Capitolo IV°
Tripoli, con molto rammarico, sembrava di colpo meno
bianca, meno pigra, più occidentale e contemporanea e
lasciava indietro il resto del Paese. Un po’ per uno
svantaggio oggettivo, ambientale e culturale, un po’
perché volutamente restio a lanciarsi a capofitto tra le
braccia imbonitrici di un effimero benessere, la Libia
aveva accumulato un ritardo che la inchiodava ai
sentieri sterrati praticati a piedi scalzi.
Corso Vittorio, così ordinato e propizio, per
l’ampiezza della sua sede stradale, allo sfoggio
delle novità motorizzate e non, era sempre più
frequentato e ormai prossimo a contendere il primato
di presenze giornaliere al vecchio Suk el Turk: un
inestricabile groviglio di imprevedibili, strette
zanghette compresse al limite dell’ostruzione
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Suk el Turk |
dal deflagrare delle rampicanti mercanzie che
aggredivano ogni centimetro quadro, all’interno e
all’esterno di ogni esercizio commerciale, disponibile o
indisponibile che fosse. Moderne, adescanti offerte
pubblicitarie trasformavano abitudini sane e consolidate
in nuove inclinazioni che, a differenza della solidità
più sobria e misurata delle prime, generavano illusorie
e via via più estreme sensazioni di immediato benessere.
La latteria Girus per le colazioni e la pizzeria
Bascetta per le merende avevano insinuato la convinzione
e il piacere che di lì a poco avrebbero quasi
definitivamente fatto dimenticare il gusto semplice del
pane inzuppato nel caffelatte del mattino o del pane,
burro e zucchero del pomeriggio, che da sempre calmavano
in modo genuino gli spasmi di insaziabili appetiti
giovanili.
«Adesso fai merenda, poi ti vai a divertire»
raccomandava ad Amedeo la nonna Angela, rispettata per
la profondità delle rughe che le solcavano il volto,
acceso da quegli occhi azzurri che gli aveva trasmesso.
Era stata lei il suo nume protettore ed educatore, e da
qualche mese era mancata.
Il passare del tempo, terribile despota che forgia anche
la tempra più tenace, non era riuscito a cancellare la
traccia che quella figura, più di ogni altra, gli aveva
lasciato nello spirito in termini di vivace e critica
consapevolezza. E questa cozzava infastidita contro
l’evolversi rapido e impenitente di ogni nuova indole
che invadeva con mirabolanti e amorali cambiamenti tutti
gli aspetti del comportamento tra esseri umani, che
fossero semplici conoscenti, intimi o innamorati. Ogni
considerazione su tale argomento lo riportava alla
semplicità del passato, e il ricordo nostalgico di un
momento, di una confidente e umana amicizia, del calore
di un sentimento provato lo induceva a distogliersi da
ciò che il progresso vagheggiava per il futuro prossimo
o lontano. Egli aveva accorciato il metro che
determinava l’opportunità di mantenere contatti e
conoscenze e, ridotte per conseguenza le amicizie, gli
si era affinata l’abilità di frequentare, valutare e
approfondire unicamente le persone ritenute più
interessanti. Nel suo distendersi, si dirigeva invece
con fare propositivo incontro a un universo fino a poco
tempo prima sconosciuto che lo affascinava e in cui era
stato introdotto da Nuri e Leila; mentre sentiva che i
luoghi ai quali era legato in precedenza, ossia la sua
casa e il circolo, pur restandogli nel cuore avevano
esaurito ogni missione con lui.
La Cattedrale di Tripoli, una chiesa in stile romanico
progettata nel periodo coloniale, dominava piazza Ben
Bella, che si dilungava a destra nei portici delle poste
centrali, a sinistra in quelli che sovrastavano il Bar
Bomboniera e si protendevano senza fine lungo corso
Vittorio Emanuele
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La Cattedrale |
Corso Vittorio |
per planare, dopo il Caffè Commercio, ai piedi del
castello Al Hamra, all’ingresso della Medina. Sul quarto
lato della piazza, la musica si diffondeva ruffiana e
sinuosa come una danzatrice del ventre, sotto la
galleria dell’ex Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale, che ospitava un allegro locale all’aperto, dove
narghilè e scatole di domino rilassavano gli umori degli
immancabili, pigri avventori.
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Il Castello al Hamra |
Galleria
dell'ex
Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale |
Tra di loro, vi erano spesso Nuri e Amedeo, che si
ritrovavano lì nel primo pomeriggio per aggiornarsi
sugli accadimenti.
