UN SOGNO ITALIANO, LA LIBIA

Paolo Savasta

    

ORIGINI E VICISSITUDINI DEI SAVASTA

 

      Alla venerabile età di 87 anni ho deciso di dedicare le mie ultime forze  alla  ricerca delle origini del  nome di  Savasta e anche della sua storia , così i miei nipoti e in futuro i pronipoti  potranno avere una conoscenza più profonda del loro nome. 

La storia della famiglia Savasta ha origini antiche e  pare che il suo nome derivi dal greco  “Sebastos “ che significa “Ambasciatore “; ora è necessario dare un punto di partenza alle mie ricerche e penso iniziare prima con il conoscere  parte della  storia  della Sicilia  di cui traggono origine i Savasta .

La Mitologia  della  Sicilia  anticamente chiamata “ Trinacria “ o “Triquetra “, ci parla dei primi popoli conosciuti che la abitarono,  furono i  “Sicani” o “Siculi “ pare di razza ariana e forse di stirpe latina, in seguito vennero i  Fenici che vi costituirono colonie importanti, poi fu la volta dei Greci  che conquistarono tutta la parte meridionale di questa immensa isola  e le dettero il nome di  “ Magna Grecia “ e dallo 8°al 6° secolo  A.C. vi fondarono le città di  Taormina, Messina, Imera, Siracusa, Milazzo, Gela, Agrigento e Catania , città che ha dato origine alla  mia famiglia; in seguito la Sicilia subì altre dominazioni, dopo i Greci arrivarono i Cartaginesi che  governarono per qualche secolo ma nel 241 a.C. furono cacciati dai Romani che  ne fecero “la prima Provincia  di Roma”. Con la fine dell’impero romano subentrarono in Sicilia  gli Ostrogoti di  Teodorico (493 d.C.), poi fu la volta  dei Bizantini ( 535 d.C.), dei Saraceni ( 827 d.C.) che vi rimasero per oltre 200  anni. Dal 1064 fu un susseguirsi di altre dominazioni:  i  Normanni con Ruggero II°, poi  gli Svevi,  gli Angioini, gli Aragonesi , gli Spagnoli che con la pace di Utrecht del 1713, la quale segnava la fine della guerra tra Spagna, Inghilterra , Francia e Olanda,  dovettero abbandonare la Sicilia e questa  a seguito delle clausole di quel Trattato, venne a fare parte del  Regno di Vittorio Amedeo II° di Savoia, ma  nel 1720 i Savoia la passarono all’Austria  in cambio per ottenere la Sardegna.

Con il Trattato di Vienna del 1738 l’Austria cedette la Sicilia a l’Infante di Spagna  don Carlos della Dinastia dei Borboni e finalmente nel Maggio del 1860 Giuseppe Garibaldi, con la Spedizione dei Mille la conquistò e  la Sicilia  venne così nuovamente a fare parte del Regno d’Italia 

Certamente  arrivare alle origini dei Savasta, con tutti questi passaggi di dominazione è un impresa impossibile, unica mia convinzione è  che il nome di Savasta  possa derivare dal greco “ Sebastos  e supponendo che il primo Savasta , fosse stato un ambasciatore sotto il dominio greco, quindi chiamato  “ Sebastos “ così che i suoi discendenti  ne abbiano acquisito quel nome e in seguito attraverso  i mutamenti della Storia si sia man mano trasformato, prima in  “Sebasto”, poi  in  “Sevasto” e sotto la dominazione araba, non avendo l’alfabeto arabo la lettera “ o “,  il nome  sarebbe diventato  “Sevasta “ e infine per una più corretta fonetica  divenne “ Savasta “.

Ovviamente  questa metamorfosi del nome deve essere presa con una certa cautela  e direi  “allegramente “ pur avendo consultato illustri scrittori che hanno narrato tutte la dominazioni  subite dalla Sicilia  nei millenni, quali  l’illustre orientalista Michele Amari con  le opere “ Storia dei Musulmani di Sicilia” , “ Periodo delle Storie siciliane del XIII° secolo” e ancora  l’opera  “ Gli  arabismi delle lingue neo latine con speciale riguardo all’Italia “ di  Giovan Battista Pellegrini, i quali ci fanno sapere che molte parole, nomi e professioni sia greche, arabe, spagnole con l’andare dei  secoli si sono trasformate  per esigenze  direi di dominazione, così che oggi sia  nella lingua siciliana che nei suoi dialetti, troviamo molti nomi e  parole che hanno lontane origini a secondo di quelle  dominazioni; ragione per la quale trovando nel greco antico la parola “Sebastos “ é appurato che i greci dominarono la Sicilia , mi è  venuta spontanea   la trasformazione dalla parola “ Sebastos “ in "Savasta".                                                                           

Poiché non mi è possibile ricorrere alle fonti per avere notizie precise  sui  primi discendenti dei Savasta sarò allora costretto ad iniziare questa ricerca storica, cominciando da quello  capostipite dei Savasta , del quale  ho notizie sicure  e precise, tramandatemi da mio padre,  questo in effetti fu mio nonno.

Nonno Paolo nasce a Catania  nel 1859 trascorre la sua fanciullezza e prima gioventù in quella città, sin da giovanetto inizia a lavorare come piccolo artigiano carrozziere;  a 20 anni è chiamato a svolgere il servizio militare e viene inviato  a Massaua in Eritrea, a presidio di quella cittadina  che l’Italia aveva  ricevuto nel 1879 dalla Società di Navigazione Rubattino,  in origine proprietaria di tutta la Baia di Assab, acquistata  nel 1869 dal Sultano Ibrahim  Ben Ahmed,  capo indiscusso di tutto il territorio eritreo.  Terminato il servizio militate, nonno Paolo rientra a Catania  con una grande nostalgia,  non dell’Eritrea ma della città di Alessandria d’Egitto. Perché  questa nostalgia per una città che aveva appena intravisto e quindi non conosceva ?  Ecco la spiegazione che mi fu data da mio padre Carmelo: per andare in Eritrea le navi che trasportavano  soldati o merci, dovevano attraversare il Canale di Suez, aperto nel  1869;  ogni nave che transitava per il Canale era obbligata a fare sosta nel porto di Alessandria  e  pagare la cosiddetta  “tassa di attraversamento”. Quando la nave che trasportava  mio nonno soldato, dovette sostare ad Alessandria, sosta che durava allora qualche giorno, nonno Paolo riuscì a scendere a terra e conoscere appena la città,  la  visione di quella  città orientale  lo colpì ed ecco la decisione  di emigrare in Egitto e logicamente in Alessandria.

A Catania si sposa e con mia nonna  si trasferisce ad Alessandria, apre subito un piccolo laboratorio per la riparazione di carrozze e carri, nel 1885  nasce mio padre Carmelo, non nasce proprio in Alessandria ove venne concepito ma  a Catania, città natale di nonno Paolo, il quale volle che il suo primo figlio nascesse nella sua città, quindi mandò la moglie  a  partorire in Catania e lì dette alla luce mio papà . Ad appena un mese dalla nascita  mia nonna  rientrò in  Alessandria e in questa città papà Carmelo crebbe e vi rimase sino all’età di 20 anni.  Frattanto nonno Paolo mette al mondo altri  tre figli, tutte femmine.  Papà Carmelo purtroppo non ebbe una  buona cultura scolastica, sia perché in Alessandria, a quei tempi, non vi erano scuole italiane, sia perché sin da fanciullo iniziò a lavorare nel laboratorio paterno onde imparare un mestiere. Sapeva appena leggere e scrivere, grazie all’impegno di un parroco della vicina chiesa cristiana,  ma in compenso era di pronta  intelligenza tanto da imparare perfettamente la lingua egiziana, ma soprattutto fu sempre attratto da quello spirito di avventura, infatti nel 1906, aveva da poco compiuto i  20 anni , decise di emigrare in Libia allora ancora sotto il dominio della Turchia. Si stabilì nella città di  Tripoli e dopo poco tempo aprì un laboratorio artigiano per la riparazione di carrozze, mestiere che aveva imparato nel laboratorio di suo papà..

Quando il Governo italiano nel 1911 decise di occupare la Libia , dichiarando il 29 Settembre guerra alla Turchia, i pochi italiani che vi dimoravano subirono angherie da parte delle Autorità turche, molti trovarono rifugio presso le Ambasciate occidentali, vedi quella di Germania, Francia e Inghilterra, soprattutto della Germania in quanto il Console tedesco issò la propria bandiera sul Consolato Italiano, ponendolo sotto la sua protezione.   Infatti nel Consolato italiano si erano rifugiati molte famiglie italiane che vennero quasi subito rimpatriate  sempre sotto la protezione di Germania e Inghilterra, le quali  misero a disposizione le loro navi.  Purtroppo  alcuni vennero imprigionati.  Mio padre  che si trovava ormai da circa 5 anni  a Tripoli e con un piccolo laboratorio ben avviato, avvalendosi della sua ottima  conoscenza  della lingua araba e del turco che in quei 5 anni aveva  imparato, riuscì  ad evitare guai  anche perché gli piaceva  vestire all’araba e quindi facilmente scambiato per arabo, ma da foto in mio possesso di papà Carmelo giovane, ho notato che sapeva essere elegante anche in abiti europei.

