IL GRUPPO
Nell’autunno del ’43, l’insegnante di educazione fisica annunciò agli allievi
della seconda media, sezione A, che erano aperte le iscrizioni all’opera Nazionale
Balilla della Repubblica Sociale.
Solo quattro
ragazzi fecero un passo avanti. Così si formò il gruppo. Provenivano tutti da
famiglie impegnate e consapevoli. I loro nonni avevano servito e i loro padri
servivano la patria in guerra.
In tempo di
pace erano artigiani e impiegati. Gente che si domandava perché mai i piloti
americani, abbattuti dopo aver recato la strage nelle nostre città, trovassero
Italiani che li sottraevano alla cattura.
“Liberato”
il paese con spropositato sfoggio di mezzi corazzati e artiglierie per
fronteggiare qualche sparuto drappello germanico in bicicletta, i ragazzi del
gruppo oltre a non fraternizzare con gli
occupanti, si sentivano, idealmente,
dalla parte di quegli Italiani che continuavano a opporsi a essi…
Nei primi
giorni dopo il passaggio del fronte vissero con le loro famiglie il dramma
dell’emarginazione.
Da
protagonisti della vita paesana a oggetto d’odio, sfociato in episodi
significativi: lo sfratto dalle case popolari, che occupavano da un decennio,
per cedere il posto agli eroi della montagna o ai nuovi politici.
Il rancore
improvviso e spesso immotivato di tanti.
Perfino, per
alcuni, l’accusa esiziale di spionaggio che i liberatori non tennero in alcun
conto.
Dalla soglia
del rifugio, quando ancora grandinavano i razzi dei “nebelverfen” videro passare
Marione, l’odiata guardia municipale, nemico giurato di tutti i monelli,
sbiancato in volto, con le mani alzate sul capo, sotto la minaccia di un fucile
“91 lungo” brandito da un guerriero di un metro e cinquanta, giubbotto
britannico cachi, doviziosamente ornato di stella rossa, e nastrini vari sulle
spalline, a fare da pendant col fiammeggiare del fazzolettone.
“È
cominciato il comunismo” pensano i più.
Di lì a
qualche settimana, non pochi presero invece a sospettare che continuassero a comandare
i “signori” cioè coloro che, come sosteneva mia nonna, ironica, hanno
“l’ingegno” cioè la cultura e il danaro.
In altre
parole, l’eterna, inaffondabile, immarcescibile camaleontica borghesia usa, alla lunga, a
prevalere in ogni lotta sociale.
Se ne ebbe la
certezza quando il Signor Governatore A.M.G. (Allied Military Governement) accettò
l’invito a pranzo rivoltogli dal signor conte Folco Lanciatici, munito di villa
rinascimentale con mobili d’antiquariato e quadri di pittori famosi, servitori
in polpe e casino di caccia.
Ancora:
Inglese fluente e cari amici nella “smart
society” britannica.
Infine –
come potevano mancare? – cani e cavalli di razza.
Un vero “gentleman farmer”.
Da una
prospettiva – diremmo oggi – di sinistra, solo un “padrone” tirchio e sordo a ogni
pretesa – leggi “rivendicazione” – di quei villici che “bontà sua” sfamava. Il
che, in parte, corrispondeva alla
verità, giacché suoi erano i poderi più redditizi, il mulino, il frantoio e non
so quante altre cosucce ancora.
Il molto
onorevole town mayor ricambiò la cortesia con un “lunch” allietato da un “piper”
che, marciando ossessivamente a passo lento su e giù davanti alla mensa
imbandita di britanniche leccornie, dalla sua cornamusa spandeva sui commensali
nenie infinite che sapevano di torba, odoravano di pecora ed evocavano grigie brughiere
fradice di rugiada.
Naturalmente
all’uno e all’altro simposio parteciparono i maggiorenti del paese.
