LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

VITTORIO

 

La mamma ruppe uno dei suoi mesti silenzi: «La tua maestra chiede che tu vada subito da lei».

Non poteva fare attendere la “sua maestra”.

In piazza si unì per un attimo alla folla intorno ai cantastorie.

Un vecchietto sdentato, stella rossa all’occhiello, e una matronaccia che faceva gli occhi dolci a una mezzetta di vino, su un tavolinetto fra i pianeti della fortuna e i fogli delle canzoni berciavano: «Ammazzateli, impiccateli / inchiodategli la voce/ come a Cristo sulla croce…».

Li accompagnava un omarello tutto naso sotto la bombetta fasciata da un nastro vermiglio che gli ricadeva fin sulla schiena.

Con le labbra bavose incollate al clarinetto, gonfiava le gote fino allo spasimo, ora tutto ingobbito e assorto nel cavarne le note più basse, subito dopo pettoruto come un gallinaccio in un gesto melodrammatico,  lo strumento levato al cielo nella gloria dell’acuto strappa applausi.

Si pentì d’essersi attardato.

La maestra abitava lì vicino.

«Come sta la tua mamma? Comincia a rassegnarsi, poveretta?».

E subito chiese: «Devi farmi un favore… che è anche un’opera buona… anche il tuo babbo lassù ne sarà contento…».

«Mi dica, signora maestra».

«Questa notte intendono prelevare uno dei nostri. Per fortuna un’anima santa mi ha avvisata. Ce ne sono anche fra loro. Che dio la benedica».

S’interruppe per sbirciare sulla via da dietro le tendine, assalita da un timore ormai ricorrente.

Il giorno della vergogna, quando in piazza era stata rapata a zero fra i lazzi del popolame, il capo dei novelli eroi l’aveva ammonita: «Per questa volta ti serva da lezione. Attenta però: il popolo non ti perde di vista. Ti conviene rigar dritto».

 Vittorio intanto notava che sulla credenza non era più in mostra  la foto che lo ritraeva,  in divisa di balilla, con suo padre, casco coloniale e sahariana, sul petto la decorazione che aveva meritato in Africa orientale, accanto alla sua giovanissima maestra. Scattata nel giorno della sfilata trionfale dei reduci di Abissinia, lungo il viale dei lecci che dalla stazione ferroviaria del capoluogo conduce al Piazzale della Patria, straripante di folla in divisa e non, assiepata dietro ai cordoni degli Avanguardisti.

Appena la banda della Milizia attaccava, la folla, per un attimo si faceva attenta per individuare il motivo, poi lo cantava in coro. Tre volte il maestro dovette concedere Faccetta Nera.

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Partecipavano, sia pure con diverso garbo, le autorità dalla loro tribuna tutta fasciata di nero e di tricolore e le famiglie che dalle finestre e dai balconi affidavano alla brezza bandiere ondeggianti a tempo di musica.

In chiassosa brigata ciclistica si era mosso anche tutto il suo paese: podestà, segretario del Fascio e parroco in testa.

Qualche vecchio mazziniano si era intruppato perché la patria è sempre la patria. Un socialista perché suo zio era caduto ad Adua.

Allegri e di gomiti ferrigni, servendosi di un valido argomento: «Sapete che Casali, nostro compaesano, l’hanno decorato di medaglia d’argento? Vogliamo vederlo sfilare!» raggiunsero la prima fila.

Un fremito si avvertì nella tribuna delle autorità e all’istante si propagò fra i convenuti.

 In fondo al viale avanzava la legione degli eroi, quadrata, impeccabile. Ciascun reparto, all’ultima riga schierava i mitraglieri onusti della loro pesantissima arma levata al cielo.

Cantavano: «I morti che lasciammo al Passo Uaireu / sono i pilastri del romano impero…». Quando giunsero al: «… gronda di sangue il gagliardetto nero / che là sull’amba i barbari inchiodò» fu un delirio generale.

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Si agitavano pericolosamente per la loro incolumità anche gli ultimi, preziosi garibaldini, ospiti di riguardo sul palco delle autorità.

Fu poi solo un caso che, quando il drappello di testa si presentò davanti alle autorità e fu ordinato “L’attenti a destr…” la truppa avesse appena intonato: «Sui morti che lasciammo al Passo Uaireu / la croce di Giuliani sfolgorò».

Sorrise finemente Monsignor Vescovo mentre prevosti, cappellani e fraticelli erano al settimo cielo.

«Ora si vive alla luce del sole. Benedetto il Concordato e chi l’ha sottoscritto.  Ve lo ricordate quando passavamo davanti alle osterie i motteggi ingiuriosi? E i “tric trac” esplosi contro le “Figlie di Maria” durante la processione? E prima ancora i tabernacoli violati, le sacre particole in pasto alle galline, i Crocifissi profanati durante il terrore della Settimana Rossa? Ora, chi bestemmia rischia la galera».

Riprese la maestra: «Sei l’unico di cui possa fidarmi. Mi sorvegliano notte e giorno… tuttavia, se non te la senti dimmelo subito».

«Lo farò, signora maestra. Dica solo come».

