di Giorgio
Vindigni
|
Edizioni HELICON
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“Tripoli, bel suol d’amore,
ti giunga dolce questa mia
canzon”.
Erano i versi di un canto
che dava speranza a tanti
Italiani, la maggior parte
precari o reduci dalla prima
guerra mondiale (1915-1918)
che, in cerca di fortuna, si
avventuravano nel credo
politico del momento, inteso
a formare del Regno d’Italia
un Impero coloniale. Erano
gli anni venti.
L’Inghilterra, la Francia,
la Spagna, il Portogallo, il
Belgio, l’Olanda, quasi
tutti gli Stati dell’Europa
occidentale godevano già da
qualche tempo di
quest’espansione
territoriale nei vari
Continenti: Africa, America
del Sud, medio ed estremo
Oriente.
Tali
conquiste, motivate da uno
spirito di civilizzazione
delle terre lontane,
mirarono a espansioni
territoriali e a un ritorno,
in termini economici, con lo
sfruttamento agricolo,
forestale e minerario che
promosse in Europa il
commercio di tè, spezie,
oro, diamanti. Queste terre
occupate funzionarono da
testa di ponte per altre
conquiste.
Lo
scopo, in un certo qual
senso, fu raggiunto. I
popoli, assoggettati già nel
seicento e nel settecento,
avevano assorbito lentamente
la civilizzazione europea al
punto che alcuni indigeni
divennero, in tempi più
recenti, cittadini europei.
I colonizzatori seppero
sfruttare quelle terre
conquistate, anche a costo
di vite umane. Esse furono
falciate sia dalle
popolazioni autoctone sia
dai Pirati che all’epoca,
seguendo le rotte dei
velieri commerciali e
militari, ne razziavano le
merci o addirittura le
stesse navi.
Stessa cosa si era prefissata
l’Italia mussoliniana,
fascista, nello stringere
patti d’alleanza con la
Germania hitleriana,
nazista. Già nel 1912 aveva
conquistato la Libia,
occupando la Tripolitania e
la Cirenaica, che da alcuni
secoli era sotto l’Impero
turco, iniziando quella
espansione territoriale che
l’avrebbe portata a
diventare un impero
coloniale.
“Tripoli sarai italiana,
sarai italiana al rombo del
cannon”.Al
“... bel suol d’amore”,
seguiva la strofa
“sarai italiana al rombo del
cannon”. Una conquista,
quindi, non motivata da
principi umanitari e di
civilizzazione, bensì di
sudditanza, di sottomissione
e d’incorporazione della
Libia, denominata in seguito
“quarta sponda”. Migliaia di
giovani italiani ricevettero
la “Cartolina precetto”,
altri chiesero di partire
volontari per conquistare
altre terre da annettere
alla Patria e garantirle il
nome di “Impero”. Il Duce fu
la loro guida; la sua parola
li entusiasmava. Madri,
mogli e figli piangevano alla
partenza dei convogli o
delle navi che portavano i
loro giovani eroi verso
terre lontane: l’Africa, la
Russia, l’Albania. A
migliaia morirono sui campi
di battaglia; le loro
lacerazioni furono
imbrattate dalla sabbia del
deserto in Africa, mentre il
sangue dei feriti e dei
moribondi formava
pozzanghere vermiglie sulla
candida neve di Russia.
Decine di migliaia di
giovani non fecero più
ritorno alle loro case; i
volti dei loro congiunti
erano cosparsi di lacrime
per una morte così assurda.
Vedove, promesse spose,
orfani, e anziani genitori
si videro privare del
proprio unico bene. Come in
ogni guerra si assistette a
scene d’orrore e punizioni
per i ribelli. Molti
musulmani eminenti e
oppositori furono catturati
e resi innocui. Accadde,
come in tutte le guerre, che
i conquistatori furono
motivati da ragioni di
padronanza e di libero
arbitrio, fino a quando la
razionalità e il motivo
principale della conquista
non prevalsero e
ripristinato l’ordine e la
legalità.
