Sinite parvulos venire ad me
DRESDA
«Chi sei?».
«Sono la tua
luce. Tu non te ne accorgevi, ma stavo sempre con te. Andiamo, Michelino!
L’Ineffabile ci attende».
«Ancora un
attimo. Vedi che sono ridotto in mille pezzi!
Voglio prima
essere sicuro che mi abbiano raccolto tutto».
«Tutto?
Penso sia impossibile. Andiamo».
«No, ancora
un minuto. Chi è quello che mi raccoglie?».
«Il
macellaio de paese. Non c’era nessun altro che se ne intendesse…».
«La maestra
ci avevo messo in guardia contro gli ordigni esplosivi. Però ci aveva parlato
di penne esplosive, non di automobiline. E nessuno ci credeva, poi! È solo
propaganda. Se fosse stata una penna, non l’avrei raccolta; invece un’automobilina:
mi piacciono troppo. Lo sai, vero?».
«So tutto.
Che il tuo babbo non concepisce l’idea di buttare i soldi per comprare i
giocattoli. Lui, quand’era bambino, i suoi giocattoli, se li costruiva
da solo con materiali raccogliticci e tanta fantasia. Purtroppo pretendeva che
ti cimentassi a costruire non più cavallucci con un manico di scopa, o spade
con due legni incrociati, ma alianti con la fusoliera di canna e le ali e i
timoni di cartone o aquiloni con la minima spesa di un foglio di carta per
quaderni, un po’ di colla di farina e un gomitolo di spago».
«Le
costruisse lui, quelle stupidate! E ci giocasse anche!» esplode Michelino.
«Il giorno
della fiera, atteso con trepidazione dagli altri bambini che pregustavano la
gioia dei giocattoli che sarebbero stati loro donati, per te era un supplizio.
Tanto è vero che, per evitare quella tribolazioni, ti eri imposto di stare alla
larga dalle bancarelle stracolme di balocchi di ogni sorta, e in particolar
modo di automobiline, anche da corsa, rosse, argentate, blu. A che scopo
visitarle una dopo l’altra, quando già sapevi che non avresti potuto appagare
il tuo sogno? Per invidiare gli altri che se ne andavano felici? o essere
costretto a pensare quanto si sarebbero divertiti, loro? Seguivi, imbronciato i
tuoi genitori nel settore degli abiti, delle scarpe. Quante volte lo hai
accusato di essere taccagno, povero babbo, trascurando che non lesinava il suo
danaro perché tu fossi adeguatamente vestito e calzato».
«Almeno per la Befana
un giocattolo poteva donarmelo. Invece niente. Arance, carruba e
liquirizia; senza contare il carbone. Mi
avrebbe reso felice».
«Lo so, ma
lui ha le sue idee. Eccessive, anche secondo me. Tuttavia, fargliene una colpa
è un peccato di cui ci si deve pentire. Sappilo!».
«Me lo ha
insegnato anche il prete. Devi ammettere però che l’astio rimane».
«Ti ha
insegnato anche il valore della pazienza il prete?».
«Sì, quella
di Giobbe, che era vecchio, così penso sia adatta a quella età».
«E chi lo
dice? Anzi nei giovani assume ancora maggior valore. Ammetto che è raro
trovarla».
«Non solo
astio, anche invidia ho provato».
«Ti
riferisci all’automobilina Schuco che,
giunta davanti a un ostacolo, faceva marcia indietro? o proprio sul bordo del tavolo
si fermava, girava su se stessa e riguadagnava il centro? Mi sono divertito
molto anch’io».
«C’eri anche
tu?».
«Certo,
dovunque tu andassi seguivo le tue orme… Quella mattina ho imparato quanto grande
fosse la sensibilità della tua maestra. Giorgio aveva portato a scuola quel
giocattolo costoso che veniva dalla Germania sono per esibire la propria ricchezza.
Per marcare la distanza fra sé e i compagni. “Questa automobilina magica ce
l’ho solo io che sono ricco. I miei compagni possono semplicemente ammirarla”».
Alla
ricreazione sgombrò la cattedra.
«Bambini,
mettetevi tutti attorno. Giorgio, mostraci i miracoli della tua macchinina.
Faremo un gioco: ciascuno di voi, quando gli sarà davanti, all’estremità del
tavolo, potrà toccarla con un dito, delicatamente, così tornerà in dietro. Mi
raccomando: uno alla volta. Siccome intorno al tavolo non ci potrete stare
tutti contemporaneamente, vi dividerò in
squadre che si avvicenderanno…».
