"Noi, quelli
della Quarta Sponda" |
CAPITOLO 21 |
IL RITORNO A TRIPOLI |
Trascorre così buona parte
del 1946, quando a mia madre
giunge all'orecchio la
notizia che da Siracusa
partono dei pescherecci che
trasportano clandestinamente
profughi in Libia.
Non ci vuole altro per
metterla in agitazione, ne
accenna per lettera a mio
padre, che la sconsiglia
vivamente dal compiere
quella che definisce “una
pazzia" per gli enormi
rischi che comporta; mette
in croce zio Oreste perché
stabilisca un contatto con i
padroni marittimi di
qualcuna di queste
imbarcazioni.
Il prezzo che viene
richiesto per la traversata
è altissimo, ma ciò non la
ferma. Mobilita tutte le sue
risorse economiche e prepara
un limitatissimo bagaglio
per il viaggio: è
assolutamente decisa e non
si farà fermare da nulla e
da nessuno. In una notte
senza luna ci imbarcammo,
dunque, al Porto Piccolo di
Siracusa su un
motopeschereccio stracarico
di donne e ragazzini. Era la
fine dell'estate e faceva
caldo. All'inizio il viaggio
procedette bene, ma, passato
Capo Passero, il mare
comincia ad ingrossare, la
barca è piccola e stracarica
di donne e bambini
spaventati. Dopo qualche
miglio in mare aperto il
Comandante decide di
rientrare, ci scarica su una
spiaggia deserta nei pressi
di Avola, al riparo di una
scogliera sotto la quale ci
raccomanda di nasconderci;
nel frattempo egli si
recherà a Siracusa a
rifornirsi di carburante e
di pane e tornerà a
riprenderci la notte
successiva. Trascorriamo il
giorno seguente su quella
spiaggia senza riparo, quasi
ustionati dal sole cocente.
Quando scende la sera il
peschereccio si ripresenta
all'appuntamento, ci imbarca
nuovamente e ripartiamo per
un nuovo tentativo di
traversata. Ma, anche questa
volta, troviamo mare avverso,
grosse ondate investono il
piccolo battello che
minaccia di affondare. Siamo
impauriti dal pericolo
incombente, e ancora una
volta siamo costretti a
tornare indietro.
Il giorno successivo siamo
di nuovo nascosti su quella
spiaggia in attesa che, col
calar della notte, il
peschereccio torni a
riprenderci. Al terzo
tentativo non riusciamo
nemmeno a superare Capo
Passero: il mare è sempre
più cattivo, la gente a
bordo è terrorizzata, molti
si sentono male e vomitano.
Il Comandante del
peschereccio, questa volta,
si rende conto che non potrà
mai farcela con quel carico
umano, che i rischi di un
naufragio sono troppo grandi
e che ha sulle spalle la
responsabilità della vita di
troppi esseri umani. Perciò
ci restituisce il denaro
pagato.
Avvertiamo in qualche modo
zio Oreste della nostra
disavventura, e, mestamente,
ce ne torniamo ad Augusta.
***
Ma ci sarebbe voluto ben
altro per fermare una donna
dal carattere forte e deciso
come quello di mia madre.
Passò un altro mese alla
ricerca di un mezzo più
idoneo al viaggio che, ormai
era deciso, avremmo comunque
intrapreso. E mia madre
riuscì a trovarlo, tramite
conoscenti bengasini
residenti da tempo a
Siracusa. Si trattava,
questa volta, di un
motopeschereccio d'alto mare
che doveva recarsi in
Tunisia a caricare legname e
che avrebbe volentieri
trasportato in Libia dei
profughi clandestini per
rifarsi delle spese del
viaggio d’andata a vuoto.
Sembrava che finalmente le
cose si fossero messe per il
verso giusto: ci recammo a
Siracusa il giorno
precedente a quello fissato
per l'imbarco ed alloggiammo,
per una notte, in casa di
quegli stessi conoscenti
bengasini che ci avevano
aiutati nella ricerca
dell’imbarcazione adatta.
Nel tardo pomeriggio del
giorno successivo,
cautamente ci imbarcammo
insieme a numerose altre
famiglie e, al calar della
sera, a luci spente ma col
favore di una splendida luna,
salpammo per la nuova
avventura. Il mare questa
volta era calmissimo; la
barca, grande e sicura,
consentiva di muoversi a
bordo con relativa
tranquillità, e l'equipaggio
era composto da persone
cortesi che facevano del
loro meglio per alleviare il
nostro disagio. Il viaggio,
insomma, si svolse in modo
tale che la precedente
esperienza non avrebbe
neppure lasciato sperare.