I
primi coloni giunsero dal
Veneto, poi da altre regioni
italiane, e dalle vicine
colonie francesi dove molti
di loro si erano in
precedenza stabiliti,
portando esperienze
artigianali e professionali
diverse. A molti furono
affidati ettari di terreno
denominati “concessioni”,
poiché si trattava
d’appezzamenti provenienti
da occupazione bellica, e
quindi sotto la tutela del
Governo
italiano; terreni che
in seguito furono trasferiti
di proprietà a coloro che li
avevano riscattati con il
proprio lavoro. Erano
estensioni sabbiose, più o
meno ampie, prive di
coltivazioni e di acqua. I
Coloni italiani furono
persone coraggiose che, con
le loro famiglie,
incominciarono a trivellare
pozzi, per fornirsi di
acqua, costruendo alti
tralicci di ferro sormontati
da una grande ruota
elicoidale che, azionata dal
vento, dava energia a una
pompa sommersa; erano i
“pozzi artesiani”. L’acqua
sgorgava in superficie ed era
avviata in grosse vasche di
raccolta, in cemento, capaci
di contenerne ettolitri.
Essa serviva sia per
irrigare i campi, che per
trovare refrigerio dalla
calura nelle calde estati,
cui la maggior parte di loro
non era assuefatta, con
l’immersione saltuaria a uso
piscina.
Con
gli aiuti economici e
tecnici dello Stato
italiano, essi costruirono
interi villaggi. Sorsero
abitazioni ampie a seconda
delle esigenze familiari,
depositi, ripari per il
bestiame; quei contadini
trasformarono, in pochi
anni, tutta la striscia
costiera libica in un
giardino lussureggiante.
 |
..quei contadini
trasformarono, in pochi
anni, tutta la striscia
costiera libica in un
giardino lussureggiante... |
Orti, uliveti, palmeti, il
grano maturava al sole caldo
e i frutteti si espandevano
in tutte le zone. Le arance,
i mandarini, i limoni e
agrumi in genere, le
albicocche, l’uva, le
prugne, i cocomeri e i
meloni, e poi le fragole, i
gelsi, i datteri e le
banane, tutta frutta
bisognosa di sole e calore
aveva trovato in quelle
“concessioni” il suo
“habitat” naturale; il
profumo e il sapore di
quella frutta maturata sulle
piante rimarrà solo un
lontano piacevole ricordo. I
lembi di spiagge lungo le
coste furono bonificati e
resi abitabili, trasformati
in pontili, panchine,
bastioni. Nelle insenature
naturali sorsero porti
ampliati artificialmente.
Strade costiere collegarono
le varie cittadine e
villaggi ai due principali
capoluoghi. I giardini
cominciarono a espandersi
lungo le coste, verso le
città, con fontane e piccoli
monumenti, alberi da ombra
che emanavano frescura per i
passanti e le mamme che
passeggiavano con le
carrozzine dei propri
bambini. Palazzine, ville,
chiese, banche, attività
commerciali e finanziarie
sorsero nel giro di pochi
lustri; furono costruiti
cinema, teatri e persino un
Casinò. Furono anni
d’intenso fermento e lavoro.
Dalla sabbia del deserto
emersero, quali fantasmi
tornati a vivere, antiche
città romane come Leptis
Magna, con i suoi templi
dedicati agli dei, e
Sabratha, dove primeggia
l’anfiteatro greco-romano,
 |
Leptis
Magna |
 |
Sabratha |
nei pressi delle quali
furono costruiti musei per
la raccolta dei reperti
archeologici trovati anche
nei dintorni. Iniziarono i
lavori di bonifica, nonché
opere di ristrutturazione e
sviluppo delle città, con
particolare riferimento a
Tripoli e Bengasi, perché
capoluoghi delle due
Regioni, Tripolitania e
Cirenaica, e di costruzione
di altri villaggi per
ospitare i nuovi
colonizzatori.
L’insediamento italiano
dovette tuttavia
fronteggiare la resistenza
locale culminata, nel 1923,
nella rivolta della famiglia
dei Senussi, eminenti
musulmani impegnati
nell’opera di proselitismo
islamico indipendentista
contro gli invasori, con
spargimento di sangue da
ambo le parti.
In
oltre vent’anni gli Italiani
trasformarono il volto della
Libia in fiorenti città e
rigogliosi giardini.
La
seconda guerra mondiale
(1940-1945) diede ragione
alle truppe britanniche che
occuparono la Libia. Nel
1952 l’Inghilterra, dopo le
continue rivolte indigene,
concedette l’indipendenza a
tutta la Regione. Nacque la
monarchia del Regno Unito di
Libia con l’investitura a
Sovrano del Senussi Re Idris
1°.
 |
...Nacque la
monarchia del Regno Unito di
Libia con l’investitura a
Sovrano del Senussi Re Idris
1°... |
Tale evento
vanificò
le
conquiste
effettuate e i risultati
raggiunti
con
il sacrificio
di decine di
migliaia
di
giovani
Italiani deceduti
per
la gloria
della Patria,
obbedienti al motto
fascista “Credere,
Obbedire,
Combattere”.
