UN SOGNO ITALIANO, LA LIBIA |
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ORIGINI E
VICISSITUDINI DEI SAVASTA |
Alla venerabile età di 87 anni
ho deciso di dedicare le mie
ultime forze
alla
ricerca delle origini del
nome di
Savasta e anche della sua
storia , così i miei nipoti e in
futuro i pronipoti
potranno avere una
conoscenza più profonda del loro
nome.
La storia della famiglia Savasta
ha origini antiche e
pare che il suo nome
derivi dal greco
“Sebastos “ che significa
“Ambasciatore “; ora è
necessario dare un punto di
partenza alle mie ricerche e
penso iniziare prima con il
conoscere
parte della
storia
della Sicilia
di cui traggono origine i
Savasta .
La Mitologia
della
Sicilia
anticamente chiamata “
Trinacria “ o “Triquetra “, ci
parla dei primi popoli
conosciuti che la abitarono,
furono i
“Sicani” o “Siculi “ pare
di razza ariana e forse di
stirpe latina, in seguito
vennero i
Fenici che vi
costituirono colonie importanti,
poi fu la volta dei Greci
che conquistarono tutta
la parte meridionale di questa
immensa isola
e le dettero il nome di
“ Magna Grecia “ e dallo
8°al 6° secolo
A.C. vi fondarono le
città di
Taormina, Messina, Imera,
Siracusa, Milazzo, Gela,
Agrigento e Catania , città che
ha dato origine alla
mia famiglia; in seguito
la Sicilia subì altre
dominazioni, dopo i Greci
arrivarono i Cartaginesi che
governarono per qualche
secolo ma nel 241 a.C. furono
cacciati dai Romani che
ne fecero “la prima
Provincia
di Roma”. Con la fine
dell’impero romano subentrarono
in Sicilia
gli Ostrogoti di
Teodorico (493 d.C.), poi
fu la volta
dei Bizantini ( 535 d.C.),
dei Saraceni ( 827 d.C.) che vi
rimasero per oltre 200
anni. Dal 1064 fu un
susseguirsi di altre dominazioni:
i
Normanni con Ruggero II°,
poi
gli Svevi,
gli Angioini, gli
Aragonesi , gli Spagnoli che con
la pace di Utrecht del 1713, la
quale segnava la fine della
guerra tra Spagna, Inghilterra ,
Francia e Olanda,
dovettero abbandonare la
Sicilia e questa
a seguito delle clausole
di quel Trattato, venne a fare
parte del
Regno di Vittorio Amedeo
II° di Savoia, ma
nel 1720 i Savoia la
passarono all’Austria
in cambio per ottenere la
Sardegna.
Con il Trattato di Vienna del
1738 l’Austria cedette la
Sicilia a l’Infante di Spagna
don Carlos della Dinastia
dei Borboni e finalmente nel
Maggio del 1860 Giuseppe
Garibaldi, con la Spedizione dei
Mille la conquistò e
la Sicilia
venne così nuovamente a
fare parte del Regno d’Italia
Certamente
arrivare alle origini dei
Savasta, con tutti questi
passaggi di dominazione è un
impresa impossibile, unica mia
convinzione è
che il nome di Savasta
possa derivare dal greco
“ Sebastos
e supponendo che il primo
Savasta , fosse stato un
ambasciatore sotto il dominio
greco, quindi chiamato
“ Sebastos “ così che i
suoi discendenti
ne abbiano acquisito quel
nome e in seguito attraverso
i mutamenti della Storia
si sia man mano trasformato,
prima in
“Sebasto”, poi
in
“Sevasto” e sotto la
dominazione araba, non avendo
l’alfabeto arabo la lettera “ o
“,
il nome
sarebbe diventato
“Sevasta “ e infine per
una più corretta fonetica
divenne “ Savasta “.
Ovviamente
questa metamorfosi del
nome deve essere presa con una
certa cautela
e direi
“allegramente “ pur
avendo consultato illustri
scrittori che hanno narrato
tutte la dominazioni
subite dalla Sicilia
nei millenni, quali
l’illustre orientalista
Michele Amari con
le opere “ Storia dei
Musulmani di Sicilia” , “
Periodo delle Storie siciliane
del XIII° secolo” e ancora
l’opera
“ Gli
arabismi delle lingue neo
latine con speciale riguardo
all’Italia “ di
Giovan Battista
Pellegrini, i quali ci fanno
sapere che molte parole, nomi e
professioni sia greche, arabe,
spagnole con l’andare dei
secoli si sono
trasformate
per esigenze
direi di dominazione,
così che oggi sia
nella lingua siciliana
che nei suoi dialetti, troviamo
molti nomi e
parole che hanno lontane
origini a secondo di quelle
dominazioni; ragione per
la quale trovando nel greco
antico la parola “Sebastos “ é
appurato che i greci dominarono
la Sicilia , mi è
venuta spontanea
la trasformazione dalla
parola “ Sebastos “ in
"Savasta".
Poiché non mi è possibile
ricorrere alle fonti per avere
notizie precise
sui
primi discendenti dei
Savasta sarò allora costretto ad
iniziare questa ricerca storica,
cominciando da quello
capostipite dei Savasta ,
del quale
ho notizie sicure
e precise, tramandatemi
da mio padre,
questo in effetti fu mio
nonno.
Nonno Paolo nasce a Catania
nel 1859 trascorre la sua
fanciullezza e prima gioventù in
quella città, sin da giovanetto
inizia a lavorare come piccolo
artigiano carrozziere;
a 20 anni è chiamato a
svolgere il servizio militare e
viene inviato
a Massaua in Eritrea, a
presidio di quella cittadina
che l’Italia aveva
ricevuto nel 1879 dalla
Società di Navigazione
Rubattino,
in origine proprietaria
di tutta la Baia di Assab,
acquistata
nel 1869 dal Sultano
Ibrahim
Ben Ahmed,
capo indiscusso di tutto
il territorio eritreo.
Terminato il servizio militate,
nonno Paolo rientra a Catania
con una grande nostalgia,
non dell’Eritrea ma della
città di Alessandria d’Egitto.
Perché
questa nostalgia per una
città che aveva appena
intravisto e quindi non
conosceva ?
Ecco la spiegazione che
mi fu data da mio padre Carmelo:
per andare in Eritrea le navi
che trasportavano
soldati o merci, dovevano
attraversare il Canale di Suez,
aperto nel
1869;
ogni nave che transitava
per il Canale era obbligata a
fare sosta nel porto di
Alessandria
e
pagare la cosiddetta
“tassa di
attraversamento”. Quando la nave
che trasportava
mio nonno soldato,
dovette sostare ad Alessandria,
sosta che durava allora qualche
giorno, nonno Paolo riuscì a
scendere a terra e conoscere
appena la città,
la
visione di quella
città orientale
lo colpì ed ecco la
decisione
di emigrare in Egitto e
logicamente in Alessandria.
A Catania si sposa e con mia
nonna
si trasferisce ad
Alessandria, apre subito un
piccolo laboratorio per la
riparazione di carrozze e carri,
nel 1885
nasce mio padre Carmelo,
non nasce proprio in Alessandria
ove venne concepito ma
a Catania, città natale
di nonno Paolo, il quale volle
che il suo primo figlio nascesse
nella sua città, quindi mandò la
moglie
a
partorire in Catania e lì
dette alla luce mio papà . Ad
appena un mese dalla nascita
mia nonna
rientrò in
Alessandria e in questa
città papà Carmelo crebbe e vi
rimase sino all’età di 20 anni.
Frattanto nonno Paolo mette al
mondo altri
tre figli, tutte femmine.
Papà Carmelo purtroppo
non ebbe una
buona cultura scolastica,
sia perché in Alessandria, a
quei tempi, non vi erano scuole
italiane, sia perché sin da
fanciullo iniziò a lavorare nel
laboratorio paterno onde
imparare un mestiere. Sapeva
appena leggere e scrivere,
grazie all’impegno di un parroco
della vicina chiesa cristiana,
ma in compenso era di
pronta
intelligenza tanto da
imparare perfettamente la lingua
egiziana, ma soprattutto fu
sempre attratto da quello
spirito di avventura, infatti
nel 1906, aveva da poco compiuto
i
20 anni , decise di
emigrare in Libia allora ancora
sotto il dominio della Turchia.
Si stabilì nella città di
Tripoli e dopo poco tempo
aprì un laboratorio artigiano
per la riparazione di carrozze,
mestiere che aveva imparato nel
laboratorio di suo papà..
Quando il Governo italiano nel
1911 decise di occupare la Libia
, dichiarando il 29 Settembre
guerra alla Turchia, i pochi
italiani che vi dimoravano
subirono angherie da parte delle
Autorità turche, molti trovarono
rifugio presso le Ambasciate
occidentali, vedi quella di
Germania, Francia e Inghilterra,
soprattutto della Germania in
quanto il Console tedesco issò
la propria bandiera sul
Consolato Italiano, ponendolo
sotto la sua protezione.
Infatti nel Consolato italiano
si erano rifugiati molte
famiglie italiane che vennero
quasi subito rimpatriate
sempre sotto la
protezione di Germania e
Inghilterra, le quali
misero a disposizione le loro
navi. Purtroppo
alcuni vennero
imprigionati.
Mio padre
che si trovava ormai da
circa 5 anni
a Tripoli e con un
piccolo laboratorio ben avviato,
avvalendosi della sua ottima
conoscenza
della lingua araba e del
turco che in quei 5 anni aveva
imparato, riuscì
ad evitare guai
anche perché gli piaceva
vestire all’araba e
quindi facilmente scambiato per
arabo, ma da foto in mio
possesso di papà Carmelo
giovane, ho notato che sapeva
essere elegante anche in abiti
europei.
I soldati italiani sbarcarono a
Tripoli il 5 ottobre 1911 al
comando del generale Caneva,
dopo aspri combattimenti
riuscirono a occupare la città
attestandosi subito a difesa
della stessa.
Purtroppo quella conquista fu
lunga e cruenta, il territorio
era vasto e poco conosciuto dai
nostri Comandi militari e le
truppe avevano difficoltà per
intraprendere azioni di
penetrazione
all’interno del paese.
