LETTERA MAI SPEDITA N.
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Carissima
moglie, cara Gocciolina d’oro,
prima di
tutto voglio rassicurarvi sulla mia
salute. Da quando ci hanno distribuito maglie dalle maniche lunghe e mutandoni
felpati le cose vanno meglio. Supererò anche questo inverno.
È stata una
notte tremenda quella appena passata. Hanno colpito quartieri di civili
abitazioni, di gente borghese e benestante, lontani da qualunque obbiettivo
militare.
Molti dicono
che lo fanno apposta per fiaccare il morale degli abitanti. Non pochi invece
che i piloti scaricano dove capita per sfuggire alla contraerea e tornare
indenni.
All’alba ci
hanno distribuito un pezzo di pane nero e una salsiccia e ci hanno caricato sul
nostro vecchio Opel: «Mangiate durante il tragitto, poi non ci saranno pause»
ci hanno ordinato.
Lungo il
tragitto le solite scene. Gente in fila ordinata di fronte alle panetterie che,
non so per quale miracolo, riescono a sfornare il pane. Squadre di anziani,
donne, uomini, che con badili e ramazze vanno non so dove a prestare il loro
aiuto, silenziosi, consapevoli.
Ti accorgi
di essere vicino al disastro quando incontri i cordoni della Feldgendarmerie, le autopompe, le
ambulanze.
Poi vedi i
crolli, passi lentamente davanti a palazzi divorati dalle fiamme. Transita
gente stralunata, ma sempre composta. Non pochi si soffermano davanti alle
salme allineate sui marciapiedi.
La mia
squadra è penetrata nel sotterraneo di un palazzo crollato sotto le bombe.
Subito in un
sottoscala abbiamo trovato due corpi: un’anziana morta per le ferite è stata
trasportata all’aperto da due ucraini, prigionieri di guerra come me. Io ho
raccolto il corpicino di una bimbetta, otto o nove anni. Non aveva ferite.
Forse era morta per lo spostamento d’aria.
Non pesava
nulla. Alla luce del giorno ho potuto scorgere il suo visino tedesco dai tratti
regolari, con un bel nasino e una bocca sottile. Solo che la polvere dei
calcinacci lo aveva ricoperto con una maschera sottile. Come una cipria oscena.
Dunque un
visino di pietra grigia: grigie le gote, grigie le palpebre e le ciglia.
I capelli
invece, un po’ più sopra l’attaccatura conservavano il loro biondo di canapa,
dolcemente ondulato.
Non so dirvi
perché mi è venuto in mente di liberarlo dalla polvere, di restituirgli il suo
aspetto naturale sia pure nel pallore della morte. Col fazzoletto e l’acqua
della borraccia ho liberato prima le guance, poi gli occhi chiusi in un dolce
sonno infantile, poi la bocca, il padiglione sottile delle orecchie.
Da ultimo,
all’anulare, ho restituito alla luce lo splendore di un anellino d’oro a forma
di chiocciolina con una perlina rossa, tutta consumata, al centro.
Consapevole
che attardandomi avrei compromesso il lavoro di squadra e per questo sarei
stato punito. Ho continuato.
A un tratto
ho sentito incombere su di me un soldato della scorta.
Mi attendevo
il solito colpo col calcio del fucile sulla schiena con le solite
grida
screanzate di rinforzo.
Ho detto:
«Un momento solo, ho finito».
Era davvero
bellissima, la mia piccolina. Un angelo biondo…
Meni pure il
satanasso: io però voglio dare un ultimo saluto a quel visino! Con un cappotto
che la piccola aveva accanto, piuttosto lungo per la sua età (forse anche qui
si usa comprare abiti sopra misura per i piccoli che crescono) ho potuto
coprirla dalla sommità del capo fin sotto le ginocchia. Gliel’ho anche
rimboccato ai lati.
Quando mi
sono levato, il marcantonio mi ha chiesto: «Hai figli?».
«Sì, una
bambina di due anni».
«Anch’io. Ne
ho due. Zwei» ha ribadito tendendo due dita.
Con voce di
pace ha soggiunto: «Andiamo».
Carissime,
vi scriverò anche domani, se Dio vorrà.
Tutti i baci
che anche oggi vi mando, ve li darò quando sarò tornato a casa.
Spero
presto. Ci vorrà molto tempo per darveli tutti.
Il tuo
affezionato marito, cara moglie. Il tuo babbo che non hai ancora visto, cara
Gocciolina d’oro.
Marco
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