Un Ufficiale dell’Esercito
britannico,
dopo
alcuni
anni
d’occupazione
e
protettorato,
ebbe a
criticare
gli
sforzi
dell’Italia nella costruzione
di
uno
Stato con
città,
giardini
e
fertili
campagne.
Aggiunse
che
le
conquiste servono per
sfruttare
le colonie,
non
per
renderle
ricche ed edotte
nel
progresso.
Essi
sfruttarono
ciò
che
in
Libia
cresceva
spontaneamente,
lo sparto, una
pianta
erbacea
delle
Graminacee
con
lunghe
foglie
giunchiformi,
dalle
quali
si ricavava
una fibra
usata
per
cordami e nella fabbricazione
della
cellulosa
per carta.
Gli Inglesi
continuarono soltanto
nella
strutturazione
anagrafica
degli
autoctoni,
già
avviata
dagli
Italiani,
per
avere anche
un
miglior
controllo
sui
cittadini. La maggior
parte
di loro,
infatti,
non
conosceva
la propria
data di nascita
che
faceva
coincidere
con
avvenimenti
naturali
o
bellici.
Il
29
ottobre
1922 alle
ore
12.55,
Il
Re
Vittorio
Emanuele
III affidava
incarico
a
Mussolini di
formare
il
nuovo
Governo.
 |
...Il
29
ottobre
1922 alle
ore
12.55,
Il
Re
Vittorio
Emanuele
III
affidava
incarico
a
Mussolini
di
formare
il
nuovo
Governo.... |
Tra
le sue
ambizioni
vi era
quella
della
creazione
di un
Impero
che portasse
l’Italia
a essere
una
Nazione
importante
e
rispettata. La
Libia
fu
il suo
primo obiettivo
verso
il quale
furono incanalati investimenti
d’uomini
e mezzi.
Poi
sarebbe
stata
la
volta
dell’Etiopia,
dell’Egitto e così
via.
L’Italia
era
quindi
in
fermento
e
gli
Italiani
fecero
affidamento nel
programma
presentato dal
Fascismo;
conquiste
volevano
significare
lavoro
e
benessere per tutti.
°°°°°°°
…..Dopo
circa
quattro anni in ferrovia,
durante
i
quali
era
stato
allietato
dalla
nascita di
Assunta,
giunse
voce ad
Antonio della richiesta
di
lavoratori
“volontari”
per
l’Africa
italiana.
Ritenne
tale evento
una
mossa audace
da intraprendere,
rischiosa,
ma
nel frattempo
allettante per mirare a
un
futuro
migliore.
Ebbe
dei
dubbi;
con la
moglie e
due bambini
verso
l’ignoto,
di
là
del
mare,
in
terra
africana.
Ne
parlò
con
la consorte, ma
dovette
decidere
da
solo,
come
sempre.
Lasciò
il
lavoro
presso
le
Ferrovie
e,
fiducioso nell’aiuto
dell’Onnipotente,
decise
di
partire
per
la
Tripolitania
dove,
come
auspicato,
l’avrebbe
atteso
migliore fortuna.
Uno dei più
grandi
teatri,
il
Miramare,
distrutto
poi
durante
la
seconda
guerra
mondiale,
era
in
costruzione
proprio
nel 1928 sul
lungomare
di
Tripoli,
dirimpetto
al
castello
medievale dedicato
a
San
Giorgio.
Fu
in
questo
contesto
che
fu
offerto ad Antonio il
suo
primo
lavoro;
quello
cioè
di
collaborare alla costruzione
di
quel
gran
teatro
dalla
vista
sul
mare.
Lavoro pesante per lui,
non
più
abituato
a
fatiche fisiche.
A
casa
lo attendevano
la
moglie
e
due
bambini
presso
una
modesta
abitazione.
Furono
situazioni difficili; le
ore
di
lavoro
giornaliere non
avevano
limite;
le
attività andavano
sviluppandosi e
c’era bisogno dappertutto
di
personale.
Finita
la
sua
attività
quotidiana al Miramare,
continuava
la
giornata
lavorativa
con
altri impegni.
