CAPITOLO
III
Ricordi
e
Peripezie
di
un
Tripolino
Fuga
da
Tripoli
Il
presente
racconto
va
inserito
subito
dopo
lo
scoppio
delle
navi
Birmania
e
Città
di
Bari,
che
hanno
distrutto,
al
porto,
nel
1941
il
bar
di
proprietà
della
mia
famiglia.
Io
allora
ero
diciottenne;
mio
padre,
già
grande,
a
causa
di
quel
bombardamento,
è
rimasto
senza
lavoro.
Noi,
stanchi
di
tutto
quello
che
avevamo
passato,
volevamo
allontanarci
dalla
guerra,
che
specialmente
al
porto
era
stata
particolarmente
dura.
Dato
che
i
miei
genitori
erano
siciliani,
scegliemmo
la
Sicilia
come
luogo
tranquillo,
in
cui
la
guerra
non
sarebbe
arrivata,
così
credevamo.
Lasciavamo
Tripoli
con
dolore,
anche
perché
una
mia
sorella
si
era
sposata
e
voleva
restare;
due
miei
fratelli,
uno
del
14
e
uno
del
20,
erano
sotto
le
armi
e
combattevano
sui
fronti
libici.
Prefettura
e
Questura
ci
fornirono
tutti
i
documenti
necessari
e
il
15
ottobre
del
1941
fummo
pronti
a
partire.
I
nostri
familiari,
restanti,
ci
accompagnarono
fino
alla
casa
Littoria,
nei
pressi
del
lungomare,
e
lì
con
dei
pullman
già
pronti,
siamo
partiti
per
l’aeroporto
di
Castel
Benito.
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Il trimotore,
Bianchi
SM79 |
L’unico
mezzo
di
trasporto
disponibile
era
un
aereo
militare,
un
trimotore,
Bianchi
SM79,
in
nostra
attesa,
da
poco
arrivato
portando
dall’Italia
soldati
e
rifornimenti.
Salimmo
con
un
gruppo
formato
tutto
da
donne
e
bambini,
gli
unici
uomini
eravamo
mio
padre,
poco
più
che
cinquantenne
ed
io
diciottenne.
L’equipaggio
era
formato
dal
pilota
e
da
un
aviere
che
fungeva
da
mitragliere.
Le
mitraglie
erano
tre,
una
al
centro,
che
fuoriusciva
dalla
torretta
ed
era
azionata
dall’aviere
che,
seduto
su
un
sediolo
rotante,
poteva
sparare
in
tutte
le
direzioni;
le
altre
due
erano
posizionate
nei
due
fianchi.
Quando
l’aviere
capì
che
l’unico
uomo
disponibile
a
sparare
ero
io,
cominciò
in
fretta
e
furia
ad
istruirmi
sul
funzionamento
dell’arma
in
caso
di
necessità,
raccomandandomi
di
non
sparare
verso
la
coda
dell’aereo,
né
verso
l’ala,
ma
solo
in
linea
diritta,
al
resto
avrebbe
pensato
lui.
Il
mio
battesimo
di
volo
è
avvenuto
così,
in
una
situazione
drammatica.
Lasciando
la
terra
ferma,
avevamo
davanti
solo
mare
e
cielo;
all’altezza
di
Malta,
base
inglese,
il
pilota
fece
segno
all’aviere
di
stare
all’erta,
e
lui
si
piazzò
alla
mitraglia
centrale,
assegnandomi
quella
di
destra.
Eravamo
tutti
paralizzati
dal
terrore,
le
donne
pregavano
e
io,
con
l’arma
in
mano,
cercavo
di
bucare
le
nuvole
con
gli
occhi
alla
ricerca
del
nemico.
Per
fortuna,
quel
momento interminabile passò senza incidenti e
guardando
giù
ecco
improvvisamente
la
Sicilia,
che
vedevo
per
la
prima
volta,
non
piatta
come
l’Africa,
ma
con
le
sue
montagne,
che
io
vedevo
storte,
dato
che
l’aereo
stava
virando
per
atterrare.
Prima
di
toccare
terra
l’aviere
rientrò
le
mitraglie,
chiudendo
gli
sportelli;
eravamo
a
Castelvetrano,
ma
prima
di
scendere,
ringraziammo
il
pilota
per
la
sua
bravura
ed
io
abbracciai
l’aviere,
di
cui
mi
consideravo
un
collega.
Quei
bravi
ragazzi
non
li
ho
più
visti,
chissà
che
fine
avranno
fatto.
Arrivo
in
Sicilia
Era
il
15
ottobre
1941.
Scesi,
ci
siamo
inginocchiati
ed
io
ho
baciato
per
la
prima
volta
il
suolo
italiano,
terra
che
osservavo
con
grande
meraviglia,
nel
vederne
il
colore
diverso
da
quello
di
Tripoli
e
nel
toccarne
la
solidità
diversa
dalla
sabbia.
Negli
uffici
municipali
di
Castelvetrano,
ci
hanno
registrato
come
profughi
e
accompagnati
alla
stazione
sul
treno
per
Agrigento.