Allora
il Generale Caneva si
rivolse a quei pochi italiani
che erano stati frattanto
liberati dalle carceri turche,
per cercare quanti di essi
avessero vera e profonda
conoscenza del territorio.
Da anziani italiani
ivi residenti da
moltissimi anni venne fatto il
nome di mio papà,
in quanto giovane,
parlava perfettamente l’arabo e
anche alcuni dialetti locali,
quali il “ ghebali “ e il
“zuarino” , in più aveva una
buona conoscenza di gran parte
del paese, poiché per
il suo spirito
avventuroso,
la sua giovane età
e forse attratto dal
fascino del deserto, spesso si
addentrava ad esplorare il
territorio poco abitato e poco
conosciuto; forte di queste
caratteristiche
le Autorità militari lo
proposero come “guida“ alle
truppe operanti.
Militarizzato, seguì tutte le più
importanti battaglie per la
conquista della Libia, si trovò
in mezzo a situazioni militari
alquanto pericolose, soprattutto
durante la lunga guerriglia
che sostenevano quelle
tribù arabe che non accettavano
la sottomissione; guerriglia che
andò avanti sino al 1932.
Un breve cenno storico su quella
guerra
italo-turca: essa ebbe
inizio nell’ottobre del 1911, ma
dopo appena un anno la Turchia
chiese la pace con l’Italia,
pace che venne firmata
a
Losanna in Svizzera
nell’ottobre del 1912;
l’esercito turco abbandonò la
Libia ma non la sua sovranità,
tanto che vi lasciò degli
ufficiali che fomentarono e
guidarono la rivolta araba,
molto sanguinosa da ambo le
parti.
Ricordo da fanciullo che mio
padre mi raccontava alcuni
episodi di quella guerriglia e
uno di questi
è rimasto impresso nella
mia mente, in quanto papà
Carmelo ne fu uno dei
protagonisti.: nel 1915 una
colonna militare italiana al
comando del Maggiore Costantino
Brighenti doveva occupare una
importante località a circa 180
Km. da Tripoli, la località era
Ben Ulid in mano a guerriglieri
arabi della tribù Orfella,
capeggiati da un potente capo
Abd el Nebi Belker. La colonna
partì da Tripoli , come guida e
interprete era
papà Carmelo che
conosceva benissimo quei luoghi,
la marcia di avvicinamento non
fu tanto facile in quanto spesso
attaccata da bande di
guerriglieri, comunque il
Maggiore Brighenti , dopo un
feroce combattimento il 6
febbraio 1915 conquistò la
località e predispose i suoi
soldati a difesa , in quanto i
guerriglieri ritornarono con più
forze per riconquistare Ben
Ulid.
La guarnigione italiana venne
assediata. Da Tripoli il Comando
italiano cercò di fare arrivare
rinforzi ma questi venivano
distrutti dagli arabi lungo il
percorso. L’assedio durò molti
mesi e solo l’8 luglio 1915
il Maggiore Brighenti
dovette abbandonare la località
in quanto incominciarono a
scarseggiare i viveri e le
munizioni. I feriti non potevano
essere curati perché non vi
erano più medicinali ed i
soldati erano costretti a bere
acqua
oltre che salmastra anche
putrefatta , in quanto
nell’unico pozzo a
disposizione degli assediati
i ribelli vi avevano gettato dei
cadaveri. L’acqua raccolta
pur venendo bollita e filtrata
aveva un sapore sgradevole ma
doveva essere bevuta per
sopravvivere.
La guarnigione, ormai ridotta a
pochi uomini ancora in armi ma
con numerosi feriti e pochi
viveri e munizioni, dopo eroica
resistenza, dovette capitolare.
I pochi superstiti
vennero catturati
con il Maggiore
Brighenti, che si
suicidò, non sopportando
la resa
e moralmente scosso
anche per avere appreso
della tragica morte
della sua adorata
consorte,
Maria Brighenti Boni ,
massacrata dai ribelli il 18
giugno 1915, durante il
ripiegamento da Tahruna del
presidio anch’esso assediato. Mio padre, sia per il
suo parlare arabo, sia perché di
carnagione bruna sia perchè vestiva
all’araba,
venne scambiato per un
abitante arabo del luogo e
lasciato libero, così
riuscì a raggiungere
Tripoli e comunicare al Comando
la tragedia della guarnigione di
Ben Ulid.
Dopo quella terribile avventura
riprese il suo lavoro,
il Governo italiano e per
esso il Ministero della Guerra
in riconoscenza della sua opera
gli concesse
l’attestato di
benemerenza e medaglia,
attestato che conservo
gelosamente tra i ricordi di mio
papà.
Nel 1921, sempre a
Tripoli, papà Carmelo conosce
mia madre, se ne innamora e
l'anno dopo la sposa.
Anche qui devo fare una breve
storia della famiglia di mamma
Rosaria, i Zambuto. Mia
madre nasce in Sicilia a
Realmente ( Provincia di
Agrigento ) nel 1894. Ancora
fanciulla
va a vivere
con parte della famiglia
in Tunisia,
precisamente a Tunisi,
dove mio nonno Filippo
commerciava in vini e cavalli
pregiati berberi che vendeva in
Sicilia; nel 1920 nonno Filippo
allarga il suo commercio e si
trasferisce a Tripoli e
raggiunge così zio Angelo,
l’altro figlio maschio, che si
era stabilito a Tripoli già da
diversi anni e
aveva impiantato una
piccola impresa edile, che in
seguito diventerà una delle più
rinomate
e grosse
imprese della Libia.
Nonno Filippo, ormai attestatosi
con il suo commercio, richiama
dalla Tunisia in Libia tre delle
sue figlie femmine, cioè mia
madre ancora non sposata , zia
Nina e zia Lorita già da qualche
anno sposate, mentre il
rimanente dei Zambuto, altre tre
figlie anche loro sposate, non
lo raggiungono in quanto una
aveva deciso di restare in
Tunisia, l'altra era in Sicilia
e una emigrata in America: mio
nonno aveva avuto sette figli,
sei femmine e un maschio.
Anche per il nome Zambuto, che
ha origini siciliane, ho cercato
di
conoscerne le sua storia
e
sempre consultando
eminenti storici
orientalisti, quali il Michele
Amari e Giovan Battista
Pellegrini, sono venuto a sapere,
tramite un carissimo amico arabo,
Alì Husnein, storico
e Presidente del Centro
Storico Italo-Libico, che nel 1°
volume
del libro del Pellegrini
a pag. 273,
in un documento
arabo-siculo del 1153,
risulta il nome Zambuto
quale originario
dall’arabo “ Sammut “
che infatti deriva dal
verbo trilittico arabo “ Samut”
, quindi è molto probabile che
gli antenati di mio nonno
materno fossero di origina araba.
Dalla felice unione di papà
Carmelo e mamma Rosaria, nascono
tre figli: io nel 1923, mia
sorella
Ninì nel 1925 e
mio fratello Fifò nel
1928.
Perché questi nomi così
particolari? Era una antica
tradizione sicula-francese, in
uso nelle famiglie di una certa
elevatura sociale ed economica
dare un sopranome ai loro
componenti, infatti mia madre di
nome Rosaria, venne chiamata
Sasà, mio nonno Filippo era Don
Fifò, mia sorella Rosaria
divenne Ninì , mio fratello
Filippo ebbe il sopranome di
Fifò.
Io da bambino
venivo vezzeggiato con
l’appellativo di Popollo, ma
appena grandicelli io e
mio fratello rifiutammo tali
appellativi e venimmo sempre
chiamati: Paolo e Filippo.
Il lavoro di mio padre si era
frattanto sviluppato, dal
modesto laboratorio artigiano
era passato ad una vera fabbrica,
anche se piccola, sempre per la
costruzione di
carrozze e carri agricoli;
negli anni 20 , 25 e anche 30
gli unici mezzi di trasporto
pubblico in
Tripoli, erano la
carrozza e per
i signori benestanti il
carrozzino.
Il Governo italiano
frattanto concedeva
vaste zone
deserte agli
agricoltori italiani
affinché questi le
coltivassero, così nacquero
in Libia estese concessioni
agricole, quindi
necessitavano carri
agricoli ed ecco che si
sviluppò ancor di più
l’attività paterna. Quando i
miei genitori si sposarono,
papà comprò in un quartiere
arabo una bella casa,
generalmente le case arabe
di allora erano a un solo
piano ma la nostra
invece aveva un piano
rialzato, inoltre dato che a
quei tempi, i quartieri
arabi non avevano, nè luce
elettrica ,nè acqua, la
nostra casa invece, pur non
avendo la luce elettrica,
aveva il suo pozzo interno
ma di acqua salmastra, mia
madre la usava per lavarci e
per le pulizie di casa. Sul
tetto vi era un ampio
contenitore per la raccolta
dell’acqua piovana,
ma dopo poco tempo
mio padre lo fece
togliere perché nella
consueta pulizia annuale
dentro vi si trovavano,
uccelli morti, scarafaggi e
lucertole. Ricordo, da
piccolo, che mia madre
comprava l’acqua dolce da un
arabo che tutti
i giorni passava per
il quartiere con due enormi
otri e al grido di
“moia “ (cioè acqua )
la vendeva. Ricordo ancora
che tutte le mattine, altri
venditori arabi, quelli
del latte con il loro gregge
di capre, delle uova “dahi“,
dei dolci “halua“ del pane
“khobsa”, passavano per il
quartiere vendendo la loro
merce.
Restammo in quella casa per
oltre 10 anni, frattanto
papà Carmelo aveva fatto
costruire un'altra
casa in un nuovo quartiere
europeo, chiamato dell’81
perché all' inizio della
guerra Italo-Turca, in
quella zona era
acquartierato l’81°
Reggimento di fanteria
italiano; a costruzione
finita vi andammo ad abitare
e venni iscritto alla Scuola
privata dei Fratelli
Cristiani assai vicina alla
nostra casa.