All'imbrunire del secondo
giorno intravvedemmo
all'orizzonte, ancora molto
lontana, la costa africana.
Costeggiammo per un po' sino
a notte fonda, poi il
Comandante, che non voleva
correre il rischio di essere
intercettato da qualche
motovedetta inglese, decise
che era l'ora di sbarcarci.
Erano le 23.00, e dopo quasi
cinque anni di dolore, di
fame e privazioni di ogni
genere, di fughe, di
speranze e di disillusioni,
stavamo per appoggiare
nuovamente i nostri piedi su
quella terra dove molti di
noi erano nati e dove
avevamo lasciato le nostre
radici.
I fondali della Libia,
almeno in quel tratto di
mare, sono sabbiosi e si
estendono bassissimi fino al
largo: fu giocoforza
scendere in mare con l'acqua
alla vita, tenendoci per
mano per sostenerci l'un
l'altro, cercando di
mantenere all’asciutto le
nostre povere cose, ma la
certezza di essere tornati a
casa ci dava la forza di
avanzare verso la riva come
una lunga, dolente, eppur
felice catena umana.
Giungemmo, infine, sul
litorale, sulla sabbia
bianca e pulita e asciutta
che ci era così familiare
nei nostri ricordi, e lì ci
raggruppammo, al riparo
della scarpata della strada
costiera che correva più in
alto, famiglia per famiglia,
in silenzio, un po' per
timore di essere scoperti,
un po' per vivere, quasi
religiosamente, l'emozione
di quel ritorno.
***
Dovemmo affrontare subito un
primo problema: sapevamo,
per notizie pervenute dai
clandestini che ci avevano
preceduti nel ritorno, che
non appena il nostro arrivo
fosse stato scoperto e
segnalato alle Autorità
militari inglesi, le donne
ed i ragazzi più giovani
sarebbero stati tradotti in
un campo di concentramento,
dove, dopo un processo
sommario ed il pagamento di
una ammenda, sarebbero stati
rilasciati, liberi di
tornare alle proprie
famiglie. Non così per i
giovani di età superiore ai
16 anni e per gli uomini,
per i quali era prevista
l'immediata espulsione ed il
rimpatrio. Io avevo proprio
quell'età e non ero il solo
in quelle condizioni.
Pertanto, considerando che
il rischio che avremmo corso
se ci avessero scoperti era
troppo grande, decidemmo, in
tre, di tentare di
raggiungere Tripoli a piedi,
nascondendoci lungo la
strada, per sfuggire alla
cattura. Era circa la
mezzanotte, e dalla pietra
miliare sulla via Balbia
apprendemmo che il luogo
dello sbarco distava da
Tripoli 47 chilometri.
Valutammo che avremmo potuto
farcela prima dell’alba del
giorno successivo se
avessimo camminato di buona
lena per tutta la notte. Ma
non c’era un minuto da
perdere: un rapido bacio
alla mamma in lacrime per
l'apprensione, un saluto ai
fratelli, e via! per la
nuova avventura, poiché ogni
ulteriore ritardo avrebbe
aumentato il pericolo di
essere scoperti e catturati.
***
Li avevo conosciuti durante
la traversata del
Mediterraneo, ed erano due
bravi ragazzi che, in quegli
anni, avevano vissuto vite
diverse dalla mia, ma
ugualmente avventurose. Ci
accordammo sul passo da
tenere, sulle soste - in
ogni caso brevissime - che
avremmo effettuato per
riposare un po’ lungo il
tragitto, e sui relativi
turni di sorveglianza. Poi
risalimmo la scarpata che
terminava là dove correva la
strada costiera e ci
allontanammo di buon passo.
Eravamo, come ho detto,
verso la fine dell'estate,
il clima durante il giorno
era ancora molto caldo ma,
nel deserto, la temperatura
scende rapidamente e
moltissimo, anche sotto lo
zero durante la notte,
perché la sabbia arroventata
dal sole restituisce subito
all'aria il suo calore;
inoltre, avevamo soltanto
vestiti leggeri - camiciola
e pantaloni corti - per di
più inzuppati d'acqua di
mare per l'imprevisto bagno
notturno, e sandali
sahariani. Ma eravamo
giovani e l'ora che stavamo
vivendo ci esaltava: stavamo
compiendo un'impresa "da
grandi", contro nemici
indistinti, ma comunque
pericolosi. Camminammo per
ore sulla strada deserta,
nascondendoci ai margini
quando in lontananza il
rombo di un motore ci
preavvertiva del passaggio
di qualche automezzo.