«La tua mamma è d’accordo. Si tratta di salvare un innocente. Sai dov’è il podere Caselle?».

Il ragazzo annuì.

«Vacci appena farà buio. Cerca Giulio Scardovi. Avvertilo che questa notte andranno a prelevarlo col pretesto di un interrogatorio. Finirà come gli altri».

«Come il mio babbo» pensò Vittorio ad alta voce

«Fugga per i campi evitando le strade. Lo attendono alla parrocchia di S. Giacomo».

Tacque per un attimo e poi: «Hai fissato in mente ciò che devi dire? Vuoi che te lo ripeta?».

«Ricordo tutto» concluse il ragazzo.

A un chilometro dal paese l’asfalto cedeva alla strada polverosa, dove le ruote della bicicletta affondavano un poco.

Il babbo era tornato ai primi di maggio. Suo fratello, un impiego sicuro in banca e nessuna compromissione politica lo esortò a fuggire subito verso il sud dove non ardevano gli odi. Poi non si fece più vivo fino al giorno seguente la tragedia.

Non era più armato come l’anno precedente quando dava la caccia ai “gappisti”. Scompariva nel buio per tornare all’alba, quando già la mamma sfaccendava in cucina, tutto inzaccherato.

Qualche rara parola, un boccone buttato giù in fretta e subito alla sede del presidio.

Un giorno era accaduto un fatto orribile.

«Il principio delle nostre disgrazie» sospirava la mamma. «La maledizione e la rovina della famiglia per colpa di quello lì» brontolava la nonna, provocando nel nipote brividi di terrore.

Una donna scarmigliata, trattenuta a stento da una vicina, si era piazzata di fronte alla porta di casa.

«Venite via, Edera» la implorava la vicina. «Pensate alle vostre bambine ormai…». Ma lei, sorda a ogni preghiera, con abbrancate alle ginocchia le due piccine che la supplicavano di tornare a casa, urlò: «Casali, venite fuori o avete paura di guardare in faccia queste due innocenti, che gli avete ammazzato il babbo questa notte».

Tacque per un attimo, affannata. «Che colpe aveva il mio uomo» riprese gemendo. «Era onesto e un gran lavoratore». Gridò con voce altissima: «Assassino, maledico te e la tua famiglia».

La trascinarono lontano. Mugolava il nome del marito. Poi si riscuoteva.  Con le mani nei capelli si interrogava,  flebile, che ne sarebbe stato di lei e delle sue creature.

Ora la mamma guardava il suo sposo sul punto di uscire. Sulla soglia si volse indietro. «Lui ha sparato per primo ferendo uno dei militi del presidio e me – soggiunse – e me – sottolineò , battendosi il petto – non mi ha preso per un pelo perché mi sono gettato a corpo morto dietro un muretto. Altrimenti saresti tu a fare la scena».

«Sta’ tranquilla. Non ha sofferto». Tacque, immerso in un suo pensiero.

Dopo quattro giorni sembrava che nessuno si fosse accorto del suo ritorno. Per questo le speranze crescevano a ogni ora che trascorreva, anche se l’angoscia li attanagliava a ogni voce, a ogni passo estraneo.

Se ne stava in solaio. Spesso, rannicchiato davanti alla finestrella, controllava la strada giù fino alla curva prima del paese. Abbandonata dopo un po’ l’incomoda posizione, perlustrava il retro verso i campi. Più di frequente lo udivi camminare avanti e indietro in corrispondenza della parte alta del- lo spiovente, dove poteva ergersi in tutta la sua statura. Quel suo muoversi, subito interrotto quando un passante transitava lungo la strada rassicurava i familiari.

La sera maledetta, il resto della famiglia sedeva a tavola. La mamma faceva la spola dalla mensa al focolare sempre tesa a cogliere i rumori che giungevano dal solaio.

D’un colpo cessarono.

«Forse sta davanti alla finestrella» sperò, nel farsi più attenta.

Trascorse qualche secondo interminabile.

Ormai in preda a un nero presentimento si interrogò a voce alta perché mai lassù tutto taceva. La nonna e i bambini erano ammutoliti.

«Mio Dio, perché non si sente più?» gridò angosciata.

Come risposta lo udirono precipitarsi per le scale, sconvolto: «Norina, arrivano. Sono già qui».

Riacquistò il controllo di se stesso: «Vittorio, col tuo fratellino esci dalla porta di dietro e correte a casa dello zio Aurelio. Non ti fermare, qualunque cosa accada». Obbedì, ma, aperta la porta, una voce gli ingiunse di tornare indietro.

Un’altra voce, quella del caporione, intimò al babbo di uscire con le mani alzate, tanto non aveva scampo. Avrebbe evitato rischi ai suoi familiari.

Il babbo aveva in volto un’espressione di rassegnata tristezza. Spezzava il cuore. Nessuno avrebbe supposto nella mamma tanta disperata forza di carattere. «Ascoltami: giorni fa sono andati ad arrestare uno dei tuoi ma la moglie ha risposto: “Noi non ve lo lasciamo. Che ci ammazziate qui tutti insieme o altrove non fa differenza”… ci credi? Hanno rinunciato».

«Vittorio, Tonino, prendetevi per mano. Seguiremo il babbo».

