VITTORIO
La mamma ruppe uno dei suoi mesti
silenzi: «La tua maestra chiede che tu vada subito da lei».
Non poteva fare attendere la “sua
maestra”.
In piazza si unì per un attimo
alla folla intorno ai cantastorie.
Un vecchietto sdentato, stella
rossa all’occhiello, e una matronaccia che faceva gli occhi
dolci a una mezzetta di vino, su un tavolinetto fra i pianeti
della fortuna e i fogli delle canzoni berciavano: «Ammazzateli,
impiccateli / inchiodategli la voce/ come a Cristo sulla croce…».
Li accompagnava un omarello tutto
naso sotto la bombetta fasciata da un nastro vermiglio che gli
ricadeva fin sulla schiena.
Con le labbra
bavose incollate al clarinetto, gonfiava le gote fino allo
spasimo, ora tutto ingobbito e assorto nel cavarne le note più
basse, subito dopo pettoruto come un gallinaccio in un gesto
melodrammatico, lo
strumento levato al cielo nella gloria dell’acuto strappa
applausi.
Si pentì
d’essersi attardato.
La maestra
abitava lì vicino.
«Come sta la tua
mamma? Comincia a rassegnarsi, poveretta?».
E subito chiese:
«Devi farmi un favore… che è anche un’opera buona… anche il tuo
babbo lassù ne sarà contento…».
«Mi dica,
signora maestra».
«Questa notte
intendono prelevare uno dei nostri. Per fortuna un’anima santa
mi ha avvisata. Ce ne sono anche fra loro. Che dio la benedica».
S’interruppe per
sbirciare sulla via da dietro le tendine, assalita da un timore
ormai ricorrente.
Il giorno della
vergogna, quando in piazza era stata rapata a zero fra i lazzi
del popolame, il capo dei novelli eroi l’aveva ammonita: «Per
questa volta ti serva da lezione. Attenta però: il popolo non ti
perde di vista. Ti conviene rigar dritto».
Vittorio intanto notava
che sulla credenza non era più in mostra
la foto che lo ritraeva,
in divisa di balilla, con suo padre, casco coloniale e
sahariana, sul petto la decorazione che aveva meritato in Africa
orientale, accanto alla sua giovanissima maestra. Scattata nel
giorno della sfilata trionfale dei reduci di Abissinia, lungo il
viale dei lecci che dalla stazione ferroviaria del capoluogo
conduce al Piazzale della Patria, straripante di folla in divisa
e non, assiepata dietro ai cordoni degli Avanguardisti.
Appena la banda
della Milizia attaccava, la folla, per un attimo si faceva
attenta per individuare il motivo, poi lo cantava in coro. Tre
volte il maestro dovette concedere
Faccetta Nera.
|
Clicca sull'immagine per ascoltare
Faccetta Nera |
Partecipavano,
sia pure con diverso garbo, le autorità dalla loro tribuna tutta
fasciata di nero e di tricolore e le famiglie che dalle finestre
e dai balconi affidavano alla brezza bandiere ondeggianti a
tempo di musica.
In chiassosa
brigata ciclistica si era mosso anche tutto il suo paese:
podestà, segretario del Fascio e parroco in testa.
Qualche vecchio
mazziniano si era intruppato perché la patria è sempre la
patria. Un socialista perché suo zio era caduto ad Adua.
Allegri e di
gomiti ferrigni, servendosi di un valido argomento: «Sapete che
Casali, nostro compaesano, l’hanno decorato di medaglia
d’argento? Vogliamo vederlo sfilare!» raggiunsero la prima fila.
Un fremito si
avvertì nella tribuna delle autorità e all’istante si propagò
fra i convenuti.
In fondo al viale
avanzava la legione degli eroi, quadrata, impeccabile. Ciascun
reparto, all’ultima riga schierava i mitraglieri onusti della
loro pesantissima arma levata al cielo.
Cantavano: «I morti che lasciammo al Passo Uaireu / sono i pilastri del romano
impero…». Quando giunsero al: «…
gronda di sangue il
gagliardetto nero / che là sull’amba i barbari inchiodò» fu un
delirio generale.
|
Clicca sull'immagine per ascoltare la
canzone |
Si agitavano
pericolosamente per la loro incolumità anche gli ultimi,
preziosi garibaldini, ospiti di riguardo sul palco delle
autorità.
Fu poi solo un
caso che, quando il drappello di testa si presentò davanti alle
autorità e fu ordinato “L’attenti
a destr…” la truppa avesse appena intonato: «Sui morti che
lasciammo al Passo Uaireu / la croce di Giuliani sfolgorò».
Sorrise
finemente Monsignor Vescovo mentre prevosti, cappellani e
fraticelli erano al settimo cielo.
«Ora si vive
alla luce del sole. Benedetto il Concordato e chi l’ha
sottoscritto. Ve lo
ricordate quando passavamo davanti alle osterie i motteggi
ingiuriosi? E i “tric trac” esplosi contro le “Figlie di Maria”
durante la processione? E prima ancora i tabernacoli violati, le
sacre particole in pasto alle galline, i Crocifissi profanati
durante il terrore della Settimana Rossa? Ora, chi bestemmia
rischia la galera».
Riprese la
maestra: «Sei l’unico di cui possa fidarmi. Mi sorvegliano notte
e giorno… tuttavia, se non te la senti dimmelo subito».
