Il simpatico e bel ricordo di
Ivana Borghi nel precedente
numero de l’oasi
sull’indimenticabile spiaggia
dei “Bagni Sulfurei”, così
chiamata per le sorgenti
sotterranee cariche di zolfo, e
sulle bizze dell’Uadi Megenin,
mi ha fatto tornare alla mente
un episodio, accaduto più o meno
nello stesso periodo citato da
Ivana, che coinvolse
“tragicamente” la nostra bella
cabina in legno, costruita da
mio padre proprio sul letto del
torrente.
Se non ricordo male, mio padre
aveva, negli anni precedenti,
effettuato alcuni spostamenti
“tattici” della cabina proprio
per evitare la piena del fiume.
Ma non si rivelò un buon
stratega.
La spiaggia dei “Sulfurei“ aveva
una fila di moderne e belle
cabine in muratura con veranda
fronte mare, mentre, sul retro
di queste, oltre ad un’altra
fila, sempre in muratura, erano
state collocate numerose cabine
di legno. Credo che mio padre
non avesse trovato posto in
quella zona o forse avesse
ritenuto che la sua cabina
avrebbe resistito alla furia
delle acque dell’Uadi le cui
piene avvenivano, in realtà, a
distanza di anni e solo a
seguito di abbondanti piogge
peraltro non così frequenti. In
questo caso oltre che di
strategia, peccò di troppo
ottimismo.
Purtroppo quell’anno le piogge
caddero copiose creando
un’imprevista ed abbondante
piena del fiume che
ingrossandosi a dismisura, prima
di giungere alla conclusione
della sua corsa, trascinò con
sé tutte le cabine che
ostacolavano il suo naturale
deflusso verso il mare. Oltre
alle cabine, il fiume portò con
sé tutto ciò che aveva trovato
sul suo tragitto: piante,
animali, etc.
L’accanimento dell’Uadi nei
confronti delle cabine fu
veramente tragico: il giorno
dopo non una cabina aveva
resistito alla furia dell’acqua
e naturalmente anche la nostra.
Ricordo che quando papà (oggi
94enne con qualche acciacco ma
in grado di guidare ancora
l’auto) raccontò il fatto in
famiglia, anche se già
“grandino” ebbi un attimo di
commozione, pensando che non
avremmo più potuto disporre
della nostra bella casetta di
legno, che oltre all’uso
precipuo per la quale era stata
costruita ovvero quello di
“spogliatoio”, veniva adoperata
per cenette familiari e incontri
con amici specialmente di sera,
alla calda luce gialla dei
mitici lumi a petrolio. Non
dimenticherò mai gli “arrosti”
che la mamma (deceduta purtroppo
all’inizio di quest’anno a quasi
94 anni) era solita
preparare.
Ricorderete infatti che fu
possibile per alcuni anni
frequentare la spiaggia anche di
sera, avendo così la possibilità
di fare indimenticabili bagni
notturni in mare ove poteva
accadere che, a causa del buio,
non ci si riconoscesse a
distanza di pochissimi metri.
Lo sconforto si tramutò tuttavia
ben presto in speranza, perché
papà mi disse che il giorno dopo
ci saremmo recati ai “Sulfurei”
in quanto gli era pervenuta
notizia che, sul vasto delta di
sabbia rossastra tipo creta
trasportata dal fiume, che si
estendeva per alcune decine di
metri oltre la sabbia chiara
dello stabilimento, erano stati
avvistati relitti di barche e di
cabine.
A questo punto si rende
necessario un inciso in merito
alla sabbia rossastra portata
dall’Uadi: molti ricorderanno
quando, ragazzi, giocavamo a
confezionare palle di creta che
ricoprivamo di fine sabbia
bianca. Esse costituivano i
proiettili delle battaglie che
nascevano spontaneamente tra
squadre sul momento costituite.
Ricordo che se raggiungevano il
bersaglio a distanza ravvicinata
lasciavano appunto … il ricordo.
Il tragitto in macchina mi
sembrò lunghissimo ma, in
realtà, da dove abitavo, in
“Sciara Bagdad” nei pressi della
Cattedrale, la distanza era di
soli pochi chilometri. Appena
arrivati, mi precipitai di corsa
in spiaggia seguito da mio padre
che, con passo deciso, si
diresse verso quello che
sembrava fosse un basamento di
cabina e che emergeva dalla
sabbia all’altezza del
bar/ristorante di Cardellicchio,
esattamente di fronte alla
bellissima rotonda.
In quel ristorante, alcuni anni
dopo, con il compagno di scuola
Adolfo Angeloni che visse per
molti anni con la sua famiglia
nella ex Scuola dei Fratelli di
Sciara Espagnol, avrei gustato
uno degli ultimi pranzi
tripolini prima di lasciare
definitivamente la Libia.