In quegli ultimi mesi del 1967 non mancarono notizie
sulle quali dibattere. Una su tutte: la caduta, agli
inizi di ottobre, del governo presieduto da Abdul Qadir
Badri. In verità era Nuri che, forte della fonte
casalinga e della padronanza della lingua, che gli
permetteva di interpretare propaganda e notiziari
ufficiali di tutte le emittenti arabe, informava ed
educava l’amico, sempre pronto all’ascolto e in allerta
come un cane da caccia in punta verso la sua preda.
«La destituzione di Badri evidenzia il nervosismo del
re. Egli è, comunque, sempre più opportunisticamente
attento alle reazioni popolari, che di fatto hanno
bocciato anche questo Primo Ministro. Ora punterebbe su
Abdullahmid Bakkush, un nazionalista che da giovane ha
partecipato in modo molto attivo alle manifestazioni
antioccidentali, ma che adesso è di idee moderate e
liberali. Servirà quindi a calmare il malcontento solo
per un po’. Bakkush piace molto agli americani, perché
nel corso di una conferenza stampa ha esternato il suo
auspicio di poter accelerare l’ingresso della Libia nel
mondo moderno, favorendo la partecipazione a tale
progetto di elementi della nuova generazione dotati di
un approccio concreto alla realtà tecnologicamente più
avanzata: in politichese, ha ingolosito i nazionalisti,
e in parole chiare è un benvenuto al mercato
statunitense.»
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Abdul Qadir Badri. |
Abdullahmid Bakkush |
«Ha detto proprio questo?» lo frenò Amedeo per un attimo.
«Non è così stupido e sa cosa dire. Ha però abilmente
mimetizzato la svendita del Paese con la necessità di
modernizzazione, che in giusta misura può anche servire,
poi è venuto allo scoperto quando ha furbescamente
soltanto accennato all’imprescindibile potenziamento
della politica di difesa libica e alla definizione di un
piano, coerente con gli accordi stipulati nel 1953 e nel
1954, per la dismissione delle basi militari straniere.»
«È un innegabile passo indietro, questo approccio così
contenuto e conservatore! Possibile che la gente non
capisca? Tu cosa ne pensi, Nuri?» lo sollecitò.
«Sulla prima questione penso che con “potenziamento
della politica di difesa” intenda giustificare i milioni
di sterline che investiranno per ingrassare l’industria
bellica americana e inglese. Sulla seconda devo dire che
l’espressione “piano coerente con gli accordi stipulati
nel 1953 e 1954” non è un semplice passo indietro, è una
ricusazione di tutto quello per cui ha manifestato con
passione nei suoi anni giovanili. Ricordo quando
insisteva sulla chiusura immediata delle basi.»
«Ecco
che arriva Leila» disse Amedeo, alzandosi repentinamente
dalla seggiola e segnalando la loro presenza alla
ragazza che, incerta nel procedere, li cercava in mezzo
alla numerosa clientela adagiata tra i tavolini.
D’un tratto la radio interruppe la musica e una voce
solenne sembrò comunicare qualcosa di rilevante.
«
«Penso sia più opportuno andare a fare due passi» invitò
Amedeo avvicinandosi con molta discrezione all’amico e
alla fidanzata, come a preoccuparsi che nessun altro
ricevesse quel messaggio.
Quindi, con maggiore cautela, aggiunse: «Ho notato un
paio di tizi che allungavano le orecchie per ascoltare i
commenti della gente. Che cosa ha detto la radio di così
urgente?».
«C’è
stata la nomina ufficiale di Bakkush a primo ministro»
spiegò Nuri alzandosi in piedi e dirigendosi disinvolto
alla cassa.
Lasciarono il caffè dalla parte opposta alla piazza. Da
quel lato la galleria si apriva ai verdi, freschi
giardinetti, così piacevolmente contrastanti con il
calore diffuso e appena attenuato da una giovane brezza
marina. Passando accanto alla vasca rettangolare dai
bordi marmorei squadrati e dal fondale di un azzurro
chiarissimo, racchiusero preoccupazioni e aspirazioni
fondendole in un tutt’uno, per iniziativa di Leila che,
attardatasi di poco, li raggiunse di slancio e si
avvinghiò alle loro braccia.
Verso est aggredirono in leggera salita la passeggiata
orientale del lungomare che costeggiava il Grand Hotel e
la rotonda della gazzella.
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Piazza
Gazzella |
Senza affanno, seguitarono in direzione del Circolo
Italia e subito dopo verso il Waddan, dove Nuri avrebbe
incontrato la frangia più radicale dei nazionalisti.
Amedeo e Leila proseguirono fianco a fianco sino
all’ambasciata italiana. Poi attraversarono la strada e
tornarono indietro di qualche passo lungo la balaustra a
colonnine da dove avevano scrutato il porto con occhi da
bambini. Lui, adorandola con uno sguardo, le sussurrò:
«Ti porto in un bel posto».