Attraversammo, anzi
superammo con ampie
deviazioni, accampamenti di
tende che a noi parvero
militari ma che,
probabilmente, erano di
beduini. Fummo seguiti per
lunghi tratti da cani
latranti che eravamo
costretti a mettere in fuga
a pietrate. Il freddo
pungente della notte
cominciò a farsi sentire, i
piedi cominciarono ad
escoriarsi ed a sanguinare,
tanto che, da un certo punto
in poi, fummo costretti a
camminare scalzi per
alleviare il dolore.
Sostammo, di tanto in tanto,
per un breve riposo,
vegliando a turno sui
compagni. Ero, dei tre, il
più giovane, ma anche il più
magro (scherzavamo sul fatto
che i cani randagi mi
avrebbero certamente
risparmiato) ma, nel
contempo, il più carico di
energia nervosa, il che mi
consentiva di risentire meno
degli altri la fatica.
Verso le 6 del mattino
giungemmo finalmente nei
pressi dell'Ospedale Civile
di Tripoli, alla periferia
della città. Qui incrociammo
un furgoncino che
trasportava bidoni di latte,
guidato da uno dei fratelli
proprietari della famosa
latteria italiana Girus di
Tripoli. Gli bastò uno
sguardo per rendersi conto
della situazione, si arrestò
qualche metro più avanti,
con un gesto ci fece segno
di salire sul cassone, ci
coprì con un telo e ci
trasportò in città. Durante
il breve tragitto ci chiese
i nostri nomi, quali parenti
avessimo a Tripoli e dove
preferivamo essere
accompagnati. Convenimmo di
farci condurre a casa dello
zio di uno dei miei compagni
di avventura (mi pare che
fosse un ex-Ufficiale della
Milizia) che abitava in
Corso Sicilia, al quale
avremmo affidato l'incarico
di avvertire del nostro
arrivo i rispettivi
familiari.
Io aspetto mio padre, giù
nel porticato. Lo vedo da
lontano venirmi incontro,
con passo svelto che cerca
inutilmente di rallentare.
Lo attendo immobile,
incapace di muovere un passo,
non so se per la stanchezza,
per i piedi piagati, o per
l'emozione. A pochi passi di
distanza mi dice: "Sta'
fermo, Ugo, non tremare, non
tremare…".
Ma è lui, mio padre, che
trema come una foglia, e non
se ne accorge neppure.
***
Mi prese per mano, senza
abbracciarmi, senza far
trasparire alcuna emozione:
chiamò una carrozza sulla
quale mi fece salire, e lui
con me, imponendomi con un
gesto di tacere temendo che
il vetturino arabo potesse
ascoltare le mie risposte
alle domande che avrebbe
voluto farmi.
Mi condusse dapprima alla
Cassa di Risparmio, nel suo
ufficio, dove, finalmente,
potemmo riabbracciarci e
dove lo misi rapidamente al
corrente della situazione
nella quale si trovavano mia
madre ed i miei fratelli.
Subito dopo mi accompagnò
alla casa di via Cesare, al
n° 7, che condivideva con il
collega e amico di sempre,
il signor Mariano De Leo,
mio padrino di Cresima a
Bengasi. Giunti a
destinazione mi affidò alle
cure di Rachele, una donna
ebrea incaricata delle
pulizie di casa, affinché
potessi lavarmi e riposare.
Poi se ne andò di fretta
raccomandandomi di non
muovermi assolutamente e di
dormire per recuperare un po’
di forze.
Si erano fatte, all'incirca,
le nove del mattino quando
mio padre, accompagnato da
un collega, con un automezzo
di fortuna poté recarsi sul
luogo del nostro sbarco
nella speranza di essere
ancora in tempo per
riabbracciare e recuperare
il resto della famiglia.
Quando arrivò sul posto,
però, non trovò più nessuno:
i clandestini, denunciati da
qualche arabo, erano stati
già individuati e, con le
camionette della Military
Police, tradotti nel campo
di concentramento istituito
presso il Carcere di Porta
Azizia.
Tornato immediatamente
indietro si recò al campo di
raccolta dove poté
riconoscere, attraverso il
reticolato di filo spinato
che circondava il campo, mia
madre ed i miei fratelli.
Io, nel frattempo, ero
crollato in un sonno di
piombo.
*******
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Banca Agricola Popolare di
Ragusa.
Il libro è stato stampato presso le
officine grafiche Arcoiris Multimedia di
Salerno di proprietà di Stizzoli, erede
della famosa Cartolibreria di Tripoli
Onestinghel di Corso Sicilia che tutti i
tripolini sicuramente ricordano.