I soldati italiani sbarcarono a Tripoli il 5 ottobre 1911 al comando del generale Caneva, dopo aspri combattimenti riuscirono a occupare la città attestandosi subito a difesa della stessa.                                                                                                                                

Purtroppo quella conquista fu lunga e cruenta, il territorio era vasto e poco conosciuto dai nostri Comandi militari e le truppe avevano difficoltà per intraprendere azioni di penetrazione  all’interno del paese.  Allora  il Generale Caneva si rivolse a quei pochi italiani che erano stati frattanto liberati dalle carceri turche, per cercare quanti di essi avessero vera e profonda conoscenza del territorio.

Da anziani italiani  ivi residenti da moltissimi anni venne fatto il nome di mio papà,  in quanto giovane, parlava perfettamente l’arabo e anche alcuni dialetti locali, quali il “ ghebali “ e il “zuarino” , in più aveva una buona conoscenza di gran parte del paese, poiché per  il suo spirito avventuroso,  la sua giovane età  e forse attratto dal fascino del deserto, spesso si addentrava ad esplorare il territorio poco abitato e poco conosciuto; forte di queste caratteristiche  le Autorità militari lo proposero come “guida“ alle truppe operanti.                                                                                                                                                                                                                                                            

Militarizzato, seguì tutte le più importanti battaglie per la conquista della Libia, si trovò in mezzo a situazioni militari alquanto pericolose, soprattutto durante la lunga guerriglia  che sostenevano quelle tribù arabe che non accettavano la sottomissione; guerriglia che andò avanti sino al 1932.

Un breve cenno storico su quella guerra  italo-turca: essa ebbe inizio nell’ottobre del 1911, ma dopo appena un anno la Turchia chiese la pace con l’Italia, pace che venne firmata  a  Losanna in Svizzera  nell’ottobre del 1912; l’esercito turco abbandonò la Libia ma non la sua sovranità, tanto che vi lasciò degli ufficiali che fomentarono e guidarono la rivolta araba, molto sanguinosa da ambo le parti.

Ricordo da fanciullo che mio padre mi raccontava alcuni episodi di quella guerriglia e uno di questi  è rimasto impresso nella mia mente, in quanto papà Carmelo ne fu uno dei protagonisti.: nel 1915 una colonna militare italiana al comando del Maggiore Costantino Brighenti doveva occupare una importante località a circa 180 Km. da Tripoli, la località era Ben Ulid in mano a guerriglieri arabi della tribù Orfella, capeggiati da un potente capo Abd el Nebi Belker. La colonna partì da Tripoli , come guida e interprete era  papà Carmelo che conosceva benissimo quei luoghi, la marcia di avvicinamento non fu tanto facile in quanto spesso attaccata da bande di guerriglieri, comunque il Maggiore Brighenti , dopo un feroce combattimento il 6 febbraio 1915 conquistò la località e predispose i suoi soldati a difesa , in quanto i guerriglieri ritornarono con più forze per riconquistare Ben Ulid.

La guarnigione italiana venne assediata. Da Tripoli il Comando italiano cercò di fare arrivare rinforzi ma questi venivano distrutti dagli arabi lungo il percorso. L’assedio durò molti mesi e solo l’8 luglio 1915  il Maggiore Brighenti dovette abbandonare la località in quanto incominciarono a scarseggiare i viveri e le munizioni. I feriti non potevano essere curati perché non vi erano più medicinali ed  i soldati erano costretti a bere  acqua  oltre che salmastra anche putrefatta , in quanto  nell’unico pozzo a disposizione degli assediati  i ribelli vi avevano gettato dei cadaveri.  L’acqua raccolta pur venendo bollita e filtrata aveva un sapore sgradevole ma doveva essere bevuta per sopravvivere. La guarnigione, ormai ridotta a pochi uomini ancora in armi ma con numerosi feriti e pochi viveri e munizioni, dopo eroica resistenza, dovette capitolare.  I pochi superstiti  vennero catturati  con il Maggiore Brighenti, che si suicidò, non sopportando la resa  e moralmente scosso  anche per avere appreso della tragica morte  della sua adorata consorte,  Maria Brighenti Boni , massacrata dai ribelli il 18 giugno 1915, durante il ripiegamento da Tahruna del presidio anch’esso assediato. Mio padre, sia per il suo parlare arabo, sia perché di carnagione bruna sia perchè vestiva all’araba,  venne scambiato per un abitante arabo del luogo e lasciato libero, così  riuscì a raggiungere Tripoli e comunicare al Comando la tragedia della guarnigione di Ben Ulid.

Dopo quella terribile avventura riprese il suo lavoro,  il Governo italiano e per esso il Ministero della Guerra in riconoscenza della sua opera gli concesse  l’attestato di benemerenza e medaglia, attestato che conservo gelosamente tra i ricordi di mio papà.  Nel 1921, sempre a Tripoli, papà Carmelo conosce mia madre, se ne innamora e l'anno dopo la sposa.

Anche qui devo fare una breve storia della famiglia di mamma Rosaria, i Zambuto.  Mia madre nasce in Sicilia a Realmente ( Provincia di Agrigento ) nel 1894. Ancora fanciulla  va a vivere  con parte della famiglia in Tunisia,  precisamente a Tunisi, dove mio nonno Filippo commerciava in vini e cavalli pregiati berberi che vendeva in Sicilia; nel 1920 nonno Filippo allarga il suo commercio e si trasferisce a Tripoli e raggiunge così zio Angelo, l’altro figlio maschio, che si era stabilito a Tripoli già da diversi anni e  aveva impiantato una piccola impresa edile, che in seguito diventerà una delle più rinomate  e grosse  imprese della Libia. Nonno Filippo, ormai attestatosi con il suo commercio, richiama dalla Tunisia in Libia tre delle sue figlie femmine, cioè mia madre ancora non sposata , zia Nina e zia Lorita già da qualche anno sposate, mentre il rimanente dei Zambuto, altre tre figlie anche loro sposate, non lo raggiungono in quanto una aveva deciso di restare in Tunisia, l'altra era in Sicilia e una emigrata in America: mio nonno aveva avuto sette figli, sei femmine e un maschio.

Anche per il nome Zambuto, che ha origini siciliane, ho cercato di  conoscerne le sua storia e  sempre consultando  eminenti storici orientalisti, quali il Michele Amari e Giovan Battista Pellegrini, sono venuto a sapere, tramite un carissimo amico arabo, Alì Husnein, storico  e Presidente del Centro Storico Italo-Libico, che nel 1° volume  del libro del Pellegrini a pag. 273,  in un documento arabo-siculo del 1153,  risulta il nome Zambuto  quale originario dall’arabo “ Sammut “  che infatti deriva dal verbo trilittico arabo “ Samut” , quindi è molto probabile che gli antenati di mio nonno materno fossero di origina araba.       

Dalla felice unione di papà Carmelo e mamma Rosaria, nascono tre figli: io nel 1923, mia sorella  Ninì nel 1925 e  mio fratello Fifò nel 1928.  Perché questi nomi così particolari? Era una antica tradizione sicula-francese, in uso nelle famiglie di una certa elevatura sociale ed economica dare un sopranome ai loro componenti, infatti mia madre di nome Rosaria, venne chiamata Sasà, mio nonno Filippo era Don Fifò, mia sorella Rosaria divenne Ninì , mio fratello Filippo ebbe il sopranome di Fifò.  Io da bambino  venivo vezzeggiato con l’appellativo di Popollo, ma  appena grandicelli io e mio fratello rifiutammo tali appellativi e venimmo sempre chiamati: Paolo e Filippo.     

Il lavoro di mio padre si era frattanto sviluppato, dal modesto laboratorio artigiano era passato ad una vera fabbrica, anche se piccola, sempre per la costruzione di  carrozze e carri agricoli; negli anni 20 , 25 e anche 30 gli unici mezzi di trasporto pubblico in  Tripoli, erano la carrozza e per  i signori benestanti il carrozzino.                                                                                                                                           

Il Governo italiano  frattanto concedeva  vaste zone  deserte agli agricoltori italiani affinché questi le coltivassero, così nacquero in Libia estese concessioni agricole, quindi  necessitavano carri agricoli ed ecco che si sviluppò ancor di più l’attività paterna. Quando i miei genitori si sposarono, papà comprò in un quartiere arabo una bella casa, generalmente le case arabe di allora erano a un solo piano ma la nostra  invece aveva un piano rialzato, inoltre dato che a quei tempi, i quartieri arabi non avevano, nè luce elettrica ,nè acqua, la nostra casa invece, pur non avendo la luce elettrica, aveva il suo pozzo interno ma di acqua salmastra, mia madre la usava per lavarci e per le pulizie di casa. Sul tetto vi era un ampio contenitore per la raccolta dell’acqua piovana,  ma dopo poco tempo  mio padre lo fece togliere perché nella consueta pulizia annuale dentro vi si trovavano, uccelli morti, scarafaggi e lucertole. Ricordo, da piccolo, che mia madre comprava l’acqua dolce da un arabo che tutti  i giorni passava per il quartiere con due enormi otri e al grido di  “moia “ (cioè acqua ) la vendeva. Ricordo ancora che tutte le mattine, altri venditori arabi, quelli del latte con il loro gregge di capre, delle uova “dahi“, dei dolci “halua“ del pane “khobsa”, passavano per il quartiere vendendo la loro merce.

