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Pozzo
arabo. (illustrazione da D.M. Tuninetti:
Cirenaica)
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dal diario
17 agosto 1957
Partiti da Catania con la nave Ichnusa, siamo in navigazione dal
pomeriggio del 17 agosto 1957.
19 agosto 1957
Ormai siamo più vicini alla costa dell’Africa Settentrionale che
aMalta; mio Padre passeggia canticchiando sul ponte, in sordina,quasi
ringiovanito, certamente è sereno. Ha conversato nel pomeriggio con un
Arabo e il discorso essendo caduto sul dopoguerra, questi gli ha
narrato che quando a Bengasi si seppe della morte di Mussolini ad opera
di italiani, nella città vi fu una specie di risentimento contro gli
italiani che erano giunti a tanto. È da ammirare questa manifestazione
a favore di Mussolini, da Arabi ormai non più cittadini dell’Italia.
20 agosto 1957
Sono le cinque, la nave ha diminuito la sua velocità, 20 miglia l’ora,
per non arrivare di notte. Il cadetto Guidi mi porge il binocolo e così
rivedo dopo sedici anni (una fortuna che non è di tutti) la terra rossa
della Cirenaica. Rivedo la nostra cattedrale; molti edifici le fanno
ala a destra e a sinistra, delineando la periferia della città, oltre
la quale cominciano i palmeti e le coltivazioni. Così silenziosamente e
quasi come un rito, l’Ichnusa si avvicina alla banchina, guidata dal
pilota che le è venuto incontro e finalmente attracca presso un
peschereccio greco, dal quale provengono musiche
dai motivi orientali. Facciamo la fila per
riempire e consegnare i moduli e finalmente verso le nove, siamo liberi
di sbarcare. I miei genitori fanno colazione, io mi sento la gola
chiusa dall’emozione e per non soffocare preferisco sbarcare a digiuno.
Sistemiamo i bagagli all’albergo e subito andiamo a visitare Bengasi.
23 agosto 1957
Turbamenti fortissimi si susseguono in noi. Mia Madre piange nel vedere
la nostra casa distrutta, piange ogni volta che vede un buon vicino, un
conoscente che ci fa tanta festa; chi offre caffè di qua, chi aranciata
di là, chi tè da un’altra parte. Riviviamo fra mille conversazioni e
ricordi la storia inedita del nostro Paese.
24 agosto 1957
Ieri è venuto Mansur, un nostro vicino di casa, di buon mattino, per
vederci; fiumi di riconoscenza e di notizie sono usciti dalla suabocca
verso la mia famiglia: “Signora, quante gassose tu mi hai dato senza
pagare! Quando venuto mio padre da Mecca, tu avere mandato due cassette
di aranciate per festa mia famiglia. Io ricordare, come fosse oggi,
quando tu detto: “Ti raccomando la mia casa”, io non ho potuto fare
niente, perché operaio tuo, diventato bandito con rivoltella, portare
via tutto e vendere al Cairo roba tua, macchinari tua fabbrica. Tutti
andato saccheggiare negozi di ebrei pieni di oro; per dire verità,
anch’io andato, preso un poco di barracani, ma mio padre detto: “Via,
via questa roba, fuoco in casa, non essere nostra” e io lasciata in
strada. Operaio tuo diventato ladro; quando venuti Inglesi, scappato
con loro perché tutti cercare lui per mettere in carcere. Ritornato con
tessera di Inglesi e con quella lui fare quello che volere. Lui
ammazzato pure signora. Lui fatto spia a Inglesi, detto dove essere
depositi, caserme, soldati, persone nascoste, fatto uccidere. Poi
andato Mecca, ma Dio non perdonare, perché Dio perdonare i peccati a
chi andare a Mecca, ma non quelli di
ammazzare; solo quando per difesa, perdonare
Dio a chi ammazza”. Mansur dice che si è comportato onestamente in
mezzo all’anarchia.