Anche
questa
esperienza
è
stata
una
novità,
per
il
mezzo
sul
quale
non
avevo
mai
viaggiato
e
per
il
paesaggio
che
continuava
a
sorprendermi.
Arrivati
a
Castrofilippo,
siamo
stati
accolti
dalla
famiglia
di
mia
mamma,
che
ci
ha
messo
a
disposizione
una
casa.
Prima
che
finisse
il
1941,
mi
impiegai
al
Comune,
come
responsabile
dell’ufficio
Anagrafe
bestiame,
in
cui
venivano
registrati
tutti
gli
animali
da
lavoro
del
paese
e
forniti
di
carta
d’identità,
che
doveva
essere
mostrata,
in
un
eventuale
controllo
da
parte
dei
carabinieri,
anche
per
strada.
La
mia
competenza
comprendeva
anche
la
leva
militare
per
i
muli,
che,
quando
occorreva,
potevano
essere
requisiti
dall’esercito.
Quando
era
necessario,
arrivava
una
commissione
di
ufficiali
veterinari,
per
visitare
i
muli,
che,
se
venivano
dichiarati
abili,
potevano
essere
requisiti
e
utilizzati
in
guerra
.
La
popolazione
veniva
avvisata
dell’arrivo
della
commissione,
alcuni
giorni
prima,
da
un
banditore
con
un
tamburo.
Questa
requisizione
era
obbligatoria,
nessuno
poteva
esimersi;
anche
se
veniva
pagata
a
prezzi
stabiliti
dal
governo,
il
contadino
veniva
privato
del
suo
mezzo
di
lavoro
a
cui
era
molto
affezionato.
A
causa
della
guerra
e
quindi
della
mancanza
di
personale
maschile,
facevano
parte
del
numero
degli
impiegati
anche
le
donne.
Una
di
queste
faceva
la
dattilografa,
si
chiamava
Concettina,
e
dato
che
esisteva
una
sola
macchina
da
scrivere,
tutti
ci
rivolgevamo
a
lei
ed
io
in
modo
particolare.
Chiamata
alle
armi
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In
attesa della
chiamata alle armi |
Il
sabato pomeriggio, detto
sabato fascista,
era destinato
alle esercitazioni militari, che avvenivano
in un
grande piazzale,
dove
noi giovani, in attesa
della chiamata alle armi, ci addestravamo.
Un
giorno fui chiamato
dal Federale, che mi
propose di partecipare
ad
un
corso
a
Roma
per
l’attestato di “Primo Cadetto”,
che sarebbe
durato un
mese. Accettai con entusiasmo,
desideroso
di conoscere la
Capitale e
partii
con
altri
“fortunati”.
Alla
stazione
di Roma ci accolse
un gerarca, che prima di accompagnarci al campo di Monte Mario, ci avvertì che lì dentro
si
faceva
sul
serio
e
che,
se
qualcuno
voleva ritirarsi,
era meglio lo facesse subito. Quel mese è
stato
sfiancante
per
la
severità
della
disciplina
e
della ginnastica, ma anche per la
mancanza di una
adeguata alimentazione.
Alla
fine
sono
venuti
alcuni
osservatori
dalla
Germania, Giappone
e
Spagna ad
ammirare
la
nostra sfilata a
passo
romano
di
parata.
Tornato a
casa, con l’attestato di “Primo Cadetto”,
sono stato nominato
istruttore
premilitare e
con me i giovani
hanno
provato
la
vera ginnastica.
A gennaio
del
1943,
fui
chiamato
alle
armi e
assegnato
al
6°
reggimento
di
fanteria
della
divisione
Aosta,
posta
fra
Palermo
e Trapani, in difesa della
costa
nord-occidentale;
in
vista di un eventuale sbarco nemico, ci esercitavamo alle armi e
ai combattimenti.
Tutto ciò durò
fino al
10 luglio
1943, data
del
vero
sbarco, che
avvenne
invece nelle
coste
a sud dell’isola, lontano
dalla nostra
posizione. Quindi
io non mi trovai subito ad
affrontare
il nemico appena
sbarcato,
ma la
mia
divisione
si
scontrò
dopo pochi giorni con le truppe americane, che risalivano
dal
sud,
mentre
noi dai dintorni di
Palermo andavamo
verso il centro
della Sicilia, a Nicosia,
in provincia di Enna,
dove
ho avuto il
battesimo del fuoco, per tentare
di
fermarli. Ma
questa
era
pura
illusione,
perché
nelle
grandi battaglie
che abbiamo
sostenuto
nei pressi di Troina,
parte dei nostri reparti
furono sconfitti o presi prigionieri o riuscirono a risalire lo stretto di Messina.
Io
mi trovai nel mezzo
di una grande ritirata disordinata,
che
ci
portò
fino
a
Troina,
tenendo
questa
nuova posizione
per cinque giorni.
Sembrava
che gli
americani
avessero
premura,
agguerriti
sempre
più,
facevano ripetuti attacchi
terrestri
e aerei; in uno
di questi,
alcuni gruppi caddero
prigionieri, tra quei soldati, c’ero io.
Era
il 5
agosto
1943.