Restammo in quella casa per oltre 10 anni, frattanto papà Carmelo aveva fatto  costruire un'altra casa in un nuovo quartiere europeo, chiamato dell’81 perché all' inizio della guerra Italo-Turca, in quella zona era acquartierato l’81° Reggimento di fanteria italiano; a costruzione finita vi andammo ad abitare e venni iscritto alla Scuola  privata dei Fratelli Cristiani assai vicina alla nostra casa.

Ero stato tolto dalla Scuola governativa  per un fatto increscioso tra mio padre e il mio maestro delle elementari , in quanto costui all’esame per il passaggio dalla classe terza alla quarta mi bocciò.  A quei tempi, anni 1931-32, l’ordinamento scolastico prevedeva  quella prassi di esame. Spiego le ragioni del contrasto tra mio padre e il mio maestro delle Elementari. Ogni anno alla data del 25 maggio in tutta Italia e quindi anche in Libia, come nelle altre colonie italiane, si svolgeva una grande manifestazione ginnico – sportiva.  Nell’anno 1932,  in ricorrenza di quella data, partecipai ad una gara ciclistica che si svolgeva nella nuova pista dello Stadio di Tripoli appena inaugurato. Io avevo una fiammante bicicletta con tutte le caratteristiche della bicicletta da corsa; era stata costruita, in occasione di quella importante Manifestazione nell'officina di papà., da un mio cugino corridore ciclista dilettante.                    

Alla partenza della  competizione, il giudice di gara che era il mio maestro,  aveva spiegato a noi concorrenti alcune regole della corsa, cioè non ostacolare l’avversario, non fare acrobazie sulla pista durante la corsa. Purtroppo mentre il giudice spiegava quelle regole, io ero intento a controllare se la mia bicicletta era a posto, quindi non prestai attenzione a quanto spiegava il giudice. Al comando di partenza scattai velocemente e merito della mia particolare bicicletta distaccai subito i miei avversari. Approfittando del vantaggio incominciai a fare quelle acrobazie proibite, incitato dagli applausi del pubblico, arrivai al traguardo primo con un notevole distacco al secondo. Convinto di essere premiato dal giudice,  mio maestro, questi invece mi  squalificò. Dopo quella, per me, ingiusta squalifica, incominciai a piangere. Mio padre che si trovava in tribuna, scese in pista e, rivolgendosi al giudice, disse che non era giusta quella squalifica in quanto io non avevo provocato nessun incidente. Purtroppo questi non volle sentire ragioni, anzi insultò mio padre, il quale a quegli insulti strattonò  forse con una certa pesantezza il mio maestro. La faccenda   stava  degenerando,  anche perché gran parte del pubblico dava ragione  a mio padre.  Per fortuna  l’incidente in quel momento non ebbe conseguenze. Queste arrivarono nel mese di giugno, a fine anno scolastico, quando dovetti sostenere gli esami di ammissione per il passaggio dalla terza alla quarta elementare. Era una prassi scolastica in uso a quei tempi; il mio maestro mi bocciò  asserendo che non ero abbastanza maturo scolasticamente, eppure detto maestro mi aveva scelto a rappresentare la mia classe in quella gara.

D’accordo che non sono mai stato uno sgobbone a scuola, ma essere qualificato come scolaro  poco intelligente fu allora per me molto mortificante, pur sapendo che il maestro si era legato al dito il diverbio con mio papà e logicamente volle vendicarsi. 

Non sentendomi nelle condizioni di ripetere la terza classe nella Scuola governativa che in effetti era l’unica a Tripoli,  venni iscritto alla Scuola privata dei Fratelli Cristiani ove frequentai con ottime votazione la terza, quarta e quinta elementare , passando poi allo Istituto Magistrale per la qualifica , a fine degli otto anni, di Maestro Elementare. 

Gli anni della fanciullezza  di noi figli furono meravigliosi. I nostri genitori non ci fecero mancare di nulla, mio padre ci costruì una piccola automobile, sulle caratteristiche della  famosa Isotta Fraschini che equivaleva allora alla nostra Ferrari di oggi. Fu una assoluta novità anche perché aveva un motorino che andava elettricamente; ricordo che quando uscivo e circolavo per le vie di Tripoli con a bordo mia sorella e mio fratello, ero seguito da un codazzo di ragazzini che mi pregavano di  farli salire a bordo  e gustare così anche loro l’emozione del passaggio. Spesso con l’autorizzazione di mio papà li facevo salire sulla mia Isotta Fraschini.

Nel 1934, papà Carmelo fa costruire altra nuova casa in un quartiere più centrale  e a lavori ultimati  vi andammo ad abitare, era una bella casa molto ampia  con annesso lo stabilimento di carrozzeria  paterno ancora più vasto.

In quella casa  la famiglia Savasta trascorse anni di serenità e anche di  benessere. Gli affari di mio papà andavano ottimamente, anche grazie all’arrivo in Libia nel 1938 dei "ventimila coloni",  chiamati dall’Italia dal Governatore Italo Balbo, onde valorizzare ancora di più vasti territori desertici. A costoro, oltre ad una  terra da coltivare,  una casa, sementi  e attrezzi agricoli, veniva dato in dotazione  il carro agricolo. Di conseguenza mio papà ebbe dalla Amministrazione governativa l’appalto per la costruzione di questi carri.  Nel 1937  mio padre presentò alla Fiera Internazionale di Tripoli una sua opera, cioè un carrozzino  sportivo di sua invenzione che suscitò molta attenzione  tanto è vero che fu premiato con il 2° Premio Internazionale  (certificato che conservo gelosamente). A quanto appreso da mio padre, egli meritava il 1° Premio per l’originalità della costruzione, ma non gli fu concesso perché egli non era ancora iscritto al Partito Fascista; cosa  che fece in seguito per ottenere altri appalti governativi.                                       

Nell’anno 1938 io e mia sorella frequentavamo già la prima magistrale superiore, mentre mio fratello Filippo si era iscritto alla prima Media. Io mi dedicavo allo  sport preferito l’atletica leggera, con ottimi risultati anche perché spronato dal mio insegnante di  Educazione Fisica, il Professore  Luigi Ferraro, che nel corso della 2° Guerra Mondiale  fu un Eroe decorato di Medaglia d’Oro al Valore Militare.                                                                                                                              

Negli anni seguenti la nostra vita proseguiva  felicemente, gli studi andavano bene, lo sport mi dava grandi soddisfazione nella mia specialità.  Partecipavo con successo ai Ludj Giovanili  dello Sport che si svolgevano annualmente. Purtroppo lo scoppio della 2^ Guerra Mondiale sconvolse la vita serena non solo della nostra famiglia ma di tutta la popolazione di Libia, era il 1940. Iniziate le operazioni militari vennero subito chiuse tutte le Scuole, in quanto divenute  depositi militari o ospedali, ma iniziarono anche i terribili bombardamenti aerei  prima dai francesi per fortuna per pochi giorni, in quanto la Francia ormai occupata dalle truppe tedesche chiese l’armistizio, ma proseguirono  quelli inglesi  che ogni notte la città di Tripoli subiva , quindi corse al rifugio che per il nostro quartiere non era altro che la cantina  del convento delle Suore cattoliche.

Vista la grave situazione e con il pericolo di restare sotto le macerie mio padre decise di allontanarci da Tripoli molto esposta e  ci rifugiammo nelle case coloniche di quei contadini chiamati in Libia dal Governatore Italo Balbo. Così mia madre  e noi figli andammo in casa di un colono del villaggio agricolo Oliveti a circa 42 Km. da Tripoli, mio padre invece rimase in città sia per ragioni di lavoro ma soprattutto per custodire la casa. 

I primi mesi di guerra furono pieni di disagi e paure, poi gli italiani di Libia ci fecero  l’abitudine e la vita in città  incominciò ad assumere  uno svolgimento regolare. Noi, della famiglia Savasta, che eravamo  lontani dalla città , ospiti in casa di quella brava famiglia colonica che ci rispettava,  passavamo le  giornate serene ma con l’unica preoccupazione di  papà. Noi ragazzi  oziavamo  in attesa di riprendere gli studi; erano i mesi  giugno e luglio, si aspettava che aprissero le scuole ma queste, come sopra detto,  erano state ormai trasformate in depositi militari, ospedali, caserme, dato l’enorme afflusso di militari che giungevano dall’Italia per essere destinati al fronte. Ovviamente con i militari arrivava  anche materiale da guerra, la città di Tripoli non era allora preparata alle grandi caserme e quindi quello enorme arrivo di soldati  causò un grave problema alle Autorità militari che non trovarono altra soluzione che requisire anche  le scuole, sia elementari che superiori.  Noi studenti considerammo quelle requisizioni un vero regalo, anche  perché il Governo italiano emanò una Legge che dava ad ogni studente la promozione all’anno successivo , sempre in attesa che la guerra finisse presto e  che riaprissero le scuole. Io che avevo frequentato il terzo  anno delle superiori  magistrali , venivo così promosso all’ultimo anno per il conseguimento del Diploma di Maestro elementare. Ma dove frequentare l’ultimo anno di studi  se in Libia tutte le scuole erano state requisite?  Restava il dilemma di partire per l’Italia ove  le scuole funzionavano regolarmente nonostante la guerra .