Ero stato tolto dalla Scuola
governativa
per un fatto
increscioso tra mio padre e
il mio maestro delle
elementari , in quanto
costui all’esame per il
passaggio dalla classe terza
alla quarta mi bocciò.
A quei tempi, anni
1931-32, l’ordinamento
scolastico prevedeva
quella prassi di
esame. Spiego le ragioni del
contrasto tra mio padre e il
mio maestro delle Elementari.
Ogni anno alla data del 25
maggio in tutta Italia e
quindi anche in Libia, come
nelle altre colonie italiane,
si svolgeva una grande
manifestazione ginnico –
sportiva.
Nell’anno 1932,
in ricorrenza di
quella data, partecipai ad
una gara ciclistica che si
svolgeva nella nuova pista
dello Stadio di Tripoli
appena inaugurato. Io avevo
una fiammante bicicletta con
tutte le caratteristiche
della bicicletta da corsa;
era stata costruita, in
occasione di quella
importante Manifestazione
nell'officina di papà., da
un mio cugino corridore
ciclista dilettante.
Alla partenza della
competizione, il
giudice di gara che era il
mio maestro,
aveva spiegato a noi
concorrenti alcune regole
della corsa, cioè non
ostacolare l’avversario, non
fare acrobazie sulla pista
durante la corsa. Purtroppo
mentre il giudice spiegava
quelle regole, io ero
intento a controllare se la
mia bicicletta era a posto,
quindi non prestai
attenzione a quanto spiegava
il giudice. Al comando di
partenza scattai velocemente
e merito della mia
particolare bicicletta
distaccai subito i miei
avversari. Approfittando del
vantaggio incominciai a fare
quelle acrobazie proibite,
incitato dagli applausi del
pubblico, arrivai al
traguardo primo con un
notevole distacco al secondo.
Convinto di essere premiato
dal giudice,
mio maestro, questi
invece mi
squalificò. Dopo
quella, per me, ingiusta
squalifica, incominciai a
piangere. Mio padre che si
trovava in tribuna, scese in
pista e, rivolgendosi al
giudice, disse che non era
giusta quella squalifica in
quanto io non avevo
provocato nessun incidente.
Purtroppo questi non volle
sentire ragioni, anzi
insultò mio padre, il quale
a quegli insulti strattonò
forse con una certa
pesantezza il mio maestro.
La faccenda
stava
degenerando,
anche perché gran
parte del pubblico dava
ragione
a mio padre.
Per fortuna
l’incidente in quel
momento non ebbe conseguenze.
Queste arrivarono nel mese
di giugno, a fine anno
scolastico, quando dovetti
sostenere gli esami di
ammissione per il passaggio
dalla terza alla quarta
elementare. Era una prassi
scolastica in uso a quei
tempi; il mio maestro mi
bocciò
asserendo che non ero
abbastanza maturo
scolasticamente, eppure
detto maestro mi aveva
scelto a rappresentare la
mia classe in quella gara.
D’accordo che non sono mai stato uno sgobbone a scuola,
ma essere qualificato come
scolaro
poco intelligente fu
allora per me molto
mortificante, pur sapendo
che il maestro si era legato
al dito il diverbio con mio
papà e logicamente volle
vendicarsi.
Non sentendomi nelle condizioni di ripetere la terza
classe nella Scuola
governativa che in effetti
era l’unica a Tripoli,
venni iscritto alla
Scuola privata dei Fratelli
Cristiani ove frequentai con
ottime votazione la terza,
quarta e quinta elementare ,
passando poi allo Istituto
Magistrale per la qualifica
, a fine degli otto anni, di
Maestro Elementare.
Gli anni della fanciullezza
di noi figli furono
meravigliosi. I nostri
genitori non ci fecero
mancare di nulla, mio padre
ci costruì una piccola
automobile, sulle
caratteristiche della
famosa Isotta
Fraschini che equivaleva
allora alla nostra Ferrari
di oggi. Fu una assoluta
novità anche perché aveva un
motorino che andava
elettricamente; ricordo che
quando uscivo e circolavo
per le vie di Tripoli con a
bordo mia sorella e mio
fratello, ero seguito da un
codazzo di ragazzini che mi
pregavano di
farli salire a bordo
e gustare così anche
loro l’emozione del
passaggio. Spesso con
l’autorizzazione di mio papà
li facevo salire sulla mia
Isotta Fraschini.
Nel
1934, papà Carmelo fa
costruire altra nuova casa
in un quartiere più centrale
e a lavori ultimati
vi andammo ad
abitare, era una bella casa
molto ampia
con annesso lo
stabilimento di carrozzeria
paterno ancora più
vasto.
In quella casa
la famiglia Savasta
trascorse anni di serenità e
anche di
benessere. Gli affari
di mio papà andavano
ottimamente, anche grazie
all’arrivo in Libia nel 1938
dei "ventimila coloni",
chiamati dall’Italia
dal Governatore Italo Balbo,
onde valorizzare ancora di
più vasti territori
desertici. A costoro, oltre
ad una terra da
coltivare,
una casa, sementi
e attrezzi agricoli,
veniva dato in dotazione
il carro agricolo. Di
conseguenza mio papà ebbe
dalla Amministrazione
governativa l’appalto per la
costruzione di questi carri.
Nel 1937
mio padre presentò
alla Fiera Internazionale di
Tripoli una sua opera, cioè
un carrozzino
sportivo di sua
invenzione che suscitò molta
attenzione
tanto è vero che fu
premiato con il 2° Premio
Internazionale
(certificato che
conservo gelosamente). A
quanto appreso da mio padre,
egli meritava il 1° Premio
per l’originalità della
costruzione, ma non gli fu
concesso perché egli non era
ancora iscritto al Partito
Fascista; cosa
che fece in seguito
per ottenere altri appalti
governativi.
Nell’anno 1938 io e mia sorella frequentavamo già la
prima magistrale superiore,
mentre mio fratello Filippo
si era iscritto alla prima
Media. Io mi dedicavo allo
sport preferito
l’atletica leggera, con
ottimi risultati anche
perché spronato dal mio
insegnante di
Educazione Fisica, il
Professore
Luigi Ferraro, che
nel corso della 2° Guerra
Mondiale
fu un Eroe decorato
di Medaglia d’Oro al Valore
Militare.
Negli anni seguenti la nostra vita proseguiva
felicemente, gli
studi andavano bene, lo
sport mi dava grandi
soddisfazione nella mia
specialità.
Partecipavo con
successo ai Ludj Giovanili
dello Sport che si
svolgevano annualmente.
Purtroppo lo scoppio della
2^ Guerra Mondiale sconvolse
la vita serena non solo
della nostra famiglia ma di
tutta la popolazione di
Libia, era il 1940. Iniziate
le operazioni militari
vennero subito chiuse tutte
le Scuole, in quanto
divenute
depositi militari o
ospedali, ma iniziarono
anche i terribili
bombardamenti aerei
prima dai francesi
per fortuna per pochi
giorni, in quanto la Francia
ormai occupata dalle truppe
tedesche chiese
l’armistizio, ma
proseguirono
quelli inglesi
che ogni notte la
città di Tripoli subiva ,
quindi corse al rifugio che
per il nostro quartiere non
era altro che la cantina
del convento delle
Suore cattoliche.
Vista la grave situazione e con il pericolo di restare
sotto le macerie mio padre
decise di allontanarci da
Tripoli molto esposta e
ci rifugiammo nelle
case coloniche di quei
contadini chiamati in Libia
dal Governatore Italo Balbo.
Così mia madre
e noi figli andammo
in casa di un colono del
villaggio agricolo Oliveti a
circa 42 Km. da Tripoli, mio
padre invece rimase in città
sia per ragioni di lavoro ma
soprattutto per custodire la
casa.
I primi mesi di guerra furono pieni di disagi e paure,
poi gli italiani di Libia ci
fecero
l’abitudine e la vita
in città
incominciò ad
assumere
uno svolgimento
regolare. Noi, della
famiglia Savasta, che
eravamo
lontani dalla città ,
ospiti in casa di quella
brava famiglia colonica che
ci rispettava,
passavamo le
giornate serene ma
con l’unica preoccupazione
di
papà. Noi ragazzi
oziavamo
in attesa di
riprendere gli studi; erano
i mesi
giugno e luglio, si
aspettava che aprissero le
scuole ma queste, come sopra
detto,
erano state ormai
trasformate in depositi
militari, ospedali, caserme,
dato l’enorme afflusso di
militari che giungevano
dall’Italia per essere
destinati al fronte.
Ovviamente con i militari
arrivava
anche materiale da
guerra, la città di Tripoli
non era allora preparata
alle grandi caserme e quindi
quello enorme arrivo di
soldati
causò un grave
problema alle Autorità
militari che non trovarono
altra soluzione che
requisire anche
le scuole, sia
elementari che superiori.
Noi studenti considerammo
quelle requisizioni un vero
regalo, anche
perché il Governo
italiano emanò una Legge che
dava ad ogni studente la
promozione all’anno
successivo , sempre in
attesa che la guerra finisse
presto e
che riaprissero le
scuole. Io che avevo
frequentato il terzo
anno delle superiori
magistrali , venivo
così promosso all’ultimo
anno per il conseguimento
del Diploma di Maestro
elementare. Ma dove
frequentare l’ultimo anno di
studi
se in Libia tutte le
scuole erano state
requisite?
Restava il dilemma di
partire per l’Italia ove
le scuole
funzionavano regolarmente
nonostante la guerra .
Nostra madre doveva prendere una decisione, quella di
farci proseguire gli studi,
così mia
sorella,
anche lei con la
promozione al quarto anno
delle Magistrali fu fatta
partire
insieme a una mia zia
alla volta di Napoli. Perché
a Napoli
e non in Sicilia?
A Napoli perché una
nostra prima cugina aveva a
Tripoli sposato un militare
italiano originario di
Napoli, che rientrato in
Italia venne destinato al
Distretto Militare di questa
città, quindi un appoggio
sicuro. La Sicilia fu
scartata in quanto di
parenti
paterni o materni in
quella regione non ne
conoscevamo; solo una
sorella di mia madre viveva
a
Realmonte, in
provincia di
Agrigento, ma anche
con essa
mia madre non aveva
più rapporti da moltissimi
anni.