«Lo farò,
signora maestra. Dica solo come».
«La tua mamma è
d’accordo. Si tratta di salvare un innocente. Sai dov’è il
podere Caselle?».
Il ragazzo annuì.
«Vacci appena
farà buio. Cerca Giulio Scardovi. Avvertilo che questa notte
andranno a prelevarlo col pretesto di un interrogatorio. Finirà
come gli altri».
«Come il mio
babbo» pensò Vittorio ad alta voce
«Fugga per i
campi evitando le strade. Lo attendono alla parrocchia di S.
Giacomo».
Tacque per un
attimo e poi: «Hai fissato in mente ciò che devi dire? Vuoi che
te lo ripeta?».
«Ricordo tutto»
concluse il ragazzo.
A un chilometro
dal paese l’asfalto cedeva alla strada polverosa, dove le ruote
della bicicletta affondavano un poco.
Il babbo era
tornato ai primi di maggio. Suo fratello, un impiego sicuro in
banca e nessuna compromissione politica lo esortò a fuggire
subito verso il sud dove non ardevano gli odi. Poi non si fece
più vivo fino al giorno seguente la tragedia.
Non era più
armato come l’anno precedente quando dava la caccia ai
“gappisti”. Scompariva nel buio per tornare all’alba, quando già
la mamma sfaccendava in cucina, tutto inzaccherato.
Qualche rara
parola, un boccone buttato giù in fretta e subito alla sede del
presidio.
Un giorno era
accaduto un fatto orribile.
«Il principio
delle nostre disgrazie» sospirava la mamma. «La maledizione e la
rovina della famiglia per colpa di quello lì» brontolava la
nonna, provocando nel nipote brividi di terrore.
Una donna
scarmigliata, trattenuta a stento da una vicina, si era piazzata
di fronte alla porta di casa.
«Venite via,
Edera» la implorava la vicina. «Pensate alle vostre bambine
ormai…». Ma lei, sorda a ogni preghiera, con abbrancate alle
ginocchia le due piccine che la supplicavano di tornare a casa,
urlò: «Casali, venite fuori o avete paura di guardare in faccia
queste due innocenti, che gli avete ammazzato il babbo questa
notte».
Tacque per un
attimo, affannata. «Che colpe aveva il mio uomo» riprese
gemendo. «Era onesto e un gran lavoratore». Gridò con voce
altissima: «Assassino, maledico te e la tua famiglia».
La trascinarono
lontano. Mugolava il nome del marito. Poi si riscuoteva.
Con le mani nei capelli si interrogava,
flebile, che ne sarebbe stato di lei e delle sue
creature.
Ora la mamma
guardava il suo sposo sul punto di uscire. Sulla soglia si volse
indietro. «Lui ha sparato per primo ferendo uno dei militi del
presidio e me – soggiunse – e me – sottolineò , battendosi il
petto – non mi ha preso per un pelo perché mi sono gettato a
corpo morto dietro un muretto. Altrimenti saresti tu a fare la
scena».
«Sta’
tranquilla. Non ha sofferto». Tacque, immerso in un suo
pensiero.
Dopo quattro
giorni sembrava che nessuno si fosse accorto del suo ritorno.
Per questo le speranze crescevano a ogni ora che trascorreva,
anche se l’angoscia li attanagliava a ogni voce, a ogni passo
estraneo.
Se ne stava in
solaio. Spesso, rannicchiato davanti alla finestrella,
controllava la strada giù fino alla curva prima del paese.
Abbandonata dopo un po’ l’incomoda posizione, perlustrava il
retro verso i campi. Più di frequente lo udivi camminare avanti
e indietro in corrispondenza della parte alta del- lo spiovente,
dove poteva ergersi in tutta la sua statura. Quel suo muoversi,
subito interrotto quando un passante transitava lungo la strada
rassicurava i familiari.
La sera
maledetta, il resto della famiglia sedeva a tavola. La mamma
faceva la spola dalla mensa al focolare sempre tesa a cogliere i
rumori che giungevano dal solaio.
D’un colpo
cessarono.
«Forse sta
davanti alla finestrella» sperò, nel farsi più attenta.
Trascorse
qualche secondo interminabile.
Ormai in preda a
un nero presentimento si interrogò a voce alta perché mai lassù
tutto taceva. La nonna e i bambini erano ammutoliti.
«Mio Dio, perché
non si sente più?» gridò angosciata.
Come risposta lo
udirono precipitarsi per le scale, sconvolto: «Norina, arrivano.
Sono già qui».
Riacquistò il controllo di se
stesso: «Vittorio, col tuo fratellino esci dalla porta di dietro
e correte a casa dello zio Aurelio. Non ti fermare, qualunque
cosa accada». Obbedì, ma, aperta la porta, una voce gli ingiunse
di tornare indietro.
Un’altra voce, quella del
caporione, intimò al babbo di uscire con le mani alzate, tanto
non aveva scampo. Avrebbe evitato rischi ai suoi familiari.
Il babbo aveva in volto
un’espressione di rassegnata tristezza. Spezzava il cuore.
Nessuno avrebbe supposto nella mamma tanta disperata forza di
carattere. «Ascoltami: giorni fa sono andati ad arrestare uno
dei tuoi ma la moglie ha risposto: “Noi non ve lo lasciamo. Che
ci ammazziate qui tutti insieme o altrove non fa differenza”… ci
credi? Hanno rinunciato».