Nostra madre doveva prendere una decisione, quella di farci proseguire gli studi, così mia  sorella,  anche lei con la promozione al quarto anno delle Magistrali fu fatta partire  insieme a una mia zia alla volta di Napoli. Perché a Napoli  e non in Sicilia?  A Napoli perché una nostra prima cugina aveva a Tripoli sposato un militare italiano originario di Napoli, che rientrato in Italia venne destinato al Distretto Militare di questa città, quindi un appoggio sicuro. La Sicilia fu scartata in quanto di parenti  paterni o materni in quella regione non ne conoscevamo; solo una sorella di mia madre viveva  a  Realmonte, in  provincia di Agrigento,  ma anche con essa  mia madre non aveva più rapporti da moltissimi anni.  Zia Nina e mia sorella s’imbarcarono alle primi luci dell’alba su un aereo militare in una mattina  di Maggio 1941 alla volta dell’Italia. Perché venivano usati gli aerei militari ? Era una disposizione delle Autorità militari di rimpatriare quegli italiani, che causa  dei continui bombardamenti aerei nemici sulle città di Tripoli e Bengasi, decidevano di rientrare in Italia. Gli unici mezzi sicuri e veloci erano gli aerei, dato che   con le navi non vi era sicurezza in quanto gli inglesi ormai dominavano su tutto il Mare Mediterraneo. L’uso degli aerei per quelle evacuazioni erano salvaguardati  da precise  disposizioni della Convenzione dell’Aia sulle Leggi di guerra e da Accordi della Croce Rossa Internazionale; infatti tutti gli aerei che trasportavano feriti o profughi dovevano essere contrassegnati da una ben visibile Croce  Rossa e non dovevano essere attaccati da aerei nemici, così che  il viaggio per Napoli fu senza conseguenze. Zia Nina e mia sorella arrivarono sani e salvi.

Restavo io. I miei insistevano di mandarmi in Italia e completare gli studi, io invece  rifiutavo allontanarmi da loro,  in quanto ormai diciassettenne,  pensavo potessi essere di aiuto alla famiglia, ma il mio vero scopo era quello che intendevo partecipare alla guerra contro gli inglesi; infatti a pochi giorni dalle operazioni militari  sul confine egiziano, con due amici anche loro con la mia stessa idea, tentammo nottetempo di raggiungere il fronte. Purtroppo per ragioni di sonno tutto andò a monte. I miei due compagni di avventura erano Pippo Paratore e Filippo Marciante, incolpandoci a vicenda per il fallimento del nostro progetto alla fine ci facemmo delle grandi risate.

Ma  io non intendevo mollare in quanto mi ero prefisso. A Tripoli era stato formato un Battaglione di volontari tripolini,  tutti ragazzi della classe 1922,  il cui comandante  era  un  ufficiale della  Milizia fascista, Alberto Venturelli, che era  mio padrino di battesimo. Così mi presentai  nascondendo ai miei genitori quanto intendevo fare.  Purtroppo venni scartato perché considerato troppo giovane, questa era la motivazione ufficiale della mia non ammissione. In seguito seppi la vera ragione di quello allontanamento. Mio padre, che era  venuto, non so come, a conoscenza di quel mio progetto, si rivolse al Comandante del Battaglione e questi che era , come sopra detto, il mio padrino mi scartò poiché non volle espormi ai rischi della guerra. A titolo di cronaca quel Battaglione che fu dislocato a Tobruch di guarnigione, quando gli inglesi attaccarono la base di Tobruch per conquistarla, trovarono una eroica resistenza da parte di quei giovani tripolini, ma quasi tutti perirono.                                                        

Dopo tutti i tentativi di andare al fronte e partecipare alla guerra decisi di  completare gli studi  a Napoli. Così una mattina del giugno 1941 presi posto su un aereo militare, un trimotore da bombardamento sigla S.M.81  adibito a quel servizio;  partimmo dallo aeroporto  di Castel Benito  (Tripoli) diretti in Sicilia aeroporto di Castelvetrano.  L’aereo trasportava circa 40 italiani quasi tutti donne e bambini, io ero l’unico ragazzo grandicello; al comando di detto aereo era  il Capitano Leonardo Bonzi, che in seguito verrà decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare per atti eroici per quelle missioni. Partimmo quasi all’alba, seguendo per un  certo tratto la costa tunisina  poi  prendemmo il largo puntando prima su Pantelleria per poi effettuare la discesa a Castelvetrano. Il nostro era un convoglio aereo composto da altri tre aerei; eravamo al largo della costa tunisina, quando venimmo attaccati da una formazione aerea inglese, nonostante che gli aerei portavano ben visibile i segni della Croce Rossa. Due  dei nostri apparecchi furono abbattuti , anch’essi carichi di donne e bambini; il nostro ebbe un motore colpito gravemente mentre un secondo motore sprigionava fiamme, allora il comandante Bonzi decise di  ritornare indietro e possibilmente atterrare in un aeroporto della Tunisia ormai occupata dalle truppe italiane. Purtroppo la gravità dei danni ai motori  non dava possibilità di arrivare in Tunisia e quando si profilò l’isola di Gerba essa fu la nostra salvezza.  Il comandante iniziò un atterraggio di fortuna lungo la costa dell’isola, manovra riuscita grazie alla sua abilità e quella del suo secondo pilota, di cui  ricordo ancora il nome,  Rossi. Certo ci si domanderà perché i nostri aerei non reagirono a quello attacco.  Non potevano in quanto per quegli accordi, tutti gli aerei  contrassegnati  con una

Croce Rossa  dovevano navigare senza armamento e quindi ogni aereo aveva a bordo solo il primo pilota, un secondo pilota e un marconista e nessun altro componente l’equipaggio.

Restammo in quella isola per nove giorni  quando giunsero, non saprei  se  dalla Tunisia o  dalla Sicilia , degli avieri con pezzi di ricambio del motore  e iniziarono i lavori di riparazione.

Quell'arrivo provvidenziale fu merito del nostro marconista che era riuscito a comunicare via radio, al Comando dell’aeroporto di Castelvetrano (Sicilia), quanto era successo e segnalando la nostra posizione, infatti  dopo pochi giorni con un battello ecco l’arrivo dei  soccorsi.

Ricordo  che ricevemmo assistenza dalle autorità militari francesi, che per fortuna non erano più in guerra contro di noi, ci portarono viveri e acqua e ci salvaguardarono dagli arabi che si erano avvicinati allo aereo con intenzioni certo non pacifiche.   

Dopo le riparazioni il nostro aereo prese quota e nel giro di qualche ora atterrammo a Castelvetrano,

ad attenderci erano personalità militari, infermieri, fanciulle in divisa fascista della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio ) che ci rifornirono abbondantemente di viveri ma soprattutto dolci; dopo i controlli medici venimmo condotti alla Stazione e  imbarcati su un apposito treno diretto a Roma  ove i profughi italiani dei territori d’oltre mare, venivano accolti nei campi profughi di Cinecittà (Roma) poi smistati in campi di altre zone.

Nel campo di Cinecittà vi restai appena due giorni e dietro mia richiesta venni trasferito al campo profughi di Aversa (Napoli) ove mi venne a prelevare, avvisato dai dirigenti del campo, quel mio cugino acquisito che era maresciallo dell’Esercito .        

A Napoli inizia per me una nuova vita, non avevo mai vista una grande città, un movimento di uomini e mezzi così convulso, nei primi giorni di permanenza ero frastornato, non uscivo mai da solo, avevo fatto subito amicizia con un vicino di casa che aveva la mia stessa età, si chiamava Vittorio Marra, così incominciai a girare per Napoli e conoscere anche le sue meraviglie come Musei , antichi palazzi, il suo mare , il suo Golfo e il Vesuvio.

Prima di iniziare a parlare di questa mia seconda vita , vorrei che i miei figli , i miei nipoti e pronipoti venissero a conoscere  chi era mio padre , diciamo il secondo capostipite dopo nonno Paolo. Allo inizio di questa ricerca, ho descritto papà Carmelo nella sua vita avventurosa, nel suo lavoro ma non ho dato risalto al suo carattere, al suo comportamento in famiglia  cioè alla sua vita privata.

Mio papà era di una generosità infinita, aiutava tutti nelle sue possibilità, un grande lavoratore, un onesto cittadino ma soprattutto un padre esemplare, non ci fece mai mancare nulla, non avendo potuto studiare, volle che noi figli abbracciassimo gli studi con entusiasmo,  serietà  e volontà.

Papà Carmelo aveva modi giusti e sobri, non alzava mai la voce ne durante il lavoro ne a casa, bastava una sua occhiata per ristabilire l’ordine tra noi figli quando esageravamo nei nostri comportamenti, io non ho mai avuto da mio padre uno schiaffo anche se leggero, mi bastava il suo sguardo per rendermi calmo e ubbidiente, da piccolo avevo un carattere alquanto discolo e vivace.

A tavola papà Carmelo aveva gusti semplici e non eccedeva, non era un bevitore, appena un piccolo bicchiere di vino a pasto, ma prima di mangiare era sua consuetudine gustare un aperitivo locale                                                                                                                                                    

 era una bevanda liquorosa, estratta da una pianta di finocchio selvatico che cresceva in Libia, gli arabi  la chiamavano “ Buhua “, egli ne era goloso. Quando i miei furono costretti dagli eventi a lasciare la Libia per rientrare in Italia  stabilendosi nella cittadina di Pomigliano d’Arco in Provincia di Napoli, mio padre soffrì molto per la mancanza della “buhua”, in Italia questa bevanda era sconosciuta.