Zia Nina e mia
sorella s’imbarcarono alle
primi luci dell’alba su un
aereo militare in una
mattina
di Maggio 1941 alla
volta dell’Italia. Perché
venivano usati gli aerei
militari ? Era una
disposizione delle Autorità
militari di rimpatriare
quegli italiani, che causa
dei continui
bombardamenti aerei nemici
sulle città di Tripoli e
Bengasi, decidevano di
rientrare in Italia. Gli
unici mezzi sicuri e veloci
erano gli aerei, dato che
con le navi non vi era
sicurezza in quanto gli
inglesi ormai dominavano su
tutto il Mare Mediterraneo.
L’uso degli aerei per quelle
evacuazioni erano
salvaguardati
da precise
disposizioni della
Convenzione dell’Aia sulle
Leggi di guerra e da Accordi
della Croce Rossa
Internazionale; infatti
tutti gli aerei che
trasportavano feriti o
profughi dovevano essere
contrassegnati da una ben
visibile Croce
Rossa e non dovevano
essere attaccati da aerei
nemici, così che
il viaggio per Napoli
fu senza conseguenze. Zia
Nina e mia sorella
arrivarono sani e salvi.
Restavo io. I miei insistevano di mandarmi in Italia e
completare gli studi, io
invece
rifiutavo
allontanarmi da loro,
in quanto ormai
diciassettenne,
pensavo potessi
essere di aiuto alla
famiglia, ma il mio vero
scopo era quello che
intendevo partecipare alla
guerra contro gli inglesi;
infatti a pochi giorni dalle
operazioni militari
sul confine egiziano,
con due amici anche loro con
la mia stessa idea, tentammo
nottetempo di raggiungere il
fronte. Purtroppo per
ragioni di sonno tutto andò
a monte. I miei due compagni
di avventura erano Pippo
Paratore e Filippo
Marciante, incolpandoci a
vicenda per il fallimento
del nostro progetto alla
fine ci facemmo delle grandi
risate.
Ma io non
intendevo mollare in quanto
mi ero prefisso. A Tripoli
era stato formato un
Battaglione di volontari
tripolini, tutti
ragazzi della classe 1922,
il cui comandante era
un
ufficiale della
Milizia fascista,
Alberto Venturelli, che era
mio padrino di
battesimo. Così mi presentai
nascondendo ai miei
genitori quanto intendevo
fare. Purtroppo venni
scartato perché considerato
troppo giovane, questa era
la motivazione ufficiale
della mia non ammissione. In
seguito seppi la vera
ragione di quello
allontanamento. Mio padre,
che era venuto, non so
come, a conoscenza di quel
mio progetto, si rivolse al
Comandante del Battaglione e
questi che era , come sopra
detto, il mio padrino mi
scartò poiché non volle
espormi ai rischi della
guerra. A titolo di cronaca
quel Battaglione che fu
dislocato a Tobruch di
guarnigione, quando gli
inglesi attaccarono la base
di Tobruch per conquistarla,
trovarono una eroica
resistenza da parte di quei
giovani tripolini, ma quasi
tutti perirono.
Dopo tutti
i tentativi di andare al
fronte e partecipare alla
guerra decisi di
completare gli studi
a Napoli. Così una
mattina del giugno 1941
presi posto su un aereo
militare, un trimotore da
bombardamento sigla S.M.81
adibito a quel
servizio;
partimmo dallo
aeroporto
di Castel Benito
(Tripoli) diretti in
Sicilia aeroporto di
Castelvetrano. L’aereo
trasportava circa 40
italiani quasi tutti donne e
bambini, io ero l’unico
ragazzo grandicello; al
comando di detto aereo era
il Capitano Leonardo
Bonzi, che in seguito verrà
decorato di Medaglia d’Oro
al Valor Militare per atti
eroici per quelle missioni.
Partimmo quasi all’alba,
seguendo per un
certo tratto la costa
tunisina
poi
prendemmo il largo
puntando prima su
Pantelleria per poi
effettuare la discesa a
Castelvetrano. Il nostro era
un convoglio aereo composto
da altri tre aerei; eravamo
al largo della costa
tunisina, quando venimmo
attaccati da una formazione
aerea inglese, nonostante
che gli aerei portavano ben
visibile i segni della Croce
Rossa. Due
dei nostri apparecchi
furono abbattuti , anch’essi
carichi di donne e bambini;
il nostro ebbe un motore
colpito gravemente mentre un
secondo motore sprigionava
fiamme, allora il comandante
Bonzi decise di
ritornare indietro e
possibilmente atterrare in
un aeroporto della Tunisia
ormai occupata dalle truppe
italiane. Purtroppo la
gravità dei danni ai motori
non dava possibilità
di arrivare in Tunisia e
quando si profilò l’isola di
Gerba essa fu la nostra
salvezza.
Il comandante iniziò
un atterraggio di fortuna
lungo la costa dell’isola,
manovra riuscita grazie alla
sua abilità e quella del suo
secondo pilota, di cui
ricordo ancora il nome,
Rossi. Certo ci si domanderà
perché i nostri aerei non
reagirono a quello attacco.
Non potevano in
quanto per quegli accordi,
tutti gli aerei
contrassegnati
con una
Croce Rossa
dovevano navigare senza
armamento e quindi ogni
aereo aveva a bordo solo il
primo pilota, un secondo
pilota e un marconista e
nessun altro componente
l’equipaggio.
Restammo in quella isola per nove giorni
quando giunsero, non
saprei
se
dalla Tunisia o
dalla Sicilia , degli
avieri con pezzi di ricambio
del motore
e iniziarono i lavori
di riparazione.
Quell'arrivo provvidenziale fu merito del nostro
marconista che era riuscito
a comunicare via radio, al
Comando dell’aeroporto di
Castelvetrano (Sicilia),
quanto era successo e
segnalando la nostra
posizione, infatti
dopo pochi giorni con
un battello ecco l’arrivo
dei
soccorsi.
Ricordo che
ricevemmo assistenza dalle
autorità militari francesi,
che per fortuna non erano
più in guerra contro di noi,
ci portarono viveri e acqua
e ci salvaguardarono dagli
arabi che si erano
avvicinati allo aereo con
intenzioni certo non
pacifiche.
Dopo le riparazioni il nostro aereo prese quota e nel
giro di qualche ora
atterrammo a Castelvetrano,
ad attenderci erano personalità militari, infermieri,
fanciulle in divisa fascista
della G.I.L. (Gioventù
Italiana del Littorio ) che
ci rifornirono
abbondantemente di viveri ma
soprattutto dolci; dopo i
controlli medici venimmo
condotti alla Stazione e
imbarcati su un
apposito treno diretto a
Roma
ove i profughi
italiani dei territori
d’oltre mare, venivano
accolti nei campi profughi
di Cinecittà (Roma) poi
smistati in campi di altre
zone.
Nel campo di Cinecittà vi restai appena due giorni e
dietro mia richiesta venni
trasferito al campo profughi
di Aversa (Napoli) ove mi
venne a prelevare, avvisato
dai dirigenti del campo,
quel mio cugino acquisito
che era maresciallo
dell’Esercito .
A Napoli inizia per me una nuova vita, non avevo mai
vista una grande città, un
movimento di uomini e mezzi
così convulso, nei primi
giorni di permanenza ero
frastornato, non uscivo mai
da solo, avevo fatto subito
amicizia con un vicino di
casa che aveva la mia stessa
età, si chiamava Vittorio
Marra, così incominciai a
girare per Napoli e
conoscere anche le sue
meraviglie come Musei ,
antichi palazzi, il suo mare
, il suo Golfo e il Vesuvio.
Prima di iniziare a parlare di questa mia seconda vita
, vorrei che i miei figli ,
i miei nipoti e pronipoti
venissero a conoscere
chi era mio padre ,
diciamo il secondo
capostipite dopo nonno
Paolo. Allo inizio di questa
ricerca, ho descritto papà
Carmelo nella sua vita
avventurosa, nel suo lavoro
ma non ho dato risalto al
suo carattere, al suo
comportamento in famiglia
cioè alla sua vita
privata.
Mio papà era di una generosità infinita, aiutava tutti
nelle sue possibilità, un
grande lavoratore, un onesto
cittadino ma soprattutto un
padre esemplare, non ci fece
mai mancare nulla, non
avendo potuto studiare,
volle che noi figli
abbracciassimo gli studi con
entusiasmo,
serietà
e volontà.
Papà Carmelo aveva modi giusti e sobri, non alzava mai
la voce ne durante il lavoro
ne a casa, bastava una sua
occhiata per ristabilire
l’ordine tra noi figli
quando esageravamo nei
nostri comportamenti, io non
ho mai avuto da mio padre
uno schiaffo anche se
leggero, mi bastava il suo
sguardo per rendermi calmo e
ubbidiente, da piccolo avevo
un carattere alquanto
discolo e vivace.
A tavola papà Carmelo aveva gusti semplici e non
eccedeva, non era un
bevitore, appena un piccolo
bicchiere di vino a pasto,
ma prima di mangiare era sua
consuetudine gustare un
aperitivo locale
era una bevanda
liquorosa, estratta da una
pianta di finocchio
selvatico che cresceva in
Libia, gli arabi
la chiamavano “ Buhua
“, egli ne era goloso.
Quando i miei furono
costretti dagli eventi a
lasciare la Libia per
rientrare in Italia
stabilendosi nella
cittadina di Pomigliano
d’Arco in Provincia di
Napoli, mio padre soffrì
molto per la mancanza della
“buhua”, in Italia questa
bevanda era sconosciuta.
Papà Carmelo nel lasciare la Libia fu previdente, si
era portato appresso alcune
bottiglie di quello
aperitivo, ma queste
finirono presto e allora
ricorse a una bevanda quasi
vicina al gusto delle
“buhua”, era questa
chiamata “anisetta”
ma fortemente alcolica ,
veniva bevuta in piccoli
bicchierini.,
così dovette
abituarsi a questo nuovo
aperitivo.
