Un popolo di poeti, di
santi e… di navigatori
DISINFORMAZIONE?
Il professor
Saltieri ruggisce il Carducci; bela il Pascoli; si perde nel D’Annunzio.
Il che, in
un mondo libero, dove l’interpretazione
è figlia di molteplici fattori, cause e concause nonché imprevedibili
incognite o varianti a non finire, può significare tante cose.
Limitiamoci
a intenderla come la sua straordinaria capacità di compenetrazione del testo e
di riviverne il pathos.
Non senza
una sia pure impalpabile
riserva, percepita e sfruttata in senso affettuosamente
ironico-riduttivo dall’agile mente
giovanile di chi aveva connotato in tal modo il proprio maestro.
A
scuola, snobbava la monumentale “Storia” desanctiana, nell’esaltazione del suo Croce che ha saputo cogliere
l’intima sostanza della poesia senza farsi irretire da elementi allotri, anche
se di riconosciuta valenza e importanza morale, sociale e storica.
Notissima la
sua parabola stile
futurista dell’aeroplanino bello
leggero, coloratissimo, che volava
libero nel cielo con mille evoluzioni, talvolta riflettendo i raggi del sole.
Donava gioia
a chi lo guardava librarsi nell’aria.
Atterrato,
ma pronto per un altro volo altrettanto straordinario, gli si avvicinarono
alcune figure pompose, supponenti.
Per prima
giunse sotto bordo, rigida e rinsecchita, madama filosofia a depositare nella
carlinga il suo aulico peso.
Seguì, fra
clangori di buccine e strepitar d’armi, monna storia che aggiunse all’altro il
suo pesante fardello.
Né si
astenne dall’imporre il proprio contributo la più giovane scienza, vecchia solo
di qualche secolo.
A ruota, in
un tintinnio di turiboli e fumo d’incensi, la religione recante un apparato,
pesantissimo, ingombrante.
In breve:
l’aeroplanino così gravato tentò invano di sollevarsi dal suolo. Non vi riuscì perché,
più che un velivolo era diventato un museo, una biblioteca, un pensatoio:
troppo pesante per volare.
Morale: gli
elementi estranei sbarrano il passo alla poesia.
È chiaro:
grande è la loro importanza nella nostra
civiltà, però alla poesia sono estranei.
Esibiva con
orgoglio la propria familiarità con gli universitari di “Pattuglia”, ventata di
novità, di passione giovanile, di patriottismo militante.
Anche in
rispettosa, ma motivata critica ad alcuni aspetti dell’ufficialità
che, in qualsivoglia sistema politico, col tempo, tende a irrigidirsi, rischia
di incartapecorirsi.
S’infervorava.
«Sono “in nuce” la cultura italiana del domani». Non solo romagnoli come il
nostro Diego Fabbri.
Per rimanere
al teatro, da Milano vengono Strehler, Grassi e qual genio precoce di Giovanni
Testori poco più che liceale, pittore, critico d’arte e drammaturgo; da Roma
invece Vasile e Patroni Griffi – cito questi due, ma ve ne sono altri, che
collaborano alla rivista. Poi Ghirelli
da Napoli; poi Calvino che chiede di essere pubblicato. Anche Guttuso collabora. Con Testori e con
Strehler hanno spalancato una straordinaria finestra sulla più raffinata
cultura europea pubblicando Eluard, Lorca, Braque e Cocteau. Di questi tempi! Volta
è suonata la sveglia, grazie alle iniziative di un manipolo di giovani che con
la loro rivista, ormai con buona pace del “Popolo di Romagna”.
In questa
nostra provincia strapaesana, culturalmente opaca, dove, a essere sinceri,
nemmeno una città universitaria come Bologna supera il proprio provincialismo,
seppur accademico, in questa nostra città sonnolenta per secoli, fino
all’arrivo di Napoleone, per la seconda conosciuta e imitata in tutto il Paese
e perfino pubblicando una collana di opere teatrali modernissime, primeggia
nella cultura italiana e nel contempo, dimostra che si può aderire al fascismo,
al di fuori del conformismo imperante, seguendo l’altro esempio di semplicità,
modestia, rettitudine ed efficienza del nostro Duce.