«Non ve lo permetterebbero mai» rispose.

Le strinse la mano.

«Da quanto tempo non era accaduto» si sorprese a pensare lei con accorata dolcezza.

«Adesso vengo» annunciò a quelli di fuori, con voce strozzata. Allora la mamma gli si parò dinnanzi, lo supplicò di rimanere.

«Moriremo tutti insieme nella nostra casa». Tentò di respingerla, ma se la trovò accanto. Comparvero insieme nell’aia invasa da una folla ostile.

Dall’angolo  oscuro  della  cucina,  Vittorio  fu consapevole che quella era l’ultima volta che vedeva suo padre. Rimase ad attendere.

Presso il focolare la nonna copriva con le sue mani annerite dagli anni le orecchie di Tonino: che a quell’innocente  fosse risparmiato l’urlo infame della crudeltà.

Distinse le parole del capo: «Sbrighiamoci. E voi, sposa, se  avete qualcosa da dire al vostro uomo, fatelo adesso».

«Io vado con lui» dichiarò.

«Voi invece tornate in casa subito».

«Ho detto che andrò con lui» replicò testarda.

Il gran capo era disorientato, ma alle sue spalle i gregari spazientivano. La folla intendeva essere privata dello spettacolo.

Allora si fece avanti la moglie di Pilotti.

«Ho sentito bene? Vuoi andare con lui? Eh no, la mia donna! Rimarrai a piangere come me! No, la mia bella donna, i tuoi figli dovranno crescere nella miseria come le mie bambine!».

Si alterò: «Perché mio marito» urlò «non aveva fatto niente di male, a nessuno. Tutti lo sanno e pure quel vigliacco lì…» fece atto di scagliarsi contro il prigioniero, subito trattenuta.

«State buona Edera, a quello c’è già chi ci pensa».

«Quel delinquente lì» riprese, insensibile alla promessa «me lo ha accoppato, come un cane, come un cane… Che quando me lo lasciarono vedere, aveva la testa nella melma di un fosso, il mio Giovanni, poverino! Non mi permisero neppure di tirarlo su dall’acqua, quei boia! Per tutto un giorno e una notte…»

All’evocare quel misero corpo immerso nell’acqua limacciosa, la sua collera si propagò ai presenti. C’era il rischio che si facesse giustizia sommaria. Il capo cominciava a temere l’intervento degli Inglesi.

«Presto» ordinò e subito il prigioniero sotto una gragnola di calci e pugni, fu trascinato verso la millecento nera.

Sbattere violento di sportelli, poi l’auto imboccò la via maestra a motore imballato. La folla si disperse.

S’era fatto buio, la tavola  sempre apparecchiata, la porta aperta sul vuoto dell’aia. In un angolo, seduta sul sacco della farina la mamma singhiozzava, ma Tonino sullo sgabello col capo appoggiato sul  grembo della nonna, si era addormentato. Passò altro tempo ancora. «Per tutti i nostri poveri morti ave Maria, gratia plena» biascicò, come ogni sera, la nonna frastornata.

«Smettetela!» invocò la mamma. Ripetute vibrazioni del manubrio lo avvertirono che la strada era disseminata di ciottoli che temeva aguzzi.

A dire il vero, non lo preoccupava  eccessivamente  l’eventualità di bucare una gomma o peggio di lacerarla – si compravano solo a caro prezzo – molto di più il timore di essere inseguito dalla Millecento nera con la quale si erano portati via il babbo. Spesso si guardava alle spalle, teso a percepire il rombo di un motore. Forse qualcuno l’aveva spiato. Forse avevano scoperto tutto. Allora, povera mamma! Ecco la casa, finalmente. Bussò alla porta. Silenzio, nonostante il cane, sul retro, latrasse.

Quando bussò la seconda volta, si aprì uno spiraglio una finestra da dove una voce femminile chiese: «Chi è a quest’ora?».

«Sono Vittorio Casali, mi manda la maestra Zandoli. Fatemi entrare».

Li trovò riuniti in cucina stretti da un’angoscia che conosceva. Si rivolse all’uomo e, tutto d’un fiato: «Mi manda la maestra Zandoli» ansimò «per avvertirvi che questa notte verranno ad arrestarvi. Non vi fate trovare. Andate subito alla Parrocchia di S. Giacomo. Vi attendono»

Riprese lena: «La maestra vi raccomanda di passare per i campi: le strade sono sorvegliate».

Girò sui tacchi, fra mormorii di riconoscenza e scomparve nel buio.

Sulla via del ritorno l’ansia  si affievolì. Se avesse  forato, poco male: avrebbe trascinato la bicicletta, come altre volte. Sarebbe solo occorso più tempo. La mamma però sarebbe stata in ansia.

Povera mamma, non si rassegnava. Per giorni dopo il rapimento in continuo pellegrinaggio alla camera mortuaria dove portavano i resti dei giustiziati. Perfino sull’argine del fiume perché qualcuno azzardava che quel fardello appiattito fra le canne poteva essere il babbo. Invano.

Ancora oggi la illudono gli ambigui responsi di una cartomante: «Sento che è vivo e fino a quando non troverò il suo corpo, la penserò così».