Papà Carmelo come detto era un uomo previdente, allo
scoppio della guerra , egli
iniziò a mandare in Italia
denaro e attraverso quella
cugina di Napoli questo
veniva depositato su un
conto corrente bancario
intestato a questa mia
cugina, fu quello di mio
padre un assennato e
intuitivo progetto, che
permise a mia sorella e me
di affrontare gli studi
senza alcuna preoccupazione
economica e quando agli
inizi del 1942 anche mia
madre e mio fratello Filippo
lasciarono Tripoli, ormai
impossibile viverci per i
danni che provocava la
guerra, giunti a Napoli
ebbero la fortuna di non
entrare nei campi profughi
ed essere assistiti dallo
Stato, in quanto il
provvidenziale invio di quel
denaro , permise a mia madre
di farci completare gli
studi, vivere decorosamente
per ben 5 anni.
Un cenno anche a mamma Rosaria (Sasà), era una donna
semplice, laboriosa
attaccata alla famiglia,
anche lei con una cultura modesta, infatti in Sicilia
aveva frequentato sino alla
classe quinta elementare,
poi essendo emigrata in
Tunisia al seguito della
famiglia, non ebbe la
possibilità di
continuare gli studi
in quanto anche in Tunisia a
quei tempi non vi erano
scuole italiane ma francesi
e arabe e se anche mia madre
avesse voluto frequentare le
scuole francesi, nonno
Filippo (Fifò) non lo
permise, non per ragioni di
razzismo ma perché vivendo
in terra straniera egli da
buon siciliano non voleva
che la figlia più piccola
vivesse la sua vita
scolastica al di fuori del
proprio ambiente familiare.
Ricordo che mamma Rosaria (Sasà), ne risentì molto per
la poca istruzione che gli
era stata imposta, se ne
lamentava con noi figli,
infatti ci spronava nello
studio ed era molto severa,
controllava se avevamo fatto
i compiti, io ero quello
che
per primo ero
sottoposto al suo severo
controllo, perché allo
studio preferivo lo sport e
spesso fingevo di non avere
compiti
ma lei non ci cascava
e allora erano punizioni,
non corporali ma nel
togliermi qualche golosità o
proibirmi l’acquisto e la
lettura dei giornaletti
dell’epoca che per me i
preferiti erano: il
Vittorioso, L’Intrepido e
Topolino. Questo ultimo
giornaletto in seguito avrà
una importante svolta nella
mia vita, nel corso di
questo memoriale il lettore
verrà a conoscerne il perché.
Ed ora inizio a descrivere la vita del terzo
capostipite dei Savasta che
in effetti sarebbe la mia
vita, in quanto essendo il
primogenito maschio di papà
Carmelo e mamma Rosaria (
Sasà ) per diritto di casta
mi spetta
questo titolo, che
alla mia morte passerà a mio
figlio Stefano e sua volta a
Francesco suo figlio e mio
nipote.
Giunto a Napoli mi iscrivo al quarto anno presso
l’Istituto Magistrale
Margherita di Savoia
per l’anno scolastico
1941-1942; a giugno del 1942
sostengo gli esami di
maturità, purtroppo vengo
rimandato in
matematica e
filosofia,
ma felicemente li
supero agli esami di
riparazione a settembre
dello stesso anno. In
possesso del titolo mi
iscrivo allo Istituto
Universitario Orientale di
Napoli, alla Facoltà di
Scienze Coloniali.
Nonostante gli studi
e la bella vita
goliardica di Napoli, il mio
pensiero di servire la
Patria non si esaurisce
e ormai in possesso
del titolo di studio
avendo fatto anche
felice mia madre per quel
titolo conquistato,
mamma
era
a Napoli già da
giugno del 1942 con mio
fratello Filippo in quanto
rimpatriata da Tripoli per
gli eventi bellici, prendo
la decisione di arruolarmi
volontario nell’esercito.
Convinco
di questa mia decisione
l’amico Vittorio Marra
e Augusto Ricevuto
altro tripolino,
insieme
nascondendo il nostro
progetto ai genitori, una
mattina dei primi di
novembre 1942 ci presentiamo
al Distretto Militare di
Napoli decisi di arruolarci
nel corpo dei bersaglieri
(da sapere che tutti
e tre eravamo a classe 1923
non ancora chiamata alle
armi ),
ma
alla entrata del
Distretto notiamo schierati
in bella mostra alcuni
paracadutisti con le loro
fiammanti e bellissime
divise, in un attimo tutti e
tre cambiamo la decisione di
arruolarci nei bersaglieri
e ci presentiamo
all’ufficiale
responsabile per
l’arruolamento nei
paracadutisti, il quale ci
sottopone subito ad una
visita
psico-fisica e
all’esito favorevole ci
dichiara arruolati, con
l’obbligo di presentarci
alla Scuola
paracadutisti di Tarquinia
il giorno dopo,
veniamo forniti di biglietti
del treno
e documenti di
arruolamento.
Rientrati nelle nostre case ecco nascere l’angoscioso
problema di come affrontare
la notizia della nostra
decisione .
Mia madre
scoppiò in lacrime
supplicandomi di non
partire, in quel momento in
me si scontravano due
angosciose
e drammatiche
decisioni, restare con la
famiglia, io ero in quel
momento un sostegno per mia
madre in quanto il figlio
più grande e con il mio
titolo di studio potevo
trovarmi un buon lavoro e
aiutare economicamente la
famiglia,
mio fratello Filippo
aveva appena 14 anni e
studiava, mia sorella Ninì
diplomata era iscritta al
Conservatorio
Musicale di Napoli.,
papà era rimasto a Tripoli,
quindi la mia presenza era
necessaria in famiglia,
dall’altra parte c’era il
giuramento che mi ero fatto
di servire la mia Patria e
difenderla in quel momento
dallo odiato nemico inglese;
scelsi la seconda decisione
e lasciai mia madre in
lacrime.
Sono certo che lo stesso dramma si svolse in casa Marra
e Ricevuto,
la mattina seguente
alle luci dell’alba
prendemmo il treno e nel
tardo pomeriggio eccoci alla
Scuola Paracadutisti di
Tarquinia., l’accoglienza
ci amareggiò un bel
po’, infatti senza tanti
complimenti ci venne
consegnata della paglia come
giaciglio e condotti in una
camerata semivuota per
trascorrevi la nottata, alle
nostre rimostranze ci fu
detto che quella era una
situazione provvisoria in
quanto non ancora presi in
forza.
Stanchi del viaggio
ci addormentammo
profondamente pensando di
farci una buona dormita ma
alle cinque del mattino ,
era ancora buio ecco la
sveglia,
non abituati a quelle
sveglie così mattiniere
facemmo fatica ad alzarci,
brutalmente il sottufficiale
di servizio ci dette appena
il tempo di lavarci e poi
inquadrati con altri
volontari fummo condotti nel
piazzale della caserma per
l’alza bandiera, quella
breve cerimonia certamente
ci commosse.
Subito nella mattinata
iniziarono le
prove attitudinali,
come controllo della vista,
se esenti da malattie, una
prova di intelligenza,
altra prova di
resistenza fisica,
comportamento in volo, la
prova più emozionante in
quanto fatti salire su un
aereo adattato ai lanci,
l’istruttore durante il volo
prendeva uno di noi
portandolo sulla
porta di lancio e tenendolo
ben saldo a mezzo una
apposita cintura
che ovviamente
era assicurata
saldamente all’aereo,
quasi lo spingeva
fuori, questo era il momento
più terribile di quel
comportamento in volo, se
uno mostrava paura o si
ritraeva indietro veniva
scartato, io con Vittorio
Marra e Augusto Ricevuto
superammo quella prova,
sbarcati fummo condotti in
Caserma ove ci dettero una
scalcinata divisa da fante e
un vero letto in una pulita
camerata
Ormai sicuri di iniziare il corso da paracadutisti ecco
la sorpresa, Augusto venne
scartato in quanto trovato,
durante la visita medica,
non saprei di quale malattia
e rimandato al Distretto di
Napoli, seppi dopo la guerra
che era stato arruolato in
fanteria e inviato in
Iugoslavia,
mentre Vittorio che
aveva superato tutte le
prove, ebbe la sfortuna di
avere un padre Commissario
di Pubblica Sicurezza il
quale con le sue amicizie
fece sì di fare trasferire
il figlio in un Battaglione
di Fanteria nei pressi di
Napoli, questo trasferimento
fu facilmente
effettuato in quanto
non avevamo ancora prestato
giuramento; strano destino
quel Battaglione dopo
qualche mese venne
trasferito in Albania,
Vittorio all’atto dello
Armistizio dell’8 settembre
1943 venne catturato in
Albania dai tedeschi ,
portato in Germania morì in
un Campo di concentramento.
Rimasto solo frequentati il durissimo corso e dopo tre
mesi
e i sei lanci di
brevetto, era il mese di
Maggio 1943, mi fu appuntato
sul petto il distintivo di
paracadutista e finalmente
indossare la
agognata , bellissima
e invidiata divisa da
paracadutista. Nota
emozionante: in
quella occasione avevo
agganciata alla cintura, una
bamboletta
bionda che aveva
fatto con me tutti e sei i
lanci, mi aveva portato una
grande fortuna, infatti nei
lanci tutto era andato bene,
non una distorsione o
rottura di qualche osso,
incidenti che
purtroppo in ogni lancio
succedevano, questa mascotte
mi era stata regalata da
Dorina, allora mia madrina
di guerra il giorno che gli
annunciai il mio
arruolamento,
quindi a ragione la
consideravo paracadutista,
tanto è vero che gli avevo
fatto fare una piccola
divisa da paracadutista e
anche il piccolo paracadute
dorato che il mio comandante
di Compagnia volle
appuntarglielo sul petto.