Per alcuni mesi Bengasi è stata senza leggi, ma Dio lo ha compensato
della carestia e dei pericoli sofferti perché Dio dice: “La maggior
ricchezza sono i figli” e lui ne ha cinque, mentre quello non ne ha;
Mansur è impiegato all’azienda elettrica, non desidera i pane, il
Governo Libico gli istruisce uno dei figli nell’Irak, fra un anno
ritornerà col diploma di geometra. Quando parla dei suoi ragazzi gli si
illumina lo sguardo, specialmente del maggiore che sa l’Inglese, il
Francese, l’Arabo latino (intende dire l’Arabo classico). Si rammarica
che non studia l’Italiano ma si vanta di avergliene insegnato lui
qualche poco. “Quello fare brutta morte, signora” conclude rivolto a
mia Madre. “Noi sapere quanto tu lavorare; tua figlia sapere quante
casse uscire, invece di andare a giocare. Operaio tuo, ora farsi
chiamare Hagi (‘Signore religioso’: titolo di grande dignità che gli
Arabi attribuiscono a chi è andato almeno una volta in vita alla
Mecca). Ma lui dice apposta, per prendere in giro, chi non conoscere;
ma noi sappiamo chi è lui e cosa ha fatto. Io, se lei volere, dire in
faccia: “Tu venduto roba signora” io non avere paura, se lui parlare
dare uno schiaffo, mia cabila si chiama Raid, essere più forte della
sua”.Noi gli abbiamo risposto che ormai il passato è passato. Mentre
Mansur parlava io pensavo che l’ex operaio era diventato così perché,
forse, in lui da bambino si erano formati dei complessi di inferiorità,
quando suo padre carovaniere era sceso di censo e classe sociale in
seguito alla fine del traffico carovaniero, dopo la guerra del 1911.
Lui nelle conversazioni ricordava il tempo dei lauti guadagni della sua
famiglia, perché certamente non era contento della sua condizione di
operaio; io pur non essendo colta a quel tempo intuivo il suo pensiero.
La guerra del 1940 gli offrì l’occasione di darsi da fare
illecitamente; ritornò nell’agiatezza e chissà se si liberò dei suoi
complessi! Indossava una specie di toga bianca, di lana, lunga quasi
fino ai piedi, che lo rendeva solenne: “Ti piace?”, mi domandò una
volta. “Sì, sembri un antico romano” gli risposi. Lui si compiacque
come un bambino. “Questo è il vestito di Hagi, perché sono Hagi”. Ecco,
era ridiventato un signore. Per me, sono come favole i suoi
racconti-ricordi intorno all’epoca del Governo Turco, intorno alla
famiglia patriarcale, di suo padre, di tradizioni orientali musulmane:
carne d’agnello, aspan (riso insaccato nell’in testino di agnellino con
aromi, carne tritata, prezzemolo e zafferano),pesce, pane d’orzo,
cuscus, verdure, zucca gialla, dolci a base di mandorle e miele,
arachidi nel tè, datteri ecc.; tante mogli, numerosi figli, schiave
negre di particolare bellezza appartenenti alla popolazione dei Bileni
dell’Eritrea, che giungevano in Libia con le carovane provenienti dal
Sudan, vestiario di lana pura e seta pura, profumi dell’oriente. Se non
ci fosse stata la guerra lui sarebbe rimasto buono per tutta la vita.
Caro ex operaio, non ti serbo rancore,anche se pur avendo appagato
tutte le tue ambizioni non mi hai conservato nemmeno un piatto della
mia casa, dove mangiare, al mio ritorno. La guerra del 1940 non la
scatenasti tu; fosti una vittima come me! Tu vedesti crescere noi
bambini. Io ti ricorderò sempre come colui che diceva: “Io volere bene
a voi come figli, perché io non avere figli”. Non riesco a immaginarti
bandito con rivoltella. Preferisco ricordarti quando mi portavi i
biscotti del Ramadan, oppure quando gentilmente mi offrivi la compagnia
della tua nipotina, se ti accorgevi che ero sola.