Quando  un’amica  le ha rivelato  che, durante  una seduta medianica, l’entità rivelatasi, interrogata sulla sorte del babbo aveva risposto: «È con noi» ha replicato convinta che si tratta di una mistificazione.

Una seduta mediatica

Aveva perfino osato recarsi al comando partigiano. Il capo si era negato.

Alcuni gregari l’avevano offesa. A un tratto era esplosa imprudentemente: «Anche se non hanno il coraggio di dirlo, lo pensano tutti che siete dei gaglioffi. Non era mai successo che i corpi degli ammazzati fossero fatti scomparire. Al cimitero sono le tombe dei vostri, coi loro bei garofani rossi. Tutti, perché finora nessuno aveva mancato di rispettare il diritto a essere sepolti da cristiani. Questo ero venuto a chiedervi per mio marito. Mi deridete, vigliacchi. Chiedetelo alle mogli e alle mamme dei vostri morti il dolore che si prova!».

Ci sono tempi in cui le parole sono segni di sangue, così non pochi erano persuasi che la vedova Casali sarebbe stata inghiottita dal nulla come il marito.

Le voci che, per un caso fortunato, non erano giunte alle orecchie di Vittorio, arrivarono invece all’Ersilia.

Nel ‘24 l’Ersilia aveva seguito il suo uomo in Francia per iniziare con lui una vita di stenti.

Un uomo che l’amava, per il quale tuttavia la politica veniva prima di tutto e di tutti. Riunioni, cortei, scioperi, qualche giorno di carcere ogni tanto. I gendarmi  a ronzare sempre intorno. Lei a tenere salda la famiglia – erano nati Libero e Comunardo – sgobbando in casa e in servizi a ore.

«Ah cette italienne» mormorava fra il compassionevole e l’ammirato la sua padrona che non si capacitava come in essa si combinassero povertà, orgoglio e dignità, lungi dal servilismo di altre domestiche.

Nell’Europa subito dimentica degli orrori della prima guerra mondiale scoppiò quella di Spagna: lui nelle brigate internazionali.

Qualche anno dopo alla macchia contro i Tedeschi. Lei a casa coi figli e qualche sussidio del partito.

In fine lo avevano inviato in Italia per organizzare la lotta partigiana. Qui si era riunita la famigliola nella tarda primavera del ’45.

Per i compaesani era ormai “la Francese”, detestata dai moderati, invisa a non pochi compagni. Non gradivano questi ultimi una certa sua supponenza  nei riguardi dei comunisti nostrani, nemmeno lontanamente confrontabili nella lotta politica a quelli d’oltralpe. In particolare non tolleravano un suo giudizio tranciante: «Vent’anni or sono ho lasciato questo paese asservito ai preti e ai padroni. Dopo vent’anni e una guerra contro la dittatura, comandano sempre gli stessi. Hanno solo mutato casacca».

«Nulla si muove in questo paese però le novità non mancano mai…» apostrofò il marito al suo rientro.

«Quali novità?».

«Va là, lo sai anche tu che intendono eliminare la vedova Casali perché gli ha dato dei gaglioffi».

«Senti compagna» le si rivolgeva così quando era contrariato «non dirmi che prendi le difese della moglie di un assassino fascista?».

«Come si vede che non sei una donna».

«Vorrei ben vedere…».

«Lasciami finire il discorso poi avrai la parola, compagno dirigente. Non si contano le volte che mi hai abbandonata coi figli per seguire il partito. Ti sapevo in pericolo tuttavia cercavo di rincuorarmi. Finirà questa guerra maledetta. Lui è vivo.

Avremo tanto tempo ancora per vivere insieme in un mondo di pace e di progresso. Quella disgraziata ogni giorno digrigna i denti contro la miseria per sopravvivere coi suoi bambini. Si rompe la schiena a lavare i panni dei soldati… tu dirai che l’ho fatto anche io. Per di più in un paese straniero. Io però avevo una speranza. Lei no. Ora mi dicono che qualche compagno intenderebbe ammazzarla per la faccenda dei gaglioffi. Ti dico subito che ha torto marcio, proprio lei che suo marito lasciò quel disgraziato di Pilotti nella melma per quasi due giorni. Però far sparire quelli che con mille buone ragioni abbiamo giustiziato, primo: non è umano. Secondo,  ci mette contro la canea dei nostri avversari, i preti in prima fila. Terzo, fa il loro gioco perché possono porci in una pessima luce. Finisce col rimetterci anche la maggioranza come te, che, deposto il mitra, intende rifondare il paese. Non capite che così vince la reazione? Perché – mi chiedo – non hanno tenuto conto della sua disperazione? Se poi fosse vero che a offenderla per primi sono stati i compagni? Una volta si aveva rispetto per le donne! E quel Miro che si è montato la testa, poteva riceverla! Mica ci ha fatto una gran figura a nascondersi dietro un dito. Insomma, figurati cosa accadrebbe  in paese se scomparisse anche lei dopo suo marito!».

Non ebbe risposta.

«Te lo immagini, egregio compagno dirigente, se i fascisti ci avessero tolto di mezzo tutti e due, lasciando orfani i nostri due ragazzi?».