Veniamo a conoscere questa madrina di guerra: nella
pagina precedente ho
accennato a un giornaletto,
dicendo che questo ha
cambiato il corso della mia
vita in senso felice. Da
ragazzo leggevo alcuni
giornaletti allora molto
apprezzati da noi ragazzi,
per me erano l’Intrepido, il
Vittorioso e Topolino .
Era il mese di Aprile del 1940, quando comprai dallo
edicolante i tre giornaletti
preferiti, nel leggere
Topolino notai un annuncio
di una ragazza di Torino che
intendeva corrispondere con
amiche o amici di Torino,
non so da cosa fui preso,
pur sapendo di non essere di
Torino anzi distante diverse
migliaia di chilometri,
decisi di scrivergli,
sicuramente certo di non
avere risposta, ma quale fu
la mia sorpresa quando dopo
pochi giorni ricevetti la
lettera
di Dorina nella quale
mi comunicava che accettava
di corrispondere con me, di
essere cittadina Svizzera di
avere tredici anni , padre
svizzero-tedesco e madre
mezza tedesca e mezza
italiana. Felice di quella
inaspettata conoscenza,
iniziammo una
lunga corrispondenza
durata fin al 1955 quando
decisi di lasciare la Libia
e venire in Italia per
sposarla. Naturalmente i 15
anni che ci separarono
furono alquanto travagliati
, causa la guerra , poi
il mio rientro in
Libia, ma nel 1942 prima di
arruolarmi, decisi di
conoscerla
di persona
e andai a Milano, ove
la sua famiglia si era
frattanto stabilita ,
fu un incontro commovente,
Dorina era già una
bellissima fanciulla
con i suoi 15 anni,
passammo alcuni giorni
felici e spensierati e
quando ci lasciammo alla
Stazione di Milano, i nostri
occhi lacrimavano, io
partivo per la guerra
e non si sapeva
se ci saremmo ancora
rivisti, in quella occasione
mi regalò la famosa
“bamboletta” e un disco con
una canzone di guerra
che si addiceva molto
a noi due, il titolo era
“Ciao biondina è
giunta l’ora
vado in guerra” ,
Dorina era bionda !
Ed ora la mia vita militare: completato il corso con
relativo brevetto nel mese
di Maggio 1943, a tutti i
neo paracadutisti venne
concessa una licenza premio
di 5 giorni, io fui
fortunato in quanto avevo
chiesto una licenza per
esami universitari così ne
ebbi 10 invece di 5.
Arrivato a Napoli con addosso la fiammante divisa da
paracadutista, dopo avere
abbracciato mamma, Ninì e
Filippo,
subito in giro per il
quartiere ad incontrare gli
amici e le amiche
e ricevere
congratulazioni e
ammirazione, ricordo che
andai a trovare un mio
insegnante, il Professore
Alfonso Cucuccio, allo
Istituto Magistrale
Margherita di Savoia ove mi
ero diplomato, il professore
fervente patriota, il quale
già da quando ero suo
allievo sapeva del mio
desiderio di arruolarmi,
appena mi vide si commosse e
mi abbracciò, poi mi
condusse in giro per le
classi
additandomi agli
allievi
quasi come un eroe.
Quei 10 giorni volarono, non
feci nessun esame e rientrai
a Viterbo ma il mio
battaglione frattanto si era
trasferito a Rovezzano
(Firenze) che raggiunsi il
giorno dopo.
In questa nuova Sede, iniziammo a conoscere ogni tipo
di arma, lezioni di difesa
personale, come confezionare
ordigni esplosivi,
conoscenza delle carte
topografiche, tattica
militare, a queste lezioni
noi ci applicammo con
volontà ed entusiasmo, in
meno di un mese eravamo
pronti al combattimento.
Era quasi la
fine di giugno quando venne
l’ordine di trasferimento
del nostro Battaglione che
era
composto da
giovanissimi, quasi tutti
della classe del 1923 che
frattanto era stata chiamata
alle armi, nessuno di noi
soldati sapeva quale era la
nostra destinazione, ne
erano solo a conoscenza il
comandate del Battaglione un
valente Ufficiale ,
era il Capitano Gianfranco
Conati
e il nostro
Comandante di Compagnia, il
Tenente Lino Romanatto che
nella guerra di Spagna si
era guadagnata la Medaglia
d’Argento spagnola.
Tutto il nostro Battaglione fu ammassato su un treno
merci, io fui anche in
quella occasione
abbastanza fortunato
in quanto, essendo il
responsabile del magazzino
di Compagnia, fui caricato
con tutto il materiale su un
carro merci e quindi ero
solo e con dello spazio
abbastanza comodo per
sistemare il mio giaciglio
che non era altro della
paglia, tutti gli altri
miei commilitoni
erano stati stipati in circa
venti per ogni carro.
Fu un viaggio pieno di emozioni e paure, spesso eravamo
mitragliati da aerei nemici
che ormai dominavano su
tutta l’Italia, molte le
soste sotto le gallerie per
evitare quei quotidiani
mitragliamenti.
Solo dopo la guerra si venne a conoscenza che i Servizi
Segreti Alleati sapevano
della nostra destinazione e
sino dalla partenza da
Firenze ci tenevano sotto
tiro, sperando di impedirci
di raggiungere la Sicilia ,
ove il nostro 185°
Reggimento
era destinato a
compiti di anti sbarco.
Dopo oltre una settimana dalla partenza da Firenze
giungemmo a Reggio Calabria
ove il Reggimento,
abbandonato il treno, piazzò
le sue tende nelle campagne
circostanti la città, noi
dell’8° Battaglione
ci accampammo
in un profumato campo
coltivato a piante di
bergamotto, una tipica
pianta molto coltivata in
Calabria che produce un
frutto gustosissimo, ricordo
che prendemmo d’assalto
quelle piante facendo una
scorpacciata del suo
delizioso frutto.
Sicuri di
esserci mimetizzati sotto
quelle piante, quando
subimmo un bombardamento
aereo, i Servizi Segreti
nemici
non ci avevano
mollato, così nelle nottata
abbandonato l’accampamento
attraversammo Reggio
Calabria
raggiungendo il porto
e sempre in nottata, ci
imbarcammo su due traghetti
i famosi “Ferry Boats”
sbarcando a Punta Faro a
Messina.
Da
Punta Faro con marce forzate
raggiungemmo i Monti
Peloritani a Nord di Messina
mentre il nostro 8°
Battaglione si attestava a
difesa
della zona di
Castroreale, gli altri due
Battaglioni il 3° e l’11°
che completavano
il 185° Reggimento,
presero posizione nella zona
di
Barcellona di
Sicilia.
Il compito del 185° inizialmente era quello di
difendere la zona di
Messina da un eventuale
sbarco nemico che da Messina
avrebbe poi messo piede
sulle coste della Calabria;
secondo i piani dello
Stato Maggiore dello
Esercito Italiano
prevedevano una sbarco nella
zona di Messina, invece
le truppe
Anglo-Americane il 9 Luglio
sbarcarono in
diversi punti della
Sicilia da Gela
a Trapani,
avanzando sia da Sud
che dal Nord verso Messina,
la resistenza delle truppe
italiane di guarnigione in
quelle zone fu scarsa in
quanto presi di sorpresa e
sottoposti a violenti
bombardamenti furono
facilmente sopraffatti, solo
la Divisione Livorno del
Generale Rossi e la
Divisione Tedesca Herman
Goering presero la decisione
di resistere, il nostro
Reggimento
venne posto agli
ordini del Generale Rossi,
ricordo ancora il discorso
che il Generale fece,
elogiando il nostro
patriottismo ma soprattutto
ammirato del nostro perfetto
inquadramento.
Frattanto paracadutisti americani erano stati lanciati
nella Piana di Catania
attestandosi saldamente, il
Colonnello Parodi,
Comandante del 185°
Reggimento, decise allora di
inviare sul posto il nostro
8° Battaglione, ma
sopravvenuti ordini dallo
Stato Maggiore cambiarono la
decisione del Colonnello
Parodi, il nuovo ordine era
quello che tutto il 185°
Reggimento restasse sui
Monti Peloritani e si
preparasse ad azioni di
sabotaggio qualora il nemico
avesse occupato Messina, il
nostro compito era dunque
quello di restare dietro le
linee nemiche e attuare il
sabotaggio.
L’organizzazione e l’addestramento agli atti di
sabotaggio
venne affidata al
Capitano Edoardo Sala,
Comandante del
3° Battaglione, era
uno esperto nell’arte della
guerriglia. Iniziammo subito
l’addestramento per quel
compito, come distruggere
ponti, campi di aviazione,
depositi militari e quanto
potesse danneggiare
l’organizzazione nemica,
l’entusiasmo
di noi giovani era al
massimo non vedevamo l’ora
di entrare in azione.
Purtroppo altro ordine superiore , il nostro Reggimento
doveva lasciare
subito la Sicilia,
scendere su Messina e
imbarcarsi per la Calabria ,
quale amara disillusione
eravamo ormai
convinti di dare del filo da
torcere al nemico.
Vorrei raccontare un episodio riguardante la mia
“biondina bamboletta “porta
fortuna,
quella che Dorina,
divenuta poi la mia
madrina di guerra, mi
regalò quando partii
volontario, essa aveva fatto
tutti i lanci di brevetto,
mi aveva portato sempre
fortuna e quando ci
accampammo nelle campagne di
Castroreale, io come
protezione l’avevo appesa
alla entrata della mia tenda
e anche per averla
sempre a portata di mano,
una mattina svegliandomi mi
accorgo che essa era
sparita, amareggiato pensai
al furtarello di qualcuno di
quei ragazzini siciliani che
venivano spesso nel nostro
accampamento per racimolare
qualcosa da mangiare, noi
militari aiutavamo per
quanto ci era
possibile la
popolazione locale,
regalando qualche pagnotta e
agli uomini tutti anziani
delle sigarette
Indagando capii che non erano stati quei ragazzini e
quale fu la mia sorpresa
quando venni a sapere che
l’autore di quel furto era
un sergente del mio
Battaglione. Individuatolo
lo raggiunsi
chiedendogli di
restituirmi la mia mascotte,
ma costui forte del suo
grado mi risposte con
arroganza, dicendomi che la
“bamboletta”
l’aveva regalata a
una ragazza del paese e
quindi potevo mettermi il
cuore in pace
e
rinunciare alla
mia mascotte.