Papà Carmelo nel lasciare la Libia fu previdente, si era portato appresso alcune bottiglie di quello aperitivo, ma queste finirono presto e allora ricorse a una bevanda quasi vicina al gusto delle “buhua”, era questa  chiamata “anisetta” ma fortemente alcolica , veniva bevuta in piccoli bicchierini.,   così dovette abituarsi a questo nuovo aperitivo.                          

Papà Carmelo come detto era un uomo previdente, allo scoppio della guerra , egli iniziò a mandare in Italia denaro e attraverso quella cugina di Napoli questo veniva depositato su un conto corrente bancario intestato a questa mia cugina, fu quello di mio padre un assennato e intuitivo progetto, che permise a mia sorella e me di affrontare gli studi senza alcuna preoccupazione economica e quando agli inizi del 1942 anche mia madre e mio fratello Filippo lasciarono Tripoli, ormai impossibile viverci per i danni che provocava la guerra, giunti a Napoli ebbero la fortuna di non entrare nei campi profughi ed essere assistiti dallo Stato, in quanto il provvidenziale invio di quel denaro , permise a mia madre di farci completare gli studi, vivere decorosamente per ben 5 anni.

Un cenno anche a mamma Rosaria (Sasà), era una donna semplice, laboriosa attaccata alla famiglia,

anche lei con una cultura modesta, infatti in Sicilia aveva frequentato sino alla classe quinta elementare, poi essendo emigrata in Tunisia al seguito della famiglia, non ebbe la possibilità di  continuare gli studi in quanto anche in Tunisia a quei tempi non vi erano scuole italiane ma francesi e arabe e se anche mia madre avesse voluto frequentare le scuole francesi, nonno Filippo (Fifò) non lo permise, non per ragioni di razzismo ma perché vivendo in terra straniera egli da buon siciliano non voleva che la figlia più piccola vivesse la sua vita scolastica al di fuori del proprio ambiente familiare. 

Ricordo che mamma Rosaria (Sasà), ne risentì molto per la poca istruzione che gli era stata imposta, se ne lamentava con noi figli, infatti ci spronava nello studio ed era molto severa, controllava se avevamo fatto i compiti, io ero quello  che  per primo ero sottoposto al suo severo controllo, perché allo studio preferivo lo sport e spesso fingevo di non avere compiti  ma lei non ci cascava e allora erano punizioni, non corporali ma nel togliermi qualche golosità o proibirmi l’acquisto e la lettura dei giornaletti dell’epoca che per me i preferiti erano: il Vittorioso, L’Intrepido e Topolino. Questo ultimo giornaletto in seguito avrà una importante svolta nella mia vita, nel corso di questo memoriale il lettore verrà a conoscerne il perché. 

Ed ora inizio a descrivere la vita del terzo capostipite dei Savasta che in effetti sarebbe la mia vita, in quanto essendo il primogenito maschio di papà Carmelo e mamma Rosaria ( Sasà ) per diritto di casta  mi spetta  questo titolo, che alla mia morte passerà a mio figlio Stefano e sua volta a Francesco suo figlio e mio nipote.

Giunto a Napoli mi iscrivo al quarto anno presso l’Istituto Magistrale Margherita di Savoia  per l’anno scolastico 1941-1942; a giugno del 1942 sostengo gli esami di maturità, purtroppo vengo rimandato in  matematica e filosofia,  ma felicemente li supero agli esami di riparazione a settembre dello stesso anno. In possesso del titolo mi iscrivo allo Istituto Universitario Orientale di Napoli, alla Facoltà di Scienze Coloniali.

Nonostante gli studi  e la bella vita goliardica di Napoli, il mio pensiero di servire la Patria non si esaurisce  e ormai in possesso del titolo di studio  avendo fatto anche felice mia madre per quel  titolo conquistato, mamma  era  a Napoli già da giugno del 1942 con mio fratello Filippo in quanto rimpatriata da Tripoli per gli eventi bellici, prendo la decisione di arruolarmi volontario nell’esercito.

Convinco di questa mia decisione l’amico Vittorio Marra  e Augusto Ricevuto altro tripolino,   insieme  nascondendo il nostro progetto ai genitori, una mattina dei primi di novembre 1942 ci presentiamo al Distretto Militare di Napoli decisi di arruolarci nel corpo dei bersaglieri  (da sapere che tutti e tre eravamo a classe 1923 non ancora chiamata alle armi ),  ma  alla entrata del Distretto notiamo schierati in bella mostra alcuni paracadutisti con le loro fiammanti e bellissime divise, in un attimo tutti e tre cambiamo la decisione di arruolarci nei bersaglieri  e ci presentiamo  all’ufficiale responsabile per l’arruolamento nei paracadutisti, il quale ci sottopone subito ad una visita  psico-fisica e all’esito favorevole ci dichiara arruolati, con l’obbligo di presentarci alla Scuola

paracadutisti di Tarquinia  il giorno dopo, veniamo forniti di biglietti del treno  e documenti di arruolamento.

Rientrati nelle nostre case ecco nascere l’angoscioso problema di come affrontare la notizia della nostra decisione .                                                                                                                          

Mia madre  scoppiò in lacrime supplicandomi di non partire, in quel momento in me si scontravano due  angosciose  e drammatiche decisioni, restare con la famiglia, io ero in quel momento un sostegno per mia madre in quanto il figlio più grande e con il mio titolo di studio potevo trovarmi un buon lavoro e aiutare economicamente la famiglia,  mio fratello Filippo aveva appena 14 anni e studiava, mia sorella Ninì diplomata era iscritta al Conservatorio  Musicale di Napoli., papà era rimasto a Tripoli, quindi la mia presenza era necessaria in famiglia, dall’altra parte c’era il giuramento che mi ero fatto di servire la mia Patria e difenderla in quel momento dallo odiato nemico inglese; scelsi la seconda decisione e lasciai mia madre in lacrime. 

Sono certo che lo stesso dramma si svolse in casa Marra e Ricevuto,  la mattina seguente alle luci dell’alba prendemmo il treno e nel tardo pomeriggio eccoci alla Scuola Paracadutisti di Tarquinia., l’accoglienza  ci amareggiò un bel po’, infatti senza tanti complimenti ci venne consegnata della paglia come giaciglio e condotti in una camerata semivuota per trascorrevi la nottata, alle nostre rimostranze ci fu detto che quella era una situazione provvisoria in quanto non ancora presi in forza.  Stanchi del viaggio ci addormentammo profondamente pensando di farci una buona dormita ma alle cinque del mattino , era ancora buio ecco la sveglia,  non abituati a quelle sveglie così mattiniere facemmo fatica ad alzarci, brutalmente il sottufficiale di servizio ci dette appena il tempo di lavarci e poi inquadrati con altri volontari fummo condotti nel piazzale della caserma per l’alza bandiera, quella breve cerimonia certamente ci commosse.

Subito nella mattinata iniziarono le  prove attitudinali, come controllo della vista, se esenti da malattie, una prova di intelligenza,  altra prova di resistenza fisica, comportamento in volo, la prova più emozionante in quanto fatti salire su un aereo adattato ai lanci, l’istruttore durante il volo prendeva uno di noi  portandolo sulla porta di lancio e tenendolo ben saldo a mezzo una apposita cintura  che ovviamente  era assicurata saldamente all’aereo,  quasi lo spingeva fuori, questo era il momento più terribile di quel comportamento in volo, se uno mostrava paura o si ritraeva indietro veniva scartato, io con Vittorio Marra e Augusto Ricevuto superammo quella prova, sbarcati fummo condotti in Caserma ove ci dettero una scalcinata divisa da fante e un vero letto in una pulita camerata

Ormai sicuri di iniziare il corso da paracadutisti ecco la sorpresa, Augusto venne scartato in quanto trovato, durante la visita medica, non saprei di quale malattia e rimandato al Distretto di Napoli, seppi dopo la guerra che era stato arruolato in fanteria e inviato in Iugoslavia,  mentre Vittorio che aveva superato tutte le prove, ebbe la sfortuna di avere un padre Commissario di Pubblica Sicurezza il quale con le sue amicizie fece sì di fare trasferire il figlio in un Battaglione di Fanteria nei pressi di Napoli, questo trasferimento fu facilmente  effettuato in quanto non avevamo ancora prestato giuramento; strano destino quel Battaglione dopo qualche mese venne trasferito in Albania, Vittorio all’atto dello Armistizio dell’8 settembre 1943 venne catturato in Albania dai tedeschi , portato in Germania morì in un Campo di concentramento.

Rimasto solo frequentati il durissimo corso e dopo tre mesi  e i sei lanci di brevetto, era il mese di Maggio 1943, mi fu appuntato sul petto il distintivo di paracadutista e finalmente indossare la  agognata , bellissima e invidiata divisa da paracadutista. Nota  emozionante: in quella occasione avevo agganciata alla cintura, una bamboletta  bionda che aveva fatto con me tutti e sei i lanci, mi aveva portato una grande fortuna, infatti nei lanci tutto era andato bene, non una distorsione o rottura di qualche osso,  incidenti che purtroppo in ogni lancio succedevano, questa mascotte mi era stata regalata da Dorina, allora mia madrina di guerra il giorno che gli annunciai il mio arruolamento,  quindi a ragione la consideravo paracadutista, tanto è vero che gli avevo fatto fare una piccola divisa da paracadutista e anche il piccolo paracadute dorato che il mio comandante di Compagnia volle appuntarglielo sul petto.