Non fece in tempo a dirlo che già l’aveva trascinata,
azzardando una presa delicata alla maglietta, giù per le
scale che conducevano sull’arenile portuale, dove una
baracca e uno smilzo pontile di legno in prosecuzione
verso l’acqua costituivano casa e attracco per Giuma, un
vecchio pescatore suo amico. Una barba brizzolata e
incolta faticava a coprire gli scavi sul volto
incartapecorito dagli attacchi simultanei del sole e del
sale che, spesso alleati della fame, avevano scolpito e
patinato anche il resto di quel corpo color rame. In
compenso, non una fibra del suo spirito era stata
intaccata dalle ingiurie dell’iniqua condizione in cui
aveva vissuto; al contrario, pareva che solo piaceri e
soddisfazioni ne avessero plasmato sia la fiera postura
naturale, ora impercettibilmente ricurva, sia l’animo
che si rifletteva generoso nella luce scura e antica dei
suoi occhi. Salutò per primo da lontano e andò loro
incontro per poi
accompagnarli, come a voler fare strada, e sorridendo a
entrambi disse: «Spero che mio fratello Amedeo non sia
venuto a pescare le mormore oggi, ma a far conoscere il
luogo più bello alla ragazza più bella di Tripoli».
«A farle conoscere questa meraviglia, il suo padrone, e
a insegnarle a pescare le mormore, Giuma. Hai un po’ di
impasto?»
«Le canne sono sul pontile, campione, controlla se manca
qualcosa, io preparo l’esca in un attimo.»
I due ragazzi si sfilarono scarpe e calze, e guardandosi
come per alludere a un rituale già vissuto si sorrisero
schivi. L’acqua tiepida al contatto delle dita dei piedi
cambiava repentinamente da un’impressione a un’altra per
l’effetto di mille traiettorie impazzite, accorse
d’istinto in superficie, affamate.
«Sei
fortunata – osservò Amedeo – oggi è un giorno buono per
imparare.»
«Ora
è il momento giusto» li sorprese Giuma, porgendo
l’impasto di acqua, farina e formaggio che
appallottolarono all’amo per provare il primo lancio.
Come in preda a un’inspiegabile frenesia, l’acqua mutò
per un istante colori e riflessi, e poi solamente uno
dei tanti luccichii accorsi fuoriuscì balzellante
nell’aria appeso a un amo: quello di Leila! Dopo un
attimo di incredulo stupore, lei sorrise, non incredula
bensì sguaiata, senza pudore o riserbo, in un
incontrollabile convulso sghignazzo, facendosi burla del
“maestro”, così colpito e umiliato.
Notato l’accaduto, per non affondare del tutto
l’orgoglio dell’amico, e a stento trattenendo l’impulso
di prenderlo in giro, il vecchio pescatore si ritirò
nella baracca dalla quale, dopo qualche attimo, si
diffuse un buon profumo misto di brace ardente,
noccioline tostate, menta e tè forte: questo, assieme a
un pezzo di pane con tonno e salsa
harissa, era
il suo pasto prima dell’uscita al largo per la tesa
notturna. Senza accorgersene, quasi per un incantesimo,
i due giovani avevano smesso di pescare, e se ne stavano
sul pontile, sedotti da quanto vedevano intorno. Le reti,
armate di sugheri rossastri e piombi schiacciati,
attendevano impazienti sul fondo di poppa del
Signore del
deserto che, attraccata al pontile, ballava lenta e
a tratti una danza sensuale. All’interno del porto, sia
i bastimenti immobili, indaffarati in operazioni di
carico e scarico, sia quelli in lieve movimento d’arrivo
o di partenza, si uniformavano rispettosi alla quiete di
un pomeriggio terso che volgeva al termine, rotta da
sordi, radi suoni di sirene, attenuati da scuri, stanchi
sbuffi di ciminiere tremolanti. Anche le poche
automobili, che assecondavano il lungomare sovrastante
la piccola depressione che li ospitava, sfilavano
discrete, deferenti e opache. Nessuno e nulla, lì,
eccedeva, a parte i pensieri.
Non era sopportabile, in tre cuori pacificati ed
estasiati da un così semplice spettacolo, il fiele
irritante e provocatorio dell’ingiustizia, pronto a
sciogliersi e a diffondersi per angustiare impotenti
maggioranze e privilegiare insolenti, ipocrite minoranze.