A indagini
ultimate, è stato appurato trattarsi dei resti mortali del professor Saltieri
Eugenio la cui scomparsa era stata denunciata dalla consorte, signora Fabietti
Annamaria, il giorno 10 agosto 1945. Rinvenuto in data 18 ottobre 1945 nel
fondo “Casalino”, ad opera del colono
Gatelli Antonio di Guido, nell’atto di arare il campo. Già iscritto, come
risulta dagli atti, al Partito Fascista Repubblicano.
In tutta la
cittadina, con solerte, capillare azione,
fu propalata o, a piacer vostro, propinata la versione ufficiale che il
professor Saltieri, apparentemente
irreprensibile, nella realtà era un agente della famigerata OVRA.
«Chi
l’avrebbe mai creduto?… Però se è così si può anche comprendere perché lo hanno
eliminato».
«Sì, va
bene: ma allora, com’è successo con altri, portalo dietro il cimitero, e dopo
lascialo lì… Perché l’hanno nascosto? Non me lo so spiegare. O meglio posso
figurarmi solo l’opera di qualche scheggia impazzita, o, che so io, di qualcuno
che ha voluto vendicare un familiare, un amico, senza andare troppo per il
sottile. Al giorno d’oggi non si più giurare su nessuno. Però mi è difficile
immaginare fosse una spia, un delatore dei suoi concittadini… Sì: evidentemente qualcosa non quadra. Gli altri sono stati
giustiziati a botta calda ai primi di maggio. Lui, perché dopo tanto tempo? A
me aveva detto di avere la coscienza a posto. Di non aver fatto del male a
nessuno».
«Guarda che,
a tradirlo, è stata proprio questa sua fiducia nella sua buona coscienza. Caro
mio, in certe situazioni, anche se innocente come un angelo, devi dartela a
gambe… lontano mille chilometri. Invece aveva cominciato a mostrarsi in
pubblico, perfino ad assistere alle partite di calcio. Era la sua passione il
calcio: dicono che aveva proposto al podestà di murare una lapide in onore ed
esaltazione di Vittorio Pozzo se non nel salone comunale, assieme a Mazzini e a
Garibaldi, almeno nell’atrio della palestra, “fucina della gioventù italiana”
come amava declamare. Il “pallone” lo ha fottuto: l’ultima volta che l’hanno
visto è stato proprio al campo sportivo. Dammi retta: il partito non c’entra.
ormai troppo occupato a guadagnarsi il consenso. Però c’è chi, all’osteria, ha affermato che dopo
una bella cena e un fiasco di vino, il miglior modo di chiudere la serata sta
nel “friggere qualche fascista”».
«Non
esageriamo! Sono discorsi da ubriachi».
«Può darsi;
tu però non minimizzare. L’egregio professore aveva accettato o no la nomina a
responsabile dell’associazione dei docenti che avevano aderito alla
repubblichina?».
In verità,
l’incarico era stato proposto al preside Gianmattei che, gran furbacchione, con
la scusa della salute, ha rifiutato, appartandosi in campagna.
Solo allora
la scelta è caduta su Saltieri.
E ancora,
avete dimenticato le sue parole di fuoco, contro i traditori, Ciano incluso,
condannati dal tribunale di Verona? In conclusione, non ne facciamo un santo.
Non si può essere santi in questi tempi.
Un messo
comunale notificò alla signora Annamaria che il funerale si sarebbe svolto il
giovedì alle sette antimeridiane; consentita solo la presenza dei familiari
stretti. Il tipografo accettò di stampare i manifesti funebri solo se così
redatti: «Si annuncia la dipartita di Eugenio Saltieri, di anni cinquanta. Lo
piangono la moglie, i figli e i familiari tutti».
Il parroco
acconsentì a celebrare la Messa funebre, ma alle sei del mattino.