26 agosto 1957
Se un giorno il lettore avesse la possibilità di visitare questi luoghi
rileverebbe quanto amore da parte degli Arabi bengasini sia rimasto
vivo per gli Italiani, dopo ormai sedici anni trascorsi. Qui alcuni
ancora aspettano il ritorno dell’Italia; proprio oggi un anziano mi ha
detto nel suo linguaggio ingenuo e colorito: “Tutto può cambiare! Che
cosa ci vuole a venire quattro navi, sparare quattro colpi! Io subito
venire incontro da quella parte!”.
27 agosto 1957
Esistono ed hanno un peso atroce le parole: “mai più”. Chi non l’ha
provato? Col passare degli anni le ferite si rimarginano ma,
all’ascolto di certe espressioni, ci sentiamo trascinati di nuovo verso
quel nostro mondo, di cui il disinteresse politico ci ha imposto la
rinuncia. Molti dei miei concittadini mi invitano a rimanere in questa
terra che è consona al mio spirito, ma comprendo di essere in possesso
di una Laurea in Letteratura Italiana, mentre qui la cultura è
imperniata su programmi egiziani e la lingua ufficiale è l’Arabo. Se un
giorno le autorità dovessero riorganizzare le scuole italiane sarei
privilegiata nell’incarico però mi rendo conto che ciò è un’ipotesi
chimerica. Mi spiace di non essere stata invitata a rientrare nella
città subito dopo l’esito forzato, quando ancora non erano stati
espiantati i macchinari ed esisteva qualche po’ della nostra casa.
Tutta la mia famiglia di indefessi lavoratori, con la volontà degli
abitanti di Tara (Via col vento), avrebbe ripristinato l’atmosfera del
quartiere con il lavoro alacre, riacquistando prestigio e benessere,
avrebbe ridato coraggio e vita a tutti i colpiti dalla sventura come
noi, compreso l’anziano delle quattro navi e dei quattro colpi.
28 agosto 1957
Oggi ho ricevuto la proposta di matrimonio di un ricco commerciante
Arabo che mi ha giudicata ottima per il suo primogenito. Ha vantato la
serietà e la volontà di lavorare del figlio, tanto che ha già a nome
suo seimila sterline oltre i beni paterni consistenti in una dozzina di
palazzi tra Tobruk e Bengasi. A mia Madre darebbe i soldi del latte
(dono simbolico), a mio Padre seicento sterline per acquistarmi, poi lo
sposo, tanto ricco, mi coprirebbe di bracciali ed altri monili d’oro.
Mi ha commosso tanta stima di questo padre che si preoccupa di ben
sistemare il figlio.
29 agosto 1957
Verso le undici ho incontrato un vicino di casa ormai anziano, si è
fatto riconoscere dicendomi il suo nome: Magiana Raid. Era un po’
malandato, mi ha detto con rimpianto per la vecchia epoca: “Qui chi ha
rubato ha fatto i soldi, chi ha camminato con la faccia pulita ha fatto
la fame”. Non me ne sono meravigliata, in Italia è stato lo stesso. Mi
ha invitato nella sua casa che era lì vicino, la miseria era palese,
ricordavo l’antica agiatezza; quando si diventa poverissimi la casa non
risplende, è senza pavimenti, senza intonaci. La moglie e le figlie mi
hanno espresso un’infinita affettuosità e non mi hanno fatto andar via
senza prima aver accettato una bibita, segno gentile del sentimento
dell’ospitalità presso i popoli orientali. Ho sentito dire che oggi con
l’Ichnusa partiranno per l’Italia molti cavalli arabi, sono stati
ratificati dei trattati commerciali Italo-Arabi; speriamo di bene in
meglio! Sono andata al porto per vedere come i portuali imbarcano i
cavalli, ero emozionata nel vedere quelle bestie sospese per aria per
mezzo di corde e imbracature.
