei per il ritorno,
di salita, quando, settimanalmente,
andava a comprare la farina per il
pane. Da Acireale per
Catania prendemmo la corriera.
Da qui ci avviammo in treno verso
Marsala. Mi sentivo proiettato
nell’universo. Nel trapanese
aspettammo per quattro lunghi
interminabili giorni. Nonostante il
timore di mia madre di restare anche
lei bloccata in patria per
l’incalzare degli eventi bellici, fu
per me un soggiorno pieno di
meraviglie: lo ricordo come
l’anticamera di una fuga verso
l’ignoto. L’11 aprile del ‘41 un
fuoribordo ci portò a un
idrovolante. Il dolce ondeggiare del
mare e la presenza fisica di mia
madre mi cullava di una gioia
infantile mai più provata. Come
potevo credere che la mia “radice”
materna si sarebbe potuta staccare
da quella paterna? Le sciare etnee
erano già un ricordo lontano e la
vista dell’orizzonte stimolava la
mia fantasia. Conquistavo una
scoperta dopo l’altra, ignaro di
quanto quell’evento fosse un reale
gioco a rimpiattino con la morte.
Forse
i miei nonni, ripiombati in una
solitudine omerica, notavano per la
prima volta l’immenso vuoto della
loro piccola casa rusticana, e forse
piangevano dentro ripetendo le
solite fatiche del loro quotidiano.
Risentivo il voto espresso da lei,
dalla nonna voglio dire,
rimpicciolita dagli anni e dal
lavoro, poco prima del saluto: che
potesse vivere ancora altri dieci
anni. Un’eternità per un nipote che
di anni ne aveva appena dodici, una
breve appendice per chi ne ha
settanta e una voglia giovanile di
vivere. Ma io ero troppo distratto
dalla mia avventura per pensare
seriamente ad altro.
L’aereo
era civile e senza scorta. Ma di
civili c’eravamo solo mia madre ed
io. Tutti gli altri passeggeri erano
ufficiali, per giunta in divisa, con
i quali poco prima avevamo consumato
un pasto presso la mensa degli
ufficiali. Capirò poi che a noi due,
per consentirci un viaggio
ufficialmente vietato, ci era stato
permesso di mescolarci con i
militari, che, a loro volta, senza
camuffare la loro condizione, si
servivano di un mezzo civile. Una
logica sui generis. Occupammo la
prima coppia di posti dell’ala
sinistra. Il rumore dei due motori
diventò assordante. Ad ogni “vuoto
d’aria” qualcuno dietro di noi
vomitava dentro un apposito
contenitore. Mia madre ed io non
accusammo alcun malessere.
Incontrammo fitti banchi di nebbia,
a causa dei quali si corse il
rischio di urtare , si diceva,
contro le punte alte di Pantelleria
con le conseguenze immaginabili. Il
sogno diventò meno inebriante quando
sentì dire che sotto di noi navigava
una flotta militare britannica: io
contai sette unità, alcune delle
quali, certo dei sommergibili,
andavano scomparendo sotto la
superficie dell’acqua. Serpeggiò un
brivido di apprensione fino a
raggiungere il mio intimo: le divise
militari erano ben “avvistabili” e
un solo colpo di mitra avrebbe
potuto raggiungere l’aereo e
consegnarci ai pesci. Volavamo a
bassa quota. Probabilmente il
“nemico” finse di credere nella
simulazione o volle rispettare un
velivolo inerme. La carena del
motore della mia sinistra grondava
abbondantemente non so se olio o
carburante e mi chiedevo se non
fosse in avaria. Mi aspettavo
rassicurazioni da mia madre a cui
rivolgevo la parola a voce tanto
alta da potere coprire il fracasso
dei macchinari, mentre allontanavo
da me il boccaglio per la presa
dell’ossigeno. Ero già nel cuore
dell’universo, sospeso fra cielo e
mare quando sospirai qualche lungo
attimo di angoscia vedendo gli
sguardi sospesi dei grandi. Non
successe nulla.
Al
molo dell’idroscalo di Tripoli
ci attendevano ansiosissimi e felici
mio padre e la mia sorellina . Il
giorno prima l’ammaraggio di un
altro idrovolante per poco non si
era concluso con una tragedia. Il
mondo nuovo assumeva ai miei occhi
un’immagine grandiosa. Ero stato
come catapultato in mezzo anche a
gente che vestiva e parlava in modo
del tutto a me sconosciuto. Una
carrozza (ancora un altro mezzo di
locomozione) ci portò al numero
sedici di Via Mazzini (che
poi diventerà Sciara el Afghani),
un edificio a tre piani con
l’immancabile terrazza bitumata sito
quasi di fronte all’Istituto dei
Fratelli Cristiani. Due ore di
volo mi avevano fatto lasciare alle
spalle la Sicilia, l’Europa
e la mia fanciullezza. La felicità
di ritrovarmi assieme alle mie
radici e alla mia unica compagna
d’infanzia, Pinuzza, era
troppo sconvolgente perché mi
cogliesse il timore di avere perduto
per sempre il “paradiso” di
Cosentini.
*********************
Il
regime di vita, cui dovetti
adattarmi dall’oggi al domani, era
quello di un “allerta” costante
soprattutto la notte, per via di
allarmi che si susseguivano a ritmo
serrato. Ci si adagiava sul letto
vestiti, vigili e pronti a scattare
giù al primo segnale acustico delle
sirene per correre al rifugio più
vicino. Quando non avevamo ancora
spento la luce la prima avvisaglia
dell’allarme era il repentino
abbassamento del tono della luce
stessa. Mio padre volle quasi sùbito
farmi conoscere le caratteristiche
della città bianca. La mia
sorellina, che già parlava in
lingua, mi fece da cicerone al
“suk el turk” (mercato dei
turchi) dove davvero si
respirava un’aria tipicamente
orientale e arabesca.
Forse
eravamo assopiti nelle primissime
ore del 21 aprile, quando il
fatidico urlo della sirena, situata
a circa venti metri dai nostri
letti, sulla torretta del grande
edificio dei Fratelli Cristiani,
ci sorprese facendoci sussultare .
Le note iniziali erano basse e
lugubri e ci rintonavano dentro come
l’antifona di una caccia spietata,
cui era impossibile sfuggire. Ci
affrettammo, come dormienti-vegli,
quasi dei sonnambuli, coperte in
mano, verso il sottoscala del primo
palazzo di Via Roma (già
Sciara Magarba), che faceva
angolo con la mia via. Era fornito
di un apparato di anticrollo, che
consisteva in puntelli di sostegno
all’interno dell’androne e in una
spessa parete di sacchi di sabbia
accatastati a muro all’esterno come
schermo antischegge dell’androne
stesso.
Ripensai
al bombardamento sul cielo di
Catania osservato a distanza:
ora le bombe volavano sopra la mia
testa e tuttavia, cresciuto troppo
in fretta, e forte della presenza
protettiva dei miei, non tremai come
l’anno precedente. Forse ero perfino
orgoglioso di trovarmi dentro a
un’esperienza, che avrei potuto
raccontare come vissuta in prima
persona. L’operazione militare si
protrasse per circa cinque
interminabili ore. Era ormai l’alba
quando sentivamo come il risucchio
di cannoni. Giunse notizia che era
stato effettuato un bombardamento
aero-navale e qualcuno (c’è sempre
chi ne sa più degli altri) parlava
di grossi pezzi di batteria
antiaerea mobili per le vie della
città e qualche altro riferiva di
avere saputo di paracadutisti
inglesi lanciati nella periferia.
Ma, come capita spesso, la fantasia
precede e supera la realtà. Si ebbe
solo conferma che la flotta
“nemica”, giorni prima avvistata
nelle acque del Mediterraneo,
aveva atteso il giorno fatidico
(anniversario “fascista” del natale
di Roma) per fare un regalo
al Duce.
L’uomo
inventa dei “palliativi” in
qualsiasi circostanza per rendere
compatibile con la realtà la sua
naturale voglia di vivere. Se non ne
fosse capace, la noia e l’angoscia
l’ucciderebbero e non saprebbe
sopportare il dolore dell’oggi in
attesa di un possibile migliore
domani. Io m’inventai un “diario
delle emergenze” (distinte in
ricognizioni, bombardamenti e falsi
allarmi) rendendomi perfino
interessante il quotidiano attentato
alla mia giovanissima età. Quella
specie di “taccuino di viaggio”
esisterà finché qualche mio erede
non lo butterà nella spazzatura come
carta ingombrante e inutile. Per me
fu un modo inconscio di
sdrammatizzare lo stato di guerra.
Forse per la stessa ragione, la vita
cittadina diurna procedeva più o
meno normale. Le scuole non erano
ancora chiuse.
Perfino
le sale dei cinema erano aperte
sebbene solo di giorno e con il
quasi certo inconveniente della
sospensione dello spettacolo in un
momento qualsiasi, come capitò a me
a alla mia sorellina dopo avere
visto appena il primo tempo del film
“Il re si diverte” (versione
in prosa del melodramma verdiano di
“Rigoletto”) alla sala dell’Alhambra,
ubicata all’imboccatura della Via
Piemonte dalla parte di
Piazza Italia (già Piazza
Pane per la pianta omonima che
vi cresceva, e poi, con la
liberazione, Maidan el Asciuhada
ovvero “piazza dei martiri”).
L’unico quotidiano locale, “Il
Corriere di Tripoli” usciva
regolarmente o quasi. Gite per la
spesa, passeggiate distensive,
scambi di visite e feste in famiglia
continuavano come se il conflitto
mondiale in piena esplosione fosse
soltanto una circostanza marginale,
fastidiosa sì ma non più di tanto.
Nei più dominava la
suggestione - meglio spacconata -
mussoliniana che si sarebbe trattato
di una guerra lampo. Ad Acireale
avevo visto dei liceali manifestare
a favore della guerra come se si
trattasse di una goliardica
spedizione punitiva. Tanti minorenni
partiranno volontari per il fronte e
alcuni non faranno ritorno al tepore
domestico, eroi di un entusiasmo
generoso e inutile, infuso dalla
propaganda del regime. E fra i
giovani circolavano filastrocche
come queste: “Se l’Italia scende
in guerra, prenderemo
l’Inghilterra”; “se faremo un
girotondo, prenderemo tutto il
mondo”. Ma l’Italia era
tutt’altro che invincibile: senza
l’aiuto dei tedeschi al comando di
Rommel la colonia libica
avrebbe ceduto molto prima alle
offensive del deserto.
Noi
frequentavamo un amico arabo, che ci
accoglieva festosamente e con
riverenza mentre accudiva alle
fatiche del suo campo di erba medica
con le immancabili gigantesche palme
da datteri, sito nell’immediata
periferia della città, subito dopo
Stazione Riccardo. Servendosi
di una correggia circolare Milud
(alias Natale) saliva lungo i
fusti di quelle come un grosso
pesante scoiattolo ma con la
sicurezza di chi percorre le scale
di casa. In cima lo attendevano i
gustosissimi frutti. Per me era
tutto un mondo da scoprire. Mi
divertivo a inseguire gli ùpupa,
bellissimi uccelli colorati con la
cresta, che si andavano posando per
terra - nel tentativo ingenuo di
catturarne qualcuno. M’incuriosiva
la bocca del pozzo da cui l’acqua
veniva attinta con un otre legato ad
una fune, allentata e tirata da un
pazientissimo asinello che andava
avanti e indietro. Una volta
scattammo delle foto (che conservo
ancora) da cui la moglie (forse
l’unica perché povero) del “padrone
di casa” volle restare
categoricamente esclusa per obbligo
coranico.
Un
tardo pomeriggio ci trovavamo
proprio lì quando venimmo sorpresi
dall’improvviso scoppiettio di non
so quanti ordigni di guerra. Sapremo
poi che ci trovavamo a ridosso di
alcune postazioni di difesa
antiaerea. Ci calammo dentro un
cunicolo scavato nella terra
argillosa ma ci sentimmo sùbito così
a disagio da preferire i rischi
dell’esterno. Ne uscimmo e ci
avviammo verso casa, distante circa
due chilometri, ma dovemmo
procedere, per un lungo tratto,
piegati in avanti temendo, forse
erroneamente, di essere colpiti da
proiettili vaganti destinati agli
aerei nemici. La situazione andò
peggiorando e non torneremo più da
Milud. Ma, sotto le ali dei
miei genitori e con Pinuzza,
a cui avevo fatto da balia, quando
mia madre, per ragioni di lavoro,
non poteva occuparsene, e che ora
era mia inseparabile unica compagna
di giochi, mi scoprivo
improvvisamente felice, come se lo
potessi essere davvero. In più,
avevo trovato a casa, un micetto,
Fuffi, e un cagnetto nero,
Negro, a cui si aggiungeranno
quattro cocorite, per i quali mio
padre, ex artigiano, aveva costruito
una grande gabbia per l’uso
specifico, fornita di alloggiamenti
per la cova e di altalene. Questi
pappagallini erano il regalo di un
certo dottor Azzarelli, che
disponeva di un’immensa voliera con
dentro non so quante decine di
uccelli di varie specie.
Un giovane mussulmano, tale
Mahmud, istruito, buon
conoscitore della mia lingua,
probabilmente islamico ortodosso,
frequentava la mia casa. M’ero messo
in testa di “convertirlo” al
cattolicesimo e lo assillavo con le
mie argomentazioni, tutte incentrate
sulla convinzione che la mia (di
allora) non potesse essere che
l’unica vera religione. L’amico mi
sopportava per la mia età e perché
vedeva che ero sincero.
Un’altra
conoscenza araba era quella di una
giovane di nome Aescia che,
non ricordo come, un giorno
visitammo nella sua “zeriba”
(capanna), situata all’interno
di una “cabila” (tribù)
certamente fuori città. All’interno
della povera dimora, fatta di terra
battuta e di rottami vari, c’era
tutta l’attenzione della brava donna
di casa: un emporio di cose utili e
ornamentali disposte con cura
meticolosa. Sembrava una casa per
finta costruita da bambini per gioco
ma era l’abitacolo reale di gente
poverissima per cui lo Stato
colonizzatore pare non facesse
proprio nulla. E c’era anche tanta
dignità da incutere rispetto e fare
tanta tenerezza. Un giorno Aescia
venne a farci visita e mi ritrovai
solo con lei mentre ascoltava una
trasmissione-radio in arabo. Le
chiesi di che cosa parlassero e lei,
pronta, mi rispose che parlavano di
“babbus” e per farmi capire
di che cosa effettivamente si
trattava, allargò le gambe dopo
averle scoperte del barracano.
Compresi anche ch’era una menzogna
per sedurre un ragazzino che di
quelle cose proprio ne sapeva
alcunché. Tanto che non vidi nulla.
Poco dopo se ne andò non senza avere
civettato davanti al grande specchio
dell’armadio. Quella donna
primitiva, con un carico di monili
d’argentone sulla testa, sostenuti
da una lista di cuoio, e che faceva
contrasto con la sua evidente
povertà, era come tutte le donne
del mondo: una creatura, che non sa
di cercare l’amore per rispondere
all’imperativo categorico della
specie.
I
Fratelli Cristiani misero a
disposizione del pubblico un lungo
scantinato blindato, dove ci
ritrovavamo sempre più spesso, di
notte, condòmini e vicini di casa.
Ogni gruppo familiare occupava di
norma la stessa postazione, per
terra, fra una panca e l’altra.
Dalla consuetudine nasce la prima
legge alla quale i più finiscono per
adeguarsi. Come spesso, non mancava
l’ “irregolare” senza una valida
ragione, ma la paura, che si faceva
angoscia con lo scorrere delle ore
sotto i rumori dell’inferno, fungeva
da “sedativo”. Il solito prepotente
da strapazzo non desisteva dal
tentativo di estendere
ingiustificatamente il suo...
territorio. L’offensiva finì quando
mio padre, che non fu mai un
violento, poggiò rumorosamente un
manganello rudimentale su una panca
dicendo: “ecco la ragione!”
Le deflagrazioni delle bombe
“nemiche” andavano aumentando di
intensità e si sentivano sempre più
vicine. Riprendendo la via del
rientro, magari nelle prime ore
dell’alba, era inevitabile chiedersi
se ancora una volta si fossero
ritrovate le proprie cose e, se sì,
in quali condizioni. Questo dubbio
ci sapeva di certezza la notte che
nella vicina Via Roma
edifici in cemento, di cinque o più
piani, crollarono da cima a fondo
ostruendo la strada, proprio accanto
al Cinema Odeon. Anche a
pochi metri dalla nostra abitazione
era piombata una bomba, per fortuna
ineplosa, che si era limitata
scavare un discreto cratere. Si
sparse la voce che erano state
sganciate bombe legate a grappolo
per aumentarne l’effetto devastante.
I rumori erano stati così furibondi
da far pensare alla fine del mondo
Mi
rifiutai ostinatamente di
frequentare il sabato fascista
perché già in paese avevo avuto la
sensazione di essere usato come un
burattino e non perché non avessi
assimilato anch’io la mia buona dose
di catechesi littoria. Quando, per
il peggiorare della situazione di
guerra, la pratica venne sospesa,
finì di essere oggetto di ripetuti
inviti a fare il mio dovere di
“moschettiere”
Mio
padre non aveva mai avuto la tessera
fascista. Non era un uomo di cultura
ma di senno. A lui devo molto di ciò
che sarò. Il padre, trovatello,
figlio naturale di genitori noti,
ambedue “nobili”, comunque notabili
benestanti, sposato lui, nubile e
timorata di Dio lei, era morto di
polmonite contratta sul lavoro
(tecnico del Pastificio
Leonardi), quando mio padre,
ultimo di numerosi figli viventi,
aveva solo pochi anni. Aveva
lavorato sin da bambino e aveva
fatta tutta la Prima Guerra
Mondiale. A Tripoli, dove
era riuscito a trasferirsi per
sfuggire alla fame, dopo lunghe e
penose peripezie, fatte anche di
lavori per lui insoliti e pesanti
(per es., quello del carpentiere nel
restauro di un vecchio cinema arabo,
il Politeama, sito nel cuore
della città vecchia), era stato
finalmente ritenuto abile ad
occupare il posto di un richiamato
presso gli uffici dell’Acquedotto
municipale, così conquistando un
pezzo di pane non più precario, ma
ad una condizione: che s’iscrivesse
al Fascio in forza di una
concessione del Duce a favore
dei soli ex combattenti. Racconterà
sempre l’evento grottesco della
cerimonia: alla pari con ufficiali e
con liberi professionisti, toccati
dallo stesso grazioso beneficio (che
significava cittadinanza a tutti gli
effetti), appose ben sette firme in
calce ad altrettanti documenti, del
cui contenuto la circostanza
impediva di prendere visione.
Sarebbe stato compromettente
manifestare curiosità critica. Pochi
giorni dopo verrà a bussare alla
nostra porta un messo della
Milizia Volontaria Sicurezza
Nazionale per la notifica di una
comunicazione: che l’istanza di
partecipazione alla MVSN era
stata accettata e che il “camerata”
istante era stato destinato alle
batterie di difesa antiaerea della
città. Il messo era un certo
Scandurra, figlio del tabaccaio di
Via Roma, oriundo del comune
catanese di Viagrande. Lo
rincontrerò a Catania, negli anni
Cinquanta. Ridotto in povertà, anche
perché diseredato, diceva, dalla
sorella, impegnato a vendere delle
pelli per scarpe nel tentativo di
sbarcare il lunario.
Risultò
tutto chiaro. La “notizia” ci
sconvolse e ci addolorò anche perché
il neo-fascista (!) aveva contratto
sotto le armi una grave forma di
reumatismo che curerà per tutta la
vita. Il solo pensare che mio padre
sarebbe stato esposto ai tiri
diretti degli incursori “nemici” era
per me semplicemente atroce e
insostenibile. Proprio dopo averlo
ritrovato. La mia traballante
felicità, “afferrata” a dispetto del
messaggio-trauma della mia
genitrice, andava in frantumi come
un albero colpito da un fulmine.
Corsi a rinchiudermi nella piccola
cucina, ala estrema del piccolo
appartamento, perché nessuno potesse
sentire il mio pianto e le
imprecazioni blasfeme di un ragazzo
, che aveva già odiato i “sabati
fascisti” del primo ginnasio, contro
Mussolini, i suoi scagnozzi e
la “sua” guerra. Scoprivo il mio
innato spirito libertario e ribelle
che ancora vivo con lo stesso animo
e con crescente convinzione. Per
fortuna, sulla base di un’opportuna
documentazione clinica, si troverà
modo di liberare un
ultraquarantenne da un servizio da
prima linea che non si era nemmeno
sognato di chiedere. Tornai a
sorridere.