Veniamo a conoscere questa madrina di guerra: nella pagina precedente ho accennato a un giornaletto, dicendo che questo ha cambiato il corso della mia vita in senso felice. Da ragazzo leggevo alcuni giornaletti allora molto apprezzati da noi ragazzi, per me erano l’Intrepido, il Vittorioso e Topolino .

 Era il mese di Aprile del 1940, quando comprai dallo edicolante i tre giornaletti preferiti, nel leggere Topolino notai un annuncio di una ragazza di Torino che intendeva corrispondere con amiche o amici di Torino, non so da cosa fui preso, pur sapendo di non essere di Torino anzi distante diverse migliaia di chilometri, decisi di scrivergli, sicuramente certo di non avere risposta, ma quale fu la mia sorpresa quando dopo pochi giorni ricevetti la lettera  di Dorina nella quale mi comunicava che accettava di corrispondere con me, di essere cittadina Svizzera di avere tredici anni , padre svizzero-tedesco e madre mezza tedesca e mezza italiana. Felice di quella inaspettata conoscenza, iniziammo una  lunga corrispondenza durata fin al 1955 quando decisi di lasciare la Libia e venire in Italia per sposarla. Naturalmente i 15 anni che ci separarono furono alquanto travagliati , causa la guerra , poi  il mio rientro in Libia, ma nel 1942 prima di arruolarmi, decisi di conoscerla  di persona  e andai a Milano, ove la sua famiglia si era  frattanto stabilita , fu un incontro commovente,  Dorina era già una bellissima fanciulla  con i suoi 15 anni, passammo alcuni giorni felici e spensierati e quando ci lasciammo alla Stazione di Milano, i nostri occhi lacrimavano, io partivo per la guerra  e non si sapeva  se ci saremmo ancora rivisti, in quella occasione mi regalò la famosa “bamboletta” e un disco con una canzone di guerra  che si addiceva molto a noi due, il titolo era  “Ciao biondina è giunta l’ora  vado in guerra” , Dorina era bionda !

Ed ora la mia vita militare: completato il corso con relativo brevetto nel mese di Maggio 1943, a tutti i neo paracadutisti venne concessa una licenza premio di 5 giorni, io fui fortunato in quanto avevo chiesto una licenza per esami universitari così ne ebbi 10 invece di 5.

Arrivato a Napoli con addosso la fiammante divisa da paracadutista, dopo avere abbracciato mamma, Ninì e Filippo,  subito in giro per il quartiere ad incontrare gli amici e le amiche  e ricevere congratulazioni e ammirazione, ricordo che andai a trovare un mio insegnante, il Professore Alfonso Cucuccio, allo Istituto Magistrale Margherita di Savoia ove mi ero diplomato, il professore fervente patriota, il quale già da quando ero suo allievo sapeva del mio desiderio di arruolarmi, appena mi vide si commosse e mi abbracciò, poi mi condusse in giro per le classi  additandomi agli allievi  quasi come un eroe. Quei 10 giorni volarono, non feci nessun esame e rientrai a Viterbo ma il mio battaglione frattanto si era trasferito a Rovezzano (Firenze) che raggiunsi il giorno dopo.

In questa nuova Sede, iniziammo a conoscere ogni tipo di arma, lezioni di difesa personale, come confezionare ordigni esplosivi, conoscenza delle carte topografiche, tattica militare, a queste lezioni  noi ci applicammo con volontà ed entusiasmo, in meno di un mese eravamo pronti al combattimento.

 Era quasi la fine di giugno quando venne l’ordine di trasferimento del nostro Battaglione che era  composto da giovanissimi, quasi tutti della classe del 1923 che frattanto era stata chiamata alle armi, nessuno di noi soldati sapeva quale era la nostra destinazione, ne erano solo a conoscenza il comandate del Battaglione un  valente Ufficiale , era il Capitano Gianfranco Conati  e il nostro Comandante di Compagnia, il Tenente Lino Romanatto che nella guerra di Spagna si era guadagnata la Medaglia d’Argento spagnola.

Tutto il nostro Battaglione fu ammassato su un treno merci, io fui anche in quella occasione  abbastanza fortunato in quanto, essendo il responsabile del magazzino di Compagnia, fui caricato con tutto il materiale su un carro merci e quindi ero solo e con dello spazio abbastanza comodo per sistemare il mio giaciglio che non era altro della paglia, tutti gli altri  miei commilitoni erano stati stipati in circa venti per ogni carro.

Fu un viaggio pieno di emozioni e paure, spesso eravamo mitragliati da aerei nemici che ormai dominavano su tutta l’Italia, molte le soste sotto le gallerie per evitare quei quotidiani mitragliamenti.

Solo dopo la guerra si venne a conoscenza che i Servizi Segreti Alleati sapevano della nostra destinazione e sino dalla partenza da Firenze ci tenevano sotto tiro, sperando di impedirci di raggiungere la Sicilia , ove il nostro 185° Reggimento  era destinato a compiti di anti sbarco.

Dopo oltre una settimana dalla partenza da Firenze giungemmo a Reggio Calabria ove il Reggimento, abbandonato il treno, piazzò le sue tende nelle campagne circostanti la città, noi dell’8° Battaglione  ci accampammo  in un profumato campo coltivato a piante di bergamotto, una tipica pianta molto coltivata in Calabria che produce un frutto gustosissimo, ricordo che prendemmo d’assalto quelle piante facendo una scorpacciata del suo delizioso frutto.

Sicuri  di esserci mimetizzati sotto quelle piante, quando subimmo un bombardamento aereo, i Servizi Segreti nemici  non ci avevano mollato, così nelle nottata abbandonato l’accampamento  attraversammo Reggio Calabria  raggiungendo il porto e sempre in nottata, ci imbarcammo su due traghetti i famosi “Ferry Boats” sbarcando a Punta Faro a Messina.

Da Punta Faro con marce forzate raggiungemmo i Monti Peloritani a Nord di Messina  mentre il nostro 8° Battaglione si attestava a difesa  della zona di Castroreale, gli altri due Battaglioni il 3° e l’11° che completavano  il 185° Reggimento, presero posizione nella zona di  Barcellona di Sicilia.

Il compito del 185° inizialmente era quello di  difendere la zona di Messina da un eventuale sbarco nemico che da Messina avrebbe poi messo piede sulle coste della Calabria; secondo i piani dello  Stato Maggiore dello Esercito Italiano prevedevano una sbarco nella zona di Messina, invece  le truppe Anglo-Americane il 9 Luglio sbarcarono in  diversi punti della Sicilia da Gela  a Trapani,  avanzando sia da Sud che dal Nord verso Messina, la resistenza delle truppe italiane di guarnigione in quelle zone fu scarsa in quanto presi di sorpresa e sottoposti a violenti bombardamenti furono facilmente sopraffatti, solo la Divisione Livorno del Generale Rossi e la Divisione Tedesca Herman Goering presero la decisione di resistere, il nostro Reggimento  venne posto agli ordini del Generale Rossi, ricordo ancora il discorso che il Generale fece, elogiando il nostro patriottismo ma soprattutto ammirato del nostro perfetto inquadramento.

Frattanto paracadutisti americani erano stati lanciati nella Piana di Catania attestandosi saldamente, il Colonnello Parodi, Comandante del 185° Reggimento, decise allora di inviare sul posto il nostro 8° Battaglione, ma sopravvenuti ordini dallo Stato Maggiore cambiarono la decisione del Colonnello Parodi, il nuovo ordine era quello che tutto il 185° Reggimento restasse sui Monti Peloritani e si preparasse ad azioni di sabotaggio qualora il nemico avesse occupato Messina, il nostro compito era dunque quello di restare dietro le linee nemiche e attuare il sabotaggio.

L’organizzazione e l’addestramento agli atti di sabotaggio  venne affidata al Capitano Edoardo Sala,  Comandante del  3° Battaglione, era uno esperto nell’arte della guerriglia. Iniziammo subito l’addestramento per quel compito, come distruggere ponti, campi di aviazione, depositi militari e quanto potesse danneggiare l’organizzazione nemica, l’entusiasmo  di noi giovani era al massimo non vedevamo l’ora di entrare in azione.

Purtroppo altro ordine superiore , il nostro Reggimento doveva lasciare  subito la Sicilia, scendere su Messina e imbarcarsi per la Calabria , quale amara disillusione  eravamo ormai convinti di dare del filo da torcere al nemico.

Vorrei raccontare un episodio riguardante la mia “biondina bamboletta “porta fortuna,  quella che Dorina, divenuta poi la mia  madrina di guerra, mi regalò quando partii volontario, essa aveva fatto tutti i lanci di brevetto, mi aveva portato sempre fortuna e quando ci accampammo nelle campagne di Castroreale, io come protezione l’avevo appesa alla entrata della mia tenda  e anche per averla sempre a portata di mano, una mattina svegliandomi mi accorgo che essa era sparita, amareggiato pensai al furtarello di qualcuno di quei ragazzini siciliani che venivano spesso nel nostro accampamento per racimolare qualcosa da mangiare, noi militari aiutavamo per quanto ci era  possibile la popolazione locale, regalando qualche pagnotta e agli uomini tutti anziani delle sigarette

Indagando capii che non erano stati quei ragazzini e quale fu la mia sorpresa quando venni a sapere che l’autore di quel furto era un sergente del mio Battaglione. Individuatolo lo raggiunsi  chiedendogli di restituirmi la mia mascotte, ma costui forte del suo grado mi risposte con arroganza, dicendomi che la “bamboletta”  l’aveva regalata a una ragazza del paese e quindi potevo mettermi il cuore in pace  e  rinunciare alla  mia mascotte.