Quella affermazione mi mandò su tutte le furie e senza
pensarci su
rientrai nella mia
tenda e afferrato il mio
mitra gli andai incontro,
con l’intenzione di
intimorirlo e forse se
ancora
sbeffeggiato gli
avrei sparato, purtroppo
anche volendo quel gesto non
avrei potuto farlo in quanto
per disposizioni superiori
ogni soldato, doveva
tenere scarica l’arma se non
era in servizio di guardia
ed io nella fretta non avevo
pensato di caricare il mio
mitra.
Il furbo Sergente sapeva che i mitra dovevano essere
tenuti scarichi
e quindi
sghignazzando mi si avvicino
e strappandomi il mitra mi
mollò con esso anche una
potente
colpo sul capo, la
fortuna volle che avevo in
testa l’elmetto, era
obbligatorio tenerlo
come difesa da
eventuali bombardamenti o
mitragliamenti, questo
accorgimento mi salvò da
gravi conseguenze del
colpo.
Naturalmente quel farabutto di Sergente fece rapporto
al Comando di Battaglione,
dicendo che l’avevo
minacciato con l’arma, da
tenere presente che una tale
denuncia, in zona di guerra,
di minaccia armata e
insubordinazione a un
superiore si viene deferiti
al Tribunale Militare di
Guerra che secondo le
gravità prevede anche la
fucilazione.
La mia fortuna fu quella che sia il Comandante di
Battaglione che il mio di
Compagnia
conoscevano la storia
della mia mascotte, come
tutti i miei
commilitoni
e quindi
convinsero il “malavitoso”
Sergente a ritirare la
denuncia
ma la mia “bamboletta”
non la rividi
più.
L’ordine di lasciare la Sicilia venne subito eseguito e
il 22 Agosto del 1943, tutto
il 185° Reggimento
lascia
i Monti Peloritani
e scende verso
Messina, con marce forzate,
ancora una volta la fortuna
volle premiarmi in quanto il
mio Comandante di Compagnia
che mi teneva in
considerazione come
Volontario Universitario mi
dette l’incarico di
trasportare a Messina
oltre al bagaglio degli
Ufficiali anche gli
incartamenti di Compagnia e
quanto più munizioni e
viveri potevo caricare su
l’unico automezzo a
disposizione della Compagnia;
oltre alla responsabilità
del trasporto, questo faceva
sì
che io potevo
viaggiare su un automezzo
mentre tutti i miei
commilitoni,
Ufficiali compresi,
scendevano su Messina a
piedi con armi in spalla.
Certo anche il mio comodo viaggio
non fu tanto
piacevole, subimmo diversi
mitragliamenti
aerei, ormai la
caccia nemica dominava i
cieli di tutta la Sicilia,
poi vi erano problemi con la
popolazione civile ormai
allo sbando e affamata e
quando attraversavamo i
piccoli paesi
si correva il rischio
di essere assaliti sia da
donne e bambini che
chiedevano cibo o dagli
anziani che volevano armi
per difendersi dal nemico.
D’accordo con l’autista del
nostro mezzo
riuscimmo a dare
scatolette e gallette e
anche qualche arma
ma non
a soddisfare la fame
di quei civili, dovevo
rispondere ai miei superiori
di quello che trasportavo.
Dopo diverse ore arrivai a Messina già in preda al
caos, centinaia di macchine
militari abbandonate lungo
le vie di accesso al porto,
soldati sbandati e senza
controllo, la popolazione
civile che saccheggiava
quanto trovava sulle
macchine abbandonate, dentro
il porto migliaia di soldati
che cercavano mezzi per
attraversare lo Stretto e
sbarcare in Calabria, gli
unici due “ ferry boats”
erano stati requisiti dai
tedeschi e imbarcavano solo
i loro soldati, ci fu
una sola eccezione
l’imbarco del 3° e 11°
Battaglione del nostro 185°,
ma fu un imbarco dovuto alla
decisa presa di posizione
del Colonnello Parodi ,
comandante del 185° il quale
fece presente con
risolutezza al Comandante
tedesco che dovevano essere
imbarcati a scanso di azione
armata, il Comandante
tedesco vista la ferma
decisione del Colonnello
Prodi, visto che i due
Battaglioni erano gli
unici soldati
italiani ancora
perfettamente inquadrati e
armati, ordinò l’imbarco ma
solo dei soldati e non degli
automezzi e armi pesanti in
dotazione ai due Battaglioni
che vennero abbandonati
nel porto.
Mentre ero al porto in attesa dell’arrivo del mio
Battaglione successe un
grave fatto, l’esplosione di
alcune bombe a mano
abbandonate sul piazzale del
porto da qualche incauto
soldato, la deflagrazione ,
ancora oggi inspiegabile,
causò la morte
del Capitano
paracadutista
Caforio, del Tenente
Bottini e di un
Sottufficiale, tra i feriti
oltre
diversi paracadutisti
anche il Comandante del
nostro 185° Reggimento.
Quando arrivai al porto di
Messina, visto i due
Battaglioni il 3° e
11° già sul posto
pensavo di trovare anche il
mio Battaglione, invece vana
fu la mia attesa tra quel
marasma, però io e l’autista
non ci allontanammo dal
nostro automezzo, dovevo
salvaguardare quanto esso
conteneva, aspettammo tutto
il giorno e la notte,
pensando che il Battaglione
avesse trovato delle
difficoltà per arrivare a
Messina, invece seppi dopo
che esso era arrivato al
porto prima degli altri due
Battaglioni e con barche di
pescatori aveva attraversato
la Stretto sbarcando in
Calabria, questo lo venni a
sapere da un pescatore con
il quale in quella attesa
avevamo fatto amicizia, egli
saputo che eravamo in
attesa del nostro
Battaglione ci disse
che il giorno prima
,con altre barche da pesca
avevano trasportato in
Calabria molti paracadutisti,
ecco spiegato del perché non
avevo trovato al porto il
mio Battaglione, sapendo che
in Sicilia non vi erano
altri Battaglioni di
paracadutisti ad eccezione
del 185° chiesi se il
pescatore poteva
trasportarci sulla costa
calabra nel punto ove
avevano sbarcato quei
paracadutisti, senza indugio
si offrì, naturalmente gli
spiegammo che per
compensarlo avevano in tasca
pochi denari ma da buon
patriota, accettò anche
senza compenso di
trasbordarci sulla costa
calabra, però sulla sua
barca non era in grado di
caricare il nostro automezzo,
per fortuna riuscii
a imbarcare gran
parte del
bagaglio Ufficiali e
l’incartamento della Compagnia,
tutto il resto con
armi e viveri lasciai che
fosse diviso tra il nostro
pescatore e suoi amici, io
mi caricai un
sacchetto di circa 20
kilogrammi di puro caffè, a
quei tempi il caffè era
prezioso e il possedere
anche pochi grammi era una
fortuna, quella fortuna la
misi nello zaino buttando,
per alleggerirlo,
tutti gli effetti
personali
non indispensabili.
Imbarcati dopo molte ore di navigazione
il pescatore ci
sbarcò sulla costa calabra a
Melito di Porto Salvo, nel
punto esatto ove erano
approdati quelli dell’8°
Battaglione, fu facile
rintracciarli in quanto si
erano attendati
a Bagaladi nello
entroterra di Melito di
Porto Salvo. così rientrai
nei ranghi della mia 23°
compagnia. Pensavo di essere
punito dal Comandante per
avere abbandonato l’auto con
viveri e munizioni, invece
ebbi gli elogi in quanto
avevo salvato tutto
l’incartamento della
Compagnia e parte bagaglio
personale degli Ufficiali.
Restammo alcuni giorno ancora a Bagaladi, e in quella
località dell’Aspromonte
compii i 20 anni.
La mattina del 2
Settembre, venne l’ordine di
abbandonare la località
e salire verso il
nord, ma non sapevamo dove,
innanzi ai nostri occhi ecco
apparire l’Aspromonte,
catena montuosa impervia e a
noi sconosciuta, dopo la
guerra seppi che il nostro
Battaglione doveva
congiungersi con gli altri
due a Gamberie, località tra
i fitti boschi
dell’Aspromonte, ma per
mancanza di collegamenti, di
carte topografiche delle
zone della Calabria, ma
soprattutto dell’Aspromonte,
questo collegamento non
avvenne, infatti
il 3° Battaglione al
Comando del Capitano Sala,
si unì ai tedeschi che si
ritiravano sulla costa verso
il Nord, mentre l’11° al
Comando del Capitano Della
Valle, non avendo contatti
con l’8° e
il 3°, si era
attestato nella zona di
Bagnara Calabra e
quando il 3 Settembre
gli Anglo-Americani
sbarcarono nella zona
, l’11° si distinse onde
impedire lo sbarco.
Noi dell’8°
ormai soli e isolati
continuammo la marcia
verso il Nord,
attraverso la fitta
boscaglia
di quei impraticabili
monti; marciammo per diversi
giorni, affamati , stanchi
ma ancora pronti al
combattimento.
Anche in
quelli impervi boschi gli
inglesi non ci mollarono,
sentivamo gli aerei nemici
che dall’alto ci cercavano
ma dato la fitta boscaglia
credo che non erano
nella possibilità di
individuarci,
purtroppo invece la
mattina dell’8 Settembre il
nemico ci attendeva in un
punto obbligato che
costretti dovevamo
attraversare , erano i Piani
dello Zillastro .
I Piani dello Zillastro non era che una grande pianura
spoglia di alberi
e quindi
completamente scoperta,
in essa affluivano
due grossi sentieri che in
quel punto si incrociavano,
uno
conduceva verso
la costa Adriatica,
l’altro su quella Ionica.