«Vittorio, Tonino, prendetevi per
mano. Seguiremo il babbo».
«Non ve lo permetterebbero mai»
rispose.
Le strinse la
mano.
«Da quanto tempo
non era accaduto» si sorprese a pensare lei con accorata
dolcezza.
«Adesso vengo»
annunciò a quelli di fuori, con voce strozzata. Allora la mamma
gli si parò dinnanzi, lo supplicò di rimanere.
«Moriremo tutti
insieme nella nostra casa». Tentò di respingerla, ma se la trovò
accanto. Comparvero insieme nell’aia invasa da una folla ostile.
Dall’angolo
oscuro della
cucina,
Vittorio fu
consapevole che quella era l’ultima volta che vedeva suo padre.
Rimase ad attendere.
Presso il
focolare la nonna copriva con le sue mani annerite dagli anni le
orecchie di Tonino: che a quell’innocente
fosse risparmiato l’urlo
infame della crudeltà.
Distinse le
parole del capo: «Sbrighiamoci. E voi, sposa, se
avete qualcosa da dire al vostro uomo, fatelo adesso».
«Io vado con
lui» dichiarò.
«Voi invece
tornate in casa subito».
«Ho detto che
andrò con lui» replicò testarda.
Il gran capo era
disorientato, ma alle sue spalle i gregari spazientivano. La
folla intendeva essere privata dello spettacolo.
Allora si fece
avanti la moglie di Pilotti.
«Ho sentito bene?
Vuoi andare con lui? Eh no, la mia donna! Rimarrai a piangere
come me! No, la mia bella donna, i tuoi figli dovranno crescere
nella miseria come le mie bambine!».
Si alterò: «Perché
mio marito» urlò «non aveva fatto niente di male, a nessuno.
Tutti lo sanno e pure quel vigliacco lì…» fece atto di
scagliarsi contro il prigioniero, subito trattenuta.
«State buona
Edera, a quello c’è già chi ci pensa».
«Quel
delinquente lì» riprese, insensibile alla promessa «me lo ha
accoppato, come un cane, come un cane… Che quando me lo
lasciarono vedere, aveva la testa nella melma di un fosso, il
mio Giovanni, poverino! Non mi permisero neppure di tirarlo su
dall’acqua, quei boia! Per tutto un giorno e una notte…»
All’evocare quel
misero corpo immerso nell’acqua limacciosa, la sua collera si
propagò ai presenti. C’era il rischio che si facesse giustizia
sommaria. Il capo cominciava a temere l’intervento degli Inglesi.
«Presto» ordinò
e subito il prigioniero sotto una gragnola di calci e pugni, fu
trascinato verso la millecento nera.
Sbattere
violento di sportelli, poi l’auto imboccò la via maestra a
motore imballato. La folla si disperse.
S’era fatto buio,
la tavola sempre
apparecchiata, la porta aperta sul vuoto dell’aia. In un angolo,
seduta sul sacco della farina la mamma singhiozzava, ma Tonino
sullo sgabello col capo appoggiato sul
grembo della nonna, si era addormentato. Passò altro
tempo ancora. «Per tutti i nostri poveri morti ave Maria, gratia
plena» biascicò, come ogni sera, la nonna frastornata.
«Smettetela!»
invocò la mamma. Ripetute vibrazioni del manubrio lo avvertirono
che la strada era disseminata di ciottoli che temeva aguzzi.
A dire il vero,
non lo preoccupava
eccessivamente
l’eventualità di bucare una gomma o peggio di lacerarla – si
compravano solo a caro prezzo – molto di più il timore di essere
inseguito dalla Millecento nera con la quale si erano portati
via il babbo. Spesso si guardava alle spalle, teso a percepire
il rombo di un motore. Forse qualcuno l’aveva spiato. Forse
avevano scoperto tutto. Allora, povera mamma! Ecco la casa,
finalmente. Bussò alla porta. Silenzio, nonostante il cane, sul
retro, latrasse.
Quando bussò la
seconda volta, si aprì uno spiraglio una finestra da dove una
voce femminile chiese: «Chi è a quest’ora?».
«Sono Vittorio
Casali, mi manda la maestra Zandoli. Fatemi entrare».
Li trovò riuniti
in cucina stretti da un’angoscia che conosceva. Si rivolse
all’uomo e, tutto d’un fiato: «Mi manda la maestra Zandoli»
ansimò «per avvertirvi che questa notte verranno ad arrestarvi.
Non vi fate trovare. Andate subito alla Parrocchia di S. Giacomo.
Vi attendono»
Riprese lena:
«La maestra vi raccomanda di passare per i campi: le strade sono
sorvegliate».
Girò sui tacchi,
fra mormorii di riconoscenza e scomparve nel buio.
Sulla via del
ritorno l’ansia si
affievolì. Se avesse
forato, poco male: avrebbe trascinato la bicicletta, come altre
volte. Sarebbe solo occorso più tempo. La mamma però sarebbe
stata in ansia.
Povera mamma,
non si rassegnava. Per giorni dopo il rapimento in continuo
pellegrinaggio alla camera mortuaria dove portavano i resti dei
giustiziati. Perfino sull’argine del fiume perché qualcuno
azzardava che quel fardello appiattito fra le canne poteva
essere il babbo. Invano.
Ancora oggi la
illudono gli ambigui responsi di una cartomante: «Sento che è
vivo e fino a quando non troverò il suo corpo, la penserò così».