Guarda caso,
gli stessi, conte Lanciatici
incluso, che, nel novembre del
’43 il Bollettino del Reggimento Ussari di Pomerania registra, con la
proverbiale teutonica precisione, invitati e presenti al pranzo che il
comandante del suddetto, glorioso reggimento, Manfred von Kablach und
Betterling, aveva imbandito in onore dei fedeli amici italiani della Gross Deutchland,
come ha fortunosamente scoperto un mio amico, inveterato topo di biblioteca, presso l’Archivio di Karlsruhe.
Per
l’occasione, la banda del reggimento, con tanto di tamburi e campanelli
svizzeri, aveva deliziato i convitati con una composizione non più in voga a
distanza di appena un anno: “Gegen England”.
I benefici
effetti della nuova “entente cordiale” si riflettevano sulla vita del paese.
Sembrava di
essere tornati nel ’37, in pieno consenso sociale.
A patto di
bandire i sostantivi, le aggettivazioni, i verbi, le proposizioni, i discorsi
in cui suonasse il benché minimo riferimento al fascismo.
Come si fa
delle cose orribili: rimozione totale, istintiva, immediata.
Per alcuni,
i più sempliciotti, rimaneva il problema di non alzare istintivamente il braccio
nel saluto romano, quando entravano, per esempio, in un ufficio.
Sono
costretto ad ammettere che la piazza era dominio di “Pistola” ma guai a chi gli
rammentava il suo antico soprannome!
Adesso era
il glorioso reduce della montagna Radames Piccolomini, nome di battaglia
Saturno. Altro che “Pistola”!
Dopo i
rischi del bosco, si godeva, a buon diritto, il giusto riposo del vittorioso.
Non date
retta ai soliti maligni che circoscrivevano tutta la sua insuperabile arte
politica alla consuetudine ormai consolidata di fare incursione più volte al
giorno nelle osterie dove improvvisava, a spese dell’oste, brindisi alla
Resistenza, a Lenin, a Stalin, coinvolgendo facilmente tutti i presenti.
Quale
bettoliere – ditemi voi – avrebbe rifiutato il suo nettare a un eroe del
popolo?
Allo stesso
modo, quale beccaio avrebbe negato una succulenta “fiorentina” in dono a chi
aveva lottato per tutti noi, in nome della libertà e della democrazia, contro
il mostro della bicipite dittatura?
Per parte
sua respingeva sdegnato le accuse di trastullarsi di fronte a una borghesia che
aveva rialzato la cresta. E contrattaccava: «La momentanea presenza degli Alleati, anche loro borghesi e
capitalisti della più bell’acqua, ritarda l’avvento della dittatura del proletariato.
Ma non perdetevi d’animo. Non è lontano il lavacro purificatore di tutte le
ingiustizie. Non è nemmeno escluso, se proprio si rendesse necessario, l’intervento
diretto della gloriosa Armata Rossa».
A suo dire,
glielo avevano assicurato in Federazione. Dunque…
Questo il
punto di vista di Saturno e di un manipolo di suoi sodali.
Onestamente
si deve riconoscere che operava in paese anche una sinistra seria, democratica,
riformista, organizzata e motivata nel suo percorso verso il “sol dell’avvenire”.
Ce ne renderemo conto.
Mi si
potrebbe obiettare: ti sei diffuso nel trattare le vicende dell’immarcescibile
borghesia.
Hai calato
un velo impalpabile di dolce ironia sulle prosaiche aspirazioni dei nuovi
eroi.
Hai
adoperato il trincetto del sarcasmo contro la benemerita Ottava Armata, forse
perché quei signori, spocchiosissimi qui in Italia, arruolati nei più gloriosi
reggimenti della vittrice Britannia tu, bambino, in quel di Tripoli, li hai
visti prigionieri, condotti, al tramonto, fuori dalla città perché non
cadessero vittima dei loro bombardieri.
Ti sei
dilungato forse troppo nel “sezionare” l’entusiasmo neofita dei tuoi
compaesani, alle prese, tutto d’un botto, con le cerimonie della divina
democrazia, ansiosi di obliare d’un botto, quelle del “fascismo redentor”.