Non
mi ci volle molto per scoprire di
trovarmi, quasi un angioletto uscito
da un baliatico asettico, al centro
di una rete di tentazioni che, pur
allettandomi, riuscivano solo a
mettermi in conflitto con me stesso.
Solo più tardi comprenderò che la
mia iper-ricettività innata aveva
offerto buon gioco al prete nel suo
diabolico impegno di “possedere
la mia anima”, insomma
d’infondermi - quando non avevo
ancora abbastanza forza critica per
difendermene - una concezione
allarmistico-peccaminosa del sesso e
dell’amore e una concomitante
inibizione preventiva e persecutoria
da senso di colpa. I coinquilini
sublocatari, uomini soli, pagavano
delle ragazze per le pulizie, il
bucato ed altre faccende. Erano
puntualmente ebree, vivaci e
disponibili e magari belle. A me
capitava di restare solo quando la
mia sorellina seguiva la madre
mentre quelle sfaccendavano fra la
stanza del “datore di lavoro” e i
servizi percorrendo un grande vano
centrale che faceva da
spartitraffico. Anch’io ero,
talvolta, indaffarato nel preparare
il pasto meridiano mentre i miei
genitori erano al lavoro. Il mio
menu era semplicissimo ma buono:
pasta asciutta con il sugo naturale
di fettine di cavallo cotte in
padella senz’olio, e abbondante
parmigiano; tali fettine da
consumare con i caratteristici
filoncini al lievito di birra,
datteri freschi e del vino. Il tutto
lo approntavo in circa venti minuti
usando contemporaneamente più
fornelli a gas. Senza di me i miei
si sarebbero trovati in gravi
difficoltà. Dicevo delle “ancelle”:
io le osservavo pensoso e timoroso.
Ne ricordo una in particolare: una
prosperosa quindicenne di nome
Maria. Voleva adescarmi. Una
volta non voleva lasciarmi libero il
bagno e, per suggerirmi come avrei
dovuto comportarmi, si mise in piedi
accanto al water e si sollevò
la gonna al di sopra della vita
scoprendo due gambe da fare
impazzire ma io resistetti e da
allora costei comprese che non ero
il suo tipo. Qualche anno dopo verrò
a sapere che s’era messa a fare la
prostituta in Sciara el Quasc,
una via sita nella città vecchia,
vicino all’ antico Arco di
Marc’Aurelio.
La
terrazza della mia casa metteva in
comunicazione due ali angolari di
uno stesso palazzo e quindi le
rispettive scale. In quella di
Via Quintino Sella abitava una
bambina di appena dieci anni, che io
vedevo civettare dal mio pozzo di
luce, dato che anche lei si trovava
al primo piano. Mi faceva solo
tenerezza e niente di più. Ma era
fatale incontrarci sulla terrazza
comune che io ero solito frequentare
e dove la piccola Anita
seguiva la cameriera, neanche a
dirlo ebrea , mia coetanea, di nome
Fina, snella, slanciata,
carina e altrettanto disinibita. Fu
là che costei mi diede una prima
letterina, scritta con una grafia da
seconda elementare ma con un
linguaggio che non lasciava dubbi
sui precisi propositi di chi
gliel’aveva dettata. Risposi con un
messaggio più serio della mia età
sorvolando le sconcezze ed ebbi,
come ricarica, una seconda
letterina, nella quale l’autrice mi
dedicava il ritornello di una
canzonetta allora in voga
“Piemontesina” in... versione
maschile: “Non ti potrò scordare,
piemontesino bello, sarai il solo
stello (sic!) che brillerà per me”.
Fina ci esortava a dare
l’avvio alle effusioni ma in sua
presenza. Intanto, il padre,
scoperta la mia missiva, si
precipitò a bussare alla mia porta
che, guarda caso, andai ad aprire io
stesso. Alla mia risposta
affermativa di conoscere la bambina
che aveva accanto, senza entrare,
allungò il braccio destro fin dentro
il mio domicilio mollandomi un
sonoro ceffone, nel momento in cui
accorreva mia madre. Senza avere
fatto alcunché di male mi ritrovai
sotto accusa e, per dimostrarlo,
esortato dai miei genitori, corsi a
ripescare la seconda letterina non
ancora inghiottita dal water
dopo avergliela appena gettata come
un corpo di reato da distruggere. La
causa, per violazione di domicilio
ed aggressione, intentata da miei,
si concluse con la condanna di quel
padre che, in fondo, non aveva tutti
i torti. La bella Fina era
stata l’artefice insoddisfatta di
una tentata tresca per interposta...
bambina. C’incontreremo più tardi,
altrove, e tutto sarà diverso...
La
mia attenzione, magari insistente,
andava a ragazze, possibilmente più
grandi di me, una ragione di più per
trovarle inabordabili, e forse
perché inconsciamente mi sentivo
rassicurato preventivamente contro
il peccato e il senso di colpa. Una
di queste era una vicina di casa,
una certa Silvia, che si
recava tutte le mattine al lavoro in
bicicletta e che io seguivo spesso
con la mia senza mai osare dirle una
sola parola, tanto m’imbarazzava.
Finché potei farle recapitare una
lettera a mezzo di un certo
Lorenzo Caputo - attendente di
un capitano sublocatario - che mi
incoraggiava in tutti i sensi.
Chiusi la lunga dichiarazione, non
esente da pessimismo preventivo, con
una frase cretina, per giunta
scritta in tedesco: “liebe mich
wie immer habe ich dich geliebt”,
cioè... “amami come ti ho sempre
amato”. Volevo stupirla con la
mia... bravura linguistica, per
altro non necessariamente
verificabile, ma riuscì solo a farmi
rimandare, tramite lo stesso
paraninfo, l’incauta lettera con
un’inaspettata quanto meritata
mortificazione.
Raccontando
il proprio passato è possibile
attribuirsi conquiste favolose,
tanto più quando, a distanza di
oltre cinquant’anni, manca quasi del
tutto il rischio di un riscontro e
di una contestazione. I fatti si
ripetono come i modi diversi di
rispondere agli imperativi biologici
comuni a tutti gli uomini. I fatti
per sé stessi non valgono se non nel
contesto di una menzogna
convenzionale, fatta solo a fine di
evasione e di cassetta. A me
interessa solo estrarre da alcuni
fatti realmente vissuti e
particolarmente eloquenti quei
significati che possono servire per
capire meglio il percorso della mia
esistenza e, per chi mi legge, per
capire lo scorrere della loro.
Perciò, mi limito ad accenni e a
tratti di situazioni esemplari e
significative lasciando
all’immaginazione dei lettori la
facoltà, insindacabile, di metterci
dentro quello che avrebbero voluto
trovarci - senza addossarmene la
“paternità”.
Mia
madre, dotata di una volontà ferrea,
aveva conseguito da adulta dei
titoli di studio che l’abilitavano
all’insegnamento. Cosa che aveva già
fatto presso le classi medie di
Bengasi durante il primo anno di
guerra. Ora dava ripetizioni. Il
pomeriggio la nostra casa era un
vespaio di ragazzini e di ragazzine.
L’ambiente del doposcuola era la
metà dell’unico vano, avuto in
subaffitto. L’altra metà, riparata
da un comò, un armadio e una tenda
allineati, era adibita a... stanza
da letto comune. Questa angustia
abitativa dipendeva anche
dall’insufficienza degli alloggi di
una città sovraffollata da italiani
(e non solo) che là investivano i
propri capitali o, comunque,
dimenticavano la povertà sofferta in
patria. Il condividere i servizi con
estranei era compensato, per noi,
dal discreto benessere economico.
Per un certo periodo, ottimale, a
casa mia gli introiti abbondavano.
Mia madre occupava la prima parte
della giornata come impiegata presso
gli uffici del Governo e, in più,
oltre al doposcuola, preparava la
cena per un gruppo di coinquilini
giovani e senza famiglia, impiegati
presso l’aeroporto militare. Mio
padre allo stipendio di applicato
aggiungeva i proventi del
“letturista”, di contatori
dell’acqua, pomeridiano. E trovava
il tempo di accudire anche lui alle
comuni faccende domestiche per dare
una mano alla moglie.
Uno
di quei pomeriggi - come
dimenticarlo? - mia madre era
occupata con i suoi alunni, mio
padre sfaccendava, la mia sorellina
oziava fra il ballatoio e la
terrazzina. Io stavo schiacciando un
sonnellino. Era la canicola estiva
del ‘41. Non è facile descrivere
quanto sia accaduto in un baleno. Fu
un tale improvviso scatenamento di
potenti boati a catena e di violenti
spostamenti d’aria, mentre volavano
schegge di vetro e calcinacci, che
non potei fare a meno di credere che
tutto stesse crollando intorno a
noi. Esplose il panico fra le grida
dei piccoli a cui si aggiunsero di
lì a pochi istanti quelle dei
genitori sopraggiunti con la
rapidità dell’amore e dell’angoscia.
Dopo il primo terrore scoprimmo che
gl’infissi della stanza erano già o
abbattuti o alquanto scardinati, i
lampadari e i vetri delle porte
erano quasi tutti ridotti in
frantumi e l’aria era resa fosca e
irrespirabile da un improvviso
pulviscolo. Il vocio della strada
(eravamo al primo piano) di gente
che correva come gregge impaurito
completava una scena surreale da
incubo. Anche noi ci precipitammo
verso non so dove. Eravamo come un
formicaio sconvolto e lacerato dalla
vanga del contadino. Non ci
rendevamo conto di quanto stava
accadendo; semplicemente
rispondevamo automaticamente
all’imperativo
dell’autoconservazione, che precede
ogni ragionamento. Lungo le scale mi
accorsi di perdere sangue dalla
tempia destra ma non sentivo alcun
dolore. Un frammento di vetro mi
lascerà il segno. Bisognava far
presto.
La
strada, marciapiedi compresi, era
disseminata di schegge di varie
dimensioni. La gente correva anche
mezzo svestita o in pigiama.
Confluivamo come più torrenti verso
un imbocco unico: l’edificio dei
Fratelli Cristiani. I corridoi
erano praticabili con difficoltà,
tanto era l’ingombro di telai e di
detriti. La mia sorellina piangeva
di paura. Una giovane donna, distesa
su una sedia a sdraio, perdeva
sangue dal cuoio capelluto ed
emetteva gemiti. Vedevo un volto
nuovo della guerra e mi sentivo in
prima linea. Ma venimmo bloccati
dalla notizia, paradossalmente
rassicurante, che si era trattato
non di un bombardamento
straordinario ma solo
dell’esplosione di due vagoni-merce
carichi di munizioni, posteggiati
sulla vicinissima linea ferroviaria,
forse per sabotaggio, e che un
edificio di quattro o cinque piani
era stato tranciato verticalmente
come meglio non avrebbe potuto fare
la mano di un gigante armata di
mannaia. Per fortuna la parte
sbriciolata comprendeva solo i
servizi dove, in quel pomeriggio
afoso, non c’era proprio nessuno.
Era già tanto non sapersi bersaglio
di bombardieri in piena luce del
giorno. A casa facemmo l’inventario
degli altri danni. In un angolo del
ballatoio, dove poco prima stava
giocherellando la mia sorellina,
c’erano schegge ancora calde, così
tante ed anche così grosse che
avrebbero potuto ucciderla.
Pinuzza era stata raggiunta da
una pioggia di frantumi di vetro
provenienti dai piani superiori
senza subirne alcun danno. La
finestra della cucina s’era
abbattuta integra sul piano della
piccola tavola per mangiare. Mio
padre riuscì a rimetterla nel vano e
a puntellarla. Un cassettino di un
comò-giocattolo, contenente chicchi
d’uva da essiccare al sole di un
davanzale, si era volatizzato con
disappunto della piccola
proprietaria. Di Fuffi, il
gattino, come risucchiato dal cielo
non si saprà mai nulla: un disperso
di guerra. Dettagli così minuscoli
eppure così significativi da
diventare “memorabili” nella storia
di un adolescente, che si ritrova
vivo in mezzo ad una catastrofe. La
guerra mi sapeva anche di
stregoneria.
Fra
tanta drammatica insicurezza c’era
chi trovava il tempo e il modo di
gozzovigliare. Come un gruppo di
ufficiali dell’esercito alloggiati
al piano di sopra. Da non ricordo
quanto, come se vivessero in una
parentesi di realtà, al primo
imbrunire davano inizio a un festino
da noi avvertito come un crescente
frenetico di calpestio e di urli,
più che voci, sghignazzanti, specie
femminili. Dovevano essere ubriachi
o rincorrersi per sollazzo. Mio
padre fu costretto a denunciare il
fatto provocando il sopralluogo di
due “fascisti”. Più tardi potei
immaginare scene orgiastiche con
prostitute o donne dissolute,
fors’anche sotto l’effetto di chissà
quale droga. Oggi penso alle follie
del piacere che sfida gli attentati
della morte.
Ottenemmo
la disponibilità di un vano sito al
piano terra del grande palazzo del
Municipio, situato nella
piazza della bella Cattedrale
e di cui mio padre era dipendente.
Il privilegio era quello di
usufruire, durante il consueto stato
di allarme notturno, di un lungo
scantinato raggiungibile
dall’interno e dal quale si poteva
accedere a un vero rifugio blindato,
qualora se ne sentisse il bisogno.
L’inconveniente (non proprio da
poco) era quello di doverlo
condividere con un altro nucleo
familiare. Questa circostanza mi
suggerì come la convivenza forzata,
motivata dall’istinto di
sopravvivere alla guerra, sia essa
stessa una guerra, anche se
grottesca e talora ridicola. Ma io
ero troppo giovane per dare a certi
costi della quotidiana esistenza più
importanza di quanta non ne dessi
agli spettacoli più o meno
interessanti in cui, come
adolescente, traducevo via via tutte
le cose nuove. L’altra famiglia,
composta da due coniugi e da una
figlia matura, si chiamava
Salàfia. Lui era insegnante di
violino e la giovane doveva essere
una titolata. Era brava gente con
cui non dispiaceva passare le serate
a giocare a carte, a scambiare
quattro chiacchiere e a raccontare
aneddoti. E di aneddoti la signora
Salàfia ne attingeva tanti
dai ricordi dei suoi anni maltesi.
Ma non poteva mancare il conflitto,
che scoppiò puntualmente fra le due
donne più giovani e certamente per
una questione di... confini. La
spuntò mia madre e un armistizio
pose fine alle ostilità.
Durante
quel periodo scoppiò l’epidemia del
tifo petecchiale che portò all’altro
mondo anche dei bravi medici
impegnati a combatterla. Uno, mi
pare certo Di Stefano,
proprio non lo meritava lui che si
stava prodigando contro quel
flagello. Ma nemmeno
quest’aggressione della natura mi
preoccupò più di tanto. Mi sentivo
invulnerabile. Andare nello
scantinato, un corridoio lungo,
stretto, buio, disseminato di
brande, era per me quasi un gioco.
Mio padre v’incontrava anche dei
compaesani, come i fratelli
Miceli, due o tre, tutti
finanzieri. La mattina si rientrava
a casa. Un giorno mi lasciarono in
quella specie di tana, o di cella
carceraria, come suggeriva l’unica
finestra con inferriata collocata in
cima ad un’alta parete. Mi sentivo
male ma non resistetti alla
solitudine. Il pomeriggio, pur
febbricitante, volli rientrare in
Via Mazzini, barcollante sotto
il tipico sole africano. Vaneggiavo.
Mi si diagnosticò la scarlattina e
si ordinò l’immediato ricovero in
ospedale. Mi sistemarono in una
stanza a due lettini: il secondo
sarebbe stato occupato da mia madre
che rientrerà puntualmente ogni
sera. Anche lì c’era il problema
dell’emergenza durante la quale si
correva verso la parte più bassa
dell’immobile. Una volta venni
sorretto da due infermieri perché
non mi reggevo. Dopo quindici
giorni, già guarito e pronto per la
dimissione, venni raggiunto dalla
mia sorellina, a cui avevo trasmesso
la stessa malattia esantematica. E
fu quasi una festa per me. Fu un
“lunghissimo” mese di una specie di
villeggiatura perché delle strutture
ospedaliere mi accorgevo solo quando
suonava l’allarme. In queste
occasioni mi toccava incontrarmi con
inquilini del contiguo reparto
tisiologico, tra cui ragazze
tubercolotiche, anche belle e
perfino inconsapevolmente allegre,
che invece dell’amore, aspettavano
di morire da un giorno all’altro,
come si disse di una in particolare,
priva ormai quasi totalmente di
polmoni. Era uno “spettacolo”
nient’affatto divertente di quella
realtà in cui, crescendo, mi
svegliavo.
Altro
episodio clinico, vissuto in
condizioni di guerra, riguardava le
mie tonsille ormai cronicamente
infiammate e ipertrofiche, che
m’infliggevano una fastidiosa
febbricola serale. Fui operato
d’urgenza da un otorino che aveva
fretta di scapparsene in Italia.
Quel settembre del ‘41 compivo
tredici anni. Fui legato ad una
specie di sedia della tortura. Dopo
un’abbondante spruzzata di tintura
di jodio (che non è un anestetico)
le ghiandole sotto accusa furono
recise e rimosse ad una ad una. Mio
padre, nervoso e in apprensione,
andava avanti e indietro lungo un
corridoio accanto e stringeva dentro
di sé l’emozione prodotta dalle mie
urla strazianti. Non ci fu alcuna
complicazione. Una carrozza mi portò
sùbito a casa e qui feci con piacere
quanto mi era stato raccomandato
contro un’eventuale emorragia:
andavo sciogliendo in bocca dei
pezzetti di ghiaccio, vero
refrigerio anche contro l’afa del
gran caldo di settembre, destinato,
come si diceva, alla maturazione dei
datteri.
La
notte fra il 27 e 28 ottobre di
quell’anno - vigilia immediata della
ricorrenza della Marcia su Roma
- il Corso Vittorio Emanuele
fu teatro di rumorosissime
manifestazioni di giovani fascisti
che agitavano cartelloni con lo
slogan “28 ottobre Marcia su
Roma, 28 ottobre marcia su Mosca”.
In quel periodo, infatti, le orde
naziste erano impegnate più che a
conquistare il territorio sovietico,
a distruggere un coacervo di popoli
e con questi il sistema
politico-economico che, bene o male,
li teneva uniti e, in
quell’occasione eroicamente solidali
- e, se possibile, anche la loro
memoria storica. Tanto era l’odio
ideologico e l’accanimento
militare-terroristico contro
quell’Unione di Repubbliche
Socialiste che, alla fine - a
dispetto degli orrori staliniani, di
cui, a torto o a ragione, la si
tacciava - riuscirà a difendersi
egregiamente, a salvare il mondo
intero dalla “pulizia razzista “,
prevista dal piano hitleriano, e a
portare in territorio tedesco - a
Berlino in ispecie, insomma nel
cuore e nel covo del “nemico” - la
più grande rappresaglia punitiva
dell’epoca. Quel 28 ottobre i
giovani fascisti tripolini, senza
alcun dubbio ignari di quale mostro
fossero complici, e vittime
potenziali, restarono profondamente
delusi perché non avvenne nessuna
marcia su Mosca e coloro che
avevano pronta l’ennesima bandierina
dell’Asse da appuntare su
un’apposita cartina delle operazioni
militari, restarono con la mano
sospesa per aria a soppesare la loro
credulità. Anche a casa mia c’era
una tale cartina, ma solo per
informazione.
Trascorse
circa un anno. L’aggressione aerea
incalzava e si sentiva il bisogno di
allontanarci dal centro. Stavolta ci
fu d’aiuto il rapporto di lavoro di
mia madre che, come dicevo, prestava
servizio presso gli uffici del
Governo. Ci destinarono intanto ad
un appartamento pluricoabitato. Si
trattava delle case INCIS, il
cui insediamento si trovava
nell’immediata periferia, proprio a
ridosso della bellissima
“Citta-giardino”, complesso
residenziale per funzionari,
notabili e benestanti, insomma per
la “crema” di Tripoli.