1 settembre 1957
Alla messa delle 19 ho ascoltato, con oblio di tutte le cose terrene,
la musica dell’organo della nostra Cattedrale che si diffondeva per le
navate acusticamente perfette e con la sua armonia univa l’animo
all’Infinito e all’Eterno. Alcune suore della Casa di cura del dott.
Prosdocimo, la Schola Cantorum formata dai giovani oriundi italiani,
maltesi e siriani cattolici accompagnavano con il canto liturgico la
sacra funzione. Ho asciugato le lacrime al pensiero che non rivedrò mai
più questo tempio, lontano dalla mia residenza in Italia, ben trentasei
ore di mare. Ho conosciuto la coinquilina del primo piano, è una
signora greca di Egina, mi ha raccontato della sua difficile
gravidanza, da sei mesi inattiva nella sua professione di sarta e
sacrificata a letto per desiderio di un bimbo. Ha un bel sorriso e un
bel profilo. Conosce l’italiano e mi dice che non tralascia di
memorizzare le frasi della lingua italiana che sente come una musica.
Cullandosi nella speranza che io abiterò qui definitivamente mi ha
promesso che mi condurrà in Grecia, l’anno prossimo. Resto stupita
della sua ospitalità. La signora Maria ama la società; attorno al suo
letto vi sono sempre giovani famigliole dei suoi connazionali e signore
egiziane che vestono all’europea. Queste coprono il capo con
caratteristici foulards, bordati da ghirlandine di fiori delicati. Le
amiche e gli amici di Maria raccontano che a Bengasi vi sono quattro o
cinque cinema dove si proiettano films islamico-egiziani; sono
frequentati solo da uomini perché vige il pregiudizio che la donna
araba seria non deve prediligere questi locali. Nei locali a proiezioni
europee vanno le famiglie greche, armene, egiziane, maltesi, inglesi e
tedesche.
5 settembre 1957
Verso le 10,30 la Mamma ed io abbiamo visitato il dott. Prosdocimo,
medico di famiglia, molto stimato da tutte le etnie della Libia. Ogni
tanto appariva a casa nostra per lieti o sgraditi eventi, quando la
famiglia cresceva. Ha rivolto cortesi espressioni alla mia bellezza. È
sempre quel signore di grande intuizione, di poche parole precise e
infallibili sugli argomenti trattati. Egli ci consiglia che bisogna
farsi desiderare nelle vendite, non far capire di avere necessità. Ci
sono quattro capoccia politicanti che prendono sacchi di denaro da
nazioni estere interessate a metter piede qui. Costoro si sono
comprati, dagli Italiani, per pochi soldi, i migliori palazzi della
città.
Vi è molto nazionalismo e non val la pena restare qui, se si ha una
professione libera; fra pochi anni tutti i giovani che stanno studiando
in Libano, Irak, Egitto sostituiranno per diritto di cittadinanza gli
stranieri che per ora essi tollerano, avendone bisogno e non potendone
star senza. Sono preferite le dottoresse, per la tradizionale gelosia
degli uomini. Per ora vi è una dottoressa italiana nella sua Casa di
cura, una anziana inglese all’ospedale civile, alcuni medici tedeschi
bravi e qualche americano. Egli ha intenzione di andar via in
primavera. Gli Inglesi e gli Americani abitano volutamente separati
dagli Arabi, in luoghi scelti da loro, fuori città, e si riuniscono per
i pic-nic. Si spostano in auto per le compre presso la N.A.F.I. che è
un emporio per le famiglie dei militari, fornito dall’a alla z. Qui vi
è tendenza forte verso il comunismo da parte delle classi poverissime,
mancanti di assistenza sociale e diseredate dalla guerra. Queste non
avendo nulla da perdere vorrebbero tentare l’esperienza della zampa del
l’orso russo. Terminiamo la conversazione ricordando i nostri
concittadini, ormai sparsi qua e là per l’Italia e per il mondo. Il
dott. Prosdocimo dice che forse la città di Bengasi ha più palazzi di
prima perché è stata ricostruita ma non ha più l’aria ‘latina’; poi
l’illustre clinico si accomiata, è di turno nella sua Casa di cura. Mi
sovviene a tale definizione quella di uno studente di Karlsruhe: ‘molto
orientale’.