Scusa, i fascisti del paese? Non ne parli? Allora sei sfacciatamente fazioso.
Quasi nessuno passò, armi e bagagli, alla parte avversa. La maggior parte si
lasciò metabolizzare dalla democrazia.
Fissati
questi punti, bisogna prendere in considerazione la loro singola posizione sociale.
Gli
abbienti, rasserenati dalla situazione, si assestarono su un anglosassone “Wait and see”, bandito, come ho detto, ogni
riferimento al defunto regime.
I non
abbienti moderati, che pane e lavoro ricevevano dai soprannominati, realizzarono che la pagnotta era assicurata,
quindi niente di nuovo.
Lavorare,
ricostruire, produrre.
Buongiorno
sor padrone, nei giorni di paga. Alla larga dalla politica.
Più tardi
gli uni e gli altri, diventarono per lo più democristiani o, se volete,
“forchettoni” specialmente gli abbienti.
Gli storici
non hanno ancora definito il loro contributo alla debacle rossa del 18 aprile 1948.
Rimangono
gli irriducibili. Pochi in verità.
Ebbero un
sussulto di speranza verso Natale quando i tedeschi, a Bastogne, per un soffio
non ribaltarono la sorte della guerra.
Gioirono e –
perché non dirlo? – covarono chimerici sogni di vendetta quando i bersaglieri
del Generale Carboni, in Garfagnana, misero in fuga gli sfigati della Divisione
Buffalo.
Purtroppo
solo per qualche decina di chilometri. Cosi che non giunsero mai da liberatori
nelle nostre contrade.
Poi calò il
silenzio della depressione. Almeno fino alla primavera del ’45 quando furono
costretti a esercitarsi nell’arte di non dormire mai nello stesso luogo per via
di certa gente dalle pericolose
attitudini al rapimento… qualcuno
emigrò nell’amica Argentina. Altri rimasero in Italia magari in regioni
meno sanguigne.
Nemmeno in
questo caso, gli storici hanno, a tutt’oggi, compiutamente valutato
l’importanza del loro contributo alla vittoria di De Gasperi, il 18 aprile del
’48.
Gli
statistici, che continuamente s’arrabattano, per fornirci dati del tutto
insignificanti ai fini del progresso umano, così «en passant» ci hanno
informato che lo 0,7 per cento degli abitanti maschi del paese cessò di vedere
“lo dolce lome” al Ponte della Priula.
Torniamo ai ragazzi.
A metà dicembre, di notte,
furono divelti o ruotati in direzione opposta o addirittura asportati
decine di segnali stradali che le singole unità militari avevano piazzato lungo
la rotabile, per guidare gli autisti verso gli accantonamenti.
Gli
efficientissimi M.P. (Military Police) dell’Ottava Armata, il cappellone rosso,
i bracciali da friggitore di pesce, il cinturone, le ghette e la fondina del
pistolone a tamburo immacolati per la biacca, impiegarono mezza giornata a rimettere ogni cosa in
ordine. Nel frattempo interrogavano con
britannica burbanza i civili, che subito scantonavano, su chi mai avesse osato
l’inaudito affronto ai liberatori.
Il già
citato Signor Governatore A.M.G., un irlandese di pelo rosso, cattolico,
apostolico romano, ogni mattina alle sette, assisteva alla messa celebrata soltanto
per lui. Se ne stava impalato sull’attenti per tutta la funzione presso un
inginocchiatoio di bel legno intarsiato, scelto per lui, con i piedoni piantati
su un tappeto rosso, premura riconoscente delle suorine dell’asilo, col
cappello tenuto elegantemente sotto l’ascella sinistra.
Lo smacco
dei segnali era grande, ma la conseguente angoscia ancor maggiore perché rischiava di
essere restituito a un’unità combattente, o addirittura di essere sbattuto in
Grecia.