Amedeo vide trasparire dal fondale i corpi impuniti,
fluttuanti e genuflessi dei responsabili di tanto dolore,
che avevano di colpo, come banderuole al vento, cambiato
atteggiamento e mimica facciale per riciclarsi, con
mossa tardiva quanto inutile, in una nuova, stabile,
equa realtà. Un bicchierino conico, zigrinato, colmo di
tè e minuscole noccioline tostate lo distolsero da quel
moto immaginario di stizza violenta. Il liquido scese
forte e caldo tra le viscere, esondò all’altezza del
petto e cristallizzò, facendolo precipitare, il veleno
giallo che aveva intorbidito una buona parte di quel
limpido pomeriggio. Leila gli cinse il fianco con un
braccio e appoggiò leggera la testa sulla sua spalla
sostenuta dalla sponda del pontile. Giuma, ricco
dell’ospitalità offerta, seduto su una panchetta,
aspirava sognante e avido una sigaretta, una
Gefara estratta da un pacchetto basso, squadrato, in cartoncino
rosso.
«Non siete mica sul porto di New York che vi potete
permettere di stare abbracciati senza preoccuparvi di
niente» li colse di sorpresa Nuri, affacciato con aria
irridente dalla balaustra sopra le loro teste, che a
destra scorreva fluida e ondulante come il corpo di un
serpente, accompagnata da immobili, scapigliate palme
lungo il tragitto che si interrompeva sul molo grande,
ai piedi del vecchio Castello Rosso.
«Faddl
ia Nuri» lo invitò Giuma, che evidentemente lo conosceva,
indicandogli il vassoio con i bricchi ancora fumanti di
tè.
Non se lo fece ripetere, sapeva della qualità di
quell’infuso, e scesi gli scalini due a due, li
raggiunse raggiante, irriconoscibile nell’umore rispetto
a quando lo avevano lasciato, un paio d’ore prima, sotto
l’albergo Waddan per la riunione ristretta.
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L'Albergo Uaddan |
A metà bevuta si accorse anche lui della suggestione di
quel tardo pomeriggio; estrasse con le dita le ultime
noccioline attaccate sul fondo e, masticandole,
abbracciò il pescatore che si apprestava a salpare e gli
disse, indicando in alto un’ipotetica insegna: «Da Giuma,
il miglior tè nel posto più magico di Tripoli. Se non
fosse per il fatto che poi rimarremmo senza pesce, ti
obbligherei ad aprire un caffè».
Il vecchio, onorato, gli sorrise, prese a tracolla una
coppia di bisacce, ringraziò come se stesse uscendo da
una casa non sua, salutò saltando sul pontile e si calò
sulla barca liberata dall’ormeggio, per dirigersi con
lente vogate verso il molo orientale, dove raggiunse una
grossa lampara.
Svelti, Leila e Amedeo sciacquarono le tazze del tè e
ripristinarono l’ordine trovato, poi si sedettero
accanto a Nuri, incalzandolo quasi con fare di
rimprovero, perché era evidente che c’erano delle novità
e sembrava che lui si divertisse a farle cadere
dall’alto.
«Non è come pensate» iniziò il giovane berbero e mentre
parlava non si capiva se fosse entusiasta o preoccupato
per l’evolversi dei fatti.
Il resoconto che seguì colpì i suoi interlocutori
per due considerazioni: la prima, se mai fosse stata
in dubbio, riguardava l’acutezza e la chiarezza con
le quali Nuri e compagni avevano inquadrato tutti
gli schieramenti in campo e le possibili evoluzioni
che la successiva battaglia per il potere avrebbe
potuto avere; la seconda si riferiva all’impressione
netta che i nazionalisti più radicali – quindi Nuri
e da quel momento, se pur più marginalmente, loro
stessi – avessero sconfinato con i loro propositi su
un terreno insurrezionale. Il presentimento era che
questi ultimi avessero la possibilità di seguire la
trama degli avvenimenti da un punto di osservazione
strategicamente favorevole, sia per la loro
perspicacia politica, sia per il vantaggio di poter
usufruire di probabili informazioni riservate.
Proseguendo nel rendiconto, pareva certo che il re
si fosse convinto che la capacità di governare del
suo legittimo erede, il nipote Hasan al Rida, era
molto limitata e che la durata della monarchia in
Libia sarebbe dipesa dalla sua permanenza al trono.
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Re Idriss |
Hasan al Rida |
Gli inglesi, di concerto con Omar Shalhi, consigliere
personale della Corona, avevano concordato con il
sovrano l’ascesa ai vertici dell’esercito del colonnello
Abdul Aziz Shalhi, fratello di Omar, creando le
condizioni, in caso di estrema necessità, per
l’insediamento di una repubblica a conduzione militare.
I sudditi di Sua Maestà britannica, lì a complottare, e
gli americani alla finestra, a osservare da finanziatori,
rappresentavano la migliore delle garanzie per il
massimo della durata della reggenza di Idris el Senussi.