Il beneficio era quello di potere
raggiungere direttamente il rifugio
blindato, di cui era stata fornita
ogni palazzina, chissà in vista di
una possibile guerra. Avevamo la
disponibilità di un solo vano e
l’uso dei servizi in comune con un
gruppo di uomini soli. Uno di
questi era il giudice Cucchiara
di Catania. Era un
appartamento i cui assegnatari erano
sfollati in Italia troppo in fretta
per non dare la sensazione
dell’abbandono. Le suppellettili e
le stesse cose minute non si può
dire che fossero ben custodite,
piuttosto erano affidate alla mercé
degli inquilini “di guerra” venutisi
a trovare colà per la stessa ragione
per cui i primi se ne erano
allontanati. Da una piccola libreria
aperta, sistemata in un vano di
transito, sottrassi furtivamente un,
per me bellissimo “Corso Pratico
di Lingua Tedesca” di
Kleinfeller-Ventura dopo averlo
corteggiato a lungo. Mi sentivo
irresistibilmente attratto dalle
lingue. Ebbi la sensazione di averlo
rubato (pur non sapendo a chi) ma il
piacere della preda fu più grande
del senso di colpa. Quel libro lo
conservo ancora. Ogni appartamento
disponeva di un orticello antistante
l’entrata dello stabile, e di una
grande cantinato. Un giorno ci fu
consentito (da chi?) di accedere a
questo e di spartirci la poca roba
che c’era dentro. Forse s’era avuta
notizia che gli assegnatari non
avessero nemmeno raggiunta la sponda
italiana. La mia attenzione andò a
piccoli ma corposi vocabolari della
lingua inglese e a giocattoli, tra
cui una lanterna magica, che fecero
la gioia della mia sorellina. Questi
sono morti di usura mentre i libri
sono ancora qui: li ho sotto gli
occhi. La notte ci si ritrovava
sempre le stesse facce in un
abitacolo angusto ma strutturalmente
ben dotato dove i rumori della
guerra arrivavano attutiti come
provenienti da molto lontano. I
soliti frizzi e lazzi condivano la
veglia forzata. Quello che
consideravo il “padrone di casa”, un
certo Magli, era un
pover’uomo di media età, magro,
depresso, pallido, taciturno e mal
sopportava le chiacchiere inutili.
Doveva portare un cruccio senza
consolazione. Ma il mio, cruccio, si
profilò forse ancora più grande.
L’antifona di mia madre ebbe qui il
più amaro riscontro.
Avevo
già constatato come fra i miei
genitori la “loro” guerra fosse
ormai senza quartiere e senza
tregua, soprattutto senza
infingimenti. Erano male assortiti.
Mia madre s’era sposata ch’era
ancora una bambina, appena
quattordici anni, con un uomo che ne
aveva il doppio. Un figlio non ha il
diritto di giudicare i propri
genitori, per i fatti che riguardano
il loro connubio, ma ha certamente
il dovere di aiutarli a comprendersi
e a convivere nel migliore dei modi
e per questo deve voler bene a tutti
e due con la stessa intensità. Io li
amavo morbosamente e forse questo mi
fece essere soltanto un figlio e a
porgere di volta in volta la mano a
chi soccombeva sotto i colpi
dell’altro, che non mancava tuttavia
di tacciarmi, a sua volta, di
complicità aumentando il mio disagio
e la mia pena. Le ragioni di
felicità o di conflittualità di due
coniugi sono spesso sconosciute agli
stessi protagonisti, che si cercano
o si respingono rispondendo ad
impulsi primordiali di
conservazione, di dipendenza
reciproca o d’intolleranza, che
sfuggono ad una logica oggettiva.
Mio padre era troppo innamorato di
lei e troppo sprovveduto per
risalire alle cause lontane di
un’incompatibilità divenuta
esplosiva, e mia madre era troppo
innamorata di sé stessa per
immedesimarsi nel dramma che
tormentava lui. Ma la ragione
dell’infelicità dei figli come tali
è sempre una sola : è l’infelicità
dei genitori. Quell’infelicità,
confitta nel mio cuore , nel momento
in cui mi affacciavo al mondo,
segnerà tutta la mia esistenza. Già
nella casa di città avevo visto mio
padre buttarsi su un divano
singhiozzante di disperazione e
implorante la madre, scomparsa
qualche anno prima. Qui,
all’imbrunire di una giornata, forse
combattuta come tante altre, si
allontanò da casa con la voglia di
farla finita. Io lo sapevo mentre
lui era fuori più provato che mai e
il ritardo mi teneva sulle spine: da
una radio vicina provenivano le note
della romanza pucciniana della
Butterfly “Un bel dì vedremo”,
che non riesco ancora ad ascoltare
senza rivivere l’angoscia di allora.
Avevo
frequentato il primo corso di lingua
tedesca, tenuto dalla Guf
(Gioventù Universitaria Fascista),
che continuai a studiare da me
quando gli eventi bellici ne avevano
imposto l’interruzione. Avevo una
gran voglia di prendere contatti con
i militari tedeschi, alloggiati o
accampati proprio al di là del
recinto delle case Incis, non
solo per la mia naturale apertura
verso gli stranieri ma anche per
mettere alla prova il mio talento
linguistico. Perciò, cominciai a
frequentarli scavalcando la
ringhiera di cinta naturalmente con
la mia inseparabile compagna di
giochi. Li trovavo belli e
affascinanti. Uno si chiamava
Georg Album. Un giorno lo sentì
bestemmiare rabbiosamente ed io,
ch’ero ancora un buon credente, ebbi
l’ardire di chiedergli nel mio
tedesco : “wissen Sie wenn Sie
ein Esel sind?” Volevo dire:
“lo sa se Lei è un asino?”
L’interlocutore mi capì e mi ferì
con uno sguardo. Non mi malmenò
forse per i miei pochi anni. Una
volta, per puro capriccio infantile,
o per dispetto, gli feci sparire una
chiavetta meccanica e sospettato non
risposi alla sua domanda dove
abitassi. Forse mi considerava un
piccolo ladro. L’aria si fece ìnfida
ed io smisi di farmi vedere.
Le
truppe britanniche, alla guida del
generale Montgomery,
travolgevano la residua resistenza
di Rommel, la “tigre del
deserto”, e minacciavano
Tripoli. Nelle abitazioni di
molti italiani si andavano
raccogliendo, provenienti non sapevo
da dove, armi e munizioni nel timore
di rappresaglie da parte dei libici.
In verità ce n’era ben donde.
L’impresa bellica della Libia
era una delle pagine più vergognose
del colonialismo italiano. Iniziata
nel 1911, era finita di fatto solo
nel 1933, in periodo fascista, dopo
avere debellato, con modi barbari
e sbrigativi, (che ricordano quelli
della conquista dell’Africa
Orientale) un’articolata e lunga
guerriglia, conclusasi proprio a
Tripoli, mi pare in Sciara
Sciatt (che diverrà Piazza S.
Francesco) con l’esecuzione
esemplare dell’eroe della resistenza
Omar el Muktar sulla cui
triste vicenda esiste un’ampia
documentazione, anche fotografica.
La
dominazione italiana non era andata
molto al di là del rispetto della
legislazione sciaritica,
attinente ai costumi islamici e alle
loro infrazioni. Come se non
bastasse, ufficiali del nostro
esercito, pomposi superuomini in
terra di conquista, avevano
recentemente dato luogo a scene
pubbliche come queste: un povero
straccione, arabo s’intende, sosta
davanti ad un lussuoso negozio,
chiede l’elemosina; il grande
mercenario del duce non sa fare di
meglio che esclamare: “che
spettacolo!”, non comprendendo
che la sua burbanzosità faceva più
pena dell’indigenza. Un altro suo
pari sferra un calcio alla cesta
delle uova che non ha potuto avere
al prezzo desiderato. Al povero
“arabetto”, come dicevamo noi, non
rimaneva che contarsi i danni. Quei
poveracci così sbeffeggiati -
quanti? - e i superstiti del
terrorismo donchisciottesco dei
conquistatori si aggiravano fra di
noi assieme a chissà quanti
portatori di torti da lamentare, ma
non successe proprio nulla non solo
perché mancava ancora un
colonnello Gheddafi
capace di far loro prendere
coscienza dei loro diritti ma,
direi, soprattutto perché il grosso
dei connazionali, anche quando
permeato da spirito fascista, era
riuscito a stabilire un’intesa umana
nei rapporti quotidiani con
gl’indigeni. Io ammiravo con timore
quegli ordigni di guerra, che
avrebbero dovuto salvarci
dall’assalto di eventuali ribelli ma
mi era categoricamente, quanto
giustamente, vietato di toccarli.
La
notte del capodanno del ‘43 i
tedeschi affidarono ad una
sparatoria senza fine tutta la loro
rabbia. Già cominciavano a “togliere
le tende” abbandonando quanto non
potevano portarsi dietro. Depositi
di viveri venivano presi d’assalto
dai civili, che vi si recavano anche
con mezzi di trasporto, formando
delle code che ricordano molto
davvicino le formiche operaie
impegnate nell’approvvigionamento
dei “granai”. Ci andammo anche mio
padre ed io, armati solo di bisogno
e delle nostre mani. Dentro c’era un
soldato tedesco, serio, impegnato a
custodire ci chiedevamo che cosa.
Non posso dimenticarlo perché un mio
gesto o atteggiamento del tutto
innocente lo irritò a tal punto da
minacciarmi con un pugnale. Mi
raggelai. In quel soldato, forse
innocente quanto me, vidi un
improvviso inaspettato nemico, che
in circostanze diverse avrei potuto
uccidere io stesso. Avrei giurato
che non avevo più voglia di
simpatizzare con i soldati del
Fürher. Battemmo la ritirata con un
bottino irrisorio.
La
mattina del 23 gennaio di quell’anno
mio padre ed io eravamo sul ciglio
di una vicina arteria extraurbana,
che portava al territorio dei
villaggi toccando Porta Benito,
Collina Verde, Sidi Mesri, Castel
Benito (dove c’era l’aeroporto)
e chissà quanti altri centri. Era la
stessa strada che, percorrendo tutta
la costa libica, portava da Marsa
el Matruk (ai confini con l’Egitto)
e da Tobruk a Tripoli
toccando via via Derna, la
Sirte, Barce, Bengasi, Homs. Era
il grande imbocco del capoluogo.
Assistevamo all’ingresso delle
truppe alleate, uno spettacolo
paradossalmente silenzioso.
Precedevano militari appiedati,
pistola in mano, circospetti e
guardinghi, e truppe di colore (la
carne da macello del paese allora
più colonialista del mondo).
Sorvolavano ricognitori e
bombardieri, ormai indicati come “i
nostri”, che fino al giorno prima ci
avevano costretto ai rifugi. Il
cielo era terso. Non sentì un solo
colpo di arma da fuoco, ma nemmeno
alcun applauso. A differenza di
quanto avverrà a Licata, in
Sicilia, o ad Anzio,
alle porte di Roma, Tripoli
era una città fascista ovvero il
“salotto di rappresentanza”, per il
mondo, di un paese afflitto da una
crisi economica e politica
catastrofica. I suoi “nazionali”
stavano bene a spese dei
connazionali in patria (tranne le
solite eccezioni) e non aspettavano
nessuna liberazione e nessuna
“democrazia”. Tuttavia, l’arrivo
degli “alleati” era per i tripolini
il preludio della fine della guerra.
Vero è che qualche giorno dopo il
porto fu bersaglio del bombardamento
aereo più isterico e distruttivo ad
opera di quei tedeschi che ne erano
stati i difensori, ma si tratterà
solo del colpo di coda di un mostro
costretto alla fuga. Il concetto di
guerra mi diveniva sempre più
assurdo ed oggi trovo alquanto
insignificante potere dire “c’ero
anch’io”.
Qualche
tempo dopo ci diedero la
disponibilità di un alloggio tutto
per noi, ubicato in una palazzina
accanto. Siamo ancora alle Incis.
Gli assegnatari, prima di
allontanarsene per il solito
rimpatrio di guerra, avevano
accatastato tutti gli arredi in una
stanza, chiusa, di cui ci era
vietato l’accesso.. Era la prima
volta che ci ritrovavamo come
inquilini unici di una casa grande e
comoda. Si trovava al secondo ed
ultimo piano ed era la sola dotata
di un’ampia terrazza a livello, che
copriva il resto dell’immobile: un
vero sogno per me e per la mia
sorellina. Una porta di servizio si
apriva ad una cucina più che
abitabile. Contava altri tre vani,
oltre a quello chiuso, uno dei
quali, destinato alla
rappresentanza, aveva una vetrata a
tutta parete. L’entrata ufficiale
immetteva in un ampio corridoio, che
si stendeva dalla terrazza fino ad
una veranda coperta e piena di vasi
fioriti. Avevamo, per la prima
volta, perfino lo scaldabagno,
alimentato dal gas di città e, per
di più, non pagavamo una lira per
l’affitto. Al terzo piano c’era una
piccola terrazza, condominiale, di
copertura parziale, che non
c’interessava. Nel frattempo anche
la casa di città era stata lasciata
tutta a noi.
C’erano
tutti i numeri per essere una
famiglia felice, anche se le entrate
s’erano assottigliate, ma fu proprio
in questa nuova situazione che il
mondo finì per crollarmi addosso,
incrinando ancor più
quell’equilibrio neuro-emotivo che è
la dotazione naturale di base per
affrontare la vita senza il
complesso d’inferiorità o di
persecuzione. L’incompatibilità
delle mie “radici” era divenuta
parossistica. Mio padre soffriva
molto ed io soffrivo per lui. Allo
stress, che lo vedeva sempre più
emaciato, rispondeva inutilmente con
una voracità patologica. Ci
muovevamo come su un campo minato su
cui era possibile saltare per aria
da un momento all’altro. La mia
ansia divenne una vera malattia di
cui nessuno specialista si occupava.
Dal terrazzo attendevo ogni giorno
il rientro del mio genitore dal suo
ufficio: tenevo un occhio su una
macchia di piante di ricino, che
cresceva lungo la vicina linea
ferroviaria, percorsa come
scorciatoia, da cui egli sbucava
prima d’imboccare la Via Pietro
Verri, la nostra strada, ed uno
su un grande orologio appeso ad una
parete del corridoio, sicché mi
trovavo contemporaneamente fuori e
dentro. Appena vedevo la figura
paterna, mi sentivo restituito a me
stesso. Quando tardava, poniamo di
soli pochi minuti, mi sentivo
inabissare nel nulla. Era il mio un
tormento silenzioso non confortato
da nessuna parola amica. Una sera il
campo minato esplose, lungo il
corridoio, in presenza di un terzo
incomodo, un tale Salvatore Di
Stefano di Palermo, che qualcuno
aveva voluto che mi facesse da
padrino per una cresima che farò
solo nel 1951 perché necessaria al
matrimonio in chiesa.. Mio padre
subì una lunga e profonda
escoriazione attorno al collo. La
piccola Pinuzza, come
immobilizzata dal terrore sulla
soglia della stanza da letto,
piangeva, strillava e batteva i
piedi. Il suo inconscio deve avere
registrato una comprensibile
avversione verso il matrimonio, che
doveva percepire come convivenza,
forzata, di due persone che non si
conoscono nemmeno.
La
vittima, il mio povero padre, si
ritirò nella casa di città
realizzando quella separazione anche
di tetto che, dopo penose
rappresaglie anche giudiziarie,
durate molti anni, avranno un esito
naturale nel divorzio (reintrodotto
nella legislazione italiana grazie
ai radicali dell’epoca) ma non la
cessazione delle ostilità. Mio padre
si batterà per evitare lo sfascio
totale di un suo sogno e lo sbando
dei figli: con tale miraggio
busserà anche alla porta del
lussuoso villino di Vittorino
Facchinetti, vescovo di Tripoli
(che accrescerà la propria fama
accorrendo al capezzale di
Togliatti, ferito
dall’attentatore Pallante) ma
il prelato, che prima aveva fatto
gli onori cavallereschi a mia madre,
semplicemente non lo riceverà. Un
ennesimo colpo alla vulnerabilità
psicologica, di me che fino a pochi
anni addietro aveva frequentato con
devozione i padri filippini e
vagheggiato il sacerdozio come
servizio di verità e di bene e che
ancora si sentiva legato alla
Chiesa e che anche a Tripoli
avevo frequentato i francescani
della Cattedrale. Ne ricordo
due, simpaticissimi, padre Umile
e padre Illuminato, così diversi
dal loro “capo”! Nel capoluogo
libico non c’erano preti. Mia madre
si recherà anche in Vaticano,
dove le faranno intravedere la
possibilità di annullamento del
matrimonio per vizio di consenso, da
parte del tribunale della Sacra
Rota - nonostante la presenza di
due figli - ma non se ne farà niente
perché i costi preventivati si
aggiravano attorno al mezzo milione
dell’epoca!
Anche
a Tripoli si marciava con la
tessera annonaria, ma forse nessuno
non la integrava con dell’altro per
non morire letteralmente di fame ed
avendo la possibilità di farlo.
Prosperava il mercato nero anche
nella versione del “sotto banco”. Ci
difendemmo abbastanza bene fino
all’occupazione. Ci fu di molto
aiuto la mia robusta bicicletta
Bianchi con la quale andavo a
comprare il pane nel quartiere
periferico di Sciara Bu Harida.
Quando venivo sorpreso da un
allarme, cercavo un rifugio o
acceleravo la corsa. Con la stessa,
in altra epoca, andavo a prelevare i
pasti a una mensa di ufficiali, sita
nell’edifico dove sorgerà, dopo la
guerra, la Malta House.
Utilizzando un blocchetto di buoni
ottenuto non so come da mio padre.
Sul piccolo portabagagli posteriore
del mio biciclo situavo una grossa
pendola per il “primo”; una scodella
serviva per il “secondo” e nello
stesso tempo fungeva da coperchio di
quella. Un piatto copriva il tutto
ben legato “a prova di corsa”. Al
compimento di ogni “missione” - cioè
del trasporto a casa di un pasto
normalmente abbondante - mi sentivo
orgoglioso e cresciuto ancora un
poco. Quel periodo davvero aureo non
durò molto ma non mancavano altre
fonti di approvvigionamento. Il
barracano degli arabi era un ottimo
nascondiglio per merce illegale. Una
schiera di contrabbandieri indigeni
facilmente individuabili si aggirava
per i meandri di vecchi mercati -
per es. della Dahra.
L’operatore “salvagente” tirava da
sotto il manto bianco i
caratteristici “filoncini” senza
dovere dare conto del rispetto delle
norme igieniche, come fa il
prestidigitatore che tira fuori il
coniglietto dal cilindro senza dare
conto dei trucchi. La “roba”,
ridotta a fette per una migliore
prevenzione della muffa, rapida nel
pane cotto con il lievito di birra,
ci assicurava la sopravvivenza per
due-tre giorni, specie se associata
alla polenta. Un prodotto
alimentare, venduto a cielo aperto,
era la “pasta di datteri”, che gli
arabi consumavano con il latte
acido. Un cibo energetico ma a cui
l’abbondante sabbia ci costringeva a
ricorrere il meno possibile. Il
quartiere Incis (come lo
chiamavamo) ci offriva i servizi di
un emporio di generi alimentari - di
un tale Cavaliere -
usufruibili “fuori tessera” e quindi
anche “fuori calmiere”, cioè a
prezzi liberi. In più mio padre era
riuscito a procurarsi e a
contraffare ben quattro tessere
annonarie che ci consentivano di
raddoppiare “legalmente” i generi
razionati. Il pasto era ridiventato
il rito sacro dell’antichità:
mangiare insieme era una forma
inconscia di controllarsi
reciprocamente ma anche l’occasione
per potere dire coralmente, ciascuno
per sé: “mangiamo, quindi siamo
ancora vivi”, “mangiamo insieme,
quindi ci proteggiamo a vicenda”.
Il
posto già occupato dai tedeschi
accanto al recinto delle Incis,
venne occupato dagli americani, che
- non poteva essere diversamente -
non mancai di contattare, tirandomi
sempre dietro la mia Pinuzza,
e, devo dirlo, con maggiore successo
dell’esperienza precedente con i
rigidi teutonici. Alcuni degli
ultimi arrivati erano anche oriundi
siciliani e, pur non avendo mai
imparato l’italiano, non avevano
dimenticato del tutto il dialetto
originario, che parlavano in maniera
caratteristica e grottesca. Uno,
facendo il confronto della morbida
sabbia del deserto, dove era stato a
lungo, con la strada asfaltata,
diceva “cca mi fanu mali i jammi”
(qui mi fanno male le gambe e
ci faceva ridere.. Sembrava di
rivedere vecchi amici o d’incontrare
lontani parenti. Uno volle regalarmi
un grosso pocket-book del
titolo “Believe it or not” (credici
o no): una raccolta nutrita di
fatti curiosi e incredibili che
l’autore, tale Robert L. Ripley,
s’impegnava a comprovare dietro
semplice richiesta. Conservo quel
“tascabile” come “regalo di un
americano”, anonimo.