Quando
un’amica le
ha rivelato che,
durante una seduta
medianica, l’entità rivelatasi, interrogata sulla sorte del
babbo aveva risposto: «È con noi» ha replicato convinta che si
tratta di una mistificazione.
|
Una seduta mediatica |
Aveva perfino
osato recarsi al comando partigiano. Il capo si era negato.
Alcuni gregari
l’avevano offesa. A un tratto era esplosa imprudentemente: «Anche
se non hanno il coraggio di dirlo, lo pensano tutti che siete
dei gaglioffi. Non era mai successo che i corpi degli ammazzati
fossero fatti scomparire. Al cimitero sono le tombe dei vostri,
coi loro bei garofani rossi. Tutti, perché finora nessuno aveva
mancato di rispettare il diritto a essere sepolti da cristiani.
Questo ero venuto a chiedervi per mio marito. Mi deridete,
vigliacchi. Chiedetelo alle mogli e alle mamme dei vostri morti
il dolore che si prova!».
Ci sono tempi in
cui le parole sono segni di sangue, così non pochi erano
persuasi che la vedova Casali sarebbe stata inghiottita dal
nulla come il marito.
Le voci che, per
un caso fortunato, non erano giunte alle orecchie di Vittorio,
arrivarono invece all’Ersilia.
Nel ‘24
l’Ersilia aveva seguito il suo uomo in Francia per iniziare con
lui una vita di stenti.
Un uomo che
l’amava, per il quale tuttavia la politica veniva prima di tutto
e di tutti. Riunioni, cortei, scioperi, qualche giorno di
carcere ogni tanto. I gendarmi
a ronzare sempre intorno. Lei a tenere salda la famiglia
– erano nati Libero e Comunardo – sgobbando in casa e in servizi
a ore.
«Ah
cette italienne» mormorava fra il compassionevole e
l’ammirato la sua padrona che non si capacitava come in essa si
combinassero povertà, orgoglio e dignità, lungi dal servilismo
di altre domestiche.
Nell’Europa
subito dimentica degli orrori della prima guerra mondiale
scoppiò quella di Spagna: lui nelle brigate internazionali.
Qualche anno
dopo alla macchia contro i Tedeschi. Lei a casa coi figli e
qualche sussidio del partito.
In fine lo
avevano inviato in Italia per organizzare la lotta partigiana.
Qui si era riunita la famigliola nella tarda primavera del ’45.
Per i compaesani
era ormai “la Francese”, detestata dai moderati, invisa a non
pochi compagni. Non gradivano questi ultimi una certa sua
supponenza nei
riguardi dei comunisti nostrani, nemmeno lontanamente
confrontabili nella lotta politica a quelli d’oltralpe. In
particolare non tolleravano un suo giudizio tranciante: «Vent’anni
or sono ho lasciato questo paese asservito ai preti e ai padroni.
Dopo vent’anni e una guerra contro la dittatura, comandano
sempre gli stessi. Hanno solo mutato casacca».
«Nulla si muove
in questo paese però le novità non mancano mai…» apostrofò il
marito al suo rientro.
«Quali novità?».
«Va là, lo sai
anche tu che intendono eliminare la vedova Casali perché gli ha
dato dei gaglioffi».
«Senti compagna»
le si rivolgeva così quando era contrariato «non dirmi che
prendi le difese della moglie di un assassino fascista?».
«Come si vede
che non sei una donna».
«Vorrei ben
vedere…».
«Lasciami finire
il discorso poi avrai la parola, compagno dirigente. Non si
contano le volte che mi hai abbandonata coi figli per seguire il
partito. Ti sapevo in pericolo tuttavia cercavo di rincuorarmi.
Finirà questa guerra maledetta. Lui è vivo.
Avremo tanto
tempo ancora per vivere insieme in un mondo di pace e di
progresso. Quella disgraziata ogni giorno digrigna i denti
contro la miseria per sopravvivere coi suoi bambini. Si rompe la
schiena a lavare i panni dei soldati… tu dirai che l’ho fatto
anche io. Per di più in un paese straniero. Io però avevo una
speranza. Lei no. Ora mi dicono che qualche compagno
intenderebbe ammazzarla per la faccenda dei gaglioffi. Ti dico
subito che ha torto marcio, proprio lei che suo marito lasciò
quel disgraziato di Pilotti nella melma per quasi due giorni.
Però far sparire quelli che con mille buone ragioni abbiamo
giustiziato, primo: non è umano. Secondo,
ci mette contro la canea dei nostri avversari, i preti in
prima fila. Terzo, fa il loro gioco perché possono porci in una
pessima luce. Finisce col rimetterci anche la maggioranza come
te, che, deposto il mitra, intende rifondare il paese. Non
capite che così vince la reazione? Perché – mi chiedo – non
hanno tenuto conto della sua disperazione? Se poi fosse vero che
a offenderla per primi sono stati i compagni? Una volta si aveva
rispetto per le donne! E quel Miro che si è montato la testa,
poteva riceverla! Mica ci ha fatto una gran figura a nascondersi
dietro un dito. Insomma, figurati cosa accadrebbe
in paese se scomparisse anche lei dopo suo marito!».
Non ebbe
risposta.
«Te lo immagini,
egregio compagno dirigente, se i fascisti ci avessero tolto di
mezzo tutti e due, lasciando orfani i nostri due ragazzi?».