Fu
così
che
iniziò
a
mettere
da
parte qualche
risparmio.
Oltre quaranta
gradi all’ombra
affaticavano
il fisico
più
di
quanto
normalmente
accadeva
in
Sicilia.
Le giornate
peggiori
le
viveva
però
quando iniziava quel
vento
che proveniva
dal
deserto,
il
ghibli.
L’aria
si
tingeva
di
giallo; era la sabbia
fina
che
il
vento
trasportava,
invadendo
anche le città
costiere,
dalle
dune
che
cambiavano
forma
e
locazione. Iniziato
il
suo
percorso,
non
si
arrestava
prima
di
tre
giorni
e altrettante
notti.
Superato
il
quarto
giorno
senza
essersi
calmato,
il
vento proseguiva
la sua
corsa per altri
tre
giorni.
La
sabbia
entrava nelle
case
attraverso
le minime
fessure
degli
infissi
chiusi
anche
ermeticamente.
I polmoni
vivevano
di
quell’aria; spesso si lavorava
mettendo
un
fazzoletto
davanti
la
bocca
e
il naso, legandolo
dietro
la
nuca.
Durante
il periodo di “Ramadan”,
il digiuno dei
Musulmani,
che
durava
un
mese,
durante
il
quale
di
giorno
si
digiunava
e
al tramonto
si
rompeva
il
digiuno
fino
a tarda notte,
la
fatica
degli europei
aumentava,
non
potendo
essa
gravare
più
di tanto
su persone
che
si
recavano
al
lavoro
senza
poter
mangiare
né
bere per
tutto
il giorno; la loro resa
lavorativa
era
naturalmente più scarsa.
Antonio attendeva, con
ansia,
il
termine di
tale
periodo,
per
lavorare
con
più
razionalità
e meno
fatica;
la
notte,
infatti, non riusciva
a prendere
sonno fino a quando
non
terminava
il
vociare
e
il
rumore
dei
tamburi
che
tenevano
sveglie
le
persone anche
fino
all’alba.
Non
tutto
però
andava
per
il
verso
giusto.
Gli
inconvenienti
e
i rischi
fanno
parte
della
vita
e
bisogna
tenerne
conto.
La
giovane
età
gli
dava
forza
ed
energia,
nonché la
possibilità di sfruttare quel
momento
particolare
di sviluppo
dei
territori
occupati.
L’imprenditoria
si sviluppò sempre di più
e, di
conseguenza, l’impiego
della
mano
d’opera.
Fu
realizzato
il lungomare
di
Tripoli
e
la litoranea che
unì
la
Tunisia
all’Egitto,
attraverso
tutta
la costa
libica.
 |
Arco dei Fileni
- Una delle tappe
della via Balbia
lungo la
a litoranea
che
univa
la
Tunisia
all’Egitto,
attraverso
tutta
la costa
libica.
|
Il
18 marzo
1937 Mussolini ricevette
la
spada dell’Islam
ad
Ainzara
e
gli
fu
eretto
un
monumento
dov’era
raffigurato
a cavallo
con
la
spada
sguainata,
erta
verso
l’alto,
a continuazione
del
saluto
fascista,
in piazza
Castello.
Egli
promise di assicurare
pace,
giustizia
e benessere
ai
popoli
arabi della
Libia
e dell’Etiopia.
La
sua
politica
mirava, con
la
quarta
sponda,
all’egemonia
nel
Mediterraneo.
Le
attività
finanziarie e commerciali si andavano
moltiplicando e le Banche
aprivano
sportelli
per
offrire
il
loro
ruolo intermediatore
del
credito.
In questa
situazione
Antonio
vide realizzare il suo sogno;
fare
l’impiegato
voleva
significare una vita
futura
diversa, un
orario
di
lavoro
più
consono,
un’assistenza sicura alla
propria
famiglia.
°°°°°°°
….Dopo
circa due
lustri,
voleva
tornare
vincitore
in
quella
terra
che
lo
aveva
visto
tanto
soffrire
e
lo
aveva
costretto
a
tante privazioni
e umiliazioni,
pur
di
portare
alto
il proprio nome
e riscattare uno “status”
migliore.
Sognava
già
di
rivedere
quei luoghi
che
lo
avevano
visto
crescere,
sposarsi,
avere i
primi bambini; rincontrare amici
d’infanzia, parenti, e
soprattutto rivedere
e
riabbracciare
le
proprie
sorelle.