Da parte occidentale, la monarchia e il colonnello
Shalhi erano ritenuti, per gli interessi che
rappresentavano, il riferimento più sicuro per il buon
fine dei programmi militari ed economici di Inghilterra
e Stati Uniti.
Tra le due potenze i rapporti non erano cristallini, per
il perdurare della posizione privilegiata di cui
godevano gli inglesi nella considerazione del sovrano,
nonostante le loro intenzioni di progressivo disimpegno
già accennate. Tuttavia, l’Occidente doveva mantenere il
controllo militare nello scacchiere mediorientale,
minacciato dalla crescente influenza
ideologico-commerciale che l’Unione Sovietica generava
nei Paesi arabi e non solo. Inoltre, il rilevantissimo
aspetto dell’investimento economico, in termini di
sfruttamento delle risorse e di esportazioni di armi e
tecnologia, rendevano la Libia un obiettivo prioritario.
I nazionalisti moderati, seconda forza in campo nel
panorama illustrato da Nuri, auspicavano un passaggio
indolore dalla monarchia a una repubblica parlamentare
che mantenesse le alleanze e le basi aeree straniere
fino alla naturale scadenza degli accordi, per poi
prorogarli, e che difendesse i privilegi della classe
politica, finanziaria e affaristica. Anche loro,
vezzeggiati da inglesi e americani che poggiavano i
piedi su più staffe, avevano perso il consenso del ceto
meno agiato ma socialmente più attivo, formato da
studenti e giovani ufficiali dell’esercito. Si
identificava proprio in questi ultimi la terza forza in
campo che lui, con genuina, disinteressata passione,
avvalorata dalla sua evidente, diversa e non sospetta
estrazione sociale, rappresentava descrivendola
teneramente, come ad assecondarne e proteggerne uno
sviluppo, ora precoce e a breve dirompente. Un attimo di
palpabile, partecipata riflessione coinvolse quel luogo
e i tre presenti che, sorpresi, per un istante quasi
trascesero.
Avvenne
probabilmente in quel frangente il passaggio definitivo
da un livello di lotta all’altro, e quando si riebbero
erano ormai al di là del guado.
“Che cos’è che ti lega a una causa che non sia un basso,
volgare interesse personale?” si chiedeva tra sé Amedeo,
ascoltando l’amico e scrutando, non visto, il rapimento
della sorella a quelle parole. Pensava infatti in quante
sfumature avrebbero potuto differenziarsi, per genesi e
successiva maturazione, la sua adesione al progetto e
quella dei due fratelli berberi, apparsi in un sogno
inaspettato e materializzati nell’intimo legame che
saturava l’aria, rendendo più affannosa la respirazione,
ripresa dopo averla sospesa qualche secondo.
Soltanto allora Leila si accorse di essere osservata e
Nuri, stupito, come destato, ricominciò ad annodare le
maglie che instancabili favorivano quell’incantesimo
nella sua trasformazione. Cosa saremmo senza la parola!
Se non diffidenti e incompresi, certo più lontani e
impauriti. Eppure sono solo alcuni momenti improvvisi,
quieti e silenziosi, colmi di sguardi teneri in cui si
condividono emozioni preziose e profonde, ad aprire lo
spirito all’accoglienza e alla fiducia incontaminata.
Quella indefinibile pausa aveva suggellato un legame, un
vincolo stretto in silenzio e senza simboli ai quali
appellarsi, cementato da una comune, semplice
partecipazione emotiva. Tra loro e in ognuno di loro per
quella terra offesa, un confidente affidamento tracciava
e spontaneamente indicava la strada da seguire con
tenacia e il nemico da abbattere senza remora o attesa.
Tanto che Amedeo, voltandosi d’istinto verso il mare,
colpì a morte con lo sguardo quei corpi responsabili
genuflessi, invocanti con visi truccati e mutati, pronti
al riciclo, senza più corone in testa o tronfie uniformi
o lugubri divise clericali, non più incravattati in
obsoleti doppiopetto, in fila sul pontile, abbattuti
dagli sguardi interroganti degli umili e degli offesi, e
dalla vergogna di se stessi per non aver avuto il
coraggio di prostrarsi prima.