Le
truppe di occupazione avevano
bisogno di personale civile e
cominciarono a reclutarlo nelle
pubbliche piazze. A tal fine
disponevano l’occorrente: almeno un
tavolo e una sedia e alcuni addetti
forniti di carta e penna, uno dei
quali capace di fare da interprete,
possibilmente non militare. Non
badavano né al sesso né all’età e
gl’inglesi (sia detto a loro lode)
nemmeno all’etnia. La guerra aveva
portato la disoccupazione anche a
Tripoli e l’arrivo di “datori di
lavoro”, anche se precario, venne
accolto con favore soprattutto dai
più giovani che, impossibilitati
perfino di andare a scuola,
s’imbattevano, almeno, e
inaspettatamente, in una discreta
fonte di guadagni.
Io
non venni reclutato all’aperto ma
grazie ad una signorina, che abitava
al primo piano della palazzina.
Aveva certamente notato con quale
insistenza la guardavo dalla mia
terrazza pur non avendo un’età
adeguata alla sua. Lei era già “in
servizio”, quando venne
spontaneamente a propormi di
lavorare anch’io. Il fine,
secondario, lo scoprirò anni dopo.
Fu così che iniziai la mia
occasionale breve ma altrettanto
variegata “carriera” di clerk
presso uffici militari ora inglesi
ora americani. Essere licenziati era
facile quanto essere assunti così
emigrando da un posto all’altro.
Esordì presso Medenine Barracks,
un’immensa casema-deposito
britannica in contrada Sidi Mesri
a circa sei o più chilometri dalla
periferia della città. Si viaggiava
in piedi su carri bestiame lungo
strade per fortuna bene asfaltate,
serpeggianti ma anche polverose: il
punto di destinazione era già
deserto, un estremo lembo del
Sahara. Avevo da poco compiuto
quattordici anni. Il primo giorno mi
fece l’effetto che, con altri
termini, può fare a un poppante
l’essere costretto da un momento
all’altro a passare dal latte
materno al prosciutto. Totalmente
privo di esperienza mondana e
afflitto da una timidezza quasi
patologica, restai letteralmente
traumatizzato dalla vulcanica
volgarità gaudente da postribolo
d’infimo livello dei miei compagni
di viaggio (e di ventura), quasi
tutti più anziani di me. Erano
un’accozzaglia di arabi, ebrei,
africani neri, turchi, greci,
italiani e chissà che ancora che,
nel bel mezzo della guerra e in una
posizione alquanto scomoda, venivano
sballottati come buoi diretti al
macello o, peggio, come roba vecchia
destinata al macero. Erano tutti più
o meno ossessionati da una cosa:
dalla sessualità. In verità, i miei
connazionali, quasi sempre fascisti,
alcuni dotati di una buona
istruzione (uno di questi, tale
Cutuli, fratello della detta
Silvia, addirittura, lo
rincontrerò in sèguito come...
compagno politico), la facevano da
direttori di orchestra. Le battute e
le allusioni erano salatissime e
spesso, per me, di significato
oscuro. Di norma non si discuteva:
si scherzava. Quelle persone, magari
mature di anni, volevano solo
divertirsi come scolaretti in gita,
ritrovandosi d’accordo almeno su
quella cosa. Ogni frenata brusca era
più un pretesto di motteggi che un
fastidio anche se talvolta qualcuno
ne usciva contuso.
Cominciai
a comprendere come in ogni adulto
sonnecchi il bambino voglioso di
giocare e come il bisogno di rendere
vivibile una realtà sconfortante
induca l’uomo ad ubriacarsi di cose
futili come, talvolta, a mangiare
oltre misura. C’era un contrasto
grottesco con lo spirito delle
prediche, magari religiose, di chi
pretende di raggiungere, sulla
scorta di rinunce, di sacrifici e
ipocrisie mistiche, quella
“fraternità” interetnica che quegli
uomini-bambini di diversa
nazionalità realizzavano, sia pure
solo epidermicamente, puntando sulla
“comunanza e complicità” della sola
fantasia erotica.
Il
primo posto di lavoro era una
sconfinata camerata fornita di
banchi lunghi e di sedie più come un
uditorio religioso che un’aula di
scuola. I “lavoranti” vi erano
disposti a caso. La promiscuità era
indiscriminata. Alcune donne, talora
appena adolescenti (assenti,
s’intende, le musulmane!) facevano
il paio con i capi-banda dei
carri-bestiame. Il bordello si
allargava.. Da tale ambiente, più
caotico e licenzioso che malsano,
trassi anche delle lezioni di vita,
una delle quali riguardava il fumo,
di cui ancora non conoscevo la
nocività. Vi si fumava, neanche a
dirlo, liberamente ed io fumavo,
passivamente, il fumo degli altri,
che non era poco. Uno dei vicini di
banco era una persona matura e
seria, un certo Piccinnini,
barese, chissà perché rimasto senza
lavoro. Costui aveva il problema
della sigaretta. Anzitutto doveva
procurarsi l’oggetto del piacere e
della dipendenza, possibilmente al
mercato nero, e non era sempre
facile. Quando ne era privo,
smaniava. Poi doveva portare con sé
tutto l’occorrente, cosa non agevole
specialmente quando, con il caldo,
non indossava la giacca e doveva pur
mettere da qualche parte pacchetto e
accendino. C’erano poi i giorni in
cui era combattuto dal bisogno di
imboccare il “ciuccetto” e dal
timore di peggiorare una faringite
, resa fastidiosa da una tossettina
insistente. Forse fu allora che
cominciai a concepire il proposito
di non diventare uno schiavo di quel
vizio. Ci sono riuscito
perfettamente.
Dietro
la mia introversione c’era
un’audacia che sorprendeva me stesso
e l’una e l’altra dovevano avere una
causa anche nel dramma che mi
portavo dentro, che mi faceva già
riflettere sulla fragilità degli
“impianti affettivi”, dentro cui si
tende a stabilirsi per il bisogno
della sicurezza, e, nello stesso
tempo, mi spingeva a reagire contro
tutto ciò che mi apparisse ingiusto
e offensivo dei miei diritti . Per
chi mi osservava ero solo un
ragazzino come gli altri con in più
una certa insofferenza. Sta di fatto
che ero un ribelle senza saperlo: la
stessa persona che sono tuttora,
nemico di ogni abuso dell’uomo
sull’uomo ma con un’esperienza anche
culturale, lungamente vissuta, che
mi consente di non confondere più la
protesta istintiva del momento con
l’imperativo morale e con un impegno
“rivoluzionario” (s’intende
nonviolento). Comunque sia, in
quella situazione ero l’unico che
protestava, anche ad alta voce,
sfidando le ire del sergente, che
chiamavamo staff, e non solo
quando il fatidico “filoncino” di
pane - integrativo della paga ed
alimento-base del pasto meridiano -
non arrivava. Un giorno, esasperato,
smisi di lavorare non prima di avere
scritto sul foglio di “annotazione
produttiva” individuale della
giornata “one canot work without
eating” ovvero “non si può
lavorare senza mangiare”. Tra
l’altro, alla mia età la fame
semplicemente mi bloccava. Uno
sciopero-interruzione di... servizio
in piena regola. La giovane età mi
salvò dalla minacciata prigione ma
non dalla corresponsione della
“fine” (alias multa).
Ero
anche l’unico a frequentare, durante
gl’intervalli di lavoro, un
capannone attiguo occupato da
soldati di colore, neri come la
pece, e talora anche animalescamente
brutti. Uno di loro mi divenne amico
e mi parlava di sé, naturalmente in
inglese (il tedesco apparteneva già
ad un’epoca passata). Era sudanese
con i caratteristici tre tagli sulle
guance, probabilmente abbastanza
istruito, come diceva anche il fatto
di trovarlo intento alla lettura di
libri scritti nella sua lingua. Mi
diceva, tra l’altro, di avere
quaranta fratelli (naturalmente di
madri diverse), il che doveva
denotare l’appartenenza ad una
famiglia musulmana benestante. Mi
salutava nella sua lingua con una
voce caratteristica, quasi
selvaggia, ma piena di umanità e di
simpatia, che sento anche risonare:
“ Gumela minnà! zappili?” “Buon
giorno! come stai?”. I miei
connazionali mi guardavano con
sospetto come se avvicinassi
temerariamente dei bestioni o degli
stregoni, così scoprendo la loro
xenofobia razzista. Io, invece,
scoprivo la mia naturale
disponibilità a non giudicare i miei
simili dal colore della pelle. Ben
presto vidi il soldato nero dietro
la sponda di un carro militare
diretto chissà dove. Ci salutammo
con cenni della mano: forse anche
lui pensava di perdere di vista e
per sempre un amico!
Non
ricordo come, nella casa che ormai
si poteva dire “abitazione di mia
madre”, entrò un pianoforte. Non ci
avevo mai messo le mani, ma mi ero
dilettato con un vecchio mandolino.
Ho sùbito strimpellato la allora
diffusissima “Lili Marleen” e
l’inquilina di sotto venne per
sapere chi fosse il pianista!
Non
resistetti al pensiero della
solitudine di mio padre nella casa
deserta di Via Mazzini che
non poteva non ricordargli lo
sfascio della sua famiglia, e non
tardai a raggiungerlo non per
mettermi contro mia madre ma per
salvare lui, che si trovava con
l’acqua alla gola. Ed è quello che
effettivamente feci dichiarandolo
senza mezzi termini alle autorità
del Tribunale presso le quali mia
madre mi farà convocare. Tra
l’altro, sfuggivo anche a un (non so
perché) minacciato internamento
“punitivo” in un collegio londinese,
il cui solo pensiero mi distruggeva.
Mio padre faceva pena. Distrutto,
pallido, dimagrito, si trascinava
per il solo impulso di sopravvivere.
Dovette essere troppo forte il mio
istinto, più materno che filiale,
per rinunciare alla coabitazione con
la mia sorellina. Solo con mio
padre, mi ritrovai nel pieno della
“mia” guerra, nel cuore di una
realtà che era esattamente il
contrario di quella a lungo
vagheggiata in casa dei nonni e per
circa un anno “assaporata” in quella
stessa abitazione. L’occupazione
militare aveva ridotto al lumicino
le già buone condizioni economiche
dei miei genitori. Invece del solito
stipendio (poco più di settecento
lire mensili ma ben sufficienti al
costo nominale della vita di
allora), che sarà intanto sospeso,
mio padre percepirà un compenso
d’emergenza o un acconto fino al
rientro in patria. Mia madre si
ritrova sul lastrico dall’oggi al
domani e senza un’ombra di
doposcuola. Collaborerà con un’amica
sarta, una certa Ripellino,
il cui laboratorio si trovava nella
parte alta del Corso Italo Balbo,
alias Corso Sicilia (oggi
“Giaddad Omar el Muktar”), non
lontano dalla famosa “Fiera
Campionaria”, dove mio padre
aveva avuto il primo ingaggio di
lavoro nell’edizione del 1939.
C’erano circa due chilometri di
cammino attraverso una città
apparentemente disabitata. Un
pomeriggio (ancora non lavoravo)
l’accompagnai con la mia
inseparabile sorellina, che per me
era sempre una promessa di gioco. Ma
il dolore mi faceva crescere troppo
in fretta. Quella volta, mentre mia
madre era intenta nella sua attività
artigianale, fui sorpreso dallo
strillio di un arabetto, un “uled”
dicevamo, che echeggiava in una
solitudine deserta e in un’area che
sembrava sconfinata come la
Piazza Rossa di Mosca. Vendeva
il primo numero della “Libera
Italia”, portavoce di
un’organizzazione antifascista
omonima, fondata, mi pare al
Cairo da Carlo Sforza.
Era un giornaletto di pochissime
pagine non più grande di un classico
quaderno di scuola, che io corsi a
comprare con una spontaneità
meccanica, inconsciamente teso a
chiedere lumi su un mondo che
stentavo a capire. Era il primo
foglio del genere che prendevo nelle
mani, e in quel momento nascevo
davvero a quell’interesse politico e
sociale che ben presto diventerà una
passione, un costume e una ragione
di vita.
Il
mio primo lavoro durò parecchi mesi,
fino a quando non cominciai ad
avvertire gli effetti nocivi allo
stomaco di un regime di vita e
alimentare non proprio cònsono alle
norme igieniche e profilattiche. Si
lavorava l’intera giornata con un
breve intervallo meridiano. Si
mangiava poco e male e la sabbia,
sollevata dal ghibli, faceva
inevitabile parte del pasto.
Dall’arsura estiva mi difendevo
bevendo, intanto, la mattina anche
senza sete e molto per assicurarmi
una buona riserva di liquido come
fossi un dromedario. Rientravo via
via più provato finché decisi di
cercare altrove.
Divenni,
anche notoriamente, il “salvatore”
di mio padre che mi si aggrappava
come il naufrago a un relitto. A
casa facevo quasi di tutto. Mio
padre era un uomo buono, arguto,
ingegnoso, gioviale, nemico di ogni
iniquità e altrettanto ipocondriaco
e polemico. In ufficio era l’unico
antifascista che avesse il coraggio
di non nascondere le proprie
convinzioni con il risultato di
attirarsi le ire dei capi e dei
caporali. Questa vigilanza critica
nei riguardi del mondo circostante,
fatto di assuefazione, di pigrizia
mentale e d’ipocrisia, era una
specie di militanza volontaria a
favore della verità, che gli costava
persecuzioni, arrabbiature e patemi
d’animo ma l’aiutava anche a non
sentirsi inutile e a continuare a
vivere nonostante tutto. In quel
frangente mise a frutto vecchie
esperienze e riuscì ad inventarsi
un’attività redditizia come
rappresentante di commercio e come
grossista di prodotti di fattura
domestica (per es., di tintura nera
e di bianchetto per le scarpe). Lo
stato di “interregno” esentava da
qualsiasi obbligo legale e fiscale,
almeno per queste ultime
prestazioni, che ci riavvicinavano
molto ai tempi del baratto. Mio
padre passerà lunghe ore in giro per
tutta la città anche per raccogliere
commissioni di sedie per barbiere o
di plance per sarti e per acquistare
sempre più boccette usate negli
angoli più recessi, battendo
soprattutto “Sciara arba ssat”
(Via dei quattro canti) sita
nel cuore della città vecchia. Anche
fuori casa io gli sarò sempre più
accanto destando l’ammirazione degli
estranei e fors’anche la
commiserazione di qualcuno.
La
prima razione quotidiana di pane
sotto l’amministrazione britannica
era di appena cinquanta grammi, che
andavamo a prelevare puntualmente.
Ma senza il mercato nero saremmo
morti di denutrizione. Certo,
frequentavo la casa di mia madre e
nella presenza della mia sorellina
ritrovavo parte della mia infanzia.
Ogni volta era una gioia anche se
amareggiata da recriminazioni che
non meritavo e talvolta anche da
qualche carezza un po’ pesante. Le
ostilità dei miei genitori,
continueranno anche a distanza e non
cesseranno mai. Mia madre, una donna
ch’era riuscita a farsi una buona
cultura e che scriveva già anche
delle buone poesie (ne farà di
meglio nell’età matura e ne darò
conto io stesso), aveva problemi
psicologici che l’ex marito non era
in grado di comprendere. Invidiavo
quei soldati che, scampati
all’inferno della guerra, avrebbero
potuto riabbracciare i propri cari.
Io avevo bisogno della presenza di
una madre rassicurante ed ero più
infelice di un soldato.
Le
condizioni di disagio generale
spingevano a reinventarsi i più vari
mestieri di campare. Un professore,
vicino di casa, si mise a vendere
frutta e verdura.. Il mio genitore
pensò bene anche di subaffittare una
delle due stanze e il piccolo vano
(che poi diventerà la mia
stanzetta), arredati sommariamente.
E fu un’altra esperienza
esistenziale quanto mai varia. Uno
degli inquilini, un giovane
attempato oriundo da Macchia di
Giarre (Catania), doveva essere
affetto da schizofrenia. Il
poveretto, che non aveva
un’occupazione, riempiva, non
sapevamo per quale ragione, delle
bottiglie, probabilmente di acqua
semplice, le sigillava con mollica
di pane e le metteva sul davanzale
della finestra per farne essiccare
il tappo al sole. Forse, per la sua
mente malata, si trattava di
un’azione propiziatoria. La mattina
che gli comunicherò, trepidante, la
notizia della vittoria referendaria
della Repubblica, mi guardò come per
dirmi: “che dici a me che vivo in
un altro mondo!”. Un altro
inquilino non inventò nulla di nuovo
portando stivaloni con sperone e
facendo il mezzano. Si chiamava
Valentino Gioacchino. Non so quale
fosse il nome di battesimo. Era
palermitano e pareva una persona
così ammodo da potersi spacciare
perfino per insegnante. Nel suo
abitacolo c’erano movimenti
sospetti, finché un giorno degli
agenti in borghese lo vennero a
prelevare, anzi ad arrestare, e noi
ci sentimmo in dovere di andarlo a
trovare in carcere. Un altro giorno
dei poliziotti lo vennero a cercare
da noi, essendo sfuggito dalle
sbarre, rovistando tutti gli angoli
della casa con grande paura di noi
che ritenevamo compromettente
possedere delle coperte militari. Il
signor Valentino era un uomo
fortunato. Ricondotto in cella,
conobbe, fra il personale
carcerario, la sua futura moglie e,
in sèguito, non so come, venne
assunto presso un ministero. Mio
padre, già in lotta con lo Stato
postfascista per ottenere il
reimpiego con tutti i benefici, gli
scrisse per qualche informazione.
Dalla grafia sembrava davvero una
persona colta ma dalla richiesta di
“rimborso spese” si vedeva ch’era
rimasto un avventuriero. Prima di
rientrare in patria, dimentico delle
millanterie iniziali, mi aveva
pregato di dargli un’”idea”, voleva
dire una prepazione lampo, per
l’abilitazione magistrale, cosa
evidentemente impossibile. Non gli
fu risposto e non ne sapremo più
nulla.
Con
l’occupazione militare cominciò a
risvegliarsi il legittimo sentimento
nazionale dei libici, non senza la
puntuale stupida ironia di certi
italiani che ci scherzavano sopra
dicendo che costoro aspiravano alla
“pendenza” ovvero
all’indipendenza. Sta di fatto che
ben presto ebbe inizio il processo
di “libicizzazione” della pubblica
amministrazione. a sèguito della
quale i dipendenti italiani
entravamo in una specie di
“aspettativa” cioè di attesa del
reimpiego. Questo diritto venne
riconosciuto anche a chi occupava un
posto di richiamato. Ma a mio padre,
che aveva una situazione analoga,
non fu facile conseguirlo.
Evidentemente la sua fama
di...sobillatore dovette giungere
alla gerarchia romana rimasta
abbarbicata allo spirito del regime.
Il Ministero addetto alle “questioni
libiche” non aveva alcuna intenzione
di riconoscerglielo, accampando un
cavillo dopo l’altro Ma il mio
genitore ebbe il coraggio di aprire
vere ostilità epistolari contro un
governo nominalmente postfascista ed
io, se possibile, ne ebbi uno più
grande allegando alle filippiche
paterne serie minacce,
giornalistiche s’intende. Il dubbio
che dietro la mia firma, peraltro
nota alle rappresentanze
diplomatiche libiche, ci fosse ben
più di un ragazzo giocò a favore di
mio padre che alfine vinse a tutti
gli effetti quella grande-piccola
guerra (di sopravvivenza).
Uno
dei sublocatari, susseguitisi nel
tempo, era un infermiere della
mutua, un veneto giovane e brutto,
perfino strabico, tale Doretto
che, all’insaputa di mio padre e con
la copertura del mio silenzio,
riceveva nella solita stanzetta una
prostituta araba. Me ne parlava così
tanto che insistetti per provarci
anch’io. Era una bella ragazza - la
prima donna che vedevo - ma così
maldestramente mercenaria da
rendermi insopportabile per sempre
ogni mercimonio del genere.
Avrà compreso che per lei avevo solo
curiosità. Tuttavia, ella fece,
senza saperlo, un’opera di
prevenzione che auguro a quanti
credono di potere comprare ciò che
vale solo se è un dono spontaneo e
disinteressato.
Per
alcuni mesi migrai da un posto
all’altro. Fui anche presso gli
uffici del Quartier Generale
(H.Q.) dell’aeroporto americano
della Mellaha, (salina) una
zona abbastanza lontana, oltre
Suk el Giuma (“mercato del venerdì”)
e che prendeva il nome da un antico
“essiccatoio di sale”. Qui la
licenziosità coinvolgeva anche il
corpo militare, ufficialmente solo i
gradi inferiori. Il mio inglese,
incipiente, si arricchì delle
volgari infiorettature dello
“slang yankee”. Mi accorsi che
quei “datori di lavoro” erano soliti
chiamare i dipendenti non con il
loro nome o cognome ma con un
nomignolo che avesse in comune con
quelli un’iniziale o una certa
assonanza . A me, per esempio, fu
dato il nome di Victor,
dall’iniziale del mio cognome, e che
pronunciato all’americana, suonava
più o meno “veccio”.