«Ci avrebbe
pensato il partito».
«E già! Perché
noi abbiamo il partito che tutto vede e a tutto provvede. La
Casali, sventurata, il partito, non ce l’ha!».
«Basta con questi
piagnistei. Se fosse toccato a te, i fascisti non avrebbero
avuto pietà». Mutò il tono: «Calmati: nessuno torcerà un capello
a quella vedova».
Scorse allora
negli occhi di lei l’antico bagliore che ben conosceva: d’amore
e di riconoscenza.
Si scorgevano le
luci del paese quando Vittorio di nuovo fu assalito
dall’angustia che lo affliggeva fin dalla sera della tragedia,
quando la mamma, nella sua disperazione, aveva buttato là una
frase come un rimprovero.
«Quando hanno portato via
quel poveretto, ti sei nascosto e non l’hai nemmeno salutato».
Se anche il
babbo fosse stato avvertito in tempo. Se qualcuno lo avesse
protetto nella fuga. Se, come un possidente del paese, avesse
potuto convincere i suoi giustizieri a risparmiarlo in cambio di
tanto denaro!
La situazione
era davvero mutata ultimamente con la polizia militare che
vigilava e i Polacchi sempre disposti a proteggere chiunque
contro gli odiati comunisti.
Di giorno si
vedevano in giro anche i carabinieri.
Padrona delle
vie e delle piazze era la gente, agitata da una brama
irrefrenabile di esprimersi,
di riunirsi, di partecipare agli amabili riti della pace.
Quasi a pretendere
un adeguato risarcimento alla pochezza della vita e dei
sentimenti umiliati dalle vicende belliche.
Già sull’uscio
di casa percepivi in lontananza l’incitamento dei tifosi alla
partita di calcio: un brusio che si innalzava come un’onda per
poi declinare a mormorio e poi ancora su, sussulto corale,
fragoroso, che finiva in un boato. Hanno fatto goal! Giocavano
ogni pomeriggio
le squadre
dei militari alleati o quella locale coi tradizionali
avversari dei paesi vicini. Le squadre si chiamavano ora
Stella Rossa,
Scintilla, Locomotiv,
o, dalla sponda moderata,
Meazza, Virtus, Robur, Edilweis. Di fronte alle locandine
del cinema capannelli di appassionati della mai dimenticata
produzione d’oltreoceano: western specialmente, ma anche drammi
o godibilissimi musicals.
Ai muri, manifesti
vistosi, solitamente verdi quelli dei circoli repubblicani, di
un bel rosso fiammante quelli del PCI o dei socialisti
annunciavano serate danzanti con “ricchi premi e cotillon” e
perfino l’elezione di miss qualcosa, ogni sabato e domenica
sera. Talvolta anche il giovedì.
Naturalmente la
gioventù faceva la parte del leone, specialmente le ragazze,
ahimè, più inclini a imbastire flirts coi militari alleati che
con i connazionali, penalizzati dalla scarsa disponibilità di
cioccolato o di rarissime calze di nylon.
|
...le ragazze, ahimè, più inclini ad
imbastire flirts coi militari alleati... |
Di qui le
scazzottate epiche fra Inglesi da un lato e civili e partigiani
dall’altro, esclusi dai festini privilegiati ai
NAAFI Stores
rigorosamente riservati alla truppa. Musica moderna, bevande e
paste a volontà. Ai quali intervenivano numerose, quasi sempre
accompagnate dalla mamma. «Di certo le nostre donne non ci fanno
una gran figura neanche quelle mature» puntualizzò quando le
ruote già frusciavano sull’asfalto paesano. «La danno facilmente,
come mai era accaduto…».
Il signor
Adolfo, gran conquistatore che, di donne, si dice se ne sia
fatte più di trecento di qua e di là dal mare, seduto al tavolo
del caffè, ha sentenziato: «Le vedovelle molto si ingegnano per
rinnovare fasti da tempo dimenticati e magari accalappiare un
allocco. Le spose di quelli che stanno per tornare dalla guerra,
notte e giorno sono in “operosa attesa” del coniuge: sapete cosa
intendo, vero? Quando tornerà il maritino saranno ben rodate.
Purché non capiti un incidente di percorso. Vi devo chiedere
quale? Le ragazze? Trovarne una vergine è come giocare alla
lotteria» concluse Vittorio, e gli parve di aver parlato da uomo.
«Le più avvedute non rompono del tutto i ponti coi nostri né
fraternizzano troppo coi liberatori. Infine non mancano quelle –
si contano sulle dita di una mano – assolutamente al di sopra di
ogni sospetto: come l’Aldina».
Sotto un
lampione consultò l’orologio della Comunione
: «Quasi le undici. È tardi, l’Aldina sarà già rientrata».
Ci perdeva il
sonno. Passava e ripassava sotto quelle benedette finestre
quaranta volte al giorno. Pur di attaccare discorso escogitava
pretesti talmente sciocchi da vergognarsene quando ci ripensava.
In un momento di
smisurata audacia le aveva chiesto un appuntamento. Venuta? No,
a essere sinceri. Era solo passata sotto-braccio a una coetanea
che da allora gli era rimasta antipatica.
Un ciao forse
ironico da parte di ambedue mentre si allontanavano, tutte
sorrisetti e bisbigli.