Fu un
successo. Peccato che la ricreazione durasse solo dieci minuti. Tutti ne
parlarono entusiasti a casa. Giorgio informò i suoi genitori che la “sua macchinina”
aveva mandato in visibilio l’intera classe.
«Sbaglio, se
dico che sei il mio angelo custode?».
«No, anche
se la nostra storia è alquanto complicata, specialmente per un bambino… sono la
tua luce».
«Allora sono
proprio morto».
«Anzi, sei
rinato a un’altra vita, eterna».
«Che ti
dicevo? Sono morto. Non vedi che mi raccolgono a brandelli?».
«Diciamo che
il tuo soggiorno fra gli uomini è concluso.
Sei come un
pellegrino che si volge a guardare la sua casa, il campanile e i tetti che
fumano del suo paese con la stranissima sensazione che non gli siano mai appartenuti,
poi volge lo sguardo alla meta che gli sta davanti e altro non desidera se non
raggiungerla. Solo per un breve tratto
ancora quello che chiamate “tempo”, utile a misurare il vostro vivere umano,
conserverà nella tua mente il suo
valore. Dopo, il tuo mondo perderà ogni significato; si dileguerà nella grande luce».
«Anche la
mia famiglia, anche i miei amici?».
«Anche
quelli».
«È triste!».
«Diverranno
prima ombre indistinte, poi nulla. Non temere non soffrirai».
«Lassù che
troverò?».
«Una luce meravigliosa
in cui si placa ogni desiderio. Amore che tanto più grande si fa, quanto
maggiore è il numero di coloro che avvolge col suo abbraccio, che dona a tutte
le anime una grande, perpetua pace. Quella cui in terra aspirate invano da
Caino in poi senza raggiungerla. La vostra esistenza è una eterna guerra, con
qualche scampolo di tregua che subito vi affrettate a lacerare».
«Almeno
andrò in Paradiso?».
«Dunque,
vediamo» celiò la luce «vediamo: quando ti sei confessato l’ultima volta?
Sabato. Grandi peccati, in tre giorni, non ne devi aver commesso».
«Penso di
no».
«Vediamo
ancora: nemmeno nel tuo passato scorgo macchie nere. Del resto ti sei sempre pentito.
In conclusione, ritengo che sarai ammesso a godere della luce suprema».
«Meno male!
Il Purgatorio, anche se non dura in eterno, non deve essere piacevole».
«No,
davvero!».
Sul luogo
dello scoppio, il babbo, chino in avanti, su una sedia, si passava le mani fra
i capelli, meccanicamente.
«Ne avrei
fatto un dottore, o forse un avvocato, se avesse voluto studiare. Magari anche
un prete. Invece».
«Vuoi un
bicchier d’acqua, Carlo?» chiese una donna.
Fece un
cenno di diniego.
«No, Elvira.
Ti ringrazio. Se invece non fosse stato bravo come ora, avrebbe sempre potuto
ereditare il podere del nonno, più che sufficiente per assicurargli una vita
agiata. Intanto avrebbe imparato un buon mestiere. Elettricista, per esempio.
Invece solo
un posto al cimitero… Ancora bambino! Chi lo dirà a mia moglie?».
Venne il
podestà.
«Il suo
dolore è quello mio, della mia famiglia e di tutto il paese, Mambelli.
Michelino è il figlio di tutti noi. Briganti, vigliacchi! Questo è il loro modo
di combattere! Contro gli inermi! Contro i bambini!».
La gente
annuiva convinta.
«Domani
giorno di lutto cittadino. Sarà allestita la camera ardente nel salone
comunale. Verranno anche le autorità».
«Lo vorremmo
a casa nostra».
«Mi
dispiace… l’ufficiale sanitario ha ordinato di chiudere il feretro subito dopo
le constatazioni di legge, che dureranno fino a tardi».
«Allora sua
madre non lo vedrà più?».
«Mi creda,
Mambelli, è meglio».
La gente
annuiva compunta.
La mamma,
quella mattina, lavava i panni nel canale.
Passò una
donna: «È saltato in aria un bambino».
«Chi è?»
chiese turbata da un presentimento.
«Non lo so.
Dicono uno del paese».
Quando
scorse il parroco e alcune vicine dirigersi verso di lei, gettò un urlo
disumano.
Michelino e
la sua luce giunsero in un luogo senza confini, che noi umani definiremmo di un
bel verde smeraldo, mirabilmente sovrastato da un cielo azzurrissimo.