«D’ora in poi dovremo considerarci parte attiva di un
anomalo movimento rivoluzionario che si è costituito
quasi senza alcuna formalità. Anche se nella nostra
società non esistono strutture organizzate, un forte
sentire, comune alla netta maggioranza della popolazione,
sarà il fondamento sul quale montare i sostegni per un
vero cambiamento. L’organizzazione è presente là dove
serve, ma dove non serve, in un Paese destrutturato come
la Libia, sarebbe unicamente un pericolo. Il nostro
compito come soggetti intermedi è quello di evidenziare,
con chi non ha sufficiente capacità critica, l’iniqua
sproporzione della distribuzione delle ricchezze di
questo Paese. È un lavoro che va effettuato con la
massima discrezione, quasi distaccati, mai con toni
troppo accesi, mai in convegni prestabiliti, ma solo
durante i quotidiani scambi di idee, ognuno nel proprio
ambito. Noi non avremo mansioni dirette, dobbiamo
preparare un terreno che si saprà identificare in un
modo o nell’altro a seconda di quale forza prevarrà
nella disputa in atto.»
Nuri si concesse una breve pausa, come a verificare
di non aver lasciato nulla in qualche piega della
memoria per il coinvolgimento che lo accalorava.
In questa pratica dimostrava di volare veramente alto.
In poco tempo, grazie alla sua smisurata passione
suffragata da un autentico intuito, aveva raggiunto
vette così elevate che gli avevano fatto guadagnare,
seppur giovanissimo, un posto rilevante in seno
all’organizzazione che frequentava. Leila ne era quasi
certa e con Amedeo non aveva fatto mistero.
«Quello
che vi ho appena suggerito di fare non è frutto della
mia improvvisazione, ma di una scelta intenzionale di
chi sarà più direttamente coinvolto nell’azione. I
comportamenti e le abitudini fino a oggi adottati
dovranno essere la falsariga sulla quale poggiare i
prossimi. Se riusciremo in questo, mi sento di esprimere
un certo ottimismo.»
Ci volle qualche secondo perché Amedeo o Leila, che con
molta evidenza avevano accusato una miscela di
apprensione e lieto stupore per l’importanza di quanto
esposto, tramutassero in entusiasmo le prime impressioni
ricevute. Non avevano immaginato che Nuri potesse essere
a uno stadio simile nella preparazione del piano: il
passo però era fatto e il vuoto in termini di
partecipazione attiva che avevano provato fino ad allora
poteva essere colmato. Davanti a loro due, già così
legati uno all’altra, si aprivano le porte per
assaporare l’intensità di una sovrapposizione di slanci
che li avrebbe messi alla prova.
Si era fatto tardi e tornando verso l’abitazione dei due
fratelli, annusavano l’aria in cerca del cambiamento e
pareva loro di notarlo in ogni sfumatura diversa
dall’ordinario che i loro sensi riuscivano a cogliere.
L’inconsueta confidenza che i passanti dimostravano,
l’insolito lieto e non lamentoso richiamo alla preghiera
del muezzin dalla moschea, l’accentuata anarchica
sinfonia dei clacson della trafficata piazza Castello e
la generosa accoglienza di luci, suoni e movimento che
sembrava offrire l’imbocco verso i portici di corso
Sicilia, mitizzavano ai loro cuori un’aurora imminente.
Ancora due minuti e avrebbero raggiunto il “Colosseo”
e, attraversata in quel punto la larga strada, si
sarebbero ritrovati di fronte al portone del palazzo che
ospitava Nuri e Leila. Quando furono lì quest’ultima
ebbe un sussulto e disse al fratello: «C’è papà davanti
casa e ci sta salutando».
Nuri, intuendo l’imbarazzo di Amedeo, gli appoggiò la
mano sull’avambraccio per tranquillizzarlo: «Non ti
preoccupare, mio padre sa tutto di me e di te, come sa
tutto di te e di Leila, e non è affatto contrariato».
Nonostante le premure dell’amico, attraversare la strada
per lui non fu semplice. Eppure, una volta giunto viso a
viso con il giovane ufficiale dell’esercito, in quel
momento in borghese, l’imbarazzo fu annullato dal garbo
con cui fu messo a suo agio.
Fatte le presentazioni e dopo aver invitato i figli a
precederlo in casa, il militare chiese il permesso di
parlargli.
«Ci
vediamo al Beach Club sabato sera, va bene?» salutò Nuri,
seguito da un cenno della sorella.
«Allora
Amedeo… ci tenevo a incontrarti, sebbene sia già a
conoscenza di alcuni fatti che ti riguardano, perché
vorrei dirti almeno due cose in una. So che ti interessi
con vero trasporto a Leila e so che con uguale forza ti
stanno a cuore le sorti del nostro Paese. Senza nulla
togliere a Nuri e a mia moglie, sono anch’io nella tua
stessa condizione.
La cosa che ti chiedo in entrambi i casi − non ti appaia
come un freno, anzi − è la prudenza. Ora vado, non è mia
abitudine dilungarmi sulle questioni con persone sveglie»
e gli porse la mano per congedarlo.
Il giovane rispose al gesto assicurando: «Spero di
dimostrare con i fatti piuttosto che con le parole
quanto io terrò in considerazione il suo consiglio».