«Ci avrebbe pensato il partito».

«E già! Perché noi abbiamo il partito che tutto vede e a tutto provvede. La Casali, sventurata, il partito, non ce l’ha!».

 «Basta con questi piagnistei. Se fosse toccato a te, i fascisti non avrebbero avuto pietà». Mutò il tono: «Calmati: nessuno torcerà un capello a quella vedova».

Scorse allora negli occhi di lei l’antico bagliore che ben conosceva: d’amore e di riconoscenza.

Si scorgevano le luci del paese quando Vittorio di nuovo fu assalito dall’angustia che lo affliggeva fin dalla sera della tragedia, quando la mamma, nella sua disperazione, aveva buttato là una frase come un rimprovero.

«Quando hanno portato via quel poveretto, ti sei nascosto e non l’hai nemmeno salutato».

Se anche il babbo fosse stato avvertito in tempo. Se qualcuno lo avesse protetto nella fuga. Se, come un possidente del paese, avesse potuto convincere i suoi giustizieri a risparmiarlo in cambio di tanto denaro!

La situazione era davvero mutata ultimamente con la polizia militare che vigilava e i Polacchi sempre disposti a proteggere chiunque contro gli odiati comunisti.

Di giorno si vedevano in giro anche i carabinieri.

Padrona delle vie e delle piazze era la gente, agitata da una brama irrefrenabile di esprimersi,  di riunirsi, di partecipare agli amabili riti della pace. Quasi a pretendere  un adeguato risarcimento alla pochezza della vita e dei sentimenti umiliati dalle vicende belliche.

Già sull’uscio di casa percepivi in lontananza l’incitamento dei tifosi alla partita di calcio: un brusio che si innalzava come un’onda per poi declinare a mormorio e poi ancora su, sussulto corale, fragoroso, che finiva in un boato. Hanno fatto goal! Giocavano  ogni pomeriggio  le squadre  dei militari alleati o quella locale coi tradizionali  avversari dei paesi vicini. Le squadre si chiamavano ora Stella Rossa, Scintilla, Locomotiv, o, dalla sponda moderata, Meazza, Virtus, Robur, Edilweis. Di fronte alle locandine del cinema capannelli di appassionati della mai dimenticata produzione d’oltreoceano: western specialmente, ma anche drammi o godibilissimi musicals.

Ai muri, manifesti vistosi, solitamente verdi quelli dei circoli repubblicani, di un bel rosso fiammante quelli del PCI o dei socialisti annunciavano serate danzanti con “ricchi premi e cotillon” e perfino l’elezione di miss qualcosa, ogni sabato e domenica sera. Talvolta anche il giovedì.

Naturalmente la gioventù faceva la parte del leone, specialmente le ragazze, ahimè, più inclini a imbastire flirts coi militari alleati che con i connazionali, penalizzati dalla scarsa disponibilità di cioccolato o di rarissime calze di nylon.

 

...le ragazze, ahimè, più inclini ad imbastire flirts coi militari alleati...

 

Di qui le scazzottate epiche fra Inglesi da un lato e civili e partigiani dall’altro, esclusi dai festini privilegiati ai NAAFI Stores rigorosamente riservati alla truppa. Musica moderna, bevande e paste a volontà. Ai quali intervenivano numerose, quasi sempre accompagnate dalla mamma. «Di certo le nostre donne non ci fanno una gran figura neanche quelle mature» puntualizzò quando le ruote già frusciavano sull’asfalto paesano. «La danno facilmente, come mai era accaduto…».

Il signor Adolfo, gran conquistatore che, di donne, si dice se ne sia fatte più di trecento di qua e di là dal mare, seduto al tavolo del caffè, ha sentenziato: «Le vedovelle molto si ingegnano per rinnovare fasti da tempo dimenticati e magari accalappiare un allocco. Le spose di quelli che stanno per tornare dalla guerra, notte e giorno sono in “operosa attesa” del coniuge: sapete cosa intendo, vero? Quando tornerà il maritino saranno ben rodate. Purché non capiti un incidente di percorso. Vi devo chiedere quale? Le ragazze? Trovarne una vergine è come giocare alla lotteria» concluse Vittorio, e gli parve di aver parlato da uomo. «Le più avvedute non rompono del tutto i ponti coi nostri né fraternizzano troppo coi liberatori. Infine non mancano quelle – si contano sulle dita di una mano – assolutamente al di sopra di ogni sospetto: come l’Aldina».

Sotto un lampione consultò l’orologio della Comunione  : «Quasi le undici. È tardi, l’Aldina sarà già rientrata».

Ci perdeva il sonno. Passava e ripassava sotto quelle benedette finestre quaranta volte al giorno. Pur di attaccare discorso escogitava pretesti talmente sciocchi da vergognarsene quando ci ripensava.

In un momento di smisurata audacia le aveva chiesto un appuntamento. Venuta? No, a essere sinceri. Era solo passata sotto-braccio a una coetanea che da allora gli era rimasta antipatica.

Un ciao forse ironico da parte di ambedue mentre si allontanavano, tutte sorrisetti e bisbigli.