Inizialmente non rispondevo perché
nessuno me ne aveva informato. Un
mio collega veniva chiamato
Junior, probabilmente per
assonanza con Giulio, suo
vero nome. Era un modo per
“spersonalizzare” il lavoratore e
asservirlo alle comodità dei
“padroni”, ovvero un modo per non
adattarsi al mondo ma per adattare
il mondo a sé. Il fatto mi
mortificava e infastidiva non poco.
Ebbi vari incarichi tra cui il
servizio postale - che consisteva
nell’inserire gli effetti in arrivo
nelle varie caselle aperte - e la
stampa al ciclostile, della quale si
serviva soprattutto il “pastore”,
che aveva sempre qualcosa da
comunicare ai fedeli attraverso la
bacheca della “chiesa”.
Le
infrastrutture di quell’aeroporto
costituivano una vera città in
miniatura. Negli intervalli
meridiani ero addetto al telefono e
qui caddi e per colpa dei signori
ufficiali che pretendevano una
“rispondenza” da interprete provetto
del loro gergo! Un “razzismo
politico” caratterizzava
l’amministrazione americana della
Mellaha: prediligevano gli ebrei
mentre letteralmente ignoravano gli
arabi. Davanti alla “Main Gate”
(entrata centrale), cui eravamo
collegati con uno “shuttle bus”
(bus spoletta) in servizio continuo,
inutilmente si aggiravano dei
poveracci libici in cerca di un
qualche lavoro. Era come se non
esistessero. Vi tornai una seconda
volta come addetto alle
“teletypes” (telescriventi),
strumenti stupendi, allora
all’avanguardia, di collegamento
con aeroporti di altre basi
africane, i cui operatori potevano
anche comunicare a titolo personale
e giocarci perfino, ma fui io a
rinunciarci perché il turno, di sei
ore, cambiava ogni giorno.
Altro
posto di lavoro “memorabile” è
quello del Naafi-Efi, un
deposito di approvvigionamento per
l’esercito, dove si trovava di
tutto: dagli artistici pieghevoli di
auguri, dominati da fiori e cani, al
tabacco. Era sito piuttosto lontano
dalla città. Come al solito ci
venivamo “trasportati” con apposito
carro-bestiame. Il non assembramento
del personale dava un certo decoro
all’ambiente anche se i temi
preferiti erano sempre gli stessi.
Le mansioni richieste erano quelle
di un supermercato. Io ero uno dei
commessi. Il responsabile era un
sergente pacioccone che centellinava
la birra sin dal mattino e chissà
che non facesse la stessa cosa in
caserma e magari durante la notte.
Non era mai visibilmente ubriaco ma
teneva la bottiglia ben nascosta ai
superiori in visita per ispezione o
per prelievi.
Nella
nuova situazione ebbi modo di
mettere alla prova il mio vago
proposito di non diventare schiavo
del vizio delle sigarette, che qui
potevo avere a prezzi scontati se
non gratis. Mi limitavo a fumarne
una di tanto in tanto solo per
apparire “come gli altri”. Il vizio
del fumo comincia dal contagio e
dalla vanità. Ma io preferivo
devolvere i miei risparmi
all’acquisto di libri per soddisfare
il bisogno sempre più imperativo
della lettura e del sapere. E ciò mi
salvò in tempo. Per giunta, ebbi la
fortuna d’imbattermi in un libraio
ebreo che mi vendeva libri usati a
prezzi “stracciati” o addirittura in
cambio di vecchi numeri del
“Corriere di Tripoli”. Così
nacque la mia biblioteca personale
che è andata sempre più crescendo.
Al “Naafi-Efi” non mi ci
volle molto per scoprimi ancora uno
sprovveduto. Me lo ricorda un
episodio banale. Non so quale fosse
la festa su cui bere, forse Natale.
Ricordo che i colleghi mi avevano
messo da parte una bottiglietta di
birra, omaggio del capo, in attesa
che io rientrassi. La tracannai, la
birra, come un incallito bevitore,
ma la rapidità e lo stato di digiuno
me la fecero “restituire” nello
stesso momento. Il mio stomaco mi
dava una lezione di misura. Infatti,
fu il primo ed ultimo incidente di
accostamento imprudente all’alcol.
Finito
l’assillo dei bombardamenti, anche
di quelli tedeschi, la guerra
sembrava lontana, come finita. Non
sapevamo quasi nulla di quanto di
mostruoso avveniva nella Germania
nazista. Dopo gl’ingaggi militari,
tentai anche quelli civili. Fui per
qualche tempo alla ragioneria del
Municipio, diretta dal sardo
Zuddas e, in subordine, dal
turco rag. cav. Smirne, ma
ero decisamente negato per i numeri.
Passai alle dipendenze di un’agenzia
di collocamento, anche di donne di
servizio, e qui ebbi a sperimentare
ancora la naturale intraprendenza
della ragazza ebrea, così diversa,
allora, dal falso pudore delle
compaesane. Finché la relativa calma
indusse l’amministrazione militare
britannica ad una riapertura
parziale delle scuole e così chiusi
definitivamente quell’esperienza
lavorativa che nella mia memoria mi
sembra straordinariamente lunga.
*********************
Il
settembre del ‘43 (quindici anni
il 22 di quel mese) mi ritrovai
a scuola dopo tre anni di
forzata interruzione. Mi sentivo
anziano per il secondo anno del
ginnasio-liceo dell’epoca ma non
avevo nulla da rimproverarmi. Il
corso venne intanto affidato
alla direzione e cura dei
Fratelli Cristiani che
misero a disposizione aule,
cortile e i sussidi didattici di
cui disponevano. Per me andare a
scuola significava attraversare
la strada in cui abitavo. Da
qualche tempo la mia vita era un
susseguirsi e accavallarsi di
avvenimenti che ne cambiavano
volto da un giorno all’altro. Il
ritorno a scuola fu più di un
avvenimento: fu una rivoluzione
totale della mia esistenza, che
non ho ancora finito di
realizzare. In realtà ero più
vecchio della mia stessa guerra,
forse perché, paradossalmente,
il dolore è maestro di vita. Non
sembri strano se dico che ero
l’unico alunno a dichiararmi
antifascista e ciò lo dovevo
soprattutto a mio padre che,
senza forzare la mia innocenza
mentale, mi aveva reso sensibile
ai fatti politici, a quanto
succedeva attorno a noi, e
iniziato agli interessi sociali.
Aveva fatto di me un
interlocutore privilegiato e un
amico.
I miei
compagni di scuola non avevano
ancora convinzioni “autonome”, tutti
essendo più o meno succubi della
propaganda del regime con la
complicità, almeno passiva, delle
rispettive famiglie. Quello fu per
me un anno scolasticamente felice.
Studiare non era per me una fatica.
Il libro, qualunque libro, era uno
dei miei “trastulli” preferiti e di
libri ne avevo già non pochi.
Durante la forzata vacanza di ben
tre anni avevo vissuto di più. Mi
ritrovavo come in sogno fra banchi
di scuola ma con compagni che
conoscevo per la prima volta. E in
questi vedevo nuove facce del mondo
anche perché le regioni di
provenienza erano le più varie
sebbene con la prevalenza di quelle
meridionali. E c’erano con me anche
quattro ragazzi ebrei. Mi scoprì
presto proclive alla conversazione e
alla polemica come investito da un
impegno proselitistico. Infatti, ero
già convinto della fallacità del
regime fascista e cantavo le lodi di
una società nuova in cui credevo
senza conoscerla ancora, proteso
nello sforzo di convincere il mio
occasionale interlocutore, magari
più giovane di me (quindi ancora un
bambino) che, a sua volta, reagiva
automaticamente senza comprendere un
linguaggio del tutto nuovo.
In
un tema d’italiano svolto in classe,
molto lodato dal fratello
Eriberto Prunotto, nostro
docente di lettere, esprimevo il mio
proposito di battermi in difesa
della giustizia. L’ultimo baluardo
della mia “infanzia” a cadere, sarà
la “fede” nella Chiesa cattolica
ed ero orgoglioso di essere stato
prescelto dal detto “fratello” come
“corredattore” di un giornaletto di
classe, che poi non si fece. Nel
pezzo di apertura avevo espresso
un’apologia sviscerata - oh quanto
ingenua! - della “mia” religione,
che oggi mi fa soltanto sorridere .
Uno dei drammi della mia vita è
quello di avere creduto, bambino,
con tutto me stesso alla Chiesa
dei papi al punto da subirne tutto
il fascino malefico e inibitore e da
uscirne letteralmente traumatizzato
scoprendo di essere solo un
“tradito” (una preda mancata), uno
dei tanti nuovi germogli della
specie umana, oggetto di sequestro
mentale preventivo attraverso una
suggestiva catechesi al solo scopo
di formare non “soldati di Cristo”
ma difensori di domani di un
istituto più politico che religioso,
più pagano che cristiano.
Fratel Eriberto era - ed è
rimasto - una figura amabile e mi
chiedo perché uomini puri e sinceri
come lui finiscano strumenti di un
istituto che non li merita. Non
ancora trentenne, era un giovane
simpatico e nient’affatto bigotto
tanto da esprimere perfino delle
battute abbastanza “spinte”. Era uno
di noi. Non so perché abbia scelto
la castità, sensibile com’era alla
bellezza femminile. L’ho ripescato
molti anni dopo e oggi, al tramonto,
leggo le sue lettere affettuose in
cui ritrovo le lodi di allora - e
sento la sua voce, lontana, al
telefono.
La
scuola era per me anche un’occasione
di compensazione: amavo fare il
buffone mentre piangevo dentro. Mi
era “socio in buffoneria” un ragazzo
spilungone, buono e semplice di nome
Antonio Spanalatte, che
chiamavamo semplicemente “Spana”.
Questi era per la battuta farsesca,
io insistevo su quella arguta. Ci
completavamo. Ma appena rientravo a
casa ripiombavo in una tristezza
angosciante. Mi ammalai d’infezione
intestinale e mi sentivo così male
che pensai di scrivere una lunga e
accorata lettera a mia madre
pregandola di “rientrare” per la mia
salute ma anche annunciandole di
sentire che “da grande” avrei fatto
qualcosa di nuovo. Non ero in grado
di comprendere le ragioni della mia
tenace genitrice né questa era in
grado di comprendere le mie. Non mi
rimane che chiedermi ancora,
inutilmente, a dieci anni dalla sua
scomparsa, se ci sia qualcosa di più
sconvolgente per un figlio, affetto
da depressione esistenziale, di una
ripetuta frustrazione “materna”. Non
ricorda ciò la scena di un assetato
che vede scorrere davanti a sé un
ruscello di acqua limpida e fresca
senza poterne bere?
Di
tutte le compagnie di classe - e ne
ho avute tante - questa mi è rimasta
nel cuore più di ogni altra. Solo di
questa posseggo una foto-ricordo,
già apparsa nei periodici “Oasi”
di Torino (di pertinenza dei
Fratelli Cristiani) e
“Italiani d’Africa” (Roma)
dei quali sono collaboratore
saltuario. Alcuni di tali compagni
sono mancati all’appello,
prematuramente se si vuole
considerare norma ciò che è solo una
media. Alcuni li ho ripescati molti
molti anni dopo e da allora ci
teniamo in contatto. Con tre di loro
ho vissuto una giornata bellissima a
Roma, nel settembre dello
scorso anno: sono Aldo Maria
Calandra, un forbito scrittore,
Silvano Amirante, un alto
funzionario dell’Aci e
Giorgio Di Maio, docente di
fisica alla “Sapienza” di
Roma. Di questo parlerò più
avanti. Un tale Giovanni Nicosia
è stato il primo ad andarsene da
questo mondo. Aveva poco più di
vent’anni. Era l’eccezione per
eccellenza. A quattordici anni ne
dimostrava di più e non solo per una
villosità scimmiesca. Era un
frequentatore incallito di
prostitute: un vero diavolo tra
tanti candidi angioletti. Adulto
voleva fare il “viveur”, o
che altro?, e lo si vedeva
impomatato in manifestazioni
mondane. Non la spuntò contro la
tisi. Voleva troppo dalla vita e
dalla vita fu tradito. Povero
Giovanni! Uno l’avevo ripescato
proprio, come dire, sotto casa. Si
chiamava Mario Pittera ed
abitava a Catania. E’ appena
andato anche questo. Da uno sono
stato contattato alcuni anni fa. Si
chiama Gianfranco Gerosa ed
abita a Monza. Ho nitida la
sua immagine di ragazzino serio e
pensoso. Il suo spirito non è
cambiato. Quella seconda ginnasiale
me la sono raffigurata come un
semenzaio di germogli umani
ritrovatisi insieme per caso
provenienti da luoghi nativi diversi
ma accomunati da una circostanza
unica e straordinaria: avevamo tutti
la sensazione di vivere a cavallo
tra due epoche : la nostra acerba
adolescenza coincideva con uno
stravolgimento sociale da cui non
sapevamo cosa aspettarci.
Un
avvenimento mai dimenticato è una
gita in bicicletta organizzata
proprio dal “fratello”. Non
ricordo per quale eventuale
ricorrenza. Allora la due-ruote era
un mezzo di locomozione molto
diffuso soprattutto tra i giovani.
Era un piacere, una necessità, un
modo di fare dello sport vero e
genuino. Partimmo di buon’ora per
una destinazione che non ricordo.
Altre scolaresche facevano quel
giorno la stessa cosa. Sostammo su
uno spiazzo a fondo naturale
ritenuto buono per giocarci con il
pallone che il fratello aveva
portato con sé. Questi credette di
doverne chiedere il permesso a
militari inglesi che vi si trovavano
con delle camionette. E fu lui
stesso a spingermi perché usassi il
“mio” inglese, cosa che io feci non
poco lusingato e con successo ma
anche con un poco d’imbarazzo. Così
giocai (per modo di dire) per la
prima ed unica volta a “football”
senza conoscerne una sola regola
insieme a colleghi di classe che non
ne sapevano più di me. In seguito
odierò questo “sport”
trasformato in una macchina per fare
soldi e in uno strumento
demagogico. Il ritorno fu pesante
per me e la stanchezza muscolare
delle gambe mi fece balenare l’idea
di una comoda “bicicletta a motore”
che sei anni dopo scoprirò a
Siracusa.
L’anno
successivo il ginnasio-liceo venne
trasferito presso la sede pubblica
naturale: cioè presso l’Istituto
“Dante” di Via Lazio. Qui
il mio orizzonte umano si allargò di
molto. La classe si arricchì di
quattro ragazze che, naturalmente,
erano oggetto di attenzioni
particolari da parte di una ventina
o più d’intraprendenti galletti.
Quella disposizione la ricordo più
nitidamente di ogni altra. Le
fanciulle occupavano i primi due
banchi della terza fila. I loro
nomi: Madia, Rosetta, Maria.
Della quarta ricordo solo il
cognome, Mastroeni. La prima
abita a Bari ed ha una buona
attività culturale. La seconda è
scomparsa recentemente. La terza la
conoscevo di già perché era una mia
vicina di casa al quartiere
Incis. Per raggiungere la casa,
ormai abitata solo da mia madre e
dalla mia sorellina, non potevo non
passare sotto la finestra di lei,
non notarla e non sentire spesso la
voce di qualcuno che chiamava il
piccolo Armando, suo
fratello. Maria venne da mia
madre per chiedermi di aiutarla nei
compiti d’inglese, cosa che io feci
molto volentieri. Nacque così un
raro caso di sodalizio
adolescenziale semplice e sincero
capace di durare tutta una vita.
L’evento emergente di
quell’anno fu una gita di tutto
l’istituto a Sabratha,
un’antica città romana, distante una
cinquantina o più di chilometri,
dove si può ammirare ancora il
teatro classico, il tempio di
Diana e una grande quantità di
ruderi dell’insediamento urbano. Il
tratto di mare adiacente i libici lo
chiamano semplicemente “marsa el
medina” cioè “porto della
città”: Fu un’escursione
interessante sotto il profilo
goliardico e archeologico ed anche
per i docenti che, per l’occasione,
tornavano ragazzi. Sistemati su
autocarri forniti di appositi
sedili, cantammo in coro (si fa per
dire) le canzoni dell’epoca al suono
della fisarmonica di qualcuno. Fra
le preferite la bella Rosmunda
(bocca di rosa!) adatta alla
circostanza per la sua andatura
ritmica. Sul posto c’era anche mia
madre, come docente. C’era tutto
l’universo scolastico di Tripoli.
C’era anche una mia indicibile
tristezza. Quel giorno fui
infelicissimo per due circostanze
aggravanti: per la presenza di mia
madre, che, tra tanto tripudio
giovanile, mi ricordava una famiglia
impossibile, e per la presenza di
una coetanea, che sfuggiva, forse
più per civetteria, alla mia corte,
e a cui, in quel periodo, forse per
un esasperato bisogno di affetto,
avevo legato morbosamente la mia
ragion d’essere al mondo. Quando
sarà lei stessa a cercarmi, il mio
orgoglio sarà più forte del
sentimento dell’amore. Ero una
tempesta di patemi e assistevo alla
gioia degli altri come i quali non
sapevo essere pur riuscendo a
recitare. Se non è questa guerra!
Alla
turbolenta vita affettiva,
soggettiva e silenziosa abbinavo
un’intensa vita “politica”,
oggettiva, fatta di dialoghi-fiume
come se anche a questi volessi
chiedere ciò che mi mancava. Ero
ormai un giovane antifascista di cui
si parlava non foss’altro per la
“rarità” della mia immagine rispetto
alla generalità della gioventù,
divenuta perplessa e disorientata,
inerte e più reazionaria che mai
dopo avere perso il baliatico del
regime. Mi si additava, con sarcasmo
e chissà anche con disprezzo, come
“comunista” perché nell’immaginario
della gente di quel frangente
storico, l’essere comunista era
l’unica possibile alternativa
all’essere fascista. Era del resto
quanto cominciava a strombettare una
certa propaganda clericale e
antibolscevica, aggiornando le
menzogne del ventennio. Un ennesimo
sussulto d’insofferenza mi giunse da
tale Filippo M., giovane
fanatico e irriducibile in odore di
picchiatore “nostalgico”. Costui
m’invitò, con studiata diplomazia,
tramite Marcello Ortona,
direttore pro tempo del Corriere,
a un incontro presso il noto caffè
del centrale Corso Vittorio
Emanuele, “Granprimus”, dove,
probabilmente, sarebbe stato
spalleggiato da altri “camerati”, in
quello che, mi sembrava evidente,
sarebbe dovuto essere un
“chiarimento punitivo”. Non avevamo
mai scambiata una sola parola. Gli
feci rispondere che se avesse
qualcosa da dirmi, venisse lui a
trovarmi. Non c’incontreremo mai.
Pare che si sia dato al giornalismo.
Di lui non ho saputo più niente. Se
mi legge, sappia che dopo così tanti
anni, mi piacerebbe stringergli la
mano.
Ben
presto entrai nel piccolo universo
degli agitatori locali diventandone
una specie di “mascotte” per
la mia giovanissima età. Aderì
dapprima alla sezione locale della
“Libera Italia”, gestita da
un giovane, più impresario che
politico, certo Alvaro Felice,
da cui non appresi nulla e la cui
unica idea innovativa pare fosse
quella di sfruttare la nuova
situazione. Qualche tempo dopo
costui penserà bene di darsi
all’attività commerciale, credo con
successo. Ma devo a lui la
conoscenza di tale Teodoro
Castella, suo segretario, un
distinto operaio piemontese, con
quasi vent’anni più di me, che sarà
sempre un mio fraterno amico ed
stimatore fino alla scomparsa
avvenuta l’anno scorso. Passerò ben
presto al “Fronte Unito”,
sezione locale, dalla sede incerta
perché semiclandestina, di un
movimento omonimo d’ispirazione
marxista.. Il promotore era un
palermitano, tale D’Alba, un
uomo di grossa mole ma di breve
esistenza. Una sua figlioletta aveva
frequentato il dopo scuola di mia
madre. Da lui appresi per la prima
volta la stupenda massima comunista:
“Da ciascuno secondo possibilità,
a ciascuno secondo il bisogno”,
che ripete ed esplicita la massima
cristiana dell’amore del prossimo.
