LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

                LA CROCE DI FERRO

 

A distanza di mezzo secolo, alla discussa o negata o addirittura ridicolizzata attendibilità dei “si dice” bisbigliati allora da chi senza esporsi intendeva rimarcare le proprie perplessità verso il nuovo corso politico o alcuni suoi aspetti, si accompagna la sfumata vaghezza degli elementi che allora apparivano mera certezza.

Nel maggio del fatale ‘45 si riunì un, chiamiamolo, tribunale per esaminare i crimini dei fascisti locali. Non senza contrasti, a differenza di altri casi, fu alla fine giudicato passibile della condanna più severa il Maggiore del Regio Esercito Renato Ferrini.

Un paio di “giudici” azzardarono  infatti che non era mai stato fascista, bensì monarchico. Mai aveva militato nelle forze armate della repubblichina, e tantomeno nelle Brigate Nere o simili. Per le Camice Nere, lui, fedele al re, non aveva mai nutrito simpatia.

Nonostante appartenesse alla mai sufficientemente vituperata classe degli agrari, di nulla si poteva fargli carico nei riguardi del proletariato.

«Sembra saggezza politica» era stato loro opposto «in realtà è soggezione atavica verso i padroni, accettazione passiva di antichi tabù che la Resistenza ha una volta per sempre cancellato. È incapacità di imprimere una svolta epocale all’assetto sociale eliminando la proprietà privata, se è necessario, anche attraverso l’azzeramento dei detentori. Ma, prima di ogni altra considerazione, sapevano gli esitanti compagni che il Maggiore Ferrini era uno sporco agente al servizio dei tedeschi?

Che nell’estate del ’44, insieme con un alto ufficiale del Comando Superiore Germanico, inviato appositamente da Kesserling, aveva elaborato una strategia difensiva facente perno sulle nostre colline, poi attuata a prezzo della vita di molti civili innocenti e del generoso sacrificio di non pochi partigiani?».

«Hai le prove?» azzardò uno dei garantisti.

«I dodici partigiani massacrati al Pradello sono le prove. Te li sei già scordati, compagno?».

Tanto bastò perché venisse emesso il ferale decreto.

Charlotte Olsen Ferrini, moglie del maggiore, danese d’origine, che aveva incontrato il marito negli anni ’30 quando era aiutante di campo dell’Addetto  Militare Italiano a Kopenagen, ricorderà che il tenente colonnello Stedter, ufficiale della Nona Panzerdivision  per due giorni era stato loro ospite nell’estate del ’44. Un amicizia nata in Libia quando suo marito era ufficiale di collegamento presso i comandi germanici.

Certamente avevano rievocato episodi della campagna africana scorrendo anche alcune carte topografiche, sulla veranda, mentre sorseggiavano una bibita.

Solo un deficiente  o una mente perseverante  nel diabolico poteva sostenere che un abile stratega come Kesserling che con scarse truppe raccogliticce aveva tenuto in scacco per mesi un mostro di potenza bellica come l’ottava Armata, sostenuta dalla marina e da un’aviazione incontrastata nei cieli – sia pure col limite di essere stata affidata, com’è a tutti noto, a comandanti di quint’ordine – sollecitasse la collaborazione di un Italiano, per quanto competente e stimato. Conoscete i tedeschi?

«Senza contare che mio marito, ferito a morte in Tunisia, era ormai al lumicino: intendo anche intellettualmente».

A chi si era prefisso lo scopo di togliere di mezzo quel “padrone reazionario” era invece bastata l’affermazione di una servetta: «Li ho visti con i miei occhi fare dei segni con la matita sulle carte geografiche. Parlavano tedesco».

La maestra della suddetta ancella si chiese, sarcastica, che mai avrebbe potuto capire di carte militari e di piani bellici quella “cervellona” che dopo aver ripetuto per due volte la prima, era stata iscritta d’imperio a una classe differenziale.

Ripetente o no, semi deficiente o meno, aveva vergato la condanna a morte del malcapitato.

Furono scelti gli esecutori fra quelli che in quei tempi agivano di notte, a nemico morto e sotterrato. Si procurarono i mezzi per l’operazione: tre auto e un camioncino. Venne ordinato a un contadino di sicura fede di preparare l’ultimo giaciglio per il maggiore in un luogo adatto. Qualcuno, particolarmente versato nelle comunicazioni, il giorno seguente, avrebbe diffuso la voce che l’ufficiale, riconosciuto colpevole di spionaggio a favore dei Tedeschi, era fuggito in Argentina per sottrarsi alla giustizia del popolo.

All’imbrunire del giorno fatale, con grande discrezione, fu pattugliata la zona attorno alla villa. A mezzo chilometro di distanza un ignaro viandante che procedeva in quella direzione fu consigliato di deviare per un’altra strada perché era in corso un’operazione “contro criminali fascisti”.