Dopo la
messa si auto recluse nel suo pensatoio confidando nel Dio degli Eserciti e in
San Patrizio. Narrano che l’operoso travaglio della sua mente durò quasi due
giorni, in assoluto digiuno e clausura.
Quando ne
uscì, aveva partorito, da qual grande stratega e lucido politico che era, una
soluzione geniale, anche se non infrequente nei comandi britannici: se la
sbrigassero gli italiani.
Non si trovò
nessuno, Italiani compresi, al quale non balzassero in luminosa evidenza i
vantaggi strategici, ma anche tattici, di una tale linea di condotta. In primo
luogo, l’Ottava Armata non sarebbe stata coinvolta in questioni di bassa cucina.
In secondo
luogo non avrebbe rischiato la vita dei propri uomini nell’imminenza del balzo
finale verso la vittoria.
Infine,
l’Ottava Armata non avrebbe rimediata un’altra figuraccia dopo quelle sui colli
di Rimini dove aveva perduto quasi tutti i suoi tanks.
Congratulatosi
con se stesso, ringraziato Dio suo protettore e San Patrizio suo compatriota,
convocò i “nativi” fedeli alla nobile causa degli Alleati ai quali tenne il
discorsetto che qui riporto senza nulla cambiare o aggiungere di mio.
«I
fascisti-partigiani» disse proprio così
nel suo fluente italiano «autori del sabotaggio, devono essere identificati e
consegnati agli M.P. Affido a voi questo compito. A voi che combattete al
nostro fianco il nazifascismo, per la libertà di tutti i popoli».
Ciò detto
salutò con modico impegno, toccando appena la visiera con l’estremità del frustino
e se ne andò tra un fragoroso battere di albionici tacchi e italiche riverenze.
Il popolo della neonata Italia democratica che in un passato non remoto si era
generosamente mobilitato contro le Sanzioni, per donare l’oro alla Patria,
nella campagna “Taci, il nemico ti ascolta”, per smascherare i “disfattisti”
che captavano Radio Londra, per l’oscuramento
antiaereo e per formare i nuclei
U.N.P.A., prontamente si mobilitò, almeno nella sua parte migliore, per dare la
caccia ai sabotatori, in nome della lotta contro i nazisti e i loro lacchè
della repubblichina, per la libertà e il progresso del mondo civile.
Nelle sedi
dei risorti partiti democratici e antifascisti, come dal tabaccaio, convegno
fragrante di tartufi degli intellettuali indipendenti, agnostici e apolitici,
al circolo cattolico S. Tarcisio e perfino in latteria sbocciarono le ipotesi
più ardite.
Si giurava
che il sabotatore era quel tenente della Wermacht che in un paese vicino aveva
diretto per radio il tiro dei suoi artiglieri, ben visibile nel vano di una
finestra, con la sua divisa d’ordinanza. Tre colpi, un deposito di carburante
in fiamme.
Qualcuno
invece ricordava che, nella notte del passaggio del fronte, uno sconosciuto,
avvolto in un mantello nero, con un cappellaccio calato sugli occhi, aveva
sostato in un rifugio, senza parlare con nessuno. Tenendo presente che era in
casa di un notorio fascista, se ne deduce che era il sabotatore.
Che gusto ci
sarebbe stato, a parte il fatto che era trascorso un mese, a rivelare che
l’ufficiale tedesco era stato ricondotto dietro le proprie linee – chi
l’avrebbe mai pensato! – da un loro compaesano, cacciatore professionista, gran
conoscitore di macchie, borri e fratte? Quanto all’intabarrato, come molti
partigiani sapevano, altri non era se non un agente alleato in attesa di
tornare nei ranghi.
La
mobilitazione di tutti i cittadini democratici di certo non turbò il gruppo,
cui era da attribuirsi la bella impresa, quanto l’annuncio che a primavera si
sarebbero riaperte le scuole.