Si sentì ufficialmente investito di una doppia
responsabilità e una smania lo colse e lo spinse,
ingenuo nel pensiero, fin sulla soglia di qualche
inutile bravata. In quel momento di fantastica
esaltazione, avrebbe voluto mostrare il proprio coraggio
in entrambi i campi che coinvolgevano la sua passione,
ma pensò bene di mettere a frutto l’esortazione appena
ricevuta per tornare, almeno nella realtà, con i piedi
per terra.
Era quasi l’ora di cena e affrontò con premura il lungo
tratto di strada dalla chiesa della Madonna della
Guardia fino al rilievo della Dahra, passando proprio
nel cuore della città.
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Chiesa della
Madonna della Guardia |
Per quanto allungasse il passo, lo stato di ebbrezza per
quel pomeriggio, appagante e propiziatorio, lo
tratteneva in centro, là dove erano probabili i
festeggiamenti popolari nel caso di un buon esito delle
vagheggiate speranze. Andava più veloce per superare
l’ingresso del Banco di Roma, ma subito dopo moderava il
passo per immaginare la nuova insegna: Banca Senza
Interessi di Libia. Deviava dal tragitto per raggiungere
la Barclays Bank di Shari al Fath per sostituirla a suo
piacimento con la Banca Popolare Africana. Dopodiché,
allontanandosi dal percorso più breve, rasentando la
Cattedrale e risalendo davanti alla Fiat, senza cambiare
la sigla, ne dava una nuova interpretazione: Fondo
Internazionale di Aiuti per Tutti.
Ormai era lì a due passi, e sulla cancellata del Palazzo
Reale affisse, o fantasticò di farlo, la targa «Biblioteca
Universale». Nel frattempo si era fatto buio, le scritte
non si leggevano più, e Amedeo a poco a poco rientrò in
sé. Alla porta della Dahra salutò Hag Tarabulsi che
appena lo vide gli chiese: «Hai buone notizie? Ti vedo
di fretta e splendente».
«Spero
per te che presto non ci sia più bisogno di fare la
guardia.»
E con un gesto della mano, se ne andò rapido,
lasciandolo un po’ perplesso.
L’unica bottega ancora aperta all’angolo del suo palazzo
era il caffè di Hag Hossein. Stava riponendo seggiole e
tavolini con il figlio Salah, mentre la radio produceva
gli ultimi sforzi di quella giornata, che però non
sembravano densi di novità entusiasmanti, anzi, si
spensero stonati come un miagolio insieme alle luci del
locale.
Amedeo varcò il portone del suo condominio e nell’atrio,
dove viveva la signora Elvira, infermiera di professione,
incontrò l’ultimo cliente del giorno disposto a farsi
bucare le natiche da mani esperte. Quando entrò in casa,
tutto gli apparve troppo scontato, in ordine: Roberto
aveva quasi finito di cenare; la zia Giuseppina lo
salutò, già pronta a infilarsi sotto le coperte; la
mamma, nella sua distaccata disponibilità, si affrettò a
servirlo senza sfiorarlo con una carezza e il padre era
fuori a pescare. Mancava solo la nonna Angela e
quell’assenza non era poco.
Dopo il pasto, avvertì che sarebbe andato al circolo:
non aveva intenzione di permettere a quella lunga
giornata di chiudersi senza un segnale di rivolta dal
mondo che frequentava prima di conoscere Nuri e Leila.
Intanto, sbalordendolo e lasciandolo
senza parole,
invitò il fratello a uscire per dargli un primo segnale
di cambiamento che scuotesse quella stagnante
circostanza casalinga. Poi, con uno slancio che
condensava la necessità di distaccarsi dalla noia di
un’ordinata consuetudine, baciò la mamma e la zia che si
guardarono incredule.
Prima di raggiungere l’associazione parrocchiale volle
recarsi nella sede della sua squadra, El Nadi Dahra, che
non aveva mai nascosto antipatie per l’arroganza del
potere anche in ambito calcistico. La straordinaria e
imbarazzante accoglienza fraterna che lo investiva
quando si recava là era la norma: ognuno dei presenti si
alzava e, abbandonando il gioco o la discussione in atto,
si contendeva il privilegio di offrirgli la propria
confidenza, dando prova di accreditarlo come uno dei
loro. E questo avveniva non solo perché giocava in quel
club, ma perché più volte aveva manifestato la propria
partecipazione alle iniziative culturali e sociali che
esso proponeva.