Melodie
lievi come il respiro della brezza si diffondevano ovunque in accordo con voci
che sussurravano: «Sinite parvulos venire
ad me».
«Qui
convergono tutti i bambini dopo la loro dipartita. In tempo di guerra,
purtroppo, c’è folla» chiarì la luce.
«Da tutto il
mondo? Di tutte le razze?».
«Sì,
compresi i piccoli Ebrei “passati per il camino”».
«Che vuol
dire? Spiegamelo».
«Che la
bestialità umana li ha inceneriti nei forni crematori, dopo averli uccisi
incolpevoli. Le loro ceneri vagavano nel vento. Quando il camino del campo
fumava, era segno che aveva mietuto nuove vittime».
In quei
giorni però si udiva soprattutto parlare tedesco.
Piccoli
innocenti annichiliti dalla “feuersturm”. Liquefatti dal calore. Schiacciati dalle
macerie. Divorati vivi dal fosforo.
Vittime
sacrificali della follia dei loro padri.
La mamma
china sul suo piccolo quasi completamente immerso in un canale per impedire
alla sostanza micidiale di consumarlo, a porgergli una bevanda calda, a
consolarlo con l’angoscia nel cuore.
«Fra poco
arriverà il dottore» mentiva, a quegli occhi amatissimi, sbarrati dal terrore.
Presto
l’acqua gelida avrebbe compiuto la sua opera misericordiosa. La mamma lo sapeva.
Voleva solo cogliere l’ultimo guizzo di vita da portare con sé.
Invece del
dottore, sarebbe giunto un soldato, indurito nell’animo da cinque anni di guerra,
a sollevare con ritrovata pietà il corpicino.
«Dresden,
Dresden» risuonava da ogni parte.
Al
check-point una baraonda. A ogni minuto se ne aggiungevano altri. Dresden,
Dresden…
Le luci
divine preposte al controllo sembravano in crisi.
Fu una
giovanissima luce a trovare il bandolo della matassa.
Disse:
«Quelli del circo fisso, tutti alla mia sinistra».
Se ne
radunarono più di trecento. Parlavano dei cavalli impennacchiati, ritti sulle
zampe posteriori a danzare a suon di musica agli ordini di una bellissima
domatrice. Ripetevano ridendo le battute dei due clown. Uno grande e grosso con
un’enorme bocca da orecchio a orecchio di un bel rosso peperone, l’altro
piccolo, ma così piccolo da non potersi immaginare.
Le tigri!
Accovacciate sull’alto sgabello con fare indolente e sguardi sornioni.
Parevano
ignorare il domatore. Subito però, allo schioccare della frusta, si muovevano
con la loro naturale scioltezza per eseguire gli esercizi.
Hop, hop.
In un
diluvio di applausi.
Prese
coraggio la giovane luce: «Quelli di Neustadt…
davanti a me».
Sortì un
effetto straordinario, perché si riconobbero subito fra loro…
«Kurt, cosa
ti è successo?».
«Non te lo
saprei dire. Ho solo visto una parete che mi crollava addosso».
«E tu,
Heinz?».
«Anch’io. Ho
respirato per un po’ sotto le macerie di casa mia. Chiedevo aiuto ma c’era
troppo rumore. Bombardavano ancora. Alla fine mi sono addormentato dicendomi:
Verranno di certo a salvarmi».
«Ciao ragazzi»
tubò la graziosa Liselotte, che abitava solo cento metri più avanti, già conscia
del suo fascino sui maschietti. «Ero nel rifugio abbracciata alla mamma. Il
rombo delle bombe si avvicinava, si avvicinava… un vento rovente e il polverone
ci hanno separate. L’ho cercata a tentoni fino a quando mi sono sentita debole,
debole. Forse era il sangue, tanto sangue che mi usciva dappertutto».
Di nuovo la
giovane luce: «I bambini e le bambine di Pillnitz… alla mia destra».
Ora la folla, incolonnata davanti ai check-point, scorreva fluida.
Si poté
allora udire una vocina invocare: «Mutti, mutti…».
Una bimbetta
con una vestina corta.
Siccome non
riceveva risposta, rinnovava la sua implorazione: «Mutti, mutti…».
Chiese la
luce giovane: «Sua madre è rimasta fra i vivi?».
Rispose la
luce anziana che presiedeva alle operazioni: «Un attimo fa era al check degli
adulti. Quelli sono molto più numerosi! Non tarderà. Eccola infatti, di corsa».
«Franziska!».
«Oh meine liebe mutti!».
Il cielo
sfolgorò di una luce straordinaria.
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