Calate le tenebre, le auto, provenienti da direzioni diverse, entrarono dal cancello principale, a fari spenti, si fermarono di fronte al portone. Quattro uomini bussarono, mentre gli altri si appostarono fra gli alberi, ai limiti del parco.

L’anziana  servente  che era venuta ad aprire fu scavalcata dagli incursori che si catapultarono al piano nobile dove sapevano essere la stanza del maggiore. Era buia e vuota.

Arrancando per la scala era frattanto giunta anche la domestica.

«Dov’è?» le chiesero.

«Chi? Il padrone?».

«Sì, dove si è nascosto?».

«Poveretto, è stato ricoverato all’una di oggi all’ospedale inglese. È venuta una loro ambulanza a prenderlo».

«Bada di dire la verità!».

«Lo giuro sui miei morti. È in fin di vita».

L’operazione era dunque fallita. Definitivamente, perché nessuno avrebbe osato prelevarlo da un ospedale alleato.

Qualcuno avrebbe dovuto giustificarsi.

Non quella donnetta terrorizzata, certamente la moglie del maggiore, interprete di fiducia del comando-piazza alleato, avrebbe fatto un gran baccano con non poche complicazioni.

Il maggiore Ferrini spirò tre giorni dopo e fu sepolto nella cappella di famiglia.

La storia dedica talvolta qualche riga agli espropri di opere d’arte insigni.

Degli “espropriatori illustri” ci sovviene quando visitiamo il Louvre o ancor di più il British Museum.

Nel nostro caso si tratta di una semplice Croce di Ferro con la quale il defunto maggiore Ferrini era stato decorato da Rommel in persona in Piazza Medaglie d’oro a Tripoli, nel ’42.

Una foto che ritraeva il famoso condottiero nell’atto di fregiare dell’ambito  riconoscimento  l’ufficiale  italiano,  scattata da un inviato  di “Signal”,  faceva  mostra  di sé incorniciata d’argento su un tavolino di radica in salotto.

Nessuno fu mai in grado di fornire ragguagli su chi la fece sparire.

Inevitabile  subbuglio  segue le azioni “manu militari  anche perché, almeno in quel caso, il disilluso “commando” tolse il disturbo senza curarsi di chiudere la porta alle proprie spalle, come la buona creanza avrebbe consigliato, mentre la domestica aveva già prima abbandonato la villa, rifugiandosi da una vicina.

Si può ipotizzare che qualcuno se ne sia giovato per alleggerire i cassetti incustoditi di qualche quisquilia, come risulterà dal dettagliato verbale della denuncia presentata alla Military Police dalla signora.

Tre paia di stivali, un orologio d’oro, marca Baume Mercier,  con relativo bracciale anch’esso d’oro, uno scudo abissino e due zagaglie, un curbash arabo, un paio di polsini, naturalmente d’oro, un casco coloniale, un binocolo da campagna Zeiss, sei mazze da golf dentro una pregiata sacca in cuoio grasso e appunto la Croce di Ferro.

I soliti maligni insinuarono che non c’era mica molta gente che circolava di notte a quei tempi.

Riapparve – ma era lei? Si giurava di sì.

«Ma scherziamo? Ascoltami e rispondimi. Quanti nostri compaesani sono stati decorati con la Croce di Ferro? Non lo sai? Te lo dico io. Solo il maggiore Ferrini.  Fra le cose scomparse in casa sua a opera di sconosciuti, che poi molto sconosciuti non sono, c’era quella medaglia, sì o no?».

«Sì, lo sappiamo tutti, o perlomeno così ha detto sua moglie».

«Bravo. Allora, dimmelo tu, a chi apparteneva questa benedetta croce?».

«Probabilmente al Ferrini».

«Non probabilmente. Di sicuro».

Qualche dubbio, leggero come un refolo di vento, rimaneva tuttavia. Perché l’uomo esiste perché dubita.

Riapparve, dicevo, in balera. In bella vista sulla giacchetta di “Panirèn”.

«Panierino per chi non ha dimestichezza col dialetto».

Un tempo, da noi si faceva uso spropositato di soprannomi che ti trascinavi dietro per tutta la vita.

«Si annuncia la dipartita di Casadei Antonio, e sotto in neretto “Tartaia” perché spesso si era conosciuti più per il soprannome che per l’appellativo ricevuto al battesimo.

Stefano  Diotallevi,  detto  Panirèn,  merita  una breve nota biografica.

Preciserò in primis che non fece parte della pattuglia che agì quella sera nella villa, affinché a nessuno passi per l’anticamera del cervello che abbia sgraffignato la croce in questione.

Se ci fosse stato, alle sue mani di uomo onesto non sarebbe rimasto attaccato nemmeno uno spillo.

Era un partigiano in attesa del sospirato brevetto. Alla non più verde età di quarantacinque anni per l’esattezza.