Quando arrivò l’altro giocatore italiano, il
portiere Italo Papetti, l’atmosfera e i cori per
l’approssimarsi di una partita molto sentita si
scaldarono, al punto che la dirigenza e gli atleti
locali si videro costretti a metterli al riparo in
una stanza appartata. Fu lì che Amedeo ne approfittò,
pur senza dare l’impressione di appassionarsi troppo,
per orientare la conversazione sul tema politico, ma
l’occasione gli offrì giusto un sorso di quel
nettare nel cui invaso avrebbe voluto immergersi.
Aveva subito notato la ritrosia e la scarsa voglia di
sbilanciarsi in discussioni che potevano portare a
compromettersi e da questo, e per il poco che aveva
ascoltato, dedusse arbitrariamente che il crogiuolo
della situazione politica si avvicinava a un punto di
ebollizione sufficientemente critico.
Salutò insoddisfatto per l’esito del suo tentativo, e
insieme al fratello e a Italo, che non aveva nessuna
colpa dell’infausto, nostalgico nome che portava,
attraversata la strada, infilarono il portone del
circolo di San Francesco. Scesero i tre scalini e mentre
gli altri due entrarono subito nella sala dei grandi,
l’unica a essere frequentata a quell’ora, Amedeo si
soffermò alcuni istanti davanti alla sgangherata e
incerta figura geometrica che rifiniva il campetto di
calcio e nel buio, notato un pallone abbandonato in
mezzo al manto d’asfalto, si avvicinò e lo rianimò
palleggiandolo.
«Dovresti
tornare qua un po’ più spesso, Amedeo, anche se questo
posto non risponde in pieno a quello che più desideri,
per ciò che ti ho sentito dire ultimamente.» Era
l’inconfondibile cadenza bergamasca di padre Giovita
Dossi, il parroco simbolo della comunità rionale, che
usciva dalla sala illuminata per tornare al riposo della
canonica.
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Al centro Padre
Giovita Dossi |
«In fondo, per quanto la tendenza dei soci sia
conformarsi senza tanta personalità agli squilibri di
cui la società è vittima, questa non è da condannare
senza attenuanti. Il rischio a esporsi, specialmente in
un Paese straniero, è considerevole» aggiunse il frate.
«Non è questione di compromettersi in un’azione
eclatante, padre Giovita, è il pensiero così omologante,
ancora così nostalgico di un periodo che pure ci ha
provocato danni incalcolabili, che rischia di esiliarmi
da questo luogo, che mai rinnegherò.»
«Non pretendere tutto subito… semina il tuo pensiero con
tolleranza e poi attendi i frutti con calma, noi non
vogliamo perderti. Ora ti auguro buonanotte.»
«Ne terrò conto, buonanotte» disse al parroco, il quale
sparì nell’atrio ai piedi del campanile che portava alla
sua stanza passando per la sagrestia.
Si avviò dalla penombra del centro del campetto verso la
luce e verso l’animazione della sala dei grandi, che
all’interno ospitava, sulla sinistra, il biliardo, al
centro e sulla destra, prima del bar all’angolo, un
flipper e i tavolini per il gioco delle carte. Non entrò
subito, ma si fermò a osservare e riconoscere gli amici
dalle inferriate di una delle finestre. Sembravano
impegnati a recitare in una commedia dove tutto doveva
apparire ineccepibile, dai buoni convenevoli ai non
infrequenti scatti d’ira per una carta o un colpo mal
giocato; ogni movimento e ogni parola si attenevano a un
copione, e loro sembravano attori o figuranti a cui
fosse stata tolta la possibilità di un’ardita e
irriverente improvvisazione.
Infine si decise, varcò senza indugi la soglia e
s’immerse beato in quella placenta che lo aveva
contenuto in un’epoca e in un contesto dove i nutrimenti
assorbiti avevano determinato un legame e un senso di
forte amicizia fraterna dai quali scindersi
completamente era impossibile. All’interno salutò più
affettuosamente di quanto aveva pensato di fare dieci
minuti prima e in cambio incassò soddisfatto la finta di
un diretto sinistro di Alfonso Parisani, di un gancio di
Nello Di Martino, un attestato di stima calcistica da
Angelo Lorenzon e Antonio Pelligra, uno sguardo in
tralice con le narici spalancate da Giorgio Loriente,
l’occhiolino di Stefano Lucidi, una mezza offesa di
ammirazione da Michele “Liuzzo” Delfini e un invito per
una partita al biliardo da Angelo Palmisciano e Giuliano
Perissinotto.
Per un paio di ore quella sera rimase isolato,
circondato da mura così familiari e da un multiforme,
intimo piacere fisico che riusciva a bilanciare, per
poco, l’apprensione che lo qualificava da un po’ di
tempo. Roberto e Luciano, che lo conoscevano meglio di
chiunque altro, in quella sala lo scrutavano più
perplessi che mai.
Andrea Amedeo Sammartano