La sabbia del deserto fin sulle strade del centro, l’assenza di donne
arabe per le vie (costrette per tradizione ancestrale alla clausura),
gruppi di giovincelli in giro, i più anziani seduti nei caffè a
consumare il tempo fra interminabili tè e chiacchiere. Sì, è vero,
tutto ciò sa di orientale.
7 settembre 1957
Verso le 9,30 sono andata a bagnarmi. Il mare era limpidissimo e il
fondo senza alghe mostrava la sabbia bionda. Abbiamo ripreso alcune
immagini per le foto ricordo. La Mamma prima si è fatta pregare per
accompagnarmi; quando siamo giunte sulla spiaggia si è deliziata a
osservare il perfetto arco del porto, le barche a vela che filavano sul
mare spinte dalla brezza, gli uccelli che si gettavano in picchiata e
restavano sospesi a fior d'acqua finché non pescavano la preda
avvistata dall’alto. La Mamma ha finito col farsi pregare per tornare a
casa. È mezzanotte. Mentre scrivo, dalla finestra di questa stanza
sull’ex Viale Regina, vedo una buona parte della città di Bengasi; un
laghetto salato risplende con le sue bianche saline sotto
l’illuminazione elettrica, una luce verde e rossa indica il campo
d’aviazione. Ogni tanto passa qualche auto con la radio ad alto volume
e qualche carrozza; la notte è calda, qualche zanzara innocua dà
fastidio; nel cielo senza nubi le stelle vivide completano questo
quadro settembrino mediterraneo. Sento la voce di Kostaki, il
figlioletto di Sfairidios Ellen (altra coinquilina), che starà per
andare a nanna. Fra poco vi andrò anch’io.
11 settembre 1957
Verso le quindici siamo andati al bosco del Feuhiat. Gli alberi sono
diventati molto fitti e verdeggianti, le aiuole dei fiori sono ben
curate. Si possono ammirare scimmiette, leoni, zebre, elefanti,
pantere, gazzelle, giraffe, struzzi, sciacalli, uccelli rari. A nord
del bosco, ho visto l’accampamento militare inglese, il villaggio delle
famiglie militari inglesi, fatto di capannoni semicircolari e case
prefabbricate. Questo è ciò che gli Inglesi lasceranno agli Arabi in
cambio di boschi, città intere, autostrade, uliveti, frutteti, saline,
industrie conserviere, cantieri navali, palazzi Municipali e
Governativi, edifici scolastici, stazioni ferroviarie, caserme e chiese
ora adibiti a scuole, uffici ... Inglesi e Americani hanno una politica
completamente opposta a quella latina. Unico loro interesse è trovare
il petrolio per far concorrenza alle Nazioni Arabe Indipendenti.
12 settembre 1957
Mi è rimasta impressa una frase rivoltami da un avvocato libico: “Lei
deve portare dall’Italia una valigia piena di vestiti e una di sì”. Un
inquilino si vantava, dinanzi a questo avvocato, di aver aggiustato qui
e aggiustato lì. Gli ho fatto notare che se aveva aggiustato, aveva
anche goduto dell’immobile per alcuni anni, senza pagare l’affitto.
Avrei voluto rispondergli che “sì” lo dico quando è “sì”. Ma ho deciso
di non contrariarlo. In fondo al cuore non guariremo mai dai postumi di
quella terribile malattia che è stata per noi la guerra del 1940 e lo
sfollamento del 1941.
Di sera ho compiuto un giro con mia Madre. Proviamo gusto ad andare per
le vie perché conosciamo e amiamo i luoghi e gli angoli che ci
ricordano date e fatti particolari del nostro antico soggiorno quaggiù,
ma, nello stesso tempo, notiamo quella certa differenza di vita che dà
tono ad ogni cosa. Per esempio i nostri occhi non sono abituati a
vedere le auto lunghe, di marca non italiana, che scivolano
sull’asfalto silenziose e i rari gruppetti di uomini che altrettanto silenziosamente vanno.