Diciamo che aveva compiuto, sempre con diligenza e, talvolta, con sprezzo del pericolo numerose operazioni di appoggio. Trasportate armi, diffusa la stampa clandestina, recapitati messaggi, guidati prigionieri alleati verso rifugi sicuri.

Certamente il brevetto se lo era guadagnato a differenza dei “cantinari” emersi dal sottosuolo, cessate le ostilità, a pavoneggiarsi in coreografiche uniformi similmilitari.

 Solleciti a vantare privilegi ante marcia.

Chissà perché tardava tanto? Stanco di attendere e italicamente sospettoso che qualcuno tramasse nell’ombra contro di lui, annunciò sarcastico al suo capo: «Per quel brevetto, siccome voi non vi decidete, mi rivolgerò al Federale».

Le donne, è notorio, sono curiose. Se una “danseuse” di balera gli chiedeva come ne fosse venuto in possesso, il buon Panirèn assumeva un’aria astuto-misteriosa, iniziava a dire di un non nominabile gerarca, poi subito concludeva: «… Non te lo posso rivelare. Si è trattato di un’azione segretissima».

Grazie al fascino che le reliquie degli dei caduti esercita- no sovente sulle menti semplici, avrebbe dovuto spianargli la strada alla conquista di qualche non più verdissima frequentatrice in cerca di qualche avventura.

Sarà perché le donne, in generale, non distinguevano  una Croce di Ferro dal Toson d’oro, la Legion d’onore dalla medaglietta della Cresima, sarà perché “l’appeal” del nostro era tutt’altro che “glamorous” l’effetto non fu mai travolgente e fruttifico.

Nessuna, nemmeno fra le più sentimentalmente  funamboliche, era disponibile a un rapporto amoroso con quello che, per carità di Dio! era una persona per bene. Però beveva, non aveva un mestiere fisso, tirava tardi la notte. Certamente non una mente d’aquila. A volte, male odorava dal naso…

Nel suo personale repertorio di ricordi, smaltito il terrore, la definirà “la notte del Feldwebel”.

I Feldwebel erano sottufficiali delle forze armate germaniche, verace incubo militare, tecnico, amministrativo, umano e sociale di quanti, amici o nemici, per sventura nera, avevano a che fare con loro. A paragone, i sergenti dei “Marines”  cinematografici rozzo-urlanti e ottusi fino al midollo sono educande di buona famiglia…

Dunque, Panirèn verso le undici con qualche difficoltà infila la chiave nella toppa.

«Porca M. Mi viene meno la vista!» si giustifica.

In realtà il vino della “Tubiota” o perché bevuto a stomaco vuoto, o perché, non di eccelsa qualità, aveva alterato le sue proverbiali doti di equilibrio a tal punto che tutto il suo corpo, non meno dell’animo suo, agognava solo al letto, ricettacolo sicuro, solidamente orizzontale e avvolgente.

Ancorato con una mano stretta attorno a un ferro della testiera, gli pareva che le cose andassero riacquistando il loro naturale equilibrio quando la porta di casa, che non chiudeva mai a chiave perché non c’era nulla da portar via, fu brutalmente spalancata e un diavolaccio di Feldwebel con la divisa dell’odiata Wermacht, una Luger P 38 alla mano, con uno strattone lo tirò giù dal suo paradiso di stabilità. Si accorse che presso soglia c’era un altro “tognino” con la “maschinepistole” puntata, sguardo attento, dito sul grilletto.

Ma almeno taceva.

La vociaccia dell’energumeno lo rintronava: «Dov’è la croce, los!».

«Che accidente di croce?».

«Quella tedesca, croce di guerra!».

Tentò di tergiversare: «Di che cazzo parli?».

Vide allora che l’altro col pollice aveva tolto la sicura.

Meglio accontentarlo.

«Ho capito. Ein moment».

Da un cassetto tirò fuori quanto preteso.

L’energumeno grugnì “Sehr gut” e prese a ritirarsi verso la porta sempre con la pistola puntata. Il compare che fino ad allora gli aveva coperto le spalle era già uscito.

Mezzo minuto impiegò il nostro per rendersi conto che si poteva suonare il cessato allarme.

Allora riepilogò, ansioso di certezze.

«La guerra, l’abbiamo vinta noi. Comunque è finita. Loro le hanno prese sode e gli unici tedeschi sono nel campo di concentramento  alla Ghiaia. Come potevano quei “tognini” armati venire a prendersi la medaglia? Sono forse così ubriaco da sognarmeli? Altro che sognati! La pistola era vera.

“Bevi un sorso d’acqua, Panirèn” consigliò a se stesso “e cerca di ragionare”.

«La croce era nel cassetto, vero? Se è stato un brutto sogno, c’è ancora».

Non c’era più.

«Porca vacca, ma allora erano veri».

