CAPITOLO
II
Da
Tripoli a
Hon orizzontarsi
nel
deserto
Bashir
Anche
questo
è un mio ricordo,
si tratta di un altro viaggio di lavoro, quando
ero
ancora al P.V.D.,
ma questa volta si trattava
di arrivare ad Hon, distante
dalla
capitale
650 chilometri, di cui 450 in pieno deserto, per
recuperare
dei motori che ad Hon non servivano. Avremmo dovuto
partire con tre
macchine, capeggiate, la prima da due responsabili
inglesi con l’autista arabo,
nella seconda dovevo
esserci io con il secondo autista arabo
e
nella terza il collega di lavoro, Del Cuoco, con
il terzo
autista arabo. Il
mio aiutante
Bashir, nativo
di
Socna, località a
pochissimi chilometri
da Hon, non era
stato messo in lista per poter venire, ci è
rimasto
molto
male
e mi ha pregato affinchè
venisse con noi. Io ne ho
parlato
con il solito caro Malinconico, sempre pronto
ad ascoltarci, dicendo che
Bashir,
essendo del luogo, poteva esserci utile. Per
mezzo suo Bashir è
entrato
nella
lista.
Saggia decisione,
perché poi ci è
tornato utile.
Dietro
suo consiglio, abbiamo
portato
della roba, che lì
non avremmo
potuto trovare, come
pasta e pane in abbondanza, il primus per la cottura dei cibi e alcune pentole. Dovevamo stare circa 15 giorni.
Viaggio a Hon
Le macchine sono state caricate,
oltre
agli attrezzi di lavoro e la nostra
roba, anche di due fusti di 200 litri di acqua per bere e per i radiatori delle macchine e bidoni di benzina di scorta;
legate
ai laterali
le lamiere bucate da usare in caso di
insabbiamento insieme alle pale per spalare la sabbia. Hon
è una località della Tripolitania , che confina con il Fezzan; la sua oasi, ricca d’acqua e
di 40.000 palme da dattero, contava 3.500 abitanti.Siamo
partiti,
capi
colonna
gli
inglesi,
in
seconda posizione io e
in terza Del Cuoco. Questo era l’ordine di marcia, non erano permessi prove di velocità o sorpassi, e questo è rimasto fino ad un
certo punto.
Consci del percorso e
delle difficoltà che ci attendevano, perché avevamo studiato tutto a tavolino,
abbiamo percorso
la
litoranea
che
va
verso
la
Cirenaica
e sorpassati Homs, Leptis
Magna, Zliten e
Misurata, lasciamo
la litoranea e
prendiamo
la strada che va verso sud,
all’interno,
superando
el Gheddahia; in serata
e prima che facesse buio, siamo arrivati a
Bu Ngem, dove abbiamo pernottato, passando la nostra
prima notte
in pieno deserto. Gli inglesi avevano fissato l’ora della partenza per
la tarda mattinata,
ma i
libici, che di deserto ne capivano sicuramente più di noi, hanno consigliato di partire appena faceva giorno; infine gli
inglesi si sono arresi,
avevano capito che bisognava viaggiare nelle ore più fresche
e anche perché tra Bu Ngem
e Hon non c’ era nessuna
altra
località, ma solo sabbia e
bisognava
arrivare
prima di sera, per non restare isolati
di notte. I
tendoni di copertura delle macchine
sono
stati
arrotolati
in
alto,
in
modo
da lasciare
circolare l’ aria in tutta la macchina, mentre
il sole
faceva
il
suo
lavoro
in
quella
zona
desertica, portando la temperatura in alto.
Abbiamo dovuto
ricorrere più volte ai fusti d’ acqua, sia per noi che per i radiatori che bollivano e mettere stracci bagnati
sulle
pompe ACI della benzina, che con il calore si bloccavano, facendo fermare il motore. Noi
approfittavamo
di
queste
continue
fermate
per mettere qualcosa
sotto i denti e rinfrescarci il viso. Ma sono arrivate anche le dune
di sabbia, che con i loro spostamenti avevano invaso
quel poco di pista carrabile che si poteva vedere.
Alt! La
macchina di testa si è
fermata
e subito dopo anche noi . L’inglese,
con la bussola in mano ci indicava quale, secondo
lui,
era la
direzione
da seguire,
ma questa era sbarrata dalla
sabbia, che vi si era stabilita. Uno
degli
autisti,
e
precisamente
il
mio,
non
era d’accordo
a seguire quella direzione,
ne indicava un’altra, ma avremmo dovuto
superare
qualche montagnola di sabbia e
lui era sicuro
che subito dopo, avremmo
trovato
nuovamente
la
pista
che
avevamo
perso.Continuava a
spiegare
che era pratico del
deserto,
prendeva
manate di sabbia
e le buttava
in aria e
ci
faceva vedere il vento dove le portava, per far capire
che, se avessimo continuato
per la
direzione
della bussola,
ci saremmo insabbiati, e
indicava l’ altra direzione.