Rintanati
nella cucina di una casa bombardata arrostivano le castagne e parlavano di
Robinia
«Robinia,
non Rubina. Me lo ha detto sua nonna, perché quando nacque le robinie in fiore
profumavano l’aria sicché ai suoi genitori piacque l’idea di chiamarla così. Anche
se all’anagrafe incontrarono qualche
difficoltà. Si poteva dare a una neonata
il nome di un albero?».
Li tolse
d’impaccio un’impiegata: «Metteteci davanti un “Maria” e tutto si aggiusta.
Suona anche bene Maria Robinia. Poi la chiamate come vi pare».
In quei
giorni Robinia, in ospedale, stringeva intorno alle spalle una mantellina di
lana con le sue affusolate mani azzurre. Si, mani azzurre aveva Robinia. E un
casco di capelli neri, ricciolini, e occhi vividi, curiosi, voraci di quanto le
accadeva intorno.
«Tu l’hai
vista nuda, vero?» l’atmosfera si riscaldò.
Per la
centesima volta Riccardo narrò come fosse entrato all’improvviso in cucina per consegnare del miele e, per un attimo
fra il bagliore del focolare e un telo prontamente dispiegato, gli fosse
apparso il corpo nudo della più bella adolescente del paese. Per la centesima
volta descrisse i piccoli seni e l’ombra, più che altro immaginata,
sull’inguine.
Si riaccese
la disputa se la più bella fosse lei, o la già prosperosa Manuela, rissosa,
indipendente. L’unica a tradire il “cliché” della brava bambina, senza per
questo somigliare a un maschiaccio.
Capace, con
mille moine, di indurre i maschietti a rubare l’uva in campi indicati a bella
posta fra quelli lontani dal paese; di deriderli, se si mostravano titubanti;
ringraziandoli appena quando le
consegnavano il maltolto. Di cacciarli subito a zoccolate se osavano chiedere qualche
benevolo segno di riconoscenza. Le sue gonne erano quasi sempre corte oltre
misura. Accarezzare quelle gambe nude: un miraggio per molti non solo
adolescenti.
«La Manuela
invece. Non ti accorgi quanti sono a ronzarle intorno? Tutta gente grande.
Vent’anni almeno. A noi, non ci guarda neppure».
«L’ho vista
coi tacchi, il giorno della fiera. Ancora più bella perché si vedevano le gambe
su, su…».
«Fino
all’ombelico» concluse un altro sfottente.
«Ma va…»
tutti risero.
Si fece
silenzio, le caldarroste non erano
ancora al punto giusto nella latta forata con un grosso chiodo.
Ciascuno di
loro pensava forse a Manuela, o forse alla preannunciata riapertura delle scuole
quando uno buttò là: «Le ruote dei loro autocarri hanno valvole lunghe e
piegate…».
Lo
ascoltarono interdetti.
«Sapete che
sono di ottone dolce?».
Non ci
capivano ancora nulla, perciò uno chiese: «Cosa vuol dire?».
«Vuol dire
che si tranciano facilmente… e allora "fffff" la ruota si sgonfia e l’autocarro non
trasporta i soldati al fronte contro i nostri che combattono non lontano…».
L’occasione propizia
si presentò l’ultima notte
dell’anno, quando ogni militare del variegato esercito volle esprimere il proprio del resto
facile augurio di una conclusione rapida e vittoriosa delle ostilità.
Sparavano gioiosamente
in aria dalle finestre, dai balconi, dai terrazzini, per le vie, dalle
torrette dei blindati e perfino dal campanile.
Traccianti
rosse e verdi cucivano di punti luminosi lembi di cielo invernale.
Bengala di
tutti i colori scendevano ondeggiando, frenati dai loro paracadute, per
languire nella neve. Razzi di segnalazione sibilavano verso l’alto per ricadere
in graziose cascatelle.
Fu allora
che tre autocarri militari, uno dopo l’altro, si chinarono lenti su un fianco e
si appoggiarono a un muro come viandanti sfiniti.