Era
il mese
di
maggio
del
1940.
La Contea di Modica
era rimasta anche
nel cuore di Antonio; egli
volle
quindi
ritornare
per
rivivere
il
suo
passato,
confrontarlo
al presente e
rinsaldare le origini
modicane nei propri figli.
Nulla
faceva
prevedere
ciò
che
di
là
a pochi
giorni
sarebbe accaduto.
°°°°°°°
…Qualche
giorno
prima
di
partire
vennero
invitati
a
pranzo da
amici
che abitavano
al Consolo.
All’improvviso una
voce,
che
già
da
qualche
tempo
si
udiva
alla radio con
una
musica
di
sottofondo inneggiante
a
canti patriottici,
annunciava
l’entrata in guerra
dell’Italia
fascista, a fianco
all’alleata Germania.
Una
guerra
che
si sarebbe
potuto evitare se le
conquiste
effettuate
avessero
soddisfatto
le
mire espansionistiche del
Duce.
……trascorsero sette lunghi
anni con tante avventure e
peripezie e lutti……….una
famiglia smembrata dalla
guerra………
La
guerra
era
ormai
finita,
ma
il
problema profughi,
tra
le tante
ferite che
affliggevano
l’Italia,
non
era certo
al
primo
posto.
La
nuova
Repubblica
democratica dovette
affrontare
le diatribe
politiche
nascenti,
cercare
un
collaborazionismo economico da
parte
degli
Stati
alleati
che
l’avevano
liberata
sì dal
regime
dittatoriale
fascista
e
dall’occupazione
nazista,
ma
che
avrebbero
dovuto ora aiutarla
a risorgere
dalla distruzione
che
la guerra, quale mostro
scatenato,
aveva
provocato.
Il coraggio
di un
popolo straziato per
la perdita
dei
propri cari e disperato
per
aver
perso
tutto
durante
i
bombardamenti,
riuscì
a far
riemergere
quell’amore patriottico
che
lo
aveva
già provato
nella
prima
guerra
mondiale.
Allora
furono
più
i morti
che
le
distruzioni;
quest’ultima
fu una
guerra
disastrosa
sotto
tutti
i
punti
di
vista.
I
nuovi
uomini politici venivano
da
un
esilio sofferto,
durante
il
quale
avevano maturato la
volontà
per
riportare
gli
Italiani
a
risorgere
dai
lutti funesti e
dalle
rovine
in
tempi
rapidi.
Il
Presidente
del
Consiglio
Alcide
De
Gasperi
 |
...Il
Presidente
del
Consiglio
Alcide
De
Gasperi...
(clicca sulla foto e
guarda il filmato) |
iniziò
ad
affrontare
subito
le
varie
problematiche di
natura
commerciale
e industriale oltre
che
politica, che
distinsero l’Italia per
la
sua
rapida
ricostruzione tra i
Paesi
europei.
Nel
1947
fu
programmato
anche
il rientro
nelle
proprie
case dei
profughi
dalla
Libia.
…….Il viaggio fino a Napoli
fu lungo e faticoso…..si
fermarono una settimana…in
attesa della nave…………….
Il giorno
programmato
per
la partenza,
furono
svegliati
all’alba
per
avere
il tempo
di prepararsi
a partire.
Si
misero
in
fila
con
la
loro
valigia
di
legno,
legata
con
una
corda,
e si
avviarono
verso
la
nave
della
salvezza.
Finalmente partirono.
Il
quinto
giorno
la
razione
di
vitto
aumentò,
la
carne fu
distribuita, cucinata anche
con
pezzi di
ossa
da
poter spolpare. Il viaggio
stava
per
finire
e
i
frigoriferi
sarebbero
stati
forniti
di alimenti
freschi
prima
della
partenza
per
il
ritorno
in
Patria. Era
saggio,
quindi,
non
gettare
in
mare
i
resti
ma
abbondare nelle
razioni.
Il sesto giorno
qualcuno
urlò
“Terra
in
vista” e una linea
giallastra si
veniva
delineando
all’orizzonte; era
il grande
ed
esteso
deserto
libico.
Man
mano
che
l’imbarcazione avanzava
essa
diventava
sempre
più
spessa.
Poco
a
poco,
ma già
a
ore
di
distanza
del
primo
avvistamento,
si
cominciava
a delineare
la
costa,
poi
il
porto,
indi
le
piante
del
lungomare
e
le palazzine
di
Tripoli.