Leggendo
oggi
i
libri
di
storia
a
questo
proposito, il generale
Bradley,
comandante
del 2°
corpo di
Armata
americano,
ebbe a
dire che a
Troina
fu
combattuta
la più
impegnativa
e sanguinosa
battaglia
che
gli Americani
sostennero
durante
l’intera
campagna
di
Sicilia. La mia prigionia durò
pochi giorni, perché
gli Americani, che
esaminavano
la
situazione
e la provenienza di
ogni
prigioniero, si
accorsero
che
provenivo da una zona già da loro conquistata
e,
senza perdere tempo, per non dover portare
appresso il peso
di
questi
prigionieri,
firmarono
un
documento dove risultavo
prigioniero sulla parola e
in cui mi
impegnavo sul
mio
onore, a
non
prendere
più le armi
contro
gli anglo-americani; con esso dovevo presentarmi,
giunto
in paese, al Comando che ormai era nelle loro mani. Aperti i
cancelli
del
campo
solo per i
fortunati
come
me,
che
abitavano a sud, mi avviai verso casa, che distava
da lì circa 200 chilometri, che percorsi un po’ a piedi e un po’
su carretti
di passaggio, guidati
da carrettieri mossi a compassione
del
mio aspetto
estenuato, ma
che
mi
davano
un po’ di respiro.
Ritorno
a
Tripoli
Arrivato
a casa
e
dopo
un
periodo
di
riposo,
tornai
a lavorare
all’ufficio Anagrafe
bestiame,
dove
incontrai
i vecchi colleghi
e quella dattilografa, che mi aveva
colpito
in
precedenza,
tanto
che
ci
fidanzammo
e
poi
ci
sposammo, in un giorno particolare, il 29 aprile 1945. Quel
giorno,
era domenica,
suonarono
le
campane
a festa, credevamo
che fossero
per noi, invece
sapemmo che era finita
la guerra
e
che l’Italia era libera,
ma
nel
nostro piccolo paese, questa grande notizia era arrivata con quattro giorni di ritardo.
Nei giorni che seguirono il matrimonio, la mia mente e quella dei miei genitori
era
rivolta di
nuovo verso
quella
Tripoli,
che eravamo
stati
costretti
a
lasciare,
anche
perché
vi
abitavano
un
fratello,
ormai
tornato
dalla
prigionia
e
una
sorella sposata. Ma
questa
volta
Tripoli non era più
italiana
e ancora
non
c’erano
servizi
di
linea.
Data
la
voglia
di rientrare
della mia famiglia, alla
quale si era unita
anche
la
mia giovane
sposa,
cercammo
un
traghettatore
o come
si
direbbe
oggi,
uno
scafista.
Lo
trovammo
a Siracusa,
al porto.
Lui prendeva tempo, perché
non si fidava,
ma
poi
acconsentì
e
raccolse
settanta
persone
che
dovevano
attraversare
il
Mediterraneo
in
moto- peschereccio, ma questa volta partendo dalla
Sicilia.
Il viaggio
fu un’altra avventura, prima per raggiungere a gruppetti con piccole barche il natante che aspettava al largo
e
poi
per
affrontare
due
notti
e due
giorni
di navigazione.
Tutti
i
movimenti
dell’imbarco
sono
avvenuti
di sera
tardi,
per
evitare
i
controlli;
il
motore
era una Isotta Fraschini, aveva un
bel rombo e presto
ci siamo trovati
in
alto
mare.
Per
fortuna
era
estate
e il mare
era calmo, ma attorno a noi c’era solo mare, sole e il buio
della notte. Dovevamo
avere pazienza e pregare. Fattosi
giorno, i
marinai
ci invitarono
a fare silenzio e restare
chini
e
coricati
sul
fondo,
perché
eravamo
nei
pressi di Malta
ed era prudente
non farsi vedere. Dopo un
altro
giorno di navigazione, venuta la sera, i marinai ci avvisarono
che non
mancava molto,
infatti dopo un paio
d’ore
vedemmo
delle
luci
e
finalmente
la terra.
Il motore venne messo al minimo, ora la barca si
muoveva appena. Il capo dei tre marinai col binocolo osservava
la
terra
vicina
a
quelle
luci,
era
quello
il
punto
dello sbarco;
eravamo
davanti
ad
una spiaggia,
il
lido
di Tripoli, come dire, davanti casa. In precedenza
avevamo
osservato
un
passeggero
che
parlottava
con
il
capo barca,
all’arrivo
capimmo
che
era
un
familiare
dei proprietari
del
lido,
dove
in
quel
momento
si
stava
svolgendo una serata danzante. Aspettammo
in
silenzio la fine della
festa e
poi fu messa
in acqua una
piccola
barca,
dove
presero posto
il
nostro
compagno
con
un marinaio.
Dopo circa mezz’ora
ecco arrivare
due grosse barche, i
cui rematori erano
arabi, i
quali, nella gioia
di vedere
il
loro
padrone,
si prodigarono,
con
parecchi
viaggi, a
portarci a terra. I
marinai rimasti a
bordo, nel
salutarci
ci chiesero di non buttare il cibo che ci era
avanzato,
perché
poteva
servire
a
loro
nel viaggio
di
ritorno.