«Toglitela dalla
mente, non è per te». Aveva sentenziato un’impicciona cui nulla
sfuggiva perché nulla aveva di cui occuparsi.
«Le pigliasse un
accidente a quella strega! Però non ha tutti i torti».
«Avessi almeno
un abito decente per la domenica! Quando sei ben vestito,
combini sempre qualcosa con le ragazze».
I giovanotti
sfoggiavano pantaloni a tubo che lasciavano vedere calzini dai
colori vivaci, in tinta unita o a belle righe alte un dito, e
camicie dal colletto alla francese, con le maniche lunghe appena
rimboccate sopra il polsino.
Pino che – beato
lui! – aveva uno zio a Livorno dove erano frequenti
i piccoli traffici con gli Americani, sfoggiava
una cravattona larga un palmo, a disegni fantasiosi,
coloratissimi, come quelle degli attori cinematografici.
Sognava un paio
di mocassini, pur guardandosi dal confessarlo alla mamma. Anzi,
lo tormentava il rimorso, se talvolta la considerava taccagna.
«Lavora tutto il
giorno e cuce per certi clienti che le affidano il lavoro più
per compassione che per altro, e io, il bel signori- no,
pretendo le scarpe eleganti!».
Gli rimaneva
tuttavia un astio che acuiva il senso di isolamento.
Smessi gli
odiati calzoni alla zuava,
|
...Smessi gli odiati calzoni alla zuava... |
indossava gli
abiti del babbo, adattati alle sue magre spalle con certi
pantaloni fuori moda che parevano vele da bastimento, tanto
erano larghi e svolazzanti. Qualche soldo, glielo passava lo
zio, così avrebbe potuto anche andare a ballare. Non certo al
circolo dei comunisti. Volentieri a quello dei repubblicani:
c’era l’Aldina.
Non sapeva
decidersi. Piantato davanti all’entrata, un po’ discosto dagli
squattrinati pronti a ricorrere ai soliti trucchi per introdursi
a sbafo, aveva provato per la prima volta il morso della gelosia:
«Guarda è entrato anche Vasco che le fa la corte».
Non si decideva
perché non sapeva ballare: il ritmo, lo sentiva, sissignore!
Purtroppo non conosceva né i passi né le figure.
Chi glieli
avrebbe insegnati?
I suoi coetanei
si riunivano nei cortili per ballare al suono del grammofono. Si
impara facilmente senza l’imbarazzo dei locali pubblici dove ti
paralizza la sensazione di avere tutti gli sguardi puntati su di
te.
Ne era escluso:
«Se viene Casali, la mia mamma non mi manda».
Negli ultimi
tempi, l’opportunità di immergersi giornalmente nel flusso di
un’esperienza collettiva spensierata col fascino della novità e
l’illusione di essere assolutamente liberi di cogliere le
occasioni più allettanti, lo avevano convinto che l’impegno
parrocchiale null’altro era se non un ossessionante ripetizione
di messe, esercizi spirituali, ore di meditazione lunghe come la
fame.
Poi processioni,
benedizioni solenni, marce e adunate oceaniche nell’immensa
piazza del capoluogo dove più volte aveva udito inneggiare
al pontefice al grido di: “Per il papa, vita, vita,
vita…” che ricordava, non solo a lui, l’appena dismesso “Per il
duce eia, eia alalà”.
«Il ballo? Gesù
mio, misericordia! È peccato mortale!».
«Il cinema?
Quello sì purché il film non sia “proibito”. Ragazzi, consultate
sempre la lista all’entrata della chiesa».
Dalla quale
risultava con desolante regolarità che i “Film per tutti” erano
anche i più sciapi.
«Ma figlioli, il
cine, lo abbiamo anche noi in parrocchia!».
«Caro il mio
cappellano, vorresti confrontare le pellicole del cinema grande
coi filmetti muti dopo il catechismo delle due e mezzo, premio e
delizia dei più tonti che non se la sono svignata al termine
della funzione per assistere alla partita di calcio?».
Pareva che
l’orario della funzione fosse stato scelto per impedire ai
giovani di assistere alla partita!
«D’accordo,
Ridolini e soprattutto Charlot sono divertenti. Però le scene
d’amore, quelle rarissime che proiettavano!». Sullo schermo –
nient’altro che un lenzuolo appeso alla parete – i due
protagonisti portavano le mani al cuore, muovevano le labbra a
declamare il loro discorso misterioso.
Quando poi
apparivano i sottotitoli, gli spettatori li leggevano in coro,
ad alta voce, creando un muggito che aveva la cadenza incerta,
saltellante, compitante di una prima elementare non proprio
dotata.
Il bacio
rappresentava l’apoteosi dei fischi, dei lazzi e delle sconcezze
gridate con voce megafonica. Vai a identificare il colpevole!
Allora il parroco faceva tornare la luce. E buonanotte.
Sorrise. «Roba
da millenovecentoundici!
E le canzoni dei film?» gli venne in mente Serenata a
Vallechiara cantata da Bing Crosby.
|
Bing Crosby canta Serenata a Vallechiara
Clicca sulla foto ed
ascolta la canzone |
Poi c’era Frank
Sinatra, di origine italiana, sissignori! Come Yves Montard. «Ed
Esther William in costume da bagno? No, caro il mio cappellano,
non c’è paragone».
|
|
|
Frank Sinatra |
Yves Montand |
Esther Williams |
Il distacco era
tuttavia avvenuto diradando la presenza in parrocchia, non senza
i rabbuffi del solito cappellano: «Non ti vediamo da una
settimana. Ti rendi conto che stai abbandonando la retta via?