«Toglitela dalla mente, non è per te». Aveva sentenziato un’impicciona cui nulla sfuggiva perché nulla aveva di cui occuparsi.

«Le pigliasse un accidente a quella strega! Però non ha tutti i torti».

«Avessi almeno un abito decente per la domenica! Quando sei ben vestito, combini sempre qualcosa con le ragazze».

I giovanotti sfoggiavano pantaloni a tubo che lasciavano vedere calzini dai colori vivaci, in tinta unita o a belle righe alte un dito, e camicie dal colletto alla francese, con le maniche lunghe appena rimboccate sopra il polsino.

Pino che – beato lui! – aveva uno zio a Livorno dove erano frequenti  i piccoli traffici con gli Americani, sfoggiava  una cravattona larga un palmo, a disegni fantasiosi, coloratissimi, come quelle degli attori cinematografici.

Sognava un paio di mocassini, pur guardandosi dal confessarlo alla mamma. Anzi, lo tormentava il rimorso, se talvolta la considerava taccagna.

«Lavora tutto il giorno e cuce per certi clienti che le affidano il lavoro più per compassione che per altro, e io, il bel signori- no, pretendo le scarpe eleganti!».

Gli rimaneva tuttavia un astio che acuiva il senso di isolamento.

Smessi gli odiati calzoni alla zuava,

...Smessi gli odiati calzoni alla zuava...

indossava gli abiti del babbo, adattati alle sue magre spalle con certi pantaloni fuori moda che parevano vele da bastimento, tanto erano larghi e svolazzanti. Qualche soldo, glielo passava lo zio, così avrebbe potuto anche andare a ballare. Non certo al circolo dei comunisti. Volentieri a quello dei repubblicani: c’era l’Aldina.

Non sapeva decidersi. Piantato davanti all’entrata, un po’ discosto dagli squattrinati pronti a ricorrere ai soliti trucchi per introdursi a sbafo, aveva provato per la prima volta il morso della gelosia: «Guarda è entrato anche Vasco che le fa la corte».

Non si decideva perché non sapeva ballare: il ritmo, lo sentiva, sissignore! Purtroppo non conosceva né i passi né le figure.

Chi glieli avrebbe insegnati?

I suoi coetanei si riunivano nei cortili per ballare al suono del grammofono. Si impara facilmente senza l’imbarazzo dei locali pubblici dove ti paralizza la sensazione di avere tutti gli sguardi puntati su di te.

Ne era escluso: «Se viene Casali, la mia mamma non mi manda».

Negli ultimi tempi, l’opportunità di immergersi giornalmente nel flusso di un’esperienza collettiva spensierata col fascino della novità e l’illusione di essere assolutamente liberi di cogliere le occasioni più allettanti, lo avevano convinto che l’impegno parrocchiale null’altro era se non un ossessionante ripetizione di messe, esercizi spirituali, ore di meditazione lunghe come la fame.

Poi processioni, benedizioni solenni, marce e adunate oceaniche nell’immensa piazza del capoluogo dove più volte aveva udito inneggiare  al pontefice al grido di: “Per il papa, vita, vita, vita…” che ricordava, non solo a lui, l’appena dismesso “Per il duce eia, eia alalà”.

«Il ballo? Gesù mio, misericordia! È peccato mortale!».

«Il cinema? Quello sì purché il film non sia “proibito”. Ragazzi, consultate sempre la lista all’entrata della chiesa».

Dalla quale risultava con desolante regolarità che i “Film per tutti” erano anche i più sciapi.

«Ma figlioli, il cine, lo abbiamo anche noi in parrocchia!».

«Caro il mio cappellano, vorresti confrontare le pellicole del cinema grande coi filmetti muti dopo il catechismo delle due e mezzo, premio e delizia dei più tonti che non se la sono svignata al termine della funzione per assistere alla partita di calcio?».

Pareva che l’orario della funzione fosse stato scelto per impedire ai giovani di assistere alla partita!

«D’accordo, Ridolini e soprattutto Charlot sono divertenti. Però le scene d’amore, quelle rarissime che proiettavano!». Sullo schermo – nient’altro che un lenzuolo appeso alla parete – i due protagonisti portavano le mani al cuore, muovevano le labbra a declamare il loro discorso misterioso.

Quando poi apparivano i sottotitoli, gli spettatori li leggevano in coro, ad alta voce, creando un muggito che aveva la cadenza incerta, saltellante, compitante di una prima elementare non proprio dotata.

Il bacio rappresentava l’apoteosi dei fischi, dei lazzi e delle sconcezze gridate con voce megafonica. Vai a identificare il colpevole! Allora il parroco faceva tornare la luce. E buonanotte.

Sorrise. «Roba da millenovecentoundici!  E le canzoni dei film?» gli venne in mente Serenata a Vallechiara cantata da Bing Crosby.

Bing Crosby canta Serenata a Vallechiara
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Poi c’era Frank Sinatra, di origine italiana, sissignori! Come Yves Montard. «Ed Esther William in costume da bagno? No, caro il mio cappellano, non c’è paragone».