L’ inglese
cominciò
ad innervosirsi
e
a
dire parolacce
nella sua lingua, una di queste
era “fuck
you”.
L’ arabo, che aveva ricevuto
quelle
parole
anche a Tripoli e
ci
era
abituato, lì, in pieno deserto dove si sentiva
a casa,
non
le tollerò affatto
e prendendo l’ inglese per il
bavero, gli
ricambiò la parolaccia. Noi, preoccupati per la
piega
che aveva preso l’ accesa discussione, cercavamo di
dividerli.
I
due inglesi,
si
sono
guardati
e,
forse perché
si sono visti
in minoranza,
hanno aderito,
anche
se
a malincuore, a quello che diceva l’ autista
e tutti
insieme
abbiamo seguito le sue
indicazioni.
Si
è molto lavorato,
spostando una avanti
all’
altra
le lamiere che
ci
permettevano
di
fare
avanzare
le macchine poco alla volta;
tutti
abbiamo
lavorato,
anche gli
inglesi, non erano
superiori, si guardava solo
alla sopravvivenza. Abbiamo superato la
parte più
morbida
della sabbia che
si
era spostata col
vento
e abbiamo trovato quella più dura, più solida, che ci ha
permesso
di arrivare
alla pista, senza più l’aiuto
delle lamiere,
che
abbiamo sistemato dentro
le macchine. Qui, fermi
ormai sul duro, vedevamo la soddisfazione dell’autista arabo, e la mortificazione dell’inglese. Quest’
ultimo,
ha fatto
un gesto veramente nobile, che
non
ci aspettavamo;
è
andato
verso l’arabo e
gli
ha
stretto la mano, ammettendo la sua superiorità
in
tema di deserto; abbiamo applaudito. Non contento di
questo,
l’
inglese disse:
“OK,
ora
il capo
colonna
sei
tu,
vai avanti”.
Così abbiamo
proseguito
il viaggio, con
la mia
macchina
in testa, senza più
intoppi
e senza difficoltà, sotto
il
sole
cocente.
All’imbrunire
siamo arrivati
ad Hon,
esausti,
ma
trovando
degli
alloggi
abbastanza decenti.
Ci siamo divisi in settori di nazionalità,
in uno
gli
inglesi, in un altro gli italiani e nell’altro
gli
arabi. Bashir, il mio aiutante,
non
ha fatto
parte del gruppo
degli
arabi
perché la stessa
sera
è
andato
a
Socna,
distante
qualche
chilometro,
dove
abitava
la
sua
famiglia;
andava
la
sera
e
tornava
la mattina
per
il
lavoro.
Permanenza a Hon
A
causa del
forte
caldo, il
primo giorno
di
lavoro
è andato male, per i
giorni successivi ci siamo
organizzati, cominciando prestissimo
e sospendendo nelle ore
più
calde. Ero abituato al caldo di Tripoli, ma quello di Hon
era terribile. Anche gli stessi arabi del luogo,
sparivano
ad un
certo orario e
poi ricomparivano. Le serate
le
passavamo scambiandoci
le
visite,
è
capitato che una
volta gli inglesi sono arrivati mentre
stavamo cucinando,
forse spinti dal profumino che si sentiva e
sono rimasti a mangiare
da noi. Abbiamo
fatto una spaghettata,
l’ abbiamo condita
con
un sughetto
che era la fine
del mondo, roba da
leccarsi i
baffi. Gli inglesi l’ hanno
ben gradita e ci hanno
invitato per la sera seguente.
Anche
da
loro
si è
mangiato
bene,
non
ho gradito solo l’ abitudine
di bere
latte
a
tavola. Bashir
non ha voluto essere da meno
e ci ha invitati a
mangiare
il cuscus a casa sua, a
Socna, dove siamo stati
accolti molto
bene.
Io non so cosa Bashir
avesse raccontato
di me alla
sua famiglia,
un
fatto
era certo, suo padre
si
era
messo
al mio fianco, e
non finiva più di domandarmi di suo
figlio,
chiedendomi
come
si comportava,
cosa
faceva, orgoglioso di quel
figlio,
che indossava il camice
da
meccanico.
Arrivato
il
momento
del
pranzo,
siamo
stati
invitati, dopo aver tolto le scarpe,
ad entrare
in una stanza dove c’era una grande stuoia, sulla quale ci siamo
seduti
incrociando le gambe.