Pare che anche questo fronte
antifascista avesse sede al Cairo,
dove pubblicava un periodico
omonimo, che poi cambierà testata
in “Il Mattino della Domenica”.
Una sera, mentre il corpulento
D’Alba teneva una conferenza a
un gruppetto di “compagni”, fecero
irruzione, nella sede occasionale,
dei poliziotti militari britannici
(certamente informati dai soliti
vigliacchi) che, dopo averlo
lasciato parlare, lo arrestarono
come responsabile di un partito non
autorizzato. Fu rimesso in libertà
pochi giorni dopo a condizione di
rinunciare a quell’attività
.Cominciavo a comprendere il sottile
cinismo machiavellico degli inglesi.
L’anno
seguente (1946), grazie ad un
recupero estivo, m’iscrissi alla
quinta ginnasiale. Un giorno ci
condussero a visitare lo
stabilimento della Birra Oea
istruendoci circa le varie fasi
della lavorazione della bevanda e
consentendoci di berne, per
l’occasione, a volontà. Il risultato
più evidente fu l’ubriacatura di
alcuni studenti. Io seppi restare
padrone della mia coscienza e me ne
facevo vanto mentre lungo la non
breve via di ritorno i più
sprovveduti barcollavano
indecorosamente. La vita di
“clerk” migrante era già un
ricordo. Avevo iniziato una
cavalcata romantica attraverso la
lettura di sempre nuovi libri. Mi
trascrissi a mano l’intero testo de
“Il Manifesto” comunista in
tre quaderni (che conservo ancora)
e, alla stessa maniera, sempre per
supplire alla mancanza di originali
tipografici, copiai non poche pagine
del filosofo pessimista Arturo
Schopenhauer di cui mi
affascinavano certi aforismi
lapidari, la citazione di uno dei
quali mi costerà, nel 1950, un
processo per vilipendio alla
religione di Stato. Lo inserirò,
infatti, in un articolo pubblicato
sul settimanale anarchico
“Umanità Nova”. Il corpo di
reato dice “Se un Dio ha creato
questo mondo, non vorrei essere io
perché la miseria umana mi
spezzerebbe il cuore”. A
fornirmi il materiale prezioso era
soprattutto un simpaticissimo
barbiere toscano, tale Lelio
Tartarelli, il cui “salone” era
luogo d’incontro sistematico della
“diaspora” sovversiva di Tripoli.
Lessi
ancora un sacco di libri in tema di
spiritismo, occultismo,
metapsichica e filosofia indiana e
soprattutto testi sulla Chiesa, tra
cui il poderoso “I Misteri dei
Popoli” del famoso Eugenio
Sue, avuto in prestito
dall’amico vicino di casa,
recentemente scomparso, Antonio
Lamboglia, ricavandone quelle
cognizioni storiche sulla malvagità
del clero romano, che formeranno la
materia della mia rottura definitiva
e la sostanza di un laicismo che
andrò sempre più integrando
attraverso un’analisi scientifica
del sociale. Uno dei miei
interlocutori era il prof.
Montini, che insegnava francese.
Veniva dalla Tunisia ed aveva
la moglie francofona. Apprezzava il
mio entusiasmo “messianico” ma
restava scettico. Era buono e
severo. Forse da poco aveva smesso
la divisa di capitano dell’esercito.
Doveva conoscere bene la lingua.
Devo a lui una particolare
assimilazione del francese perché
esigeva che in classe ci si
rivolgesse a lui solo in questa
lingua. Una volta un alunno gli
chiese: “puis-je sàkker la
fenetre?” per dire “posso
chiudere la finestra?” Sàkker,
voce araba, stava per “fermer”
(chiudere) che in quel momento
non gli veniva in mente. Così
ottenne due cose: rispettò il
divieto di usare l’italiano e fece
ridere tutta la classe, docente
compreso. Il Tartarelli mi
fece conoscere un poliglotta
triestino (diceva di conoscere una
ventina di lingue ) da cui cominciai
ad apprendere, con un piacere
intellettuale straordinario, i primi
rudimenti della lingua russa. Per
supplire alla mancanza di testi il
professore stilava con grafia
chiarissima una lezione dopo l’altra
e con l’uso della carta carbone ne
otteneva un certo numero di copie.
Sapeva che le mutate prospettive
sociali incrementavano l’interesse
per l’Urss e ne traeva, ovviamente,
profitto.
Il
quotidiano “Corriere di Tripoli”
era certamente la sola testata di
stampa in lingua italiana che
entrava in tutte, o quasi, le case
dei circa 30 mila
connazionali. (Oggi gli abitanti
della capitale libica si aggirano
sui due milioni!) Non lo si poteva
ignorare. L’anziano direttore, il napolitano Guglielmo Maria
Riviello, era noto anche per la
sua prosa ridondante di locuzioni
latine tipo “rebus sic
stantibus”, “est modus in rebus”,
“ubi major minor cessat” e così
via. Era sfacciatamente pervaso di
retorica littorio-romana, così cara
al regime, e ne faceva sfoggio, ma,
dopo l’occupazione, dovette
adeguarsi per non perdere il posto.
E adeguarsi significava sottostare
alle direttive delle autorità di
occupazione. Non so per quali
precise ragioni ma durante alcuni
periodi venne sostituito da un tale
Marcello Ortona, ebreo di
ovvia provata fede antifascista.
Il 22 giugno del ‘46 la mia
firma apparve per la prima volta
sulla stampa (sul detto quotidiano
per l’appunto). Ero il più giovane
antifascista come dire “ufficiale”
di Tripoli. E forse anche il
più polemico. Il direttore, allora
Riviello, volle aggiungere al
mio nome “studente diciottenne” ma
in verità mancavano ancora tre mesi.
Il mio esordio pubblico venne
occasionato da una diatriba in corso
fra opposti interpreti del nuovo
corso, in ispecie del nazionalismo,
protagonisti l’avv. Fausto
Ferrara, retorico rappresentante
della destra, e Sante Pascutto,
focoso rappresentante della
sinistra. Per tali incontri-scontri
si era aperta “La tribuna del
lettore”. Io, naturalmente,
parteggiavo per quest’ultimo ma non
ne comprendevo tutta l’animosità.
Volli intervenire come paciere
“polemico” (!) e chiusi con
un’esortazione alla solidarietà in
nome delle cause comuni. Il
Ferrara era un patrocinante in
cassazione, allora inquilino di mio
padre, e il Pascutto - che ho
gioiosamente contattato alcuni anni
fa, doveva occuparsi di attività
aziendale. Mi sentivo già un “cane
sciolto” rifiutando di fare alcunché
solo per consegna di non importa
quale organizzazione. Tale sono
rimasto anche quando non ho distinto
bene tra suggestione e
convincimento.
Qualche
tempo dopo un amico pubblicista,
tale Turuzzu Quaranta, così
si firmava, mi passò il testo
dattiloscritto di una sintesi del
pensiero del biologo Lecomte du
Nouy, di cui allora si parlava.
Il giovane studioso mi diceva che
sarebbe potuto morire da un momento
all’altro, non so per quale
malattia. So che attendeva la morte
con filosofica rassegnazione e
questa lo colse di lì a poco
improvvisamente. Utilizzando i suoi
appunti elaborai il primo articolo
di taglio saggistico intitolandolo
“Dio e Scienza”. Il
Riviello lo pubblicò con il
cappello, tendenzioso e deviante,
“I problemi dello spirito” e una
presentazione lunga e colma di
elogi, benché io vedessi nel
darwinista du Nouy
solo un ricercatore di spirito
cristiano non certamente cattolico,
un rivoluzionario, quasi un
anarchico, in quanto alieno da ogni
restrizione della libertà. Oggi vedo
in quelle mie considerazioni
l’anticipazione inconsapevole della
lettura biologica del reale e del
sociale. Scrivevo: “Come delle
leggi incontrovertibili regolano la
natura, altre leggi
incontrovertibili esistono per il
progresso della società, sta a noi
scoprirle e tradurle nel linguaggio
degli uomini...” A distanza di
52 anni, ritengo di averle scoperte.
Il buon Riviello credette di
potere “salvare un credente in
crisi” giocando sull’ambiguità di
queste mie parole: “egli <du
Nouy> studia un’opera: la vita degli
abitatori del mondo; ed è naturale,
spontanea la sua ricerca
dell’Autore, non importa se questo
sia detto antitesi, natura o Dio”,
parole nelle quali c’erano solo
delle spassionate valutazioni
tutt’al più “deistiche” e non gli
estremi di un possibile adepto
dell’ultrareazionaria divisa
“Dio, patria, famiglia”, di cui
il direttore era, con molta
probabilità, seguace.
Sincero,
“centrato” e certamente molto più
gradito, l’elogio, espressomi dalle
pagine dello stesso quotidiano, dal
prof. Eusebio Eusebione, un
vecchio ex docente di matematica in
pensione, un ebreo di
Sanpierdarena (Genova). Vedovo e
senza figli, viveva solo in un
villino di proprietà in compagnia di
una cagnetta. Era un maestro di vita
di altri tempi. Nella sua dignitosa
solitudine sapeva trovare un tale
interesse per la verità e per la
lotta sociale da costituire un
contrasto stridente con la
generazione dei giovani del luogo,
imbevuti di passato e incapaci di
capire il presente, tanto più che
era fortemente anticlericale (ma non
certamente ateo). Volle il “tu”
nonostante ci separasse più di mezzo
secolo. Fu questa una
indimenticabile lezione di saggezza
e di civiltà, che ha costituito un
fondamento della mia formazione che
mi torna sempre in mente ogni volta
che m’imbatto, oramai anziano, in
giovani. “Il tu - mi diceva -
è il vocativo più naturale” e
mi portava l’esempio dei romani e
degli arabi. Cominciai a
frequentarlo. Da lui appresi
l’aforisma “la salute è l’unità
che dà valore a tutti gli zeri della
vita” che poi saprò essere del
fisiologo Paolo
Mantegazza. Diventammo amici e
soprattutto “complici” in un
atteggiamento di resistenza nei
riguardi del “chiacchieratissimo”
francescano vescovo Vittorino
Facchinetti che furoreggiava
soprattutto grazie ad un’eccellente
capacità oratoria. Il giornale
quotidiano restava il luogo degli
scontri polemici. Quanto io vi fossi
coinvolto lo dimostra tra l’altro
una vignetta, apparsa sul
giornaletto satirico “Rigoletto”
in cui si assegnava la veste di
arbitri a me e ad Eusebione
“con cagnetta”. in un incontro di
pugilato tra Pascutto e
Ferrara.
Un
bel giorno Eusebione sfidò
Facchinetti a un pubblico
dibattito in tema di teologia,
essendosi questi dichiarato esperto
in “sacra teologia” mostrando di non
capire - spiegava il primo - che il
concetto di sacro è superato da
quello della divinità. Per tutta
risposta il vescovo andò a rapporto
dal Vaticano a riferire (come
poi si seppe) dei temibili focolai
anticlericali che portavano anche il
mio nome. Come tutti i mortali,
anche quella specie di “guru”
laico di Eusebione aveva un
grosso difetto che non può essere
taciuto senza mutilare la sua
immagine: era letteralmente preda di
un’avarizia senza pari. E non certo
perché ebreo, genovese per giunta,
visto che di avari abbandona il
mondo borghese e cristiano. Non vidi
mai l’interno della sua casa, che
doveva essere un disastro.
L’ambiente, in cui mi riceveva, una
stanzetta attigua
all’ingresso-corridoio, aveva un
arredo meno che essenziale: alcuni
scaffali e un tavolo in mezzo con
qualche sedia, ovunque libri. Ogni
superficie aveva una patina spessa e
ben visibile di polvere sedimendata.
Era lo spettacolo di una falsa
povertà. Il professore vestiva di
bianco sommerso da uno strato
grigio-scuro di sporco consolidato
in totale contrasto con la pulizia
morale dell’uomo e con la lucidità
di una mente critica, creativa e e
sensibile ai problemi umani. La sua
“sindrome da avarizia” doveva essere
peggiorata da quando aveva persa la
consorte con cui, mi diceva, aveva
realizzato una totale intesa
spirituale. Non vidi mai alcuno
occuparsi di lui. La gente,
naturalmente, lo valutava dalle
apparenze. Una volta che mi offrì di
aiutarlo nel riassetto di quel vano
“di rappresentanza”, ne ebbi un
cordiale ma fermo diniego. Quando,
nel’49, andai a prendere commiato da
lui, avendo deciso di rientrare in
patria, il professore mi affidò
alcune copie di un suo opuscoletto
polemico, dal titolo “Chiarezza
senza veli”, con cui rispondeva
ai suoi detrattori, perché io le
vendessi tra gli amici di
Acireale. Poi mi abbracciò
affettuosamente dicendomi “tu sei
il mio unico amico”. L’incasso
sarebbe stato devoluto, diceva, in
beneficenza ma a me riuscì solo di
regalarne qualche copia. Tre anni
dopo, ritrovandomi a Tripoli,
il buon Eusebione pretese il
rendiconto da me che non disponevo
ancora di una sola lira. Di lì a
poco scomparve improvvisamente
lasciando allo Stato i beni immobili
e un conto bancario londinese e
condannando al mondo dei rifiuti non
solo la sua biblioteca ma anche
degli inediti, di cui mi aveva
parlato, e che io volentieri mi
sarei adoperato di salvare per la
cultura e per la memoria. Solo il
pathos dell’avarizia può spiegare
perché un uomo solo e benestante non
abbia provveduto ad aiutare il suo
“unico amico”, un giovane
senza lavoro, un compagno di cultura
e per giunta povero. Le sue lettere,
che conservo ancora, sono saggi di
calligrafia e il loro contenuto
denotano una disciplina mentale non
comune. Una volta mi rimandò una mia
lettera manoscritta cerchiando una
parola che non era riuscito a
decifrare (e non aveva torto),
dicendomi che si scrive per essere
letti. Non gli serbo rancore. Anzi.
Il
‘46 fu l’anno della dissoluzione
totale della mia famiglia. Il
pomeriggio di una giornata, bella
come tantissime altre della Libia
mediterranea, così bella da indurre
a pensare solo alle gioie della vita
e, per un ragazzo, a quelle
dell’amore, dal Pontile dello
stupendo maestoso lungomare, un vero
gioiello della Tripoli di
allora, solo con mio padre, più solo
di me, vidi allontanarsi una nave
diretta a Siracusa con a
bordo mia madre e la mia Pinuzza.
Quel piroscafo della Tirrenia
si portava via qualcosa di vitale
che non mi sarà più restituito: il
sogno di una famiglia unita e felice
con al centro la mia sorellina, una
normale condizione di figlio mai
vissuta. Da allora ho rincorso
frammenti di me stesso, l’ombra di
una fanciullezza che avevo appena
assoporato, un’identità infranta.
Quanto quello stillicidio di traumi,
di ansie e di frustrazioni mi sia
costato nella futura vita di
relazione, quanto abbia influito a
condannarmi a un rapporto perfino
drammatico con me stesso
nell’affrontare i problemi di tutti
i giorni, specie quelli di natura
affettiva e sentimentale, lo
sperimento - e so darmene conto -
più oggi di quando lo subivo, come
si suol dire, “a sangue caldo”, con
l’urgenza di vivere a tutti i costi
e con il miraggio messianico di un
domani “salvifico” che non redimerà
ma aggiungerà solo l’usura del
tempo. Io confondevo il mio tempo
avvenire con quello della nuova èra,
con le promesse del sapere e con
gl’impegni sociali. Non sapevo di
cercare anche delle compensazioni.
Con
la fine della guerra i rapporti
postali, già totalmente sospesi,
furono ripristinati e mi
consentirono d’intrecciare una fitta
corrispondenza con Razziedda,
la mia cuginetta. A questa, che sarà
- ed è - la mia unica compagna di
vita e il mio inseparabile angelo
custode, invierò una serie di
lettere in cui le narro del mio
dramma esistenziale e della mia
mutilazione interiore, che nessuno
vedeva. Ora più e mai avevo bisogno
di profonderle tutte le mie angosce
ricavandone un sollievo che mi
aiuterà ad andare avanti.
Nel
‘47 superai con buoni risultati
anche la quinta ginnasiale. Mia
madre aveva insegnato lettere nello
stesso istituto ma non nella mia
classe. Ora anche la sua assenza
dalla scuola mi pesava come un
vuoto. Nel giro di pochi mesi ero
diventato alquanto “chiacchierato”
, sul piano politico, s’intende, e
il Corriere fungeva da cassa
di risonanza. Le conoscenze, locali
e del mondo, si allargavano - oh
quante! Gli antifascisti li scoprivo
come funghi. Chi può ricordarli
tutti? Forse il più anziano era un
tale Bruno Manzani, con un
passato di anarchico ma già
convertito al marxismo. Nel dramma
“Christus” (di cui dirò più
avanti) personificherà la figura di
Giuda e ne ricordo una
battuta lapidare: “qui il solco,
qui la spiga, lassù c’è il vuoto”.
Nella vita Manzani non era
certamente un traditore, ma
senz’altro un ateo. Morirà a Roma
alcuni anni dopo e avrà funerali
laici. Io lo ricorderò sul
settimanale anarchico “Umanità
Nova”.
Nella
ripresa della normalità, che a
Tripoli ebbe inizio con
l’occupazione dei cosiddetti
“alleati”, tutte le “prime volte”
sono memorabili. La prima pasta
aveva il sapore di sabbia e sul
fondo del mio piatto lasciò una
piccola blatta: io non ne feci un
dramma. L’avrebbe fatto senz’altro
l’insetto se avesse avuto
“coscienza” dello stato in cui era
ridotto. Il primo bagno marino lo
prendemmo nella spiagga di Porta
Gargaresc. Per raggiungerla
mio padre ed io percorremmo alcuni
chilometri di strada, naturalmente a
piedi ma con piacere. Il sito era
tutto sabbia finissima senza l’ombra
della più minuscola roccia ed era
cosparso di spugne morte. La voglia,
quasi infantile, di recuperare
spinse mio padre a restare esposto
al sole per tutta la giornata con il
risultato non previsto ma
prevedibile di una via crucis di
ritorno perché ci eravamo scottati
come peperoni sulla brace. Ci venne
la febbre alta e spellammo come
pomodori. Avevo raccolto una copia
del Reader’s Digest nella
lingua originale, lasciato o perso
probabilmente da un militare. Che
gioia insperata! La vista della
carta stampata mi seduceva. Tra un
mucchio di cose vecchie abbandonate
in una lavanderia di Via
Mazzini scoprirò una grammatica
francese e un testo di conversazione
italo-franco-inglese, sporchi,
totalmente squinternati e
incompleti: m’improvviserò, con
successo, rilegatore artigianale di
libri strausati. Conservo tutte
queste cose ancora!
Evasioni
pubbliche erano il cinema, ma
soprattutto l’avanspettacolo
inserito fra uno spettacolo e
l’altro, e la filodrammatica. Un
gruppo di attori catanesi, più
dilettanti che professionali, ma non
per questo meno bravi, diedero vita
a diverse compagnie teatrali
riproponendo con successo autori
come Nino Martoglio, già
rinomati per le interpretazioni
magistrali di Angelo Musco.
Ricordo fra gli altri Giovanni
Grasso, che si diceva congiunto
del famoso omonimo, e Paternò,
oriundo di Aci Castello, che
si era dato come nome d’arte
Anselmi, dicendosi nipote della
grande Tina. C’erano anche
delle filodrammatiche non siciliane,
come “Le Maschere” dei
fratelli Salinas, proprietari
del Cinema “Alhambra”.
Mio
padre ed io eravamo soliti, tornando
a sera dalle faccende
extradomestiche, passare sotto i
portici di Piazza Italia,
davanti ad un caffè - sito fra la
Barkley’s Bank (di pertinenza
britannica) e l’appena citato cinema
- dove si raduvano i fratelli
Salinas , proprietari del cinema
stesso e titolari delle
“Maschere”, assieme ad altri
operatori filodrammatici, tra cui il
detto Paternò, che era il
caposezione dell’ufficio di mio
padre. Erano tutti puntualmente
fascisti e comprensibilmente
insofferenti del nostro palese
antifascismo. Una volta da uno di
loro fu lanciata una grossa parola
offensiva e provocatoria verso di
noi, qualcosa come “farabutti”. Mio
padre istantaneamente additò i
possibili testimoni giudiziari
dell’ingiuria chiamandoli per nome
(dato che li conosceva) ad uno ad
uno, e minacciando di denunciare
l’offensore. L’incidente venne
composto, come si suol dire, in via
amichevole. Il responsabile, che
ovviamente interpretava il pensiero
degli astanti, ben consapevole che
il mutato clima politico non avrebbe
giocato a suo favore, accettò di
scusarsi. Il fatto era indice di un
evidente disagio di chi era fascista
perché fruitore dell’opulenza
coloniale - davanti al sorgere di
una nuova mentalità e di una vera
coscienza sociale.