«Fuck off» sbraitò la mattina dopo un conducente
britannico ancora un po’ brillo. Corse a riferirlo ai superiori.
Venne il
Signor Governatore A.M.G. si precipitarono incazzatissimi i segugi della M.P.
Si fecero
vedere, sinceramente amareggiati, il sindaco e i rappresentanti dei partiti e
delle associazioni partigiane, combattentistiche democratiche e antifasciste.
Il popolo
minuto, ondeggiante e curioso, fu tenuto a debita distanza col solo ringhio degli
M.P.
La Messa
solenne di capodanno, iniziata in
ritardo per il noto inconveniente, non servì a lenire il cuore esulcerato del
Signor Governatore A.M.G.
«Signore» si
lamentò dopo la comunione «mi hai fatto fare una figura di merda, due volte!
Perché?».
Subito dopo
dovette ricevere un ufficiale del Servizio Informazioni di Sua Maestà
Britannica.
«Potrebbe
essere solo uno stupido scherzo» ironizzò l’investigatore «che tuttavia è
suscettibile di determinare spiacevoli risvolti militari e politici, perciò,
col suo consenso naturalmente, ho preso
le seguenti precauzioni».
Cominciò a
snocciolare. «Assidua vigilanza degli accessi al centro abitato, delle
installazioni, dei mezzi e dei depositi militari con l’ordine di sparare a
vista. Controllo delle case coloniche nel raggio di due miglia dal paese.
Interrogatorio di tutti i civili
notoriamente fascisti o presunti tali.
Minuziose indagini di “intelligence” per scoprire eventuali agenti nemici infiltrati».
Attese un
segno di rassegnata approvazione poi soggiunse con malcelato sussiego: «Se mi
permette, signore, non si fidi dei cobelligeranti. Sono solo chiacchieroni e
pasticcioni. Buongiorno, signore».
Girò sui
tacchi lo Sherlock Holmes dell’ottava Armata col suo bel giaccone candido di
lana pesante con gli alamari stile Bataclava, i pantaloni alla cavallerizza in
piega perfetta e gli stivali tirati a lucido. Lo attendeva una “jeep” col
conducente irrigidito nel saluto.
L’inverno
sbiadiva. Le madri previdenti inviarono i loro rampolli a lezione privata dal
parroco, specialmente per il latino, o da una maestra rinomata per la sua
cultura. Si riaprivano le scuole.
Fra le
macerie, nei campi minati segnalati da cordelle bianche, nascevano i fiori di
una primavera funesta per molti Italiani.
Ai primi di
maggio, il fratello diciottenne di uno dei ragazzi del gruppo verrà falciato,
mani e piedi legati, sull’argine del Piave che se lo porterà via per sempre.
Anche
Robinia se ne andò. C’erano proprio tutti a quel funerale, il primo senza preti
paludati, senza chierichetti dalla cotta immacolata, senza le suorine, senza le orfanelle col
rosario fra le manine paffute. Così numerosi che, quando il feretro oltrepassò
il cancello del cimitero, gli ultimi del corteo transitavano sul ponte, a un
chilometro di distanza.
Un mare di
vessilli rossi, coi soliti omini vestiti da partigiani, con la giunta comunale
al completo; i medici e le infermiere che si erano dannati per strappare alla
morte quel patetico virgulto, le pie donne che, di fatto, avevano sostenuto le
spese per le cure, i bottegai propensi a dimenticare i debiti della fa- miglia
così crudelmente colpita. In fondo, fra gli uomini dalla ruvida camicia di
flanella e il cappello della festa sul cuore, il giovane cappellano, giunto da
poco, deciso a sfidare la collera dell’arciprete e forse la censura della
gerarchia.