 

Frank Sinatra Yves Montand Esther Williams

 

Il distacco era tuttavia avvenuto diradando la presenza in parrocchia, non senza i rabbuffi del solito cappellano: «Non ti vediamo da una settimana. Ti rendi conto che stai abbandonando la retta via? Attento, Vittorio, perché lo spirito tentatore ti seduce a poco a poco, insensibilmente…  e ti ritrovi sull’orlo  del baratro  senza accorgertene. Figliolo caro, non lasciarti ammaliare dagli orpelli del mondo, luci abbaglianti, illusioni smisurate, facili trionfi, soddisfazioni effimere… poi? E poi il tonfo giù nel profondo, per tutta l’eternità! Ora vai in chiesa, chiedi perdono al Signore e recita cinque Pater, Ave, Gloria».

obbediva per rispetto e per abitudine, ma rinunciare all’allegria delle piazze affollate, al tifo delle partite di calcio, al fascino travolgente della musica, alle emozioni dei film e soprattutto alla facoltà di disporre di se stesso e del proprio tempo, in cuor suo, non intendeva.

Non gli sarebbe spiaciuto conciliare i suoi doveri di cristiano con le esigenze di un giovane moderno che vive la vita del suo tempo.

Era possibile? A dar retta al cappellano, no di certo. o:p>

E l’Aldina? Se anche lei avesse frequentato la parrocchia, tutto sarebbe stato diverso. Lei però, coi preti, non intendeva averci nulla a che fare. E lui, all’Aldina, non rinunciava.

Solo in un secondo momento, temendo che la mamma fosse presa da una di quelle crisi, sempre più recenti, che la sconvolgevano per tutto un giorno – perché lei, anche se non aveva molta dimestichezza con la religione, ci teneva che lui frequentasse la parrocchia.

«Se non ti insegnano il bene, non ti insegnano nemmeno il male» riuscì a convincerla sui motivi dell’abbandono. Sia pure – lo riconosceva – esasperando alquanto la situazione.

«In parrocchia non mi trovo più a mio agio. Anche il parroco, quel vecchio cucco, si atteggia a perseguitato dal fascismo. A sentir lui, metà del paese gli deve la vita. Voglio anche parlarti del professor La Latta. Te lo ricordi? Veniva a scuola in divisa di ufficiale sempre sul punto di partire per non so quale fronte, ma non partiva mai. Mi copriva di elogi. Ero il suo allievo prediletto. Dovevo andare fiero di mio padre. Ora è un capo dell’Azione Cattolica. Un giorno alla presenza di mille parrocchiani, mi fa, a voce alta così che tutti udissero: “Casali, per il tuo bene ho dato alle fiamme i tuoi componimenti grondanti retorica fascista”. L’avrei strozzato!».

Fosse finita lì! Neanche per sogno!

«Il nostro Vittorio è, in fondo, un bravo ragazzo che la Provvidenza e la storia che ne è ancella hanno sottratto alla tentazione di seguire le orme paterne. Intendiamoci! Anche tuo padre era una persona per bene, tuttavia con un solo difetto: quando scoppiava una guerra ci si buttava dentro a capofitto. Dopo questa tragedia immane che tutti noi, senza distinzione, ha coinvolto, non c’è al mondo chi non si sia reso conto quale sia il triste destino di coloro i quali confidano nei sogni fallaci degli uomini, e non nella promessa del Signore; d’accordo Vittorio?».

Un solo rammarico: l’aver perso il posto nella squadra parrocchiale, di conseguenza di essersi dovuto privare dei consigli del signor Domenico, l’allenatore, l’unico che in quei mesi gli era apparso un po’ come una figura paterna, che non aveva mai accennato alle colpe del babbo né alle atrocità dei fascisti, onta del Paese.

Giocava nel ruolo di centromediano metodista, perno centrale della difesa e, al tempo stesso, propulsore di un gioco fatto di lunghi lanci sulle ali, sempre spettacolari e applauditi o di ficcanti verticalizzazioni verso il centrattacco in agguato al centro dell’area. Nei calci d’angolo avanzava fin sotto la porta avversaria e più di una volta, con un colpo di testa azzeccato, lui così alto, aveva superato i difensori in elevazione e segnato per la propria squadra.

 

...Giocava nel ruolo di centromediano metodista...

Gli intenditori gli riconoscevano tantissime qualità che la- sciavano presagire una carriera luminosa. In primo luogo era fisicamente ben strutturato, leve lunghe, falcata elegante. Oltre a ciò aveva il senso del gioco, piedi raffinati e un colpo di testa risolutore quando difendeva, micidiale in attacco.

Quando giocava in casa, assistevano alle sue imprese, un po’ defilati, senza mai premiarlo  con l’applauso,  perché poteva dispiacere a qualcuno

«Gran bel giocatorino» sospiravano. «Peccato sia il figlio di Casali!».

Talvolta lo seguivano in trasferta. Lì potevano anche accennare all’applauso. Dopo essersi guardati intorno.

In seguito alla sua defezione, la squadra parrocchiale perse il suo smalto e subì sconfitte umilianti, a suon di quattro a zero.

Il cappellano non si rassegnò all’idea di perdere a un tempo una pecorella del suo gregge e il pilastro dell’amata squadra parrocchiale. Dopo un’ennesima, sonorissima batosta ricevettero la sua visita inattesa.