Attento, Vittorio, perché lo spirito tentatore ti seduce a poco
a poco, insensibilmente…
e ti ritrovi sull’orlo
del baratro
senza accorgertene. Figliolo caro, non lasciarti ammaliare dagli
orpelli del mondo, luci abbaglianti, illusioni smisurate, facili
trionfi, soddisfazioni effimere… poi? E poi il tonfo giù nel
profondo, per tutta l’eternità! Ora vai in chiesa, chiedi
perdono al Signore e recita cinque Pater, Ave, Gloria».
obbediva per
rispetto e per abitudine, ma rinunciare all’allegria delle
piazze affollate, al tifo delle partite di calcio, al fascino
travolgente della musica, alle emozioni dei film e soprattutto
alla facoltà di disporre di se stesso e del proprio tempo, in
cuor suo, non intendeva.
Non gli sarebbe
spiaciuto conciliare i suoi doveri di cristiano con le esigenze
di un giovane moderno che vive la vita del suo tempo.
Era possibile? A
dar retta al cappellano, no di certo. o:p>
E l’Aldina? Se
anche lei avesse frequentato la parrocchia, tutto sarebbe stato
diverso. Lei però, coi preti, non intendeva averci nulla a che
fare. E lui, all’Aldina, non rinunciava.
Solo in un
secondo momento, temendo che la mamma fosse presa da una di
quelle crisi, sempre più recenti, che la sconvolgevano per tutto
un giorno – perché lei, anche se non aveva molta dimestichezza
con la religione, ci teneva che lui frequentasse la parrocchia.
«Se non ti
insegnano il bene, non ti insegnano nemmeno il male» riuscì a
convincerla sui motivi dell’abbandono. Sia pure – lo riconosceva
– esasperando alquanto la situazione.
«In parrocchia
non mi trovo più a mio agio. Anche il parroco, quel vecchio
cucco, si atteggia a perseguitato dal fascismo. A sentir lui,
metà del paese gli deve la vita. Voglio anche parlarti del
professor La Latta. Te lo ricordi? Veniva a scuola in divisa di
ufficiale sempre sul punto di partire per non so quale fronte,
ma non partiva mai. Mi copriva di elogi. Ero il suo allievo
prediletto. Dovevo andare fiero di mio padre. Ora è un capo
dell’Azione Cattolica. Un giorno alla presenza di mille
parrocchiani, mi fa, a voce alta così che tutti udissero:
“Casali, per il tuo bene ho dato alle fiamme i tuoi componimenti
grondanti retorica fascista”. L’avrei strozzato!».
Fosse finita lì!
Neanche per sogno!
«Il nostro
Vittorio è, in fondo, un bravo ragazzo che la Provvidenza e la
storia che ne è ancella hanno sottratto alla tentazione di
seguire le orme paterne. Intendiamoci! Anche tuo padre era una
persona per bene, tuttavia con un solo difetto: quando scoppiava
una guerra ci si buttava dentro a capofitto. Dopo questa
tragedia immane che tutti noi, senza distinzione, ha coinvolto,
non c’è al mondo chi non si sia reso conto quale sia il triste
destino di coloro i quali confidano nei sogni fallaci degli
uomini, e non nella promessa del Signore; d’accordo Vittorio?».
Un solo
rammarico: l’aver perso il posto nella squadra parrocchiale, di
conseguenza di essersi dovuto privare dei consigli del signor
Domenico, l’allenatore, l’unico che in quei mesi gli era apparso
un po’ come una figura paterna, che non aveva mai accennato alle
colpe del babbo né alle atrocità dei fascisti, onta del Paese.
Giocava nel
ruolo di centromediano metodista, perno centrale della difesa e,
al tempo stesso, propulsore di un gioco fatto di lunghi lanci
sulle ali, sempre spettacolari e applauditi o di ficcanti
verticalizzazioni verso il centrattacco in agguato al centro
dell’area. Nei calci d’angolo avanzava fin sotto la porta
avversaria e più di una volta, con un colpo di testa azzeccato,
lui così alto, aveva superato i difensori in elevazione e
segnato per la propria squadra.
|
...Giocava nel ruolo di centromediano
metodista... |
Gli intenditori
gli riconoscevano tantissime qualità che la- sciavano presagire
una carriera luminosa. In primo luogo era fisicamente ben
strutturato, leve lunghe, falcata elegante. Oltre a ciò aveva il
senso del gioco, piedi raffinati e un colpo di testa risolutore
quando difendeva, micidiale in attacco.
Quando giocava
in casa, assistevano alle sue imprese, un po’ defilati, senza
mai premiarlo con
l’applauso, perché
poteva dispiacere a qualcuno
«Gran bel
giocatorino» sospiravano. «Peccato sia il figlio di Casali!».
Talvolta lo
seguivano in trasferta. Lì potevano anche accennare
all’applauso. Dopo essersi guardati intorno.
In seguito alla
sua defezione, la squadra parrocchiale perse il suo smalto e
subì sconfitte umilianti, a suon di quattro a zero.
Il cappellano
non si rassegnò all’idea di perdere a un tempo una pecorella del
suo gregge e il pilastro dell’amata squadra parrocchiale. Dopo
un’ennesima, sonorissima batosta ricevettero la sua visita
inattesa.