Le bambine
ordinate e compunte, con in mano fiori campestri, pregavano in ordine sparso,
venuta meno la voce-guida della signora che in tali occasioni intonava le
Avemaria; le ragazzine caracollanti sulle prime scarpe con tre centimetri di
tacco, il fazzoletto stretto sotto al mento, lo sguardo vagante a cercare il
signore del loro cuore, sapevano già che a quel funerale non si pregava.
Imploravano
la Madonna le vecchine, convinte, a ogni Ave, Pater, Gloria, di aggiungere un
altro mattoncino alla loro dimora in Paradiso.
I ragazzi
del gruppo tornarono a scuola in terza A.
Sul piazzale
una babele incredibile. Madri trepidanti accompagnavano i loro cucciolotti
cresciutelli, affrancati ormai dal grembiule nero e dal nastrino azzurro.
Ragazzine in gruppetti agguerriti contro le iniziative galanti dei loro
coetanei ben decisi a manifestare le loro fervide attenzioni nei modo più
bislacchi.
Dai
frenetici caroselli ciclistici, a sfiorare pericolosamente le malcapitate che
protestando li aizzavano ancora di più, fino alla pretesa di accarezzare, con
un porcospino appena catturato – povera bestiola – i visini delle femminucce,
prontissime nel sottrarsi all’indesiderato contatto fra gridolini scandalizza-
ti, per lo più di circostanza.
Giocatori
accaniti che lanciavano monetine contro il muro nel gioco antico, propensi alla
rissa negli esiti incerti; teatrali nell’esaltare la vincita; avviliti quando
la sorte avversa assottigliava il loro gruzzolo.
Su tutti la
voce rancida del venditore di castagnaccio
e di pere cotte, in giacca bianca e turbante indiano, presso il suo
triciclo.
Il gruppetto
dei nostri amici era, a sua volta, occupato in ben più serie operazioni che si
addicono ai “grandi”.
In
capannello serrato stavano tutti intorno a Bertucci, il pluriripetente della
loro classe, lungo chiomato e con un paio di invidiatissimi Ray Ban, il quale con circospezione carbonara andava sciorinando
una dopo l’altra una serie di immagini che avevano come protagonista
Biancaneve, fino a quel momento nota come ingenua e romantica interprete del
cartone animato di Walt Disney, colta in svariati, molteplici, multipli,
complicati amplessi col Principe e coi sette nani, Brontolo e Mammolo compresi.
Roba
pazzesca! Roba mai vista!
«Dove le hai
scovate?» Silenzio.
«Le vendono
alla bottega?» Sguardo di commiserazione.
«Dal
giornalaio?» Sorrisetto compassionevole.
«Solo io
posso trovarle, lontano da qui».
«Puoi
procurarcele allora?».
«Non è
facile, ma per voi proverò. Sappiate che costano moltissimo».
«Quanto?».
Sparò una
cifra irraggiungibile per il loro borsellino.
«Accidenti,
sono care!».
«Non vedi
che roba?».
«Sì, però
costano troppo!».
«Questo è il
prezzo. Se le volete ditemelo, e ve le troverò».
Interruppe
il giovanile commercio di gesti e parole lo stridulo richiamo della campanella
elettrica nel corridoio. Ad attenderli nell’atrio l’anziano preside in odore di
epurazione e i docenti.
Benevoli
inquisitori laici e non li avevano già assolti per il loro passato
imbarazzante, dopo averli dottoralmente consigliati di emendare il manuale di
storia di non pochi capitoli o paragrafi, a cominciare dal risorgimento
borghese, lordo del sangue di Bronte; e le antologie da non pochi autori
sospetti a cominciare da quel “trombone” del Carducci; di quel debosciato di
D’Annunzio non parliamone nemmeno!
A loro
personale edificazione e rifondazione morale e culturale avevano prescritto
autori per lo più sconosciuti, profeti del nuovo verbo, le cui opere, al
momento, erano introvabili. Quando il professore entrò, il capoclasse dell’anno
precedente, in
funzione temporanea, gridò: «Attenti!».
Fu
benevolmente redarguito «Non è più il caso, figliolo».
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