I miei
ricordi sono frammentari. Fu grazie
allo stesso Paternò, che
recitava anche la parte dell’amico,
che mio padre ed io venimmo
introdotti nell’entourage dei
filodrammatici, e iniziati a un
hobby che c’impegnava molte sere
soprattutto durante le ripetutissime
prove che precedevano l’esibizione
pubblica. Le prove erano già uno
spettacolo per sé stesse per chi le
guardava con gli occhi di
“estraneo”, e non solo per le grasse
battute dialettali a doppio senso e
fuori copione che acquistavano un
particolare potere esilarante in
presenza di “nordici”, che non le
comprendevano, come nel caso del
dramma della passione di Cristo,
che, sotto il titolo di
“Christus”, venne portato sul
palcoscenico da un raggruppamento di
compagnie per le esigenze speciali
dell’opera. Ovviamente, vi
partecipammo, marginalmente, anche
mio padre ed io e posso assicurare
che fu un’esperienza straordinaria
anche per avere scoperto di persona
come la finzione scenica possa
essere tale solo a tutti gli effetti
spettacolari cioè simulare stati
d’animo e sentimenti non solo
totalmente estranei agli attori (e
guai se non fosse così) ma in totale
contrasto con quello che
effettivamente provano nel momento
della recita. Durante quella appena
accennata, specie quando Maria
piangente si rivolgeva al Cristo
agonizzante sulla croce: “figlio,
figlio mio, morire così senza un
soccorso, senza un sorriso”,
sentivamo piangere spettatori delle
prime file di una platea
affollatissima, mentre la Madonna,
coperto il viso con lo scialle, si
divertiva a ridere “singhiozzando”
poiché, non vista dal pubblico,
minacciava la vittima di fargli il
solletico ai piedi! Patetica,
perfino rispettabile, la figura di
Giuda, rappresentato dal
citato Manzani Tante battute
le ricordo ancora come se le avessi
imparato ieri. Si trattava solo di
un passatempo, particolarmente
istruttivo per me. Una mia
“comparsa”, nel dramma della
passione di Cristo, era quella di un
popolano fanatico che getta
stizzosamente a terra la pietra con
la quale avrebbe voluto colpire la
donna infedele se non fosse stato
interdetto dalle parole di Gesù
“Chi di voi è senza peccato scagli
la prima pietra”. Lo spettacolo
venne recitato per tre sere
consecutive e fu un successo
strepitoso. L’ultima notte si
concluse con una bicchierata a base
di alcolici in un’atmosfera di
lascivia, alimentata dalla presenza
di “attrici” belle e provocanti. Mio
padre mostrò ancora la sua
imprudente semplicità. Infatti,
appena rientrato a casa e rinchiusa
la porta d’entrata, crollò a terra,
ubriaco, forse per la prima ed unica
volta nella sua vita. Il bisogno di
fingere di dimenticare l’aveva reso
più bambino di me.
Quasi
tutte le domeniche ci recavamo al
cinema senza badare al genere di
film: c’interessava non sentirci
soli per qualche tempo e, in ogni
caso, l’avanspettacolo ci appagava.
Si trattava di un varietà condotto
da attori, cantanti e macchiettisti,
che ci divertivano comunque, anche
se non professionisti. Ricordo il
soprano Nuccia Scorsonelli e
il tenore Bacchiani, che non
poteva nascondere il proprio vocione
nemmeno nel normale dialogare.
Talvolta chiudevamo la serata con un
bicchiere di legbi, vino di
palma, estratto dal tronco della
pianta durante la notte. La mattina
è dolcissimo mentre a sera, a causa
di una fermentazione rapidissima, è
amaro e inebriante come il vino
d’uva. Strana circostanza, i
produttori e rivenditori di legbi
erano proprio degli arabi, cui era
proibito berne. Altra occasione di
evasione era la reciproca
frequentazione con un gruppo di
conoscenti, quasi tutti con qualche
problema personale : uomini soli,
donne separate dal marito,
ragazze-madri. Per noi erano solo
dei “compagni di sventura”. C’erano
anche delle famiglie come dire
“normali”. Qualche amico ci veniva a
trovare a casa. In questo caso, la
compagnia veniva vivacizzata dallo
strimpellio di un mandolino e, per
un certo tempo, anche di un violino,
in cui mi cimentavo anch’io.
L’innocente baldoria tonificava, per
un poco, una casa senza una moglie e
una madre. Un amico ricordo con
immutata nostalgia. Si chiamava
Mimmo Agrusa ed era oriundo dal
palermitano. Era contitolare di un
grande bar-trattoria di Porta
Benito, dove ci recavamo spesso.
Era un bambinone di quasi
quarant’anni, amante più dello
spasso che del lavoro dell’esercizio
che lasciava volentieri alle cure
del cugino socio, don Pippo.
Credulone o finto tale ci faceva
divertire un mondo. Gli scherzi e le
battute erano svaghi innocenti,
quasi infantili, sempre nei limiti
del sano e del decente.
Io
avevo le mie amicizie, quasi sempre
a sfondo politico e culturale;
nessuna compagnia da gozzoviglio
incompatibile con uno troppo serio e
altrettanto timido. Alcuni mi
raccontavano delle loro esperienze,
così tante - e talora anche così
poco credibili - che ci potrei
scrivere un libro “fantaerotico”.
Molto care mi erano le compagnie
scolastiche, dei compagni di classe,
voglio dire.. Talvolta ci
ritrovavamo in tanti, magari presso
il domicilio di qualcuno e gli
argomenti, neanche a dirlo, giravano
sempre attorno alle ragazze ,
attorno all’eterno ideale di una
donna tutta da amare, come se non ci
fosse nient’altro di più
interessante nella vita. Ma anche
attorno al più pacchiano erotismo
per il quale ci raccontavamo e
c’inventavamo le barzellette più
catastrofiche e più inverosimili. E
tutte ci facevano ridere a
crepapelle. Ricordo un convegno dei
tanti, forse in casa Di Maio,
presente fra gli altri Parlato,
durante il quale ci divertivamo a
immaginare cosa avremmo fatto o
voluto fare la prima notte di
matrimonio, convinti che questo
fosse solo sesso e che per
divertirsi sarebbe bastato volerlo,
anzi stare insieme. Io - proprio io!
- ero scatenato nelle mie trovate
salaci. Una volta scrissi perfino
una poesia-filastrocca ispirata ad
una tale Jole, una ragazza
tutta pepe, che un trauma di guerra
aveva reso alquanto eccentrica .
Divertivo un mondo. Eravamo tutti
senza tempo allora e il sogno era un
paradiso senza fine, come se non
saremmo mai invecchiati. O, almeno,
così credevamo di credere per la
suggestione reciproca della
compagnia. Rotto l’effetto medianico
della coralità ciascuno rientrava
nel proprio piccolo nulla, io forse
più degli altri. Ora, queste
proiezioni viscerali dell’
imperativo biologico o, come direbbe
Mantegazza, della specie,
viste con gli occhi del “futuro
fatto presente”, come dire
dall’altro lato del binocolo,
appaiono semplicemente oniriche,
lontane e insignificanti, e non per
pessimismo (di cui mi rifiuto di
essere un sostenitore) ma solo per
constatazione di fatto. Eravamo solo
all’inizio della parabola.
Io
vivevo molto anche come spettatore e
ciò mi è servito per imparare a
“leggere il mondo”. Dietro la
battuta per tutte le occasioni
(vizio non ancora perduto) c’era il
bisogno di eludere la tendenza
costituzionale di prendere tutto sul
serio. E tutto significa la vita.
Mostravo più dei miei anni. Amico
mi fu, tra gli altri, un anziano
professore di nome Buchi. Non
seppi mai perché fosse afflitto
dalla solitudine e dalla povertà.
Con questo la conversazione marciava
ad alto livello. Veniva a trovarmi a
casa con una modestia che un ragazzo
difficilmente può aspettarsi da un
anziano “titolato”. Una volta,
andandosene mi volle lodare con
queste parole: “voi siete un
filosofo”. Mi diceva: “è
intelligente chi sa usare gli
aggettivi”. Un giorno mi chiese
in prestito il testo di una piccola
“storia della filosofia”, non
potendone possedere uno per conto
suo. Me lo restituì solo dopo il
richiamo, bonario, di mio padre: non
mi ha abbandonato ancora il senso di
colpa di averlo privato, senza
rendermene conto, di un libro che
forse costituiva l’unico titolo di
una biblioteca che non aveva.
D’estate
frequentavamo il Lido dei
Dirigibili, un lungo e stupendo
litorale di sabbia ovviamente
finissima. Il fondo del mare, che
digradava dolcemente, era come un
velluto su cui si poteva camminare
senza alcun rischio. Qui imparai
a nuotare a soli
cinque anni e prendevo il largo con
piacere ma una volta la paura di
essere “soccorso” da un delfino mi
costrinse a rientrare a riva col
fiato in gola scoprendo di non
essere dotato di buona resistenza
(proprio come con la bicicletta). Da
allora imparai ad essere molto
prudente. Talvolta i delfini si
accostavano fino alla riva
rincorrendo banchi di pesciolini
che, dorso in giù, con un gioco
destro della coda, spedivano
direttamente dentro una bocca pronta
ad accoglierli. Quella spiaggia era
un luogo dove prima o poi ci
s’incontrava tutti: era il lido di
tutti. Un giorno mi sentì
particolarmente importante vedendo
dei vicini di cabina leggere il
numero di “Rigoletto”,
contenente la vignetta di cui dicevo
più sopra - ma anche altrettanto
imbarazzato (fino a desiderare di
essere invisibile). La “notorietà”
mi intimidiva come una colpa al
punto che una volta ad un impiegato
di banca, che mi chiedeva
sonoramente se fossi io quel tale
Viola, risposi che si trattava di un
mio fratello (che non ho mai avuto).
La curiosità m’infastidiva mentre
una parola di considerazione leale,
anche se critica, mi commuoveva.
I militari
tedeschi avevano saputo fingere un
civismo che era soltanto disciplina
dell’immagine. Ne ero affascinato
perché mi sembravano dei signori.
Solo quando avranno lasciato
Tripoli , cominciai a chiedermi
quanti di quei bei giovani biondi
fossero dei boia potenziali per
convinzione ideologica e
aspettassero l’occasione per
dimostrarlo. Qualche notizia sui
lager della morte degli ebrei
cominciava ad arrivare. Un coetaneo,
tale Renato Di Maio, cugino
di un mio collega di classe,
Giorgio, un giorno mi fece
leggere una lettera manoscritta di
un suo congiunto (fratello, credo),
ospite di un campo di sterminio. Non
saprò mai perché si trovasse colà e
come fosse riuscito a fare giungere
fino alla Libia una
testimonianza così terrificante. In
essa, infatti, tra tanto altro, si
narrava di prigionieri costretti a
occuparsi dei cadaveri da cui dei
“tecnici” ricavavano della sostanza
saponifera e con la cui pelle
facevano dei paralumi. Tutto sarà
puntualmente confermato. Con
quest’amico maturò un’intesa di
collaborazione di lotta politica.
Volendo scrivere correttamente sul
quotidiano locale pensavamo di farci
assistere, sul piano linguistico,
dal medico Cinquèmani, noto
antifascista. Ma non ce ne fu
bisogno. Io me la cavavo già
abbastanza bene e Renato si
destreggiava egregiamente come ebbi
a constatare leggendo dei pezzi, che
ancora conservo, firmati Aquilino
(per via del suo naso) e passati al
giornale. Purtroppo, ben presto
dovetti ridimensionare tutto il
piano: il Cinquèmani era uno
di quelli che poi si diranno
democristiani mentre noi “ci
sentivamo a sinistra”, cioè
orientati verso il comunismo. Gli
articoli di Aquilino non
saranno mai pubblicati. Il direttore
pro tempore, l’ebreo italiano
Marcello Ortona, mi confidò di
considerare il mio amico
d’ispirazione qualunquistica. Sta di
fatto che il sodalizio morì di morte
naturale senza nemmeno uno screzio:
nonostante quel documento autografo
sconvolgente, di cui era in
possesso, non si staccava del tutto
dal vecchio mondo. Lo sentivo
sempre più lontano finché smettemmo
di frequentarci senza darci una
spiegazione. L’anno scorso ho
appreso con grande rammarico, dal
cugino, della sua recente scomparsa.
Visioni paraboliche del genere non
sono rare nell’ esperienza di
nessuno: anche quelle a traiettoria
più lunga, giungono tutte allo
stesso epilogo (del nulla). Denotano
la fatuità di atteggiamenti
epidermici che lasciano il vuoto e
l’amarezza in chi ci aveva creduto e
un grande rimpianto.
Al
rigore (di facciata) teutonico
successe lo sconcio di certa
soldataglia del Regno Unito e
delle sue molte colonie. Non era
raro lo spettacolo di militari
ubriachi che si mettevano al cocchio
di una carrozza o spingevano un
cassonetto della spazzatura
emettendo il caratteristico urlo
gutturale “hu-hu”. Dovevano essere
avvinazzati i due soldati di sua
maestà che una sera, mentre mio
padre ed io camminavamo lungo il
marciapiede di Via Costanzo Ciano,
chissà per quale improvviso
raptus d’imbecillità, ci
avvicinarono con intenzioni
aggressive. Mentre io paravo, con
discreto successo, i pugni che uno
di loro mi sferrava contro il viso e
il torace, l’altro infieriva contro
il mio genitore che, accasciato sul
gradino di una porta, sanguinava dal
labbro superiore spaccato. Quello
smise non appena io, svincolatomi
dal mio aggressore, mi avvicinai a
lui con un atteggiamento
evidentemente non rassicurante.
Nessuno dei molti passanti, spesso
nazionali, che brulicavano per la
strada, si era fermato! Sentì il
vuoto di tutti quei simili, senza
alcun dubbio professanti una qualche
religione e, magari, quella
dell’amore del prossimo, e mi
chiedevo se valesse di più il mio
concittadino o lo straniero. Ma capì
anche, per la prima volta, come
l’istinto dell’autodifesa può
trasformare anche un ragazzo mite e
inesperto come me in un omicida.
Infatti, in altre circostanze, se
armato, avrei potuto sparare
all’aggressore di mio padre. La
violenza, proprio perché terrorizza,
provoca la rapida regressione
all’animalità e una reazione a
catena. Fu sporta denuncia ma non si
potè, o non si volle, individuare i
responsabili di una bravata così
stupida e incivile, che oggi
ricollego con il teppismo dei
hooligans. Altro episodio
d’inciviltà britannica fu
sperimentato una sera dal mio
condominio. Qualcuno a notte
inoltrata bussò concitatamente al
portone puntualmente chiuso del
palazzo. Era una coppia di
poliziotti militari con tanto di
berretto rosso, probabilmente “di
ronda”, il che non gl’impediva di
onorare abbondantemente Bacco.
Chiedevano di entrare. Da un
ballatoio gli fu fatto cenno di
attendere - per darci il tempo di
puntellare il portone stesso contro
gli scalini dell’androne. Dopo un
poco, contraddetti si allontanarono
barcollando: erano agenti
dell’ordine militare in un
territorio occupato. Qualche tempo
dopo, nella valanga di calunnie
sparse a piene mani contro l’Unione
Sovietica, in prima linea dagli
americani che, guarda caso, li
vediamo sempre con un bicchiere in
mano, ci sarà anche quella
dell’alcolismo russo non come
consuetudine di un paese freddissimo
e per secoli costretto anche dalla
miseria a cercare appagamento nella
bottiglia ma come “vizio politico”,
insomma come modo di essere
comunista!
Nel
‘48 m’iscrissi al liceo scientifico
furoreggiando in italiano e in
filosofia, non altrettanto nelle
materie fatte di numeri e di
calcolo. Era l’epoca in cui
“esplodeva” la mia giovanile
creatività culturale. Avevo già
scritto alcune poesie, molto
“leopardiane” e, su un apposito
quaderno, annotavo lo schema dei
vari tipi di composizione. Avevo
perfino inventato un alfabeto
segreto...Un tema svolto in classe
sulla maieutica di Socrate
insospettì la docente per la
compiutezza del pensiero e la
rigorosità della lingua. Convinta,
alfine, della sua autenticità, me lo
valutò ottimo come forma e come
contenuto. Sono i piccoli successi
che nella lontananza del ricordo,
diventano punti di riferimento della
propria storia. E’ solo per questo
che ho voluto ricordarmelo. Tra i
miei insegnanti c’era anche un
“cooperatore” (prigioniero di guerra
che ha accettato di “cooperare” con
le truppe di occupazione),
probabilmente non ancora laureato,
ma lo trovavo all’altezza del
compito. Credo si chiamasse
Alonza. Lo ricordo con simpatia.
C’è, nella mia mente, un turbinio
d’immagini, più o meno sbiadite e
confuse. Ricordo perfettamente il
professore di matematica e fisica,
in età visibilmente pensionabile, ma
allora c’era carenza di personale
Era un ingegnere dell’Unpa
(Unione Nazionale Protezione
Antiaerea), probabilmente
abilitato ad insegnare per
l’emergenza. Si chiamava
Napolitano ma era abruzzese ed
era proprio questa caratteristica
regionale che lo rendeva molto
divertente. Egli sapeva trasformare,
senza volerlo, un’aula scolastica in
una sala per divertimento. Esigeva
un raccoglimento silenzioso
(e ne aveva diritto) ma lui stesso
vi attentava con richiami e battute,
anche allusive, specie nei riguardi
delle ragazze, in perfetto dialetto
abruzzese o in un gergo metà lingua,
metà dialetto. E pare che, tutto
sommato, si divertisse anche lui.
Lo
sorprendevamo mentre guardava sul
piano della cattedra, con qualche
rumore o gesto improvviso provocando
uno scoppio generale di risate. La
sua prima esclamazione era “cch’è
saccissu?” (ovvero “che è
successo?”); poi, rivolto al
presunto colpevole di turno,
aggiungeva “tu sei sempre gli
stesso, bba’ for!” (ovvero
“tu sei sempre lo stesso, va’
fuori!”). L’effetto immediato
era una successiva risata generale.
Disperato, minacciava di ricorrere
al preside ma appena apriva la
porta, l’aula piombava in un
silenzio di tomba. Non ho mai saputo
perché ce l’avesse tanto con il
metodo Kramer per la
soluzione delle equazioni. Una volta
gliene feci cenno pubblicamente e
questo lo fece andare in
escandescenze volgari e
spettacolari.
Dei
compagni del secondo ginnasio ce
n’erano pochi, forse nessuno. Alcuni
dei nuovi erano appena rientrati
dall’Italia dove erano stati
“sfollati” all’inizio della guerra,
non prevedendo che il territorio
nazionale sarebbe diventato tutto un
campo di guerra. Erano partiti
bambini e rientravano
particolarmente disinvolti perché
cresciuti lontano dai propri
genitori e in condizioni di
emergenza Avevano maturato un
notevole spirito d’indipendenza. Fra
le canzoni “importate” ne ricordo
particolarmente una che diceva
“Solo me ne vo’ per la città/ passo
fra la gente che non sa /che non sa/
del mio perduto amore”. Sembrava
fatta per me, che di amori ne avevo
perduti tanti, per modo di dire. Ma
a diciassette anni, chi non accusa i
postumi di almeno una “cotta” andata
male? Perciò, quel motivetto e
quelle parole m’inteneriscono
ancora.
Altra
caratteristica della nuova compagine
scolastica era la presenza di
diversi arabi ed ebrei. Naturalmente
solo questi erano di ambo i sessi
per le note preclusioni coraniche.
Mio compagno di banco fu un arabo,
certo Ben Zicri, di famiglia
benestante, che diventerà ministro
del primo governo libico del re
senussita Idris El Awual (Idris
il Primo). Una volta mi sorpresi
nello scoprire all’interno di un suo
libro il timbro del collegio
Pennisi di Acireale (comune da
dove io provenivo): quel libro era
del fratello del mio compagno di
banco, ex studente interno di
quell’istituto gesuitico, la cui
fama attirava anche dei non
cattolici. Ben Zicri era alto
e snello mentre un collega ebreo (di
cui non ricordo il nome) era basso e
tozzo. Il giorno di carnevale di
quell’anno, la messinscena, ideata
per stimolare il focoso
Napolitano, fu davvero da
memoriale: i due giovani entrarono
in classe indossando l’uno il
vestito dell’altro con aria
disinvolta. Erano due clown.