L’ Isotta
Fraschini si rimise in moto e
prima che
noi toccassimo
terra, era scomparsa. Ci siamo calati
scalzi sul bagnasciuga,
toccando terra. Gli Albanesi nel 2000 e
poi gli
Africani
hanno
copiato
da
noi.
La
famiglia
del
nostro compagno di viaggio
è stata gentile, nel
suggerirci
come non farci trovare dalla polizia,
altrimenti
c’era
l’arresto e il rimpatrio. Come
Dio volle raggiungemmo
la nostra casa, riabbracciando i
nostri familiari increduli.
Permanenza a Tripoli
Così ritrovammo
le nostre
abitudini,
amicizie,
luoghi
che
avevamo
lasciato
ma non
dimenticato, mentre
per
mia
moglie
tutto
era
nuovo
e
veniva
conquistata
dalle bellezze
della città, di cui le avevamo tanto parlato e che
lei stava provando e
assaporando. Non persi tempo
per
cercarmi un lavoro; anche se, essendo arrivato
clandestinamente, ero sprovvisto di documenti,
mi presentai
agli uffici delle officine P.W.D.
e trovai
due
persone che discutevano, poi seppi che erano lo Staff
Watson
, seduto alla scrivania ,
e Vittorio
Malinconico, il
capo officina.
Alla mia
richiesta di lavoro, lo
Staff
rispose affermativamente,
chiedendo il
mio nome
e
un
documento.
Gli
dissi il nome, facendo
finta di
cercare
il documento,
che sapevo di non avere;
nello stesso
tempo, contando su quell’altro
signore, Malinconico,
che mi ispirava
un’istintiva
fiducia,
senza
essere visto
dall’inglese, gli feci un
gesto significativo
con la mano e lui capendo al
volo, assicurò lo
Staff
che si sarebbe
occupato della questione.
Lo Staff
si allontanò,
raccomandandomi di tornare l’indomani, puntuale
al lavoro
con i
documenti.
Rimasti
soli,
il
mio salvatore
mi chiese
se ero arrivato
con le barche, e
capita la situazione, mi assicurò
che lì mi sarei trovato
in
buone
mani
e potevo
stare tranquillo. Per merito suo ho fatto
la mia carriera di operaio
meccanico, anzi
posso dire
che
diventai
il
suo beniamino,
perché per qualunque problema si
rivolgeva a
me.
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Gruppo
lavorativo del
P.W.D. - Natale 1952 |
Un’ altra persona
che mi stimava molto,
era
il
maggiore
inglese, che comandava tutte
le officine collegate ed aveva il
suo ufficio in corso Sicilia,
al Palazzo
del Governo.
Ogni tanto
veniva
ad
ispezionare
i
reparti
con
la
sua
macchina privata,
una Hillmann. Mentre
si fermava
per
le ispezioni, voleva che gli controllassi la macchina,
ed io cercavo
di farlo contento.
Una volta, invece, telefonò
a Malinconico,
chiedendo
che
lo
raggiungessi
al
suo ufficio. Arrivato
lì, tutto emozionato e
non sapendo
cosa voleva il
maggiore
da
me,
mi
vidi
consegnare
le
chiavi
della sua
macchina,
che
doveva servire per portare
in giro
la moglie, ma ad una condizione, che non la
facessi assolutamente
guidare.
A
casa,
trovai già
pronta
la signora che, uscendo, si avviò verso il posto di guida.
Io fui
più
svelto
di
lei,
le
aprii
lo sportello
di
dietro
e
mi infilai al
posto di guida. Volle
essere portata ai
magazzini generali inglesi, e,
all’uscita,
risalendo in
macchina, cominciò
a
fare
conversazione, mentre
io
la
osservavo
dallo specchietto retrovisore. Poi sorridendo mi chiese
di guidare ed
io, altrettanto
sorridendo le risposi di no.
Al che lei domandò se era suo marito
che me lo aveva raccomandato
e, alla mia risposta affermativa, smise
di insistere.
Questa
fu
la
prima
delle
tante
uscite
in
macchina che facemmo insieme.
Ormai
i
soldati
inglesi, di
turno
all’entrata, mi conoscevano e
mi facevano entrare
senza problemi.
Nelle
successive
uscite,
ogni
tanto
tornava
a
chiedere
di guidare,
ed io alla
fine,
persi la
mia
fermezza,
concedendole
il
posto
di
guida
e sedendole
accanto. Capii subito il motivo dei divieti del maggiore, la
signora era
una
spericolata
ed
io temevo
per
tutti
e
due. Le chiesi cosa sarebbe successo se il marito fosse venuto a saperlo
e candidamente mi rispose che non sarebbe
stata certo lei a
dirglielo.
Da
quella
volta
ha
guidato sempre
lei.
Ad
agosto del 1948,
la
mia
famiglia
aumentò,
nacque una
bambina, in via Raffaello
n.
31.