Il nostro Battaglione era giunto in quella zona nella
tarda serata
del giorno 7, il
Comandante aveva
deciso
di attraversare la
Piana con il buio della
notte e nel silenzio più
assoluto, così a notte
inoltrata benché stanchi e
affamati iniziammo
l’attraversamento della
pianura di corsa, non
ricordo per quanto tempo
corremmo
per raggiungere il
margine opposto della Piana,
certamente qualche ora,
quando
ci venne dato
l’ordine di
fermarci in quanto
avevamo oltrepassato la
piana scoperta
eravamo completamente
sfiniti , ci lasciammo
cadere a terra per un
meritato riposo,
era passato poco
tempo quando improvvisamente
ed era ancora buio si
rovesciò su di noi
un nutrito fuoco di
proiettili traccianti delle
mitragliatrici e moschetti
nemici, sparati ad altezza
uomo,
benché stanchi e
assonnati
ci disponemmo alla
difesa guidati dai nostri
esperti ufficiali, eravamo
400 giovani paracadutisti
tutti alla prima esperienza
di guerra, il nemico
certamente sapeva che
dovevamo passare per quel
nodo stradale e ci
aspettava, era il Reggimento
canadese Nuova Scozia, circa
1.500 uomini. La battaglia
durò dal sorgere del sole
sino a circa le nove del
mattino, fu una battaglia
cruenta prima a colpi di
mitra e quando le poche
munizioni in dotazione
finirono si lottò a corpo a
corpo e all’arma bianca,
numerosi furono gli episodi
di eroismo da parte nostra,
caddero il Capitano Piccolli
e diversi paracadutisti, lo
stesso mio Comandante di
Compagnia il Tenente Lino
Romanatto fu ferito, il
Comandante di Battaglione il
Capitano Gianfranco Conati
anche egli ferito venne
fatto prigioniero; vista
l’impossibilità di
continuare l’impari
combattimento fu dato
l’ordine di sganciamento per
non cadere prigionieri.
Ognuno di noi superstiti isolato o a piccoli gruppi ci
disperdemmo nel fitto bosco,
io
ormai allo estremo di
forze,
ebbi la fortuna di
trovare
una specie di grotta
che non era altro che un
rifugio di pecore e galline
certamente di proprietà di
qualche contadino della
zona, infatti
dopo alcune ore ecco
farsi vivo il proprietario
di quello ovile, frattanto a
me si erano uniti altri due
sbandati paracadutisti e
quando il Signor Pancaldo
Francesco, così si chiamava
quel proprietario, non ho
mai dimenticato quel nome
anche se sono passati
oltre 60 anni,
riconobbe che eravamo
soldati italianianche con le
divise a brandelli, ci
assicurò di aiutarci.
Conosciuta la nostra storia e
accertatosi
che eravamo
affamati, ci disse
che sarebbe tornato tra
qualche ora portandoci da
mangiare,
fu onesto
e puntuale, era
quasi l’imbrunire
eccolo arrivare
con una grossa
pentola e del pane, seguito
dalla moglie e dalla
figlioletta, corsero verso
di noi abbracciandoci
dicendo che la guerra era
finita, infatti la radio
nelle prime ore del
pomeriggio dell’8 Settembre
aveva annunciato al popolo
italiano
che era stato firmato
l’armistizio e che gli
Alleati non erano più nostri
nemici, logicamente quella
notizia non mi rallegrò,
avevamo perduta la guerra e
quelli che sino a poche ore
prima erano stati
nemici
con quello ignobile
armistizio eccoli diventati
amici, però in quel momento
la fame ci fece dimenticare
la guerra e affamati come
ravamo divorammo in breve
tempo il contenuto di quel
pentolone, che aveva
contenuto grossi fagioloni
lessati. A sera inoltrata
scendemmo nel paese di Platì
distante da noi pochi
chilometri, fummo ospitati
in casa del Signor Pancaldo.
La nostra battaglia si svolse la mattina dell’8
Settembre 1943, giorno del
dichiarato e vergognoso
armistizio, da parte del
Governo italiano presieduto
dal Generale Badoglio, è da
ricordare che l’armistizio
tra il Rappresentante del
Governo italiano il Generale
Castellano e gli Alleati era
stato firmato a Cassabile in
Sicilia la mattina del 3
Settembre e solo dopo 5
giorni esso venne
annunciato
agli italiani
attraverso la radio. Quella
battaglia dell’8°
battaglione paracadutisti
poteva essere evitata,
comunque è
da segnalare che quei
400 giovani paracadutisti
dell’Esercito italiano
furono i soli
soldati a
combattere
nell’Italia meridionale
ancora contro gli
Alleati.
Frattanto a Platì vi erano giunti quasi tutti gli
sbandati dell’8° Battaglione
e il Capitano Conati, dopo
averci riunito nella Piazza
del paese ci fece un
commovente discorso,
lasciandoci liberi di
decidere se riformare il
Battaglione e proseguire la
guerra a fianco degli
Alleati o prendere ognuno la
propria strada, io decisi
di non proseguire la
guerra e tornare a Napoli e
abbracciare i miei cari dai
quali non avevo notizie da
oltre tre mesi.
Rimasi ancora
qualche giorno in casa
Pancaldo , tanto per
rimettermi in forze , poi
abbandonata la divisa
ormai ridotta a brandelli
indossati abiti
civili donatomi dal Signor
Pancaldo , era un vestito di
suo figlio militare ma
prigioniero degli Alleati.,
una mattina alle prime luci
dell’alba, penso che doveva
essere il 10 -12
Settembre, salutati
con commozione il
Signor Pancaldo e la sua
famiglia
mi avviai a piedi
verso Napoli.
Molti erano i soldati sbandati che dal Sud cercavano di
salire verso il Nord e
ricongiungersi
con i loro familiari,
mi fu facile unirmi a un
gruppo di soldati napoletani
e con essi ci dirigemmo
subito verso la costa
tirrenica
che ci facilitava, ma
non potevamo seguire la
strada principale costiera
in quanto vi transitavano
mezzi e soldati alleati che
avanzavano verso Napoli e
non permettevamo a civili di
usarla, allora
decidemmo di
proseguire seguendo
la linea ferroviaria
che in molti tratti
era completamente devasta
dai bombardamenti americani.
Si marciava
faticosamente a
piedi, solo per un breve
tratto la fortuna ci permise
di trovare un carrello
ferroviario,
di quelli che gli
addetti alle ferrovie
usavano per spostarsi sui
binari
per le riparazioni,
detti carrelli per muoversi
funzionavano a mezzo di
una leva manubrio che
doveva essere azionata
a mano da almeno due
persone, ci organizzammo per
i turni e così riuscimmo a
marciare per diversi
chilometri, forse 20, ma
causa di un
ponte distrutto non
ci permise più di usare quel
mezzo e quindi proseguimmo a
piedi.
Purtroppo nelle zona di Battipaglia, appena usciti da
un tunnel ferroviario fummo
bloccati dalla Polizia
militare britannica che
senza tanti complimenti
ci rinchiusero in una
specie di campo di
concentramento, già pieno di
centinaia di soldati
italiani sbandati. Gli
inglesi ci utilizzavano per
lavori di carico e scarico
dai camion del loro
materiale militare, altri
sbandati
erano addetti alla
riparazione delle
strade rovinate dai
bombardamenti, io ancora una
volta fui fortunato mi
assegnarono ai lavori di
cucina, il mio compito era
quello di tenere acceso il
forno da campo, lavare le
pentole, tenere pulita la
cucina, in compenso dopo
tanta fame potevo saziarmi
mangiando quanto restava
della mensa dei soldati
britannici..
Il lavoro non era
faticoso, anzi mi
divertiva , avevo una certa
libertà ma soprattutto
potevo saziarmi e
dimenticare la fame sofferta
durante quei giorni
di estenuanti marce da
quando lasciai Platì. Il
caporale inglese che
comandava quella cucina,
vista la mia buona volontà
mi permise di dormire
sul posto ma in
compenso dovevo tenere,
durante la notte, acceso il
forno a legna.
Quella specie di dolce prigionia andò avanti per
diversi giorni, quando
avvenne un incontro con
altri sbandati, ero andato a
prendere dell’acqua
presso un ruscello nei
pressi dell’accampamento, il
caporale inglese che mi
aveva preso in simpatia, mi
permetteva di andare a
prendere l’acqua e lavarmi
presso quel ruscello, così
una mattina mi accorgo che
un gruppo di sbandati si
dissetavano e si lavavano,
fatta una sommaria
conoscenza venni a sapere
che erano un gruppo di
ufficiali napoletani che
intendevano raggiungere la
loro città, feci presente
che ero anche io uno
sbandato e
il mio desiderio era
lo stesso
e se potevo unirmi a
loro; saputo che lavoravo in
cucina, mi chiesero se
potevo procurare qualcosa da
mangiare, li rassicurai
spiegando che era facile
procurare del cibo ma solo
nella nottata, quando
restavo solo in cucina,
raccomandai loro di
stare ben nascosti e
aspettarmi nella tarda
serata.
A notte inoltrata lasciai la cucina
arraffando quanti
viveri potetti racimolare ,
riuscii a riempire un grosso
sacco e raggiunsi il gruppo
che mi aspettava con ansia,
diviso il cibo che in buona
parte venne subito divorato
dal gruppo affamato, ci
allontanammo velocemente dal
posto eravamo nella zona di
Battipaglia e volevamo
dirigerci su Salerno ma in
quella zona infuriavano
combattimenti tra
truppe americane e tedesche,
quindi decidemmo di puntare
su Montecorvino ma anche li
si combatteva, allora non ci
restava che stare dietro la
truppa americana e avanzare
con loro e finalmente la
mattina del 4 ottobre
arrivai a Napoli e così dopo
oltre 20 giorni di
estenuanti marce
riuscii ad
abbracciare i miei cari dai
quali non avevo notizie da
parecchio tempo.
Mamma Rosaria ( Sasà), mia sorella Ninì e mio fratello
Filippo
per fortuna non
avevano sofferto
alcun danno, sempre
per la
previdente intuizione
di papà Carmelo,
di avere inviato in
Italia allo scoppio della
guerra del denaro,
essi
non
ebbero
privazioni .
P.S.
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