Quella affermazione mi mandò su tutte le furie e senza pensarci su  rientrai nella mia tenda e afferrato il mio mitra gli andai incontro, con l’intenzione di intimorirlo e forse se ancora  sbeffeggiato gli avrei sparato, purtroppo anche volendo quel gesto non avrei potuto farlo in quanto per disposizioni superiori  ogni soldato, doveva tenere scarica l’arma se non era in servizio di guardia ed io nella fretta non avevo pensato di caricare il mio mitra.

Il furbo Sergente sapeva che i mitra dovevano essere tenuti scarichi  e quindi sghignazzando mi si avvicino e strappandomi il mitra mi mollò con esso anche una potente  colpo sul capo, la fortuna volle che avevo in testa l’elmetto, era obbligatorio tenerlo  come difesa da eventuali bombardamenti o mitragliamenti, questo accorgimento mi salvò da  gravi conseguenze del colpo.

Naturalmente quel farabutto di Sergente fece rapporto al Comando di Battaglione, dicendo che l’avevo minacciato con l’arma, da tenere presente che una tale denuncia, in zona di guerra, di minaccia armata e insubordinazione a un superiore si viene deferiti al Tribunale Militare di Guerra che secondo le gravità prevede anche la fucilazione.

La mia fortuna fu quella che sia il Comandante di Battaglione che il mio di Compagnia  conoscevano la storia della mia mascotte, come tutti i miei  commilitoni  e quindi  convinsero il “malavitoso” Sergente a ritirare la denuncia  ma la mia “bamboletta” non la rividi  più. 

L’ordine di lasciare la Sicilia venne subito eseguito e il 22 Agosto del 1943, tutto il 185° Reggimento  lascia  i Monti Peloritani  e scende verso Messina, con marce forzate, ancora una volta la fortuna volle premiarmi in quanto il mio Comandante di Compagnia  che mi teneva in considerazione come Volontario Universitario mi dette l’incarico di  trasportare a Messina oltre al bagaglio degli Ufficiali anche gli incartamenti di Compagnia e quanto più munizioni e viveri potevo caricare su l’unico automezzo a disposizione della Compagnia; oltre alla responsabilità del trasporto, questo faceva sì  che io potevo viaggiare su un automezzo mentre tutti i miei commilitoni,

Ufficiali compresi, scendevano su Messina a piedi con armi in spalla.

Certo anche il mio comodo viaggio  non fu tanto piacevole, subimmo diversi mitragliamenti  aerei, ormai la caccia nemica dominava i cieli di tutta la Sicilia, poi vi erano problemi con la popolazione civile ormai allo sbando e affamata e quando attraversavamo i piccoli paesi  si correva il rischio di essere assaliti sia da donne e bambini che chiedevano cibo o dagli anziani che volevano armi per difendersi dal nemico. D’accordo con l’autista del nostro mezzo  riuscimmo a dare scatolette e gallette e anche qualche arma  ma non  a soddisfare la fame di quei civili, dovevo rispondere ai miei superiori di quello che trasportavo.

Dopo diverse ore arrivai a Messina già in preda al caos, centinaia di macchine militari abbandonate lungo le vie di accesso al porto, soldati sbandati e senza controllo, la popolazione civile che saccheggiava quanto trovava sulle macchine abbandonate, dentro il porto migliaia di soldati che cercavano mezzi per attraversare lo Stretto e sbarcare in Calabria, gli unici due “ ferry boats” erano stati requisiti dai tedeschi e imbarcavano solo i loro soldati, ci fu  una sola eccezione l’imbarco del 3° e 11° Battaglione del nostro 185°, ma fu un imbarco dovuto alla decisa presa di posizione del Colonnello Parodi , comandante del 185° il quale fece presente con risolutezza al Comandante tedesco che dovevano essere imbarcati a scanso di azione armata, il Comandante tedesco vista la ferma decisione del Colonnello Prodi, visto che i due Battaglioni erano gli  unici soldati italiani ancora perfettamente inquadrati e armati, ordinò l’imbarco ma solo dei soldati e non degli automezzi e armi pesanti in dotazione ai due Battaglioni che vennero abbandonati  nel porto.

Mentre ero al porto in attesa dell’arrivo del mio Battaglione successe un grave fatto, l’esplosione di alcune bombe a mano abbandonate sul piazzale del porto da qualche incauto soldato, la deflagrazione , ancora oggi inspiegabile, causò la morte  del Capitano paracadutista   Caforio, del Tenente Bottini e di un Sottufficiale, tra i feriti oltre  diversi paracadutisti anche il Comandante del nostro 185° Reggimento.

Quando arrivai al porto di Messina, visto i due Battaglioni il 3° e  11° già sul posto pensavo di trovare anche il mio Battaglione, invece vana fu la mia attesa tra quel marasma, però io e l’autista non ci allontanammo dal nostro automezzo, dovevo salvaguardare quanto esso conteneva, aspettammo tutto il giorno e la notte, pensando che il Battaglione avesse trovato delle difficoltà per arrivare a Messina, invece seppi dopo che esso era arrivato al porto prima degli altri due Battaglioni e con barche di pescatori aveva attraversato la Stretto sbarcando in Calabria, questo lo venni a sapere da un pescatore con il quale in quella attesa avevamo fatto amicizia, egli  saputo che eravamo in attesa del nostro Battaglione ci disse  che il giorno prima ,con altre barche da pesca avevano trasportato in Calabria molti paracadutisti, ecco spiegato del perché non avevo trovato al porto il mio Battaglione, sapendo che in Sicilia non vi erano altri Battaglioni di paracadutisti ad eccezione del 185° chiesi se il pescatore poteva trasportarci sulla costa calabra nel punto ove avevano sbarcato quei paracadutisti, senza indugio si offrì, naturalmente gli spiegammo che per compensarlo avevano in tasca pochi denari ma da buon patriota, accettò anche senza compenso di trasbordarci sulla costa calabra, però sulla sua barca non era in grado di caricare il nostro automezzo, per fortuna riuscii  a imbarcare gran parte del  bagaglio Ufficiali e

l’incartamento della Compagnia,  tutto il resto con armi e viveri lasciai che fosse diviso tra il nostro pescatore e suoi amici, io  mi caricai un sacchetto di circa 20 kilogrammi di puro caffè, a quei tempi il caffè era prezioso e il possedere anche pochi grammi era una fortuna, quella fortuna la misi nello zaino buttando, per alleggerirlo,  tutti gli effetti personali  non indispensabili.

Imbarcati dopo molte ore di navigazione  il pescatore ci sbarcò sulla costa calabra a Melito di Porto Salvo, nel punto esatto ove erano approdati quelli dell’8° Battaglione, fu facile rintracciarli in quanto si erano attendati  a Bagaladi nello entroterra di Melito di Porto Salvo. così rientrai nei ranghi della mia 23° compagnia. Pensavo di essere punito dal Comandante per avere abbandonato l’auto con viveri e munizioni, invece ebbi gli elogi in quanto avevo salvato tutto l’incartamento della Compagnia e parte bagaglio personale degli Ufficiali.

Restammo alcuni giorno ancora a Bagaladi, e in quella località dell’Aspromonte  compii i 20 anni.  La mattina del 2 Settembre, venne l’ordine di abbandonare la località  e salire verso il nord, ma non sapevamo dove, innanzi ai nostri occhi ecco apparire l’Aspromonte, catena montuosa impervia e a noi sconosciuta, dopo la guerra seppi che il nostro Battaglione doveva congiungersi con gli altri due a Gamberie, località tra i fitti boschi dell’Aspromonte, ma per mancanza di collegamenti, di carte topografiche delle zone della Calabria, ma soprattutto dell’Aspromonte, questo collegamento non avvenne, infatti  il 3° Battaglione al Comando del Capitano Sala, si unì ai tedeschi che si ritiravano sulla costa verso il Nord, mentre l’11° al Comando del Capitano Della Valle, non avendo contatti con l’8° e  il 3°, si era attestato nella zona di Bagnara Calabra e  quando il 3 Settembre gli Anglo-Americani  sbarcarono nella zona , l’11° si distinse onde impedire lo sbarco.

Noi dell’8°  ormai soli e isolati continuammo la marcia  verso il Nord, attraverso la fitta boscaglia  di quei impraticabili monti; marciammo per diversi giorni, affamati , stanchi ma ancora pronti al combattimento.

Anche in  quelli impervi boschi gli inglesi non ci mollarono, sentivamo gli aerei nemici che dall’alto ci cercavano ma dato la fitta boscaglia  credo che non erano nella possibilità di  individuarci,  purtroppo invece la mattina dell’8 Settembre il nemico ci attendeva in un punto obbligato che  costretti dovevamo attraversare , erano i Piani dello Zillastro .

I Piani dello Zillastro non era che una grande pianura  spoglia di alberi  e quindi completamente scoperta,  in essa affluivano due grossi sentieri che in quel punto si incrociavano, uno  conduceva verso  la costa Adriatica, l’altro su quella Ionica.