Era più
simpatico del parroco, ma, in sostanza, della stessa pasta. Gli
premeva sopra ogni cosa la lotta quotidiana ai comunisti. Ignoro
se per sete di martirio, da quando un burlone, anche se non si
sa fino a che punto, aveva preannunziato che, di lì a poco,
avrebbe giocato a bocce con la testa del parroco e dei suoi
accoliti, o per obbedienza
alle disposizioni
delle superiori autorità ecclesiastiche.
«Sua Eccellenza
Monsignor Vescovo» esordì «ci farà presto l’ambito onore di una
sua graditissima visita pastorale. Ogni parrocchiano, in tale
occasione, deve offrire tutto sé stesso per accogliere
degnamente il messo del Signore, onorando l’antica tradizione
della nostra diocesi fedelissima nei secoli a Santa Madre
Chiesa».
Breve pausa.
«Fra le manifestazioni pomeridiane abbiamo inserito – il nostro
Vescovo ama tanto i giovani, è di idee così moderne – anche una
partita di calcio».
Scrutò il
giovane senza ottenere il minimo segnale di attenzione. Continuò
imperterrito: «La nostra Libertas si misurerà in cavalleresca
contesa con una compagine parrocchiale del capoluogo».
Altra pausa
sapiente. «Senza Vittorio rischieremmo la sconfitta, cara
signora» adulò. «E tu non tollererai di certo che la tua squadra
lo sia, vero? Anzi il suo riscatto comincerà domenica, per opera
tua».
«Per quanto mi
riguarda, potreste anche giocare con la Juventus o con
l’Arsenal: non me ne importa niente, perché non ci sarò».
La mamma parve
affliggersi.
Aggiunse, pacato
quasi sottovoce:
«Solo quando servo ai loro scopi in parrocchia mi tengono in
qualche considerazione, altrimenti mi fanno intendere che sono
il figlio di uno spiantato che, quando scoppiava
una guerra ci si precipitava dentro a capofitto. Prima
l’Africa Orientale poi la Spagna, fino a quando nell’ultima ci
ha fatto la fine che meritava. Con tutte le sue arie da
spaccamontagne!».
Il sacerdote
offrì devotamente al Signore la prova di cristiana sopportazione
che sosteneva per la sua gloria riconoscendo che certi
parrocchiani, non di
rado, mancavano di carità cristiana.
Un ultimo
tentativo, più che altro rivolto alla mamma dalla quale si
attendeva venisse un qualche sostegno.
«Abbiamo speso
un capitale in maglie, calzettoni e scarpette, cara signora, per
accontentare questi benedetti figlioli. Ce n’è un paio apposta
per te, Vittorio, fiammanti, di prima qualità»
«Ripeto: non
giocherò. Se le metta qualcun altro».
Ciò detto, uscì.
Bighellonava per
la piazza, contrariato, quando incontrò il signor Domenico. Si
sentì in colpa di fronte a uno dei pochi che non l’avevano
emarginato: «Non è per far dispetto a lei che non giocherò la
partita del vescovo. Desidero lo sappia».
Sorrise il
signor Domenico: «Ero certo che avrebbe fatto un buco
nell’acqua, il nostro abilissimo cappellano. Ho una notizia che
ti farà piacere: mercoledì prossimo andremo a provare per i
“pulcini” del Bologna».
Un convento del
sedicesimo secolo, rabberciato alla meglio, ospitava sia la
scuola media che le classi dell’istituto secondario, alla
riapertura del primo anno scolastico postbellico.
Vittorio,
iscritto alle superiori, assaporava il piacere di sentirsi
“grande”.
Non nascose
perciò un certo disagio quando una ragazzina col grembiule
d’ordinanza di satin nero e il baverino bianco, uscita dal
vociante gruppo dei “piccoli” gli si avvicinò.
Era graziosa col
fermaglio di celluloide rosso, a forma di nastrino, fra i
capelli e le scarpe con appena un accenno di tacco. Belli
soprattutto gli occhi, dal taglio obliquo, grandi sul visino
leggermente prognato.
“È pur sempre
una bambina” considerò.
«Sono la figlia
di Scardovi, ti ricordi di me?».
Intanto lo
fissava col naso all’insù perché lui era molto alto “e anche un
bel ragazzo” si disse.
«Ti ho visto
quella notte» rispose asciutto. «Il mio babbo, ma non lo dire a
nessuno, è salvo in Bass’Italia».
Non ricevendo
risposta, divagò: «Per me è il primo giorno alle medie.
Sono emozionata»
sottolineò compiacendosi di quel termine raccattato chissà dove.
Riprese a bassa voce, timorosa che altri l’udisse: «Grazie per
quella notte. Non ti abbiamo più visto per ringraziarti».
Si protese a sfiorargli il viso con una carezza.
«Come ti
chiami?».
«Mara» rispose
volenterosa.
«Bene, Maretta…».
Lo interruppe «Maretta
non mi piace. È un nome da gatta».
«Va bene, Mara.
Studia perché io ti terrò dietro come un fratello maggiore».
«Come un
fratello maggiore» gli fece eco la ragazzina con un sorriso
saputo.
«Allora prometto:
sarò diligentissima, come una brava sorellina e tutte le mattine
ti riferirò i voti che avrò meritato. Tutte le mattine, prima
della campanella».
|