Tutto
era
andato
bene, ma
dopo una settimana
mia moglie ebbe
delle
complicazioni; chiamai il primario del reparto
chirurgia,
professor
Regoli, che la fece
immediatamente ricoverare. Ora
dovevo tutti
i giorni
recarmi in
ospedale
e rispuntava
quel problema, che ancora
non avevo
risolto, la
mancanza
di
documenti.
Anche
se
avevo
“amici”
inglesi, non avevo
osato ancora sollevare questo
argomento,
forse
sbagliando,
temendo
di
perdere
il
lavoro. Avevo un grande amico francescano,
padre Illuminato Colombo, che proteggeva ed aiutava chiunque avesse bisogno. Mi rivolsi a
lui,
raccontandogli
le mie vicissitudini e
quali
conoscenze avessi sul
lavoro. Lui
contattò
il
maggiore
inglese,
che
comandava
in polizia
e,
dopo
una
settimana,
fui
convocato.
Seppi,
dopo,
che erano state
chieste informazioni su
di me al capo del P.W.D.,
proprio quel maggiore, che si fidava
di me, affidandomi la macchina con la moglie. Il
capo
della
polizia, infatti,
mi confermò che la mia situazione
si era
sbloccata
proprio
grazie
a
lui,
che aveva
garantito
per me. Con il tanto sospirato documento, mi recai al
lavoro e
venni a
sapere
da
Malinconico che
il
maggiore
mi
voleva al
Palazzo
del Governo; quando arrivai,
mi
chiese se avevo sistemato tutto
ed io
sorridendo, gli mostrai
il documento,
che dovevo a
lui. Per
ringraziarlo,
nell’andarmene scattai sull’attenti,
battendo i
tacchi,
riconoscendo la sua superiorità e
magnanimità.
Ho già raccontato
tutto
quello che ho vissuto in guerra e
nella Tripoli degli anni
del dopoguerra, quando
ormai
la città non
era più
italiana
ed
erano
entrati
gli
inglesi; tanto
che io
lavoravo,
come ho
già
detto,
per
loro al P.W.D. Proprio in quel luogo ho conosciuto
per caso,
il signor Tullio Mantovani, che
aveva la
sua officina in sciara Bu Harida. E’ venuto in visita al P.W.D. e
assieme
al capo
Malinconico
ha fatto il giro tra
i
reparti.
Quel giorno
io ero intento ad un lavoro di alta
precisione,
collocare il bareno in un
basamento di motore per
la barenatura
e l’adattamento
delle bronzine
di banco di un
motore a
sei cilindri, che stavo mettendo a
nuovo.
L’ospite,
che
era
un
esperto nel
campo, rimase
colpito da quello
che stavo
facendo,
tanto che,
nell’andarsene, mi invitò a
visitare la sua officina; poi, quando lo feci,
mi
propose di fare
dello straordinario da lui, fuori dalle
mie ore di lavoro. Accettai,
anche per arrotondare
le entrate.
La sua officina
aveva
reparti di torneria, di
motori
industriali, saldature
elettriche e
autogene
con forno
di raffreddamento.
Fuori
,
un
vasto
cortile
conteneva
rottami ferrosi di qualsiasi tipo
e forma, che
venivano
recuperati
da
varie
zone
e
servivano
a
creare
pezzi
nuovi, dato che non arrivavano
più i
pezzi originali di
ricambio dalle
fabbriche
italiane. Nella sua officina
era
iniziata
anche
la
costruzione
di
grosse
presse,
che dovevano
servire
ad
eliminare
laminati
leggeri,
filo spinato
, residuati
di guerra
di tutte
le battaglie
che
si erano svolte in Libia. Questo lavoro gli era
stato commissionato dalla
ditta Citexco.
Nello straordinario
che facevo da
lui, imparai
il
loro
funzionamento
nei minimi
particolari.
I primi anni cinquanta videro la partenza
degli
inglesi
da Tripoli e anche la mia uscita dal P.W.D. Un altro lavoro già
l’avevo, però
il
P.W.D.
mi
aveva
formato
come
operaio,
avevo
conosciuto
persone
degne di ogni rispetto,
dallo staff
Watson , al
maggiore
a cui dovevo i miei sudati
documenti e
che mi aveva onorato della
sua amicizia
e
soprattutto
Vittorio
Malinconico,
che
non potrò
mai dimenticare
per la
stima vicendevole
che
avevamo
l’uno per l’altro.
Con
la
fine di questo lavoro, fui assunto dall’officina
meccanica Mantovani, arrivando
proprio nel momento della istallazione delle presse
della
Citexco,
dove
lui
mi mandò.
Ora
si
apriva
un
altro capitolo
della
mia
vita,
salivo
di
grado,
perché
alla Citexco avevo i
diritti dovuti
a tutti
i lavoratori
regolari,
compresa l’assistenza per me e
la mia famiglia.
Fui
assegnato
al
funzionamento
delle
presse.
La
mano d’opera
era
tutta
araba,
io
solo
ero
italiano.