Era più simpatico del parroco, ma, in sostanza, della stessa pasta. Gli premeva sopra ogni cosa la lotta quotidiana ai comunisti. Ignoro se per sete di martirio, da quando un burlone, anche se non si sa fino a che punto, aveva preannunziato che, di lì a poco, avrebbe giocato a bocce con la testa del parroco e dei suoi accoliti, o per obbedienza  alle disposizioni  delle superiori autorità ecclesiastiche.

«Sua Eccellenza Monsignor Vescovo» esordì «ci farà presto l’ambito onore di una sua graditissima visita pastorale. Ogni parrocchiano, in tale occasione, deve offrire tutto sé stesso per accogliere degnamente il messo del Signore, onorando l’antica tradizione della nostra diocesi fedelissima nei secoli a Santa Madre Chiesa».

Breve pausa. «Fra le manifestazioni pomeridiane abbiamo inserito – il nostro Vescovo ama tanto i giovani, è di idee così moderne – anche una partita di calcio».

Scrutò il giovane senza ottenere il minimo segnale di attenzione. Continuò imperterrito: «La nostra Libertas si misurerà in cavalleresca contesa con una compagine parrocchiale del capoluogo».

Altra pausa sapiente. «Senza Vittorio rischieremmo la sconfitta, cara signora» adulò. «E tu non tollererai di certo che la tua squadra lo sia, vero? Anzi il suo riscatto comincerà domenica, per opera tua».

«Per quanto mi riguarda, potreste anche giocare con la Juventus o con l’Arsenal: non me ne importa niente, perché non ci sarò».

La mamma parve affliggersi.

Aggiunse, pacato quasi sottovoce:  «Solo quando servo ai loro scopi in parrocchia mi tengono in qualche considerazione, altrimenti mi fanno intendere che sono il figlio di uno spiantato che, quando scoppiava  una guerra ci si precipitava dentro a capofitto. Prima l’Africa Orientale poi la Spagna, fino a quando nell’ultima ci ha fatto la fine che meritava. Con tutte le sue arie da spaccamontagne!».

Il sacerdote offrì devotamente al Signore la prova di cristiana sopportazione che sosteneva per la sua gloria riconoscendo che certi parrocchiani,  non di rado, mancavano di carità cristiana.

Un ultimo tentativo, più che altro rivolto alla mamma dalla quale si attendeva venisse un qualche sostegno.

«Abbiamo speso un capitale in maglie, calzettoni e scarpette, cara signora, per accontentare questi benedetti figlioli. Ce n’è un paio apposta per te, Vittorio, fiammanti, di prima qualità»

«Ripeto: non giocherò. Se le metta qualcun altro».

Ciò detto, uscì.

Bighellonava per la piazza, contrariato, quando incontrò il signor Domenico. Si sentì in colpa di fronte a uno dei pochi che non l’avevano emarginato: «Non è per far dispetto a lei che non giocherò la partita del vescovo. Desidero lo sappia».

Sorrise il signor Domenico: «Ero certo che avrebbe fatto un buco nell’acqua, il nostro abilissimo cappellano. Ho una notizia che ti farà piacere: mercoledì prossimo andremo a provare per i “pulcini” del Bologna».

Un convento del sedicesimo secolo, rabberciato alla meglio, ospitava sia la scuola media che le classi dell’istituto secondario, alla riapertura del primo anno scolastico postbellico.

Vittorio, iscritto alle superiori, assaporava il piacere di sentirsi “grande”.

Non nascose perciò un certo disagio quando una ragazzina col grembiule d’ordinanza di satin nero e il baverino bianco, uscita dal vociante gruppo dei “piccoli” gli si avvicinò.

Era graziosa col fermaglio di celluloide rosso, a forma di nastrino, fra i capelli e le scarpe con appena un accenno di tacco. Belli soprattutto gli occhi, dal taglio obliquo, grandi sul visino leggermente prognato.

“È pur sempre una bambina” considerò.

«Sono la figlia di Scardovi, ti ricordi di me?».

Intanto lo fissava col naso all’insù perché lui era molto alto “e anche un bel ragazzo” si disse.

«Ti ho visto quella notte» rispose asciutto. «Il mio babbo, ma non lo dire a nessuno, è salvo in Bass’Italia».

Non ricevendo  risposta, divagò: «Per me è il primo giorno alle medie. Sono emozionata»  sottolineò compiacendosi di quel termine raccattato chissà dove. Riprese a bassa voce, timorosa che altri l’udisse: «Grazie per quella notte. Non ti abbiamo più visto per ringraziarti».  Si protese a sfiorargli il viso con una carezza.

«Come ti chiami?».

«Mara» rispose volenterosa.

«Bene, Maretta…».

Lo interruppe «Maretta non mi piace. È un nome da gatta».

«Va bene, Mara. Studia perché io ti terrò dietro come un fratello maggiore».

«Come un fratello maggiore» gli fece eco la ragazzina con un sorriso saputo.

«Allora prometto: sarò diligentissima, come una brava sorellina e tutte le mattine ti riferirò i voti che avrò meritato. Tutte le mattine, prima della campanella».

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