Al
mio fianco c’era
sempre
il padre di Bashir,
che
mi invitava
a
mangiare,
quasi volesse
imboccarmi.
Eravamo
tre
razze,
seduti
allo stesso desco e
questa fratellanza
era molto bella. Ad
un tratto
alle nostre
narici è
arrivato
un odore
meraviglioso, che si sprigionava dalle pietanze. Noi europei
siamo
stati
serviti nei piatti, gli arabi
hanno mangiato tutti
insieme,
prendendo il
cibo con le
mani da una grande conca
di legno,
da
dove
ognuno
seguiva
la
sua
direzione, andando verso il
centro,
senza
sconfinare nella
parte dell’ altro. La mamma di Bashir è comparsa per
servirci
il pranzo,
ma non si è
seduta
con noi. Il
cibo
era
piccantissimo
e ogni tanto
dovevo fermarmi
per respirare e
bere sorsi
d’acqua.
Poi è
arrivato
il
rito del thè,
preparato
usando foglie
essiccate
con una
operazione molto lunga, inframmezzata
da chiacchiere
e
racconti.
Si
usano diverse
caffettiere,
dalla
prima
esce
il
primo thè,
che ha un
gusto aspro e fortissimo. Nella
seconda
caffettiera
si mettono
a bollire le foglie
già
sfruttate
ottenendo un thè meno forte e
più leggero. Poi si passa alla terza caffettiera dalla quale fuoriesce
un
thè
leggerissimo al
quale
si aggiungono un po’ di noccioline. Questo era
il thè che preferivo a
Tripoli;
quando in officina
interrompevamo
il lavoro per fare
il
thè,
anche
se
pagavo
la mia parte
per intero, prendevo
sempre
il
terzo
bicchierino
con
le
noccioline.
Nel
pomeriggio Bashir
ci
ha
fatto
visitare
Socna,
un
centro
più importante di Hon, che contava 1.500
abitanti, appartenenti
all’oasi di Giofra che era stata
il
capoluogo
prima di
Hon. Era situata su una
piccola altura,
in
una
conca ricca d’acqua
e di
palmeti con numerosi
pozzi,
molto caratteristici, costruiti con uno scivolo del
terreno
in pendenza
che facilitava
e
rendeva
meno faticoso il lavoro dell’animale addetto
al
sollevamento.
Nei
giorni
successivi
abbiamo
lavorato
alacremente, anche perché i
nostri
viveri si assottigliavano sempre
più
ed
eravamo arrivati
a
cibarci
di
pane
duro
ammollato con
l’acqua
e uova
che si trovavano
in
abbondanza,
anche se nell’aprirli,
dovevamo stare
attenti alla loro freschezza,
molto
in
forse,
dato
il
caldo.
Quando il lavoro fu terminato, abbiamo
caricato la nostra
roba,
per partire la mattina
dopo all’alba, pregustando la gioia
del ritorno.
Ritorno a Tripoli
Questa
volta,
durante
il
viaggio,
non
ci
sono
state
difficoltà,
la pista era quasi sgombra e
siamo
arrivati la
sera,
per
il pernottamento
a Bu Ngem,
dove
avevamo
fatto la prima tappa
all’andata e
dove c‘era una
piccola
oasi e
i
resti
di
un
vecchio fortino
dei
Romani. La mattina dopo siamo ripartiti, e
dopo un
centinaio
di chilometri,
superando
el
Gheddahia, abbiamo puntato
su
Misurata,
distante
altri
130
chilometri;
ormai
si sentiva già l’odore del mare. Finalmente ecco
Misurata,
città di circa 5.000 abitanti,
con una fiorente industria di tappeti e
un popolato quartiere di italiani.
Ormai,
arrivare
a
Tripoli
era una passeggiata, la litoranea era tutta
asfaltata
e si poteva viaggiare
senza sbalzi.
Passati Zliten e Homs,
nel pomeriggio siamo arrivati,
facendoci annunciare da
colpi
di clacson nei cortili del P.V.D., accolti con
grande entusiasmo.
Finalmente ero sulla strada
di casa,
avviandomi,
pensavo che
mia
moglie
e mia figlia avrebbero stentato
a riconoscermi, tanto ero diventato
nero. Invece, dopo un attimo di
smarrimento, all’apertura
della porta,
sono stato accolto da entrambe
come un
eroe,
il reduce che ritorna
a casa
dopo la guerra. Ritrovando
gli affetti familiari,
la nostra
cucina e una
comoda
vasca
da
bagno
colma
d’acqua
calda,
le
mie stanchezze
sono passate
e di quei giorni è rimasto
solo un bel ricordo, che permane ancora indelebile nella mia mente.
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