In
un quadrato di raccolta, infisso nel terreno, venivano
gettati e
sistemati
dagli
arabi,
vari
pezzi
di
ferro
e
altro materiale ferroso; quando
il quadrato
si riempiva,
veniva
chiuso con
uno sportello rinforzato
da
grosse barre
di
ferro. Io avevo il compito di azionare dei sollevatori,
che, con una pressione di 200 atmosfere, spingevano
una grossa
piastra
all’interno
della
pressa
e
tutto
quel materiale diventava una balla quadrata,
che
all’apertura
dello
sportello
con
grosse
mazze,
veniva
sollevata
a mano
da
un
arabo,
dall’aspetto
di
un
ercole,
di nome Slim.
Questo
lavoro durò
circa
un
anno e
mezzo
e
alla
fine tornai
alle officine
Mantovani,
addetto
ai
motori industriali. Slim mi si era molto affezionato e mi pregò
di trovargli qualcosa da fare. Mantovani, nella sua officina, aveva bisogno
di un guardiano notturno ed
io
gli
raccomandai
lui, che riuscì subito
gradito
al
principale
per il
suo fisico.
Gli fu assegnata una baracca;
Slim
mi pregò di chiedere se poteva portare anche la moglie, ma Mantovani era restio. Io lo convinsi, che, se ci fosse
stata la moglie, sarebbe
stato
più legato a quel
posto, anche
durante
il
giorno,
e
così
fu,
perché
Slim,
per
la gratitudine, anche
se non aveva un
compito preciso,
si rendeva
utile in
ogni
modo,
e
Mantovani
capì di aver fatto un buon affare.
Tullio
non lavorava,
ma
dirigeva
con la
sua costante
presenza tutti
i reparti dell’officina. Aveva
preso l’abitudine di cominciare il suo giro dal
mio
reparto
e
con
il
tempo
prese a
parlare con
sempre maggior
confidenza. A
volte questi colloqui
venivano sospesi, perché usciva con la sua Austin, restando
fuori un po’ di tempo, e
, al
suo ritorno, ripassava
da me e riprendeva, come se continuasse il discorso
interrotto, dicendo: “Allora, hai capito?” - La
prima volta non
riuscii a seguirlo,
poi capii e alla
sempre stessa domanda, lo precedevo, continuando,
come se non ci
fossimo
mai interrotti. Aveva
la passione per le moto, che venivano messe
a
punto,
per le
gare,
nella
sua
officina; partecipava,
come capitano
dei Diavoli neri,
allo speedway motociclistico, che
si
svolgeva
sotto l’albergo
dei Mehari
e che richiamava
un folto pubblico
di
tifosi.
Io, insieme a
mia
moglie
e
mia figlia, non
mi
perdevo una gara e
in queste occasioni, incontravo la moglie e il
figlio di Mantovani, che lo
seguivano.
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Tripoli,
agosto 1952
-
Mia
figlia
Lina con la
cugina
Lina
sul
Lungomare
Conte
Volpi,
alle
loro
spalle
l’Uaddan
|
Con
il tempo mi confidò che aveva in
mente di
lasciare
Tripoli,
perché
la vita cominciava
a
farsi difficile;
la giovane
generazione
libica
mal
ci
sopportava, inutili
erano i
ripetuti
appelli di re Idris, rivolti a
loro per
il
rispetto
verso
di
noi.
Molto
diverso
era
invece
l’atteggiamento
dei più anziani, specialmente quelli
che
avevano
condiviso con noi il lavoro. Mantovani era
originario del Veneto
e lì pensava
di tornare,
impiantando
un’officina,
anzi
mi
aveva
proposto
di
seguirlo
e lavorare ancora
con lui.
A
me
il discorso piacque,
tanto che ne parlai
in famiglia.
Anche mia
moglie aveva
notato il diverso comportamento,
a
volte
irrispettoso, del libici, dato che lei era in contatto con
la gente, in strada, forse più
di
me.
Per
questo
cominciammo a
valutare
la situazione, anche
perché
le comunicazioni aereo-navali
con l’Italia si erano
riaperte, la Tirrenia aveva destinato il piroscafo Argentina, che
da Napoli,
toccando Siracusa e
Malta, raggiungeva
Tripoli e
viceversa. Fui informato
dal mio principale
che
doveva
mancare
per un po’ di tempo,
per recarsi in Italia e
in quel periodo io dovevo sostituirlo, facendo
un po’ da sorvegliante
lavoratore.
Ci
riuscii
abbastanza
bene, tanto che al suo
ritorno,
Mantovani
trovò
tutto tranquillo
e ritornò alla carica nell’invitarmi
a
seguirlo, dato che ormai la sua idea si stava
concretizzando. Essendo arrivato il momento della decisione finale
anche
per
me, mia moglie mi
suggerì
di
andare in
Sicilia,
al suo
paese,
per
vedere
come
si
viveva
e
se
c’erano possibilità di lavoro. L’idea
non era proprio da
scartare,
valeva
la
pena
fare
questa
prova; perciò
chiesi
un
permesso al principale,
che me loaccordò, di
mancare un mese per recarmi in Italia. In
realtà il passaporto
era
valido tre mesi, ma io non ne
parlai.