16 settembre 1957
Oggi ho avuto una conversazione un po’ animata con l’amministratore del
Consolato il quale si dà l’aria del consigliere, del protettore degli
Italiani. Ogni volta che vado nel suo ufficio per necessità di tutelare
i miei interessi, mi ripete come dei ritornelli: “A ogni Italiano
consiglio di vendere; anche se compra una casetta in Italia è meglio
che avere un palazzo qui”. Lo chiamo, fra me, l’impiegato del Consolato
‘sconsolante’. Lui finge di non capire che ogni cosa svenduta è una
famiglia sul lastrico. Siccome gli ho detto che nel patrimonio di mio
Padre è inclusa la mia dote, sin da quando sono nata, con un tono
falsamente paterno ha esclamato che la mia avvenenza non ha bisogno di
quello che ha perduto mio Padre e non devo vedere il mondo in nero. Gli
ho risposto che ogni età ha le sue ansie e ormai lui ha superato
l’epoca delle ansie, della ricerca della sistemazione, oltre la quale
si ritorna a vedere tutto in rosa. Lui ha finto di non capire e mi ha
risposto che mi sbaglio, che lui ha ancora mete da raggiungere, campi
su cui lottare.
La signorina Moret (impiegata presso il Consolato) benevolmente ironica
ha completato: “La vetta dell’Himalaya da scalare”. Si dice che ripeta
quei ritornelli perché favorisce gli Arabi, arrotondando il suo
stipendio oltre che con la trasferta.
29 settembre 1957
La Mamma mi ha riferito che mentre non ero in casa è venuta una nostra
inquilina di Sidi Hussein. Si è meravigliata per quanti complimenti e
per quante osservazioni profonde è stata capace di esternare nei
riguardi dell’Italia e degli Italiani. Ricordava i nomi di medici, di
suore, di vicini di casa italiani e per ognuno esternava un bel
sentimento. Con quanta nostalgia, con quanto rimpianto parlava
dell’epoca in cui lavorava da infermiera all’ospedale. A quell’epoca
tutti avevano il lavoro. I ragazzi guadagnavano qualcosa portando la
spesa, i più grandi erano occupati nei cantieri edili, navali, nelle
officine meccaniche, nelle industrie. Se i bambini erano ammalati vi
era la previdenza sociale. Parlava con tono di rimprovero verso una
parte dei suoi concittadini,
dicendo che per colpa di questi adesso gli Italiani di prima non
ritornano, o se ne vengono e non restano; diceva che se loro non
avessero rubato o saccheggiato, se loro avessero custodito la roba di
quelli che furono costretti a fuggire a causa dell’invasione inglese e
alleata, a quest’ora Bengasi sarebbe più ridente, più movimentata, più
abitata di sedici anni fa. Gli Arabi di Bengasi vogliono gli Italiani
perché l’Italiano aiuta il popolo. Gli Arabi che hanno rubato non
vogliono gli Italiani del passato perché si vergognano di palesare
l’attuale loro ricchezza di origine poco chiara a chi sa bene la loro
precedente situazione economica. Nonostante ciò i nuovi ricchi
riconoscono i vantaggi che la Libia usufruiva dall’Amministrazione
Governativa dell’Italia, anche se non la vogliono più. I nuovi ricchi
vorrebbero una generazione nuova di Italiani i quali non siano in grado
di giudicare un passato sepolto con lo sfollamento prima e con la
svendita poi, lenta ma inesorabile, di tutti gli immobili. Infatti oggi
le proprietà italiane, sotto l’Amministrazione, si possono contare
sulla punta delle dita. Commuove sentire certe osservazioni profonde da
chi meno uno se lo aspetta. Così abbiamo concluso con la Mamma come la
riconoscenza non sia una pianta rara, come comunemente si dice.
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La Giuliana |
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