L’effetto, pregustato, fu davvero
esplosivo e quel giorno fu più di un
carnevale. Tra l’altro il professore
non lesinava le parolacce nemmeno in
classe. Forse non era abituato ai
limiti di un ambiente scolastico e
forse c’entrava anche l’età che
difficilmente un ragazzo riesce a
capire. Certamente quell’amico ebreo
si sarà trasferito nello Stato
d’Israele allontanandosi per
sempre da una terra, che
probabilmente era la sua patria e
durante gli scambi di violenze con i
palestinesi non può non avere
ricordato puntualmente quel
sodalizio di giovani che chiedevano
solo di vivere in pace. Mi chiedo
ancora se anche Ben Zicri non
sia stato processato come membro di
un governo filo-occidentale per
disposizione di Gheddafi. So
con certezza una verità suggeritami
da quella classe plurietnica: che
ogni ragazzo e ogni ragazza era solo
un ragazzo e una ragazza e vedeva
negli altri nient’altro che questo.
Come nella circostanza del lavoro -
per vivere -, in questa - per
crescere - era ancora la biologia a
rendere tutti pari e “compagni di
vita”. Per converso - me lo
dimostrerò molti anni dopo - è la
sobillazione politica dei potenti e
dei politicanti a rendere gli uomini
nemici degli uomini; più
precisamente la distribuzione
abissalmente sperequata dei beni che
la natura e il lavoro mettono a
disposizione di tutti per la
soddisfazione di quei bisogni
fondamentali che, se non soffocati,
affratellano gli uomini.
A metà
anno scolastico vennero istituiti
vari corsi serali a pagamento. Io,
allettato (come tutti gli altri) dal
facile titolo e dalla prospettiva di
un lavoro, m’iscrissi a quello
dell’abilitazione magistrale.
Bisognava svolgere in pochi mesi il
programma di studi di alcuni anni.
C’era certamente anche l’interesse
materiale del corpo insegnante, che
si prodigò nell’assottigliare le
materie fino a renderle, per lunghi
tratti, invisibili. Ne conseguiva
un’ovvia comprensione per i discenti
ma di essa probabilmente fui il solo
a non beneficiare. Io continuavo a
scrivere sul Corriere (ormai
da due anni ) e a frequentare i
compagni di lotta sociale, tutti
più grandi - spesso molto più grandi
- di me. Coltivavo nel contempo la
conversazione “peripatetica” perfino
con l’ambizioso intento di
convincere l’interlocutore e di
conquistare dei miei coetanei
all’interesse per il sociale e per
il socialismo. Avevo già messo mano
al “Capitale” di Marx,
trovando discutibile sin da allora
la teoria del classismo. Un
interlocutore consueto e
privilegiato era Valentino
Parlato, futuro direttore del
“Manifesto”, collega di scuola e
amico. Così amico che talora, tra
una parola e l’altra, l’accompagnavo
fino a casa sua, alla città-giardino,
almeno fino a quando la sua giovane
madre, certamente impressionata da
ciò che si diceva di me - comunista!
- non mi pregò di non frequentare
suo figlio per “non corromperlo”. Ma
Valentino m’interessava
perché mi ascoltava con garbo e
interesse e non l’avrei mai mollato.
Agli
esami, conclusivi del corso, venne
dato un tema di pedagogia che io
svolsi rapidamente, senza alcuna
difficoltà, anzi con il piacere di
chi esterna un ideale che ha dentro.
Il mio era l’ideale di una scuola
liberatrice e non imbonitrice. E fu
quest’esternazione totalmente
sincera - e ingenua - che mi escluse
da ogni tolleranza. Il mio
elaborato, che io mi aspettavo di
vedere classificato con un buono
pieno, mi venne giudicato non
secondo un criterio
scolastico-culturale ma
rabbiosamente politico e valutato
“sotto zero”! La commissione si
troverà non davanti all’ennesimo
studente cui “regalare” un titolo di
media superiore (per ragioni di
solidarietà di contingenza),
inconseguibile con un corso di soli
pochi mesi, ma davanti ad un
“nemico” politico da stroncare
perché reo di professare un
antifascismo, per giunta
“comunisteggiante” e perché bravo in
quella materia - del pensare e dello
scrivere - che non ha bisogno dell’imprimatur
dei professori. Feci irruzione come
una furia nella sala della
commissione esigendo ed ottenendo di
potere prendere visione del mio
elaborato. Un vero atto di
contestazione giovanile ante
litteram! C’era un errore
ortografico, discutibile:
consequenza invece di
conseguenza, ed uno presunto:
perciò stesso invece di... per
ciò stesso (!).Nient’altro. C’erano
però altri segni blu riferiti al
contenuto e un’annotazione con la
stessa matita, che diceva
pressappoco così: “allora perché
insegnare?”. Il presidente, che
lo era anche dell’Unione degli
Uomini Cattolici, assai poco
cristianamente volle scaricare tutta
la sua rabbia e invidia contro un
giovanissimo, che osava firmare
articoli demolitori del suo
fanatismo cattolico-fascista.
Una
mia immediata “lettera aperta”,
datata 15 agosto ‘48, venne ospitata
dal Corriere, sebbene
troncata nella parte finale. Seguì
una lettera di deplorazione, contro
lo stesso giornale, del prof.
Alberto De Zuccoli, presidente
del Sindacato della Scuola,
alla quale il direttore Riviello
rispose mettendo in parallelo
analogico il mio coraggio civile con
quello di Emilio Zola, autore
del famoso “J’accuse” scritto
in difesa dell’innocente ebreo
Dreyfus. Fu troppo! La
cittadinanza si divise in due
correnti. Ebbi dalla mia parte tutte
le forze sociali allora ritenute
progressiste. De Zuccoli si
dimise dalla sua carica. Sul
Corriere apparve anche una
lettera di solidarietà del prof.
Eusebione presentata dall’Associazione
Politica Italiana per il Progresso
della Libia, fondata e
presieduta dal notaio Errico
Cibelli. Ne seguirà una,
“aperta”, di contestazione della
stessa, firmatari ben trentasei
studenti, a cui il contestato
rispose per le rime. Vari
gl’interventi minori, tra cui quello
dello “studioso” Alberto Staffa
(scomparso a Perugia alcuni
anni fa) e molteplici le risonanze
di ordine politico e psicologico.
La polemica a più voci divenne un
“caso cittadino” e impegnò il
Corriere con titoli cubitali e,
una volta, la domenica del 29 agosto
1948, con un’intera pagina. Quel
particolare giorno - doveva essere
domenica - lo passai a Tagiura,
una contrada marinara distante una
quindicina di chilometri. Ero ospite
di Sante Pappalardo, mio
amico, inquilino di mio padre, che
era solito recarsi colà con un
gruppo di compaesani (giarresi) a
caccia di uccellini e di frutti di
mare. Vollero farmi assaggiare una
patella, che sputerò sempre con
sconcerto, e farmi imbracciare il
fucile, di caccia appunto, che mi
ripugnerà sempre. Quel giorno ero,
con vanitosa serietà, pieno di me
perché un po’ tutti parlavano di me,
ma celebravo anche - e questo è il
lato negativo della cosa -
l’incapacità di cogliere il senso
pratico della vita e il calcolo
della convenienza per sopravvivere.
Non
poca gente mi espresse solidarietà e
simpatia anche per istrada. Alcuni
fratelli cristiani, incontrati per
caso, perfino mi abbracciarono ed
uno mi disse “quando ci vuole ci
vuole”. Anche il simpaticissimo
e irascibilissimo prof.
Napolitano mi espresse
apprezzamento e benevolenza. Vissi
davvero i fasti e i nefasti della
“pubblicità”: ci mancava solo che
qualcuno mi chiedesse l’autografo.
Ma la mia vittoria non andò oltre il
piano morale. Se le mie accuse
fossero state infondate,
gl’interessati sarebbero passati al
contrattacco, ma essi aspettarono
solo che lo scandalo si spegnesse
nel silenzio. Non ci fu alcuna
denuncia alla magistratura nemmeno
da parte mia (né qualcuno me lo
consigliò). Questa, sulla scia del
mio caso, avrebbe certamente
accertato, tra l’altro, come dietro
il pretesto del recupero, ci fosse
anche un business non
indifferente a tutto danno
dell’organicità e compiutezza dei
programmi di studio. Mi fermai
quando il favore dei migliori
avrebbe convinto chiunque ad andare
avanti. Ma, accanto ad un orgoglioso
spirito di irriverenza verso
gl’indegni e a un tenace senso di
giustizia, persisteva una buona dose
d’ingenuità, non disgiunta (e di
questo non mi pento) da un inconscio
desiderio di pace con tutti. Anche
per questo non andai mai nemmeno in
redazione a rilevare, come la legge
consente, i nominativi dei trentasei
“moschettieri”. Due di questi si
riveleranno da sé, scusandosene,
convinti che io lo sapessi: sono
Giorgio Di Maio, che poi
diventerà un attivista proprio del
Pci (di cui io resterò un
simpatizzante critico senza
diventarne mai un militante) e,
dulcis in fundo, lo stesso
Parlato che, nel 1950, appena un
anno dopo, darà vita ad un sindacato
“sovversivo” e per questo sarà
rimpatriato con procedura d’urgenza,
con altri, segno che le mie molte
parole, rimaste nel suo animo, erano
lievitate fino a farne un...
rivoluzionario. La rivelazione del
suo... tradimento l’avrò dieci anni
dopo, nel 1960, a Bari, dove
Valentino era, mi pare, a
capo di una sezione giovanile ancora
del Pci. Ancora disoccupato,
ero ospite di mio padre, che aveva
ottenuto il reimpiego con
destinazione la Prefettura del
capoluogo pugliese. Il “vecchio”
caro amico della prima gioventù mi
disse semplicemente: “sono stato
un mascalzone” e mi offrì un
caffè. Sentivo che era sincero. Non
avevo mai dubitato di lui ed era
troppo tardi per dirgli: “quoque
tu, Brute, fili mi!”. Questa
tempestosa esperienza, che mi ebbe
oggetto di lodi e d’invettive, segnò
certamente il culmine della “mia”
guerra di quegli anni.
Qualche
mese dopo mi venne svelata l’altra
faccia dell’amicizia scolastica che
accomunava arabi ed ebrei. Parlo di
due pogrom inimmaginabilmente
feroci e sanguinari che turbe
d’indigeni islamici consumarono
contro gli ebrei, contro gente
inerme da cui non avevano ricevuto
alcun male. Dall’oggi al domani.
Qualcuno all’ombra aveva sobillato
un’etnia contro un’altra, forse
perfino l’amico contro l’amico - ed
è come dire il fratello contro il
fratello. Perfino delle semplici
beduine sbucarono dal deserto, il
viso coperto per pudore e il cuore
gonfio, senza vergogna, di un odio
ancestrale e assurdo. I “direttori”
occulti avevano avuto buon gioco nel
far leva sulle differenze economiche
e di costume dei due popoli che,
tutto sommato, convivevano anche
pacificamente da millenni. La storia
genetica di ogni gente ha
un’importanza fondamentale nel
comprenderne attitudini e
vicissitudini. E la storia dell’uno
era totalmente diversa da quella
dell’altro. Gli arabi, certo quelli
poveri senza potere, erano cresciuti
nello spirito dell’ ”islam”
che vuol dire sottomissione o
rassegnazione a Dio (Allah):
erano fatalisti e accidiosi.
Dicevano “kullu min Allah” (tutto
viene da Dio). Si accontentavano
di poco. I loro bisogni erano
essenziali. Venivano da generazioni
vissute nel mondo soporifero del
deserto, delle dune infocate e delle
oasi che invitano al piacere del
silenzio e del riposo. I soli
mendicanti di Tripoli erano
musulmani, alcuni dei quali erano
soliti bussare alle porte il
venerdì, il loro giorno sacro,
dicendo semplicemente “Lillah,
mskin” ovvero “(date) a Dio,
(sono) povero”.
I musulmani
dovevano anche subire la prepotenza
dei loro notabili (ricchi e
burocrati della moschea) che erano
garanti e giudici delle norme coraniche senza essere a loro volta
giudicati e puniti. Un obbligo
coranico di assoluta osservanza era
il “ramadan”, mese mobile di
digiuno durante il quale di giorno
non si può ingerire nemmeno acqua
perfino nell’afa. Una pratica che,
buona nell’intenzione di Maometto,
non ha niente a che vedere con il
digiuno terapeutico. Infatti,
inconvenienti, come quello della
forzata disidratazione, trovano
compenso in ingestioni smodate e
nocive. Orbene, le infrazioni,
comprensibilissime, specie se
commesse da anziani e malati, il
“muftì” li puniva (salvo
eccezioni) con pene severissime a
base di scudisciate. Quei libici,
meno che sottoproletariato, erano
portati a cercare le cause della
loro indigenza non nelle classi
dominanti e tanto meno in sé stessi,
ma in un’etnia che gli stessi
demagoghi di casa gli avevano da
sempre additata come responsabile di
tutti i loro mali.
Al
contrario, gli ebrei, “cugini
semitici”, costituivano una
comunità, la quale provvedeva alle
necessità dei più bisognosi. Nessuno
di loro mendicava. Costretti a
migrare da secoli (vedi la
leggendaria figura dell’ “ebreo
errante”), avevano sedimentato
esperienze di “adattamento plastico”
(anche troppo) alle varie
situazioni. Erano perciò attivi,
intraprendenti, Avevano attitudini
innate buone per ogni creatività e
soprattutto per l’imprenditoria
capitalistica. Erano anzitutto
pratici. L’avevo già sperimentato,
come un ebreo con poche cognizioni
colloquiali d’inglese si
destreggiasse molto meglio di me,
che ne conoscevo anche la sintassi.
Il mondo ebraico ha dato al mondo
pensatori e scienziati fra i più
grandi di tutti i tempi: da
Zamenhof, inventore dell’Esperanto
ad Einstein a Freud.a
molti altri. Era facile - e forse lo
è tuttora - far credere ai più
sfortunati o inerti che
l’intraprendenza giudaica fosse la
sola causa del loro disagio. Sta di
fatto che una marea di arabi,
mansueti fino al giorno prima, si
sono quasi improvvisamente
trasformati in belve. E’ pur vero
che mansuetudine e ferocia sono
attributi complementari della
primitività: non pochi di quegli
individui che conoscevo per buoni,
fiduciosi e affidabili, nei panni di
esecutori volontari, contenti, e
fors’anche pagati, di quelle stragi,
erano soltanto dei primitivi.
Le
atrocità della prima spedizione sono
inenarrabili: lessi di donne incinte
sventrate, di gente buttata dalle
terrazze, perfino di un uomo
decapitato mentre camminava. Giovani
libici narreranno con
l’autocompiacimento degli eroi
miserabili di quelle che oggi si
chiamano “pulizie etniche”, di avere
costretto dei ragazzi ad
arrampicarsi per le tubature e a
cercare un appiglio nelle grondaie
nell’estremo pietoso tentativo di
sfuggire ad una gratuita esecuzione
di morte. I danni, provocati anche
dagli incendi, furono ingenti,
specie al Suk el Turk,
vecchio mercato turco artigianale
dove le due etnie, di norma,
lavoravano senza barriere. Mi veniva
in mente la volgare ma pur sempre
umana complicità tra le due etnie
sui carri bestiami, non sobillati da
politici disonesti né accesi da
millenarie intolleranze religiose,
oggi in piena virulenza nel Medio
Oriente, nel mondo musulmano ed
anche nella ex Urss.
La
cronaca, con lunghi elenchi di
morti, era più che bollettini di
guerra. Erano gli esiti di un piano
occulto di cui gli attori non
sapevano nulla, documenti di un
mondo che scoprivo molto più
malvagio di quanto non avessi
sospettato. Il coprifuoco scattava
alle otto o nove di sera ed era
ancora stagione calda. Le autorità
di occupazione non potevano non
sapere. Anzi... La seconda
spedizione non colse di sorpresa le
vittime designate che, premunitesi
anche di bombe a mano, fecero
desistere gli aggressori da ogni
ulteriore assalto. Non ricordo alcun
processo. La strage restò anonima e
impunita. Sono certo che
un’inchiesta, condotta da un potere
al di sopra delle parti, avrebbe
portato troppo in alto...
Nota
non meno amara e sconsolante fu per
mio padre e per me la complicità
morale di non pochi connazionali,
ovviamente fascisti, che
giustificavano l’accaduto con il
solito stantio ritornello del
carattere usuraio degli ebrei,
ignorando che l’affarismo usuraio,
prima di coinvolgere anche degli
ebrei, costretti ad arrangiarsi
comunque per non soccombere, era -
com’è tuttora - l’anima del
capitalismo. Un maturo e distinto
professore italiano ci ebbe a dire
seriosamente che per condannare quei
fatti bisognava “strappare una
pagina della Bibbia”. Voleva
dire che gli ebrei, presunti
deicìdi, erano stati condannati
dallo stesso Dio prima che dagli
uomini, insomma da Hitler. Tale
sentenza allucinante la sento ancora
risuonare nella mia testa tutte le
volte che penso all’olocausto di
milioni d’innocenti, rei solo di
essere ebrei, e alla
corresponsabilità morale di molta
più gente di quanto non si pensi.
***********************
Come
valutare le influenze della guerra e
dei suoi postumi immediati mentre
c’ero dentro? Come individuare il
momento in cui quel “clima” avrebbe
esaurito i suoi effetti devastanti e
provocatori? Quel momento
semplicemente non esiste. Non c’è
soluzione di continuità. Io mi sono
limitato a tracciare alcune
pennellate orientative del periodo
che va dal 1940, anno della
dichiarazione di guerra, che mi
“esiliò” dalla mia famiglia, al
1949, anno in cui “rividi” la mia
terra natale, essa stessa
trasformata, anzi deformata, dal
cataclisma della guerra e dalle sue
mille ripercussioni collaterali. I
miei nonni materni, rimasti perfino
senza notizie, soli, carichi di anni
e bisognosi di riposo, analfabeti,
sbandati e malconsigliati, si erano
lasciati convincere a “svendere” il
loro “regno” e la loro libertà,
quella terra, loro e mia, che
rimpiangerò sempre come un “paradiso
perduto”.
La
prima adolescenza è essa stessa una
guerra che ognuno combatte con un
mondo che non conosce ancora e non
sempre ne esce vittorioso. La mia fu
particolarmente dura perché mi tolse
il terreno da sotto i piedi proprio
nel momento in cui ce li puntavo
sopra fortemente per sporgermi verso
il mio futuro. Ho voluto ricostruire
solo alcuni “momenti speciali”
particolarmente significativi di
quel periodo in cui l’evento-guerra
propriamente detta e l’evento-vita
privata concorsero a innescare in
me una frustrazione affettiva che mi
pesa ancora e che si traduce in un
bisogno costante di riscattarmene
riscattando anche i miei simili da
tutto il “negativo” della storia
comune.
Non
ho inteso narrare la mia vita
strettamente personale. Se è vero
che il fuggente presente è lo
sviluppo dinamico del passato, io
continuo a vivere le emozioni e le
ansie di cinquanta e più anni fa. I
credenti parlano di eternità senza
tenere conto che l’eternità è come
una retta con due poli infiniti. Il
momento in cui il passato ci sfugge,
è come morire. Come si può essere
eterni? Tuttavia, si può affermare
il contrario: che l’eternità sia
solo il presente. Infatti,
l’esistenza individuale è come una
lampada mobile nel buio della notte
e la cui luce copre solo un certo
raggio. Se fossimo materialmente
eterni, la luce della nostra memoria
illuminerebbe sempre un certo
raggio, non mai l’infinito passato.
Perciò, possiamo concludere che
finché siamo vivi siamo eterni ma
dobbiamo anche aggiungere che i
giovani sono... più eterni dei
vecchi.
Nella
primavera del 1949 rientro per la
prima volta in Acireale, dove
apro un capitolo nuovo della mia
parabola, oggi vicina al declino.
Quanto si dice del “mal d’Africa” è
purtroppo vero. Esso colpisce in
modo particolare chi vi ha vissuto
le prime emozioni dell’adolescenza e
dei primi amori e non solo per una
questione “biologica”. La costa
settentrionale del “continente nero”
ha un fascino tutto particolare per
noi, forse perché esercita un arcano
richiamo inconscio ad ataviche
comuni antecedenze mediterranee,
presenti nella memoria genetica. Sta
di fatto che mi sento forzatamente
separato da Tripoli come da
una seconda patria, da una “patria
elettiva” insostituibile. Spero di
potere riprendere il filo dei
ricordi.
Carmelo R. Viola
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