Tutti erano saliti
sopra coperta, a
prua
e
ai lati dell’imbarcazione,
per
accertarsi,
quasi
increduli di
essere giunti alla
destinazione finale. Entrata
nel
porto
al
tramonto,
la nave
fu
affiancata
da
un
rimorchiatore;
il
Pilota
salì
sul
“Campidoglio” e si
diresse
per
sostituire
il
Capitano
e
dirigere
la nave
al
centro
del
porto
dove
venne
ancorata
in
quarantena.
Erano giunti a
Tripoli.
Li accolsero il castello
e
il lungomare
illuminati.
 |
...Li accolsero il
castello
e
il lungomare
illuminati... |
Fu una
grande
festa
sulla
nave. Vitto
a
volontà
da
svuotare i frigoriferi
e
il
forno;
si
cominciavano
ad
avvertire
i
flussi
del benessere
dopo
tante
sofferenze
e
privazioni. Il caldo umido
africano
sfiorava la
pelle
e
faceva
vagare
nei vecchi
ricordi,
in
tutto
ciò
che
era
accaduto
prima
degli
eventi bellici,
al
benessere
che
molti
di
loro
avevano
raggiunto
e
del quale
erano
stati,
fino
a
quel
giorno,
privati.
Alcuni
rimasero svegli
sopra
coperta
fino
a
notte
inoltrata,
per
gustare
le
luci
e i
rumori
che
provenivano
dalla
terra
ferma,
ormai
dimenticati. I Muezzin cantilenavano
preghiere dall’alto dei
minareti,
invitando
i
fedeli
mussulmani
al
raccoglimento.
A
terra,
nelle proprie
case,
avrebbero
fatto
una
grande
festa;
alcuni
di
loro già
programmarono
come,
quando
e
dove
incontrarsi.
Avrebbero preparato
e
mangiato
il
Cuscus,
alimento
naturale
per
gli indigeni,
ma
preparato
nelle
speciali
ricorrenze
dagli
Italiani. Essi
lo
condivano
con
gli
stessi
elementi
e
usavano
lo
stesso procedimento,
la
zucca
rossa,
i
ceci,
l’uovo
sodo,
le
carote,
la salsa
di
pomodoro;
l’unica
differenza
era
nell’uso
dell’agnello,
prelibatezze
di quella
pietanza.
Il sonno
prese
quindi
il sopravvento
e
andarono
a
dormire
tranquilli,
pensando
a
quello che
sarebbe successo il giorno
seguente.
Un
giorno
di
letizia e
di
felicità.
Il porto
era cosparso di navi
civili
e
da
guerra
affondate durante la battaglia
aereo-navale,
scatenata dagli Inglesi
nella presa
di
Tripoli.
Ferraglie
ormai
fuori
uso
molte
delle
quali
già invase
dalla
ruggine.
La
prua
di un
caccia
torpediniere
sporgeva dalle onde
a
volersi
quasi
liberare dalla
morsa
dell’acqua
che
lo
teneva
prigioniero
sul
fondo
marino.
Più
in là si notavano
le eliche
di un’altra
imbarcazione,
dalla poppa
del
classico
colore
grigio delle navi
da
guerra.
La
carena in
legno
di
un
battello
da
pesca
capovolto
e
altri relitti, sporgevano
qua
e là,
in
uno
scenario
impressionante che
i
passeggeri
definirono
“un
cimitero
di navi”. Ma quella
vista
così
melanconica e triste,
che
richiamava
le
sofferenze patite,
fu
subito sviata verso
il
bel
panorama
che si presentava
ai
loro
occhi.
Quant’era
bella
Tripoli,
con
il
suo
lungomare
e
i
bastioni,
le due
colonne,
tipiche
di
San
Marco
a
Venezia, sul molo
Caramanli;
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...
...Quant’era
bella
Tripoli,
con
il
suo
lungomare
e
i
bastioni,
le
due
colonne,
tipiche
di
San
Marco
a
Venezia, sul
molo
Caramanli...
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una era
sormontata
da
una caravella
e
l’altra
da
una lupa. La
prima
raffigurava
la
città
di
Tripoli
ed
era con la
prua
rivolta
verso la lupa,
che
la
osservava
dall’altra
colonna
e
rappresentava
Roma.