Il nostro Battaglione era giunto in quella zona nella tarda serata  del giorno 7, il  Comandante aveva deciso  di attraversare la Piana con il buio della notte e nel silenzio più assoluto, così a notte inoltrata benché stanchi e affamati iniziammo l’attraversamento della pianura di corsa, non ricordo per quanto tempo corremmo  per raggiungere il margine opposto della Piana, certamente qualche ora, quando  ci venne dato l’ordine di  fermarci in quanto avevamo oltrepassato la piana scoperta  eravamo completamente sfiniti , ci lasciammo cadere a terra per un meritato riposo,  era passato poco tempo quando improvvisamente ed era ancora buio si rovesciò su di noi  un nutrito fuoco di proiettili traccianti delle mitragliatrici e moschetti nemici, sparati ad altezza uomo,  benché stanchi e assonnati  ci disponemmo alla difesa guidati dai nostri esperti ufficiali, eravamo 400 giovani paracadutisti tutti alla prima esperienza di guerra, il nemico  certamente sapeva che dovevamo passare per quel nodo stradale e ci aspettava, era il Reggimento canadese Nuova Scozia, circa 1.500 uomini. La battaglia durò dal sorgere del sole sino a circa le nove del mattino, fu una battaglia cruenta prima a colpi di mitra e quando le poche munizioni in dotazione finirono si lottò a corpo a corpo e all’arma bianca, numerosi furono gli episodi di eroismo da parte nostra, caddero il Capitano Piccolli e diversi paracadutisti, lo stesso mio Comandante di Compagnia il Tenente Lino Romanatto fu ferito, il Comandante di Battaglione il Capitano Gianfranco Conati anche egli ferito venne fatto prigioniero; vista l’impossibilità di continuare l’impari combattimento fu dato l’ordine di sganciamento per non cadere prigionieri.

Ognuno di noi superstiti isolato o a piccoli gruppi ci disperdemmo nel fitto bosco, io  ormai allo estremo di forze,  ebbi la fortuna di trovare  una specie di grotta che non era altro che un rifugio di pecore e galline certamente di proprietà di qualche contadino della zona, infatti  dopo alcune ore ecco farsi vivo il proprietario di quello ovile, frattanto a me si erano uniti altri due sbandati paracadutisti e quando il Signor Pancaldo Francesco, così si chiamava quel proprietario, non ho mai dimenticato quel nome anche se sono passati  oltre 60 anni,  riconobbe che eravamo soldati italianianche con le divise a brandelli, ci assicurò di aiutarci.

Conosciuta la nostra storia e  accertatosi  che eravamo  affamati, ci disse che sarebbe tornato tra qualche ora portandoci da mangiare,  fu onesto  e puntuale, era  quasi l’imbrunire eccolo arrivare  con una grossa pentola e del pane, seguito dalla moglie e dalla figlioletta, corsero verso di noi abbracciandoci dicendo che la guerra era finita, infatti la radio nelle prime ore del pomeriggio dell’8 Settembre aveva annunciato al popolo italiano  che era stato firmato l’armistizio e che gli Alleati non erano più nostri nemici, logicamente quella notizia non mi rallegrò, avevamo perduta la guerra e quelli che sino a poche ore prima erano stati  nemici  con quello ignobile armistizio eccoli diventati amici, però in quel momento la fame ci fece dimenticare la guerra e affamati come ravamo divorammo in breve tempo il contenuto di quel pentolone, che aveva contenuto grossi fagioloni lessati. A sera inoltrata scendemmo nel paese di Platì  distante da noi pochi chilometri, fummo ospitati in casa del Signor Pancaldo. 

La nostra battaglia si svolse la mattina dell’8 Settembre 1943, giorno del dichiarato e vergognoso armistizio, da parte del Governo italiano presieduto dal Generale Badoglio, è da ricordare che l’armistizio tra il Rappresentante del Governo italiano il Generale Castellano e gli Alleati era stato firmato a Cassabile in Sicilia la mattina del 3 Settembre e solo dopo 5 giorni esso venne  annunciato  agli italiani attraverso la radio. Quella battaglia dell’8° battaglione paracadutisti poteva essere evitata, comunque è  da segnalare che quei 400 giovani paracadutisti dell’Esercito italiano furono i soli   soldati a  combattere nell’Italia meridionale  ancora contro gli Alleati.

Frattanto a Platì vi erano giunti quasi tutti gli sbandati dell’8° Battaglione e il Capitano Conati, dopo averci riunito nella Piazza del paese ci fece un commovente discorso, lasciandoci liberi di decidere se riformare il Battaglione e proseguire la guerra a fianco degli Alleati o prendere ognuno la propria strada, io decisi  di non proseguire la guerra e tornare a Napoli e abbracciare i miei cari dai quali non avevo notizie da oltre tre mesi.

 Rimasi ancora qualche giorno in casa Pancaldo , tanto per rimettermi in forze , poi  abbandonata la divisa ormai ridotta a brandelli  indossati abiti civili donatomi dal Signor Pancaldo , era un vestito di suo figlio militare ma prigioniero degli Alleati., una mattina alle prime luci dell’alba, penso che doveva essere il 10 -12  Settembre, salutati  con commozione il Signor Pancaldo e la sua famiglia  mi avviai a piedi verso Napoli.

Molti erano i soldati sbandati che dal Sud cercavano di salire verso il Nord e ricongiungersi  con i loro familiari, mi fu facile unirmi a un gruppo di soldati napoletani e con essi ci dirigemmo subito verso la costa tirrenica  che ci facilitava, ma non potevamo seguire la strada principale costiera in quanto vi transitavano mezzi e soldati alleati che avanzavano verso Napoli e non permettevamo a civili di  usarla, allora decidemmo di  proseguire seguendo la linea ferroviaria  che in molti tratti era completamente devasta dai bombardamenti americani. Si marciava  faticosamente a piedi, solo per un breve tratto la fortuna ci permise di trovare un carrello ferroviario,  di quelli che gli addetti alle ferrovie usavano per spostarsi sui binari  per le riparazioni, detti carrelli per muoversi funzionavano a mezzo di  una leva manubrio che doveva essere azionata  a mano da almeno due persone, ci organizzammo per i turni e così riuscimmo a marciare per diversi chilometri, forse 20, ma causa di un  ponte distrutto non ci permise più di usare quel mezzo e quindi proseguimmo a piedi.

Purtroppo nelle zona di Battipaglia, appena usciti da un tunnel ferroviario fummo bloccati dalla Polizia militare britannica che senza tanti complimenti  ci rinchiusero in una specie di campo di concentramento, già pieno di centinaia di soldati italiani sbandati. Gli inglesi ci utilizzavano per lavori di carico e scarico dai camion del loro materiale militare, altri sbandati  erano addetti alla  riparazione delle strade rovinate dai bombardamenti, io ancora una volta fui fortunato mi assegnarono ai lavori di cucina, il mio compito era quello di tenere acceso il forno da campo, lavare le pentole, tenere pulita la cucina, in compenso dopo tanta fame potevo saziarmi mangiando quanto restava della mensa dei soldati britannici..

Il lavoro non era  faticoso, anzi mi divertiva , avevo una certa libertà ma soprattutto potevo saziarmi e dimenticare la fame sofferta  durante quei giorni di estenuanti marce da quando lasciai Platì. Il caporale inglese che comandava quella cucina, vista la mia buona volontà  mi permise di dormire  sul posto ma in compenso dovevo tenere, durante la notte, acceso il forno a legna.

Quella specie di dolce prigionia andò avanti per diversi giorni, quando avvenne un incontro con altri sbandati, ero andato a  prendere dell’acqua presso un ruscello nei pressi dell’accampamento, il caporale inglese che mi aveva preso in simpatia, mi permetteva di andare a prendere l’acqua e lavarmi presso quel ruscello, così una mattina mi accorgo che un gruppo di sbandati si dissetavano e si lavavano, fatta una sommaria conoscenza venni a sapere che erano un gruppo di ufficiali napoletani che intendevano raggiungere la loro città, feci presente che ero anche io uno sbandato e  il mio desiderio era lo stesso  e se potevo unirmi a loro; saputo che lavoravo in cucina, mi chiesero se potevo procurare qualcosa da mangiare, li rassicurai spiegando che era facile procurare del cibo ma solo nella nottata, quando restavo solo in cucina,  raccomandai loro di stare ben nascosti e aspettarmi nella tarda serata.

A notte inoltrata lasciai la cucina  arraffando quanti viveri potetti racimolare , riuscii a riempire un grosso sacco e raggiunsi il gruppo che mi aspettava con ansia, diviso il cibo che in buona parte venne subito divorato dal gruppo affamato, ci allontanammo velocemente dal posto eravamo nella zona di Battipaglia e volevamo dirigerci su Salerno ma in quella zona infuriavano  combattimenti tra truppe americane e tedesche, quindi decidemmo di puntare su Montecorvino ma anche li si combatteva, allora non ci restava che stare dietro la truppa americana e avanzare con loro e finalmente la mattina del 4 ottobre arrivai a Napoli e così dopo oltre 20 giorni di estenuanti marce  riuscii ad abbracciare i miei cari dai quali non avevo notizie da  parecchio tempo.

Mamma Rosaria ( Sasà), mia sorella Ninì e mio fratello Filippo  per fortuna non avevano sofferto  alcun danno, sempre per la  previdente intuizione di papà Carmelo,  di avere inviato in Italia allo scoppio della guerra del denaro,  essi  non  ebbero  privazioni .

P.S.