Dopo no,
perché doveva celebrare quella in calendario da tempo. Il percorso fu breve:
dalla cappelletta del cimitero che, all’occorrenza, serviva anche da camera
mortuaria, alla tomba di famiglia si e no quaranta metri.
Strettissimo
il numero dei partecipanti: la moglie i figli, una cognata. Un cugino venuto da
fuori, aveva dovuto convincere – documento di identità alla mano – un austero
signore piazzato all’ingresso, dei reali vincoli di parentela col defunto.
A un tratto,
il bisbiglio devoto del sacerdote, il singhiozzare della signora nel mattino
brumoso furono sovrastati dal canto limpido, alto di una tromba che intonava il
“Silenzio fuori ordinanza”.
Un qualcuno
qualunque credette di aver scorto il riflesso di un oggetto metallico a un abbaino
con vista sul cimitero: poteva ben essere una tromba!
Ci fu chi
ammise che stile e maestria nell’esecuzione indicavano un nome solo: Stefano lo
sciancato.
Che,
indovina, abitava lì vicino.
Saltieri si
era battuto perché fosse accolto nella banda cittadina, pur senza partecipare,
impedito com’era, alle marce e alle sfilate: solo quando si esibiva nella
tribunetta in piazza.
Alle
proteste risentite per lo strappo alla democrazia i vicini si schierarono in
difesa del loro artista. Nessuno – lo giuravano – aveva udito il “Silenzio”
quella mattina. Ma che “Silenzio”!
Con l’arrivo
degli Inglesi aveva scoperto il Jazz. Solo quello suonava! Per ore e ore, ogni
giorno che cadeva in terra, dovevano sorbirsi Glenn Miller, la sua passione. Sempre
Glenn Miller; solo Glenn Miller.
Anche i cani
conoscevano a memoria la “serenata”.
«Vuoi dire Moonlight Serenade!».
«Sì quella,
ma io non so l’inglese».
Molto
richiesto nelle orchestrine,
guadagnava qualche lira per la
famiglia, che non nuota certo nell’oro.
Toccò ad
Alfredo, disinvolto e mondano per quanto poteva esserlo un officiante della
chiesa marxista, notificare la versione ufficiale al “Caffè Patria” in terra
infidelium.
Dove – il
nome stesso lo indica – s’annidavano i più biechi esponenti della reazione.
Di fronte a
un discreto numero di borghesi, vestiti alla borghese, intenti
a sorbire bevande borghesi,
moderatamente attenti e rispettosi,
vuoi per educazione vuoi ancora
di più perché “con certa gente non si scherza, e adesso comandano loro”
annunziò “urbi et orbi” che il professor Saltieri non era quel galantuomo dal
tratto gentile, dall’approccio amichevole, moralmente ineccepibile, buon padre
di famiglia, insegnante stimato da tutti e amato dagli allievi che tutti
credevano, bensì un agente della più odiose delle organizzazioni fasciste: l’OVRA.
Ad un
tavolo, davanti al comiziante, sedevano quattro avventori religiosamente presi
dalle alchimie del “marafone”.
Uno di essi,
cristallinamente antifascista, il quale per la sua fede mazziniana aveva subito
il confino, resosi conto che l’oratore aveva terminato la propria perorazione,
abbassate le carte per celarle allo sbirciare malizioso degli avversari, disse:
«Il
professor Saltieri spia dell’OVRA? Ma mi faccia ridere!».
Fu
risparmiato al mite professore di assistere alla fine precoce di quella
straordinaria primavera culturale sotto le mazzate dei duri e puri del partito,
per la catastrofe del fascismo.
Di assistere
alla “diaspora” di quei giovani tanto
promettenti.
Volarono
alti sopra Piazzale Loreto, sopra Schio, sopra Codevigo, sopra i Prati della
Priula, sopra la Cartiera Burgo.
Appena
discesi sulla terra si procurarono la
tessera di un partito democratico quasi sempre di sinistra.
Rinfrancati dalla
nuova verginità chirurgica,
tornarono a scrivere, quasi
sempre, cose di sinistra.
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