Ritorno
in
Sicilia
Era il
mese di
giugno
1955. Arrivati
in
Sicilia, mia moglie ritrovò i suoi genitori, fratelli e
sorelle, mentre
io
pensavo
al da farsi. Castrofilippo
era
ed
è
ancora, un paese agricolo, i
suoi abitanti coltivavano
la terra
manualmente,
ma anche con
mezzi
meccanici.
Proprio
in
uno
di questi mi imbattei un
giorno;
in
un garage c’era un operaio che stava montando un motore in un trattore, mentre
il
padrone
dell’officina,
che
ho conosciuto
dopo, era seduto
al fresco.
Chiesi il
permesso
di
entrare
e
mi
informai
sul
lavoro,
che
si
stava
svolgendo, facendo delle domande pertinenti, dalle quali si capiva che ero del mestiere. Quel motore era
stato
revisionato a Caltanissetta,
alle officine O.M.; a
quella notizia
le mie orecchie si drizzarono e
chiesi
informazioni
all’operaio,
che,
senza
parlare,
mi
indicò
il
signore
seduto fuori,
al quale chiesi se avevano
bisogno
di
un operaio, ma
lui,
non conoscendomi, titubava e
mi
pose molte domande sulla professione. Io
oltre
a
nominare motori e
macchine su cui avevo lavorato, spiegai
anche
la mia situazione
di profugo precario ed il breve
tempo, che avevo,
di prendere una decisione, che doveva essere
definitiva,
data l’importanza del passo che mi
apprestavo a
fare.
Fui
invitato
ad
una
prova
pratica
in
sede,
Caltanissetta.
Arrivato
a
casa,
raccontai
la
notizia
che
mi sembrava importante e risolutiva per il nostro
futuro a mia moglie, che ne fu felice. All’inizio della
settimana,
mi recai
sul
posto del nuovo lavoro
e
diedi
prova delle
mie capacità, dato
che fui cambiato
continuamente,
proprio per tastarmi,
nei
vari settori.
Data
la
distanza dal
mio
paese,
abitavo
in una
locanda,
per
tornare
il
sabato sera; ma già quel primo sabato il
principale, pagandomi
la prima settimana
di lavoro, con
una
cifra
che
giudicai
superiore
a
quella
che prendevo
a
Tripoli, mi informò
che potevo ritornarvi per sistemare la mia posizione
e
poi
prendere definitivo posto
all’O.M.
Dissi
che avevo altri
giorni di permesso e
volevo essere ancora messo
alla
prova,
andò
a
finire
che
quei
giorni
superarono
il
mese
che
avevo
chiesto
a
Tripoli
al
principale.
Nel
frattempo arrivò
una lettera da parte
di mio fratello, che aveva incontrato Mantovani adirato
per
la mia assenza ingiustificata
e mi informava
che, persistendo così, avrei
potuto non
trovare
più il
mio posto.
Questo mi fece decidere e
ripartii
con
la
mia famiglia alla volta di
Tripoli. Dato che mio fratello
aveva accennato
sommariamente
la mia situazione,
trovai
ad
accogliermi un
Mantovani
inaspettatamente sorridente e
curioso
di sapere tutte
le novità del mio nuovo lavoro in Italia.
Io lo accontentai,
gli
dissi come stavano ormai
le cose e
che sarei partito per sempre. Lui con
grande
magnanimità
volle che tornassi, per quei giorni che
restavano,
al
lavoro, prendendo ore
di
permesso
per
sbrigare
le
pratiche
per la
partenza. Mi
mise
a disposizione
persino la sua macchina, per
eventuali
spostamenti, dato che dovevo vendere la
mia balilla.
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Con mia
moglie, mia figlia e
la mia mia balilla |
Lasciare
Tripoli definitivamente non era così facile
come poteva sembrare, era stato difficile
entrarvi clandestinamente,
ma
era
pure
difficile
uscirne.
Si
doveva dimostrare
di non avere pendenze con la polizia, cause, contravvenzioni,
una dichiarazione liberatoria del
padrone di casa, bollette
pagate
di acqua,
luce, gas. Quando
tutte
queste
pratiche
furono
espletate
e
fu fissato
il giorno
della partenza, conclusi il
lavoro
da Mantovani
salutando tutti, compagni di lavoro, Slim,
ma
soprattutto lui,
Tullio, che, avvicinandosi a
me, per
stringermi la mano, mi disse: “non hai avuto fiducia
in
me! ciao e
buona fortuna”
- Non ho potuto e saputo rispondere. Sarà
stato
un rimprovero
o
un
complimento?
Se avessi ascoltato
lui,
oggi,
invece del
siculo
avrei parlato
in
veneto.
Comunque
auguro
a
lui,
se
mi
leggerà,
e
alla
sua famiglia
tanta
fortuna
che,
sicuramente,
avrà
avuto
nella
sua terra natia.
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La mia
patente libica |
Addio a Tripoli
Arrivato
il
giorno
della partenza, tutta
la famiglia
venne
a
salutarci
in
via Raffaello,
la strada
che ci aveva visti crescere, quanti ricordi, quando
sul marciapiede mia figlia pedalava
sul triciclo, fatto
da me.