Maestoso
si
ergeva
il Castello medievale
San
Giorgio,
quindi una
grande costruzione
massiccia, coi
muri
ricoperti
da
mattoni
color
marrone,
che
ospitava
la
“Cassa
di
risparmio”.
Uno zatterone in legno,
con
ai bordi
dei
pneumatici
per
non farlo
urtare contro la panchina,
sembrava
attendere
l’attracco del
grosso
mercantile nero,
che
proveniva
da
Napoli,
carico non
di
merce
bensì
di
esseri
umani
stanchi
e
speranzosi. Fu proprio
su
quest’ultimo
che
furono
fatti
scendere
i
passeggeri
del
“Campidoglio”.
Sul
molo
attendevano
alcuni
automezzi militari inglesi, due
Carabinieri
italiani,
che i nuovi
occupanti
avevano
accorpato
alla
Polizia
libica
quali
istruttori
a
termine,
nonché la
polizia
locale,
formata
da
uomini
di
colore
in
calzoncini
corti
per
il
caldo.
Impressionanti erano i
muscoli,
prominenti
dai
polpacci
e dalle
braccia
di
uno
di
loro
dalla
pelle nera;
la loro
vista
faceva
quasi
paura,
eppure
erano
venuti
per soccorrerli
e
farli
scendere
a
terra.
°°°°°°°
….con le palme,
il maestoso Palazzo
del
Governatore,
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...con le palme,
il maestoso
Palazzo
del
Governatore.... |
le
vetture
militari
e
civili,
gli
abitanti
stranamente
vestiti
con
pantaloni larghi dal cavallo
basso,
gilè molto ricamati, camicia
bianca
abbondante,
indossata
fuori
dai
pantaloni, un copricapo
di
panno rosso con
un
ornamento
in
seta nero,
la
“taghìa”,
e
delle ciabatte di pelle
che
terminavano
a punta
alta,
tipo
la
prua
di una
piccola
imbarcazione;
suo
compito
era
di evitare che
la sabbia
non
inondasse
il
piede
senza
calze
di
protezione.
Vestivano
quasi
tutti
nello
stesso
modo.
Altri
erano
avvolti
in un lenzuolo
bianco
di
lana,
il
“barracano”.
Le
donne,
se
ne
vedevano
poche
in
giro,
erano
tutte
coperte;
non
si
vedeva
neanche
il
viso,
ma
solo
un
occhio
lasciato
libero
per
guardare
la strada.
Giorgio
si
chiese
come
mai
indossassero
tali
indumenti di lana col
caldo
afoso
e
umido
che
si
respirava.
Non
sapeva
ancora
che
i
barracani
bianchi,
avvolti
intorno
al
corpo
degli indigeni,
tenevano
costante
la
temperatura
corporea,
proteggendoli
dal
sudore
e
dai
raggi
solari
respinti
dal
colore
chiaro.
La carovana
di
camion
si
allontanò
dal
centro
della
città
e
si diresse
verso la periferia.
Fiancheggiò
il
lungo
muro
che
racchiudeva
i
vari
reparti
dell’ospedale,
poi
un
grande
garage
di autobus,
quindi
alcune
case. Girò a
destra
per
una
salita,
in cima alla quale si
notò
una
piccola
folla
di
persone;
alcuni
profughi
riconobbero i parenti
che
erano
venuti
per
accoglierli. Giorgio cercò di
scrutare
fra
la
gente,
ma
la
lontananza
e
il movimento
del
camion,
che
nel
frattempo
curvava
a
destra, non
gli
permisero
di
riconoscere il proprio
papà,
nel
caso
si trovasse
fra
di
loro.
Attraversarono
dei
giardini
e
giunsero
in un
fabbricato dove
si
notò
la
presenza
di
alcuni
militari
inglesi e
poliziotti libici; era
un
campo
di
raccolta
profughi
che già ospitava
una
colonia
di
Maltesi
nei
pressi delle
mura della
città.
Un
prete
francescano,
padre
Umile,
si mise
a disposizione
di coloro
che avevano
più
necessità
d’aiuto.
Si accostò loro
per aiutare
madre
e figlia
a portare
la
valigia
rotta
fino
al
luogo
di raccolta, per il
controllo
dei
documenti
d’identificazione.
Accarezzò
la testa
di
Giorgio
e si
allontanò
per
continuare
la
sua opera di soccorso
ad
altri
bisognosi
della
sua
presenza.
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