Mio padre, aiutato da un suo
operaio, iniziò ad estrarre
dalla sabbia il basamento della
cabina, raccolse quindi altre
parti di legno che, in più
viaggi, caricò sul camioncino
con il quale ci aveva condotti.
A dir la verità non ero così
sicuro si trattasse dei pezzi
della nostra cabina, ma mi
guardai bene dal proferir
parola. Del resto i “relitti”
abbandonati in mare sono … di
proprietà di chi li recupera.
Trascorsi alcuni giorni, papà ci
comunicò che la nostra cabina
era stata ricostruita e
collocata, naturalmente non più
sul letto dell’Uadi, ma sul
retro delle cabine in muratura.
Quando finalmente la rividi,
tirai un sospiro di sollievo e
la gioia mi pervase pensando che
le nostre estati sarebbero
trascorse come prima, anche se
dopo pochi anni non andò proprio
così e la “colpa” non fu più
dell’Uadi …
Rammentando le estati passate ai
“ Sulfurei”, mi sovviene il
ricordo delle belle giornate che
si trascorrevano in compagnia di
tanti amici cantando
accompagnati dalle chitarre,
protetti dall’ombrellone
(talvolta si era anche in 15
sotto la stessa ombra). Per
Ferragosto i festeggiamenti
prevedevano un enorme consumo di
angurie le cui bucce servivano
poi per vere battaglie con lanci
che inzaccheravano i malcapitati
colpiti.Sono trascorsi
molti anni da quei fatti: nelle
spiagge del nostro bel Paese non
ritrovo fra i giovani d’oggi
quell’allegria che ci accomunava
e che, oltre al piacere di stare
insieme ci faceva cantare,
ballare, ridere e scherzare. Ad
una certa ora, sul calar del
sole, quando la spiaggia si
spopolava, iniziavano
combattutissime partite di
pallone nello sterminato campo a
disposizione … Ma il tempo
cambia le cose e le persone (in
meglio?).
Per concludere queste mie
pillole di ricordi presentate
un po’ alla buona, cito un
ultimo evento che fino a poco
tempo fa non avevo la certezza
fosse realmente avvenuto ma
pensavo si trattasse solo di un
ricordo scaturito da qualche
sogno. Invece l’evento,
recentemente, mi è stato
confermato da altri Tripolini.
Anche a Tripoli abbiamo avuto un
piccolo “tsunami” che
ritengo avvenne negli anni 60.
Mi trovavo una mattina d’estate
ai “Sulfurei” con degli amici,
quando i bagnini ci avvisarono
di non entrare in acqua anzi di
retrocedere almeno di una
cinquantina di metri dalla
battigia. Nel frattempo si
precipitarono a far rientrare le
barche che stavano al largo. Ci
informarono che il mare si
sarebbe ritirato per poi
ritornare con forza ed allagare
la spiaggia. Era quindi
opportuno allontanarsi al più
presto dalla riva. Ci dirigemmo
velocemente verso le cabine in
muratura che si trovavano ad
oltre un metro di altezza
rispetto al livello della
spiaggia ed attendemmo con
trepidazione il verificarsi
dell’evento.
Dopo poco l’acqua del mare
cominciò, infatti, a ritirarsi
lentamente ed iniziammo a veder
affiorare le rocce con il
famoso “scoglietto”. Quella
barriera rocciosa costituiva la
prima meta per chi non era
esperto nuotatore perché, con
l’aiuto di pinne e di qualche
bracciata, si raggiungeva
velocemente dalla riva.
Vedemmo anche alcuni pesci che
saltellavano su quel tratto di
mare che era diventato spiaggia.
Se non ricordo male, tuttavia,
lo tsunami (probabilmente
causato da un piccolo maremoto
avvenuto chissà a quante miglia
di distanza ) non durò molto ed
il mare ritornò, ribollendo, a
ricoprire tutto ed arrivò quasi
in prossimità del muro delle
cabine. Non ci furono
fortunatamente né morti né
feriti a parte forse qualche
pesce che non aveva fatto in
tempo a riacquistare il suo
alveo naturale.
Ripensando a quel piccolo
tsunami mi viene oggi da
notare che fummo subito tutti
avvisati di ciò che sarebbe
accaduto e parliamo di oltre
quarant’anni fa quando non
esistevano certo le tecnologie
di oggi. Come mai lo tsunami
avvenuto nel 2004 nel Sud Est
asiatico, anche tenendo conto
delle dovute proporzioni, non è
stato comunicato in tempo da chi
ne aveva la responsabilità?
Forse, alle volte, il buon
senso, l’esperienza ed il
“fiuto” contano più di tante
tecnologie.
Giovanni Martelli