Sulla
strada
per il porto,
cercavo di imprimermi
bene nella memoria tutto
ciò che vedevo, la scuola
delle
suore
bianche,
con
suor Erminolda, la maestra
di
mia figlia,
per
tre
anni,
la
chiesa
della
Madonna
della Guardia,
dove andavamo a
messa la domenica,
corso Sicilia,
piazza
Italia,
piazza
Castello
e
poi
tutto
il
lungomare
Bastioni fino al porto, dove ci attendeva
la nostra nave
“Argentina”.
Questa
volta non era un
viaggio
di piacere, era
una
partenza definitiva; mettendo i
piedi sulla scaletta
della nave ci trovavamo già in suolo
italiano. Dal molo dov’era
ancorata la nave, si vedeva la
cupola e
il campanile
della Cattedrale,
le
due
torri
del palazzo
della
previdenza sociale, la torre del banco di Roma, la torre del palazzo del Governo, il maestoso e
splendido lungomare alberato
di palme con le due alte colonne, le guglie e i
merletti
del Grand Hotel, tutto il palazzo
della cassa di
risparmio, il Castello
e
tanti
tetti
di
case
bianche,
caratteristiche
della città. Questo era quello che i nostri
occhi
avevano potuto
fotografare
prima
che calassero
le ombre
della
sera del 5
Settembre
1955, lasciando in noi come
una
negativa,
che restava
custodita
nella
memoria
e nel
ricordo.
Al
suono
della
sirena,
la nave
cominciò
a staccarsi dalla banchina e
sembrava
che
dicesse
definitivamente: Addio, mia bella e
cara
Tripoli! - Lasciavamo
questa città, insieme
ad
un
lungo periodo
della nostra
vita, trascorsa in quella terra che era
stata la quarta sponda dell’Italia
e che poi si era rivelata
come l’odissea
dell’Italia
in Africa.
Oggi a
distanza
di
tanti
anni mi è
rimasta la nostalgia
delle sue bellezze
create
dalla
intelligenza,
maestria,
bravura di architetti, ingegneri,
tecnici
e
operai
specializzati
italiani,
che hanno saputo costruire strade,
ferrovie, viadotti,
allontanando
il
deserto
dalla
città
e
al
suo
posto
costruito palazzi degni di fare
invidia a tutte le nazione
del
mondo.
A Siracusa,
la mattina
del 7 settembre,
eravamo
attesi dai
funzionari della Prefettura, che,
dopo aver
controllato
il
foglio
di
via,
rilasciato
dal
consolato
italiano di Tripoli, mi fornirono un attestato, da
portare
al comune
di Castrofilippo,
in cui si comunicava il
mio
stato
di
profugo, assegnandoci
il
“generoso“
sussidio una tantum
di
dodicimila
lire
per me,
capo
famiglia, e cinquemila cadauno per mia moglie e mia figlia. La
mia
vita lavorativa
in Sicilia si è
svolta tra l’O.M. di Caltanissetta
e in seguito
l’apertura
di
una officina
in
proprio
nel paese
che
mi ospitava,
Castrofilippo; l’officina
fu
affiancata,
in seguito,
anche
da
un distributore di
benzina,
per cui
la
mia
vita divenne
sempre
più
intensa,
ma
per
fortuna
piena
di
soddisfazioni,
da
parte
di
clienti
del
paese
e
del circondario.
Ho
continuato
a
seguire
le
vicende
di
Tripoli, che considero ancora oggi la
mia città,
anche perché i
miei fratelli e sorelle erano
rimasti
lì.
Li
ho
seguiti
nei
tragici
avvenimenti
del
1970, il loro forzato rimpatrio, la difficile ricerca di una località dove stabilirsi,
fino
agli
ultimi
fatti
di questi
mesi, a Tripoli,
che mi hanno colpito nel profondo, nel vedere le
macerie dei
luoghi
tanto
amati.
Oggi
ho
la
fortuna
di
avere raggiunto gli ottantanove anni, di
avere una
discreta salute, una buona memoria e
la possibilità di
scrivere, soprattutto
con
l’aiuto
dei
miei
cari,
senza
i
quali sarebbe stato impossibile il mio accesso a
Internet.
Ho anche
un
fratello maggiore, che
ha raggiunto
la veneranda età
di 98 anni, vive a
Grosseto,
accudito
dalla
figlia
e
con
il
quale
mi
sento
spesso. Vivo
perciò
di
ricordi, di lettere, di scambi di
opinioni, da parte
di tanti
amici sconosciuti sparsi in tutta Italia. Questo è stato
possibile solo grazie a
Paolo Cason,
che con la sua straordinaria
pazienza
raccoglie e mette insieme le
voci di noi esuli. Grazie
Paolo, grazie
anche a
quelli che
mi hanno letto
e contattato
e a quelli
che mi leggeranno e
mi contatteranno;
con
sempre
Tripoli
nel cuore, saluto tutti.
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I
nostri FOGLI DI
VIA rilasciati
dl Consolato
Italiano di
Tripoli |
 |
Certificato
rilasciato dalla
Prefettura di
Siracusa nel
1955 |
|