«Domattina andrò al comando partigiano… ora però devo dormire».

Giornata di bel sole la seguente. «Compagno comandante, c’è Panirèn che ti vuol parlare».

«Devi dire il partigiano Diotallevi».

«Sì, ma hai capito lo stesso».

«Capita proprio a puntino. Sarà felice, fallo entrare».

«Compagno Diotallevi, sei anche indovino?».

«Perché?».

«È appena giunto il tuo brevetto e tu sei già qui. Quanto l’hai atteso! Hai anche dubitato che volessimo prenderci gioco di te».

«Mi fa piacere, però… non sono venuto per il brevetto».

«Per cosa, allora?».

Narrò al sempre più allibito comandante  l’avventura della notte precedente.

«Dì la verità. Avevi bevuto».

«Qualche bicchiere, come ogni sera, compagno comandante. Non è che mi rimangano molte soddisfazioni ormai, alla mia età».

«In quale osteria?».

«Dalla “Tubiota” qui vicino. Perché me lo chiedi?».

«Voglio vederci chiaro in questa faccenda».

Alla “Tubiota” apprese che Panirèn era stato generoso con sé stesso: le “mezzette” consumate non erano una o al massimo una e mezza, come sosteneva lui. Diciamo una mezza dozzina o poco meno. Non si era preoccupato  di contarle l’oste, però non si sbagliava di molto. Tornati al comando, fu esortato a non dimenticare che un valoroso partigiano come lui, doveva essere d’esempio ai giovani, cittadino esemplare, promotore  di progresso.  Si limitasse dunque nel bere. Promesso?

Parrebbe un “pistolotto” retorico d’occasione. Tanto per chiudere la faccenda.

Coloro che hanno conosciuto il comandante sanno che non amava i lenocini verbali.

Dalla persecuzione e dal carcere aveva tratto una meravigliosa quanto rara lezione di umanità.

Messo subito da parte il mitra, in quella stagione di sangue, ribollente di odi, funestata dalle vendette, fra sfiatati “tenorini” di rivalsa politica, iniziò il suo prezioso servizio di pace a favore di tutti anche di quelli che gli erano stati nemici. Seppe tener distinti i misfatti dei padri dalle suppliche dei figli innocenti, delle vedove disperate. Lui sì, un vero costruttore di pace.

A tanti anni di distanza tutti, anche quelli della parte avversa, lo ricordiamo con rispetto.

Per il comandante la faccenda sembrava archiviata in questi termini: un brav’uomo aveva alzato il gomito e si era sognato tutto quel putiferio. Chiuso.

Neanche per sogno! Perché un paio di giorni dopo, un amico, uomo pacato, obiettivo, e anche astemio, gli riaprì brutalmente le porte del dubbio. Suo padre, ottanta e passa, soffriva di insonnia per cui nelle notti afose prendeva il fresco sul terrazzino, fino a quando l’agognato assopimento lo coglieva come un infante. La notte dell’assalto a Panirèn, nell’attesa di un dispettoso Morfeo, aveva visto giungere un auto militare tedesca con le lucine schermate accese. Sopra c’erano quattro “todeschi” in divisa, armati.

Davanti alla casa di Panirèn uno era rimasto alla guida, gli altri tre erano scesi con mosse rapide, come in guerra. Due erano entrati in casa. Gran rumore di porta sbatacchiata.  Il terzo si era appostato all’esterno.

Aveva successivamente udito un vocione da orco che blaterava non so che in tedesco, e, a pensarci bene, anche la voce sommessa dell’offeso.

Si erano trattenuti non più di cinque minuti. Poi sulla loro auto così come dal buio erano spuntati, nel buio erano spariti.

D’impeto, il comandante partigiano fu tentato di recarsi al comando alleato per chiedere spiegazioni.

Ci ripensò. Quali elementi aveva in mano? Il racconto di un ubriaco, le visioni notturne di un vegliardo, per denunciare un’inimmaginabile azione militare con tanto di auto, di armi spianate e di minacce stile nazista, condotta da soldati sconfitti, prigionieri, custoditi in un campo di concentramento dietro il filo spinato. Chi gli avrebbe dato credito?

In sostanza, questi inglesi intendevano comportarsi da alleati o da occupanti? Perché, riflettendo, nulla poteva essere accaduto senza il loro consenso. 

Ordinò al suo vice di indagare presso il comando piazza sulla presenza e sull’eventuale uso da parte di chiunque di mezzi militari tedeschi catturati. A se stesso assegnò la parte più delicata: parlare col comandante del campo di concentramento. Il solerte subordinato appurò che, fino a tre giorni prima, risultavano presenti quattro camion Renault privi di pneumatici, tre moto carrozzette,  una Zundapp e due BMW, un’auto comando  Mercedes  nonché  tre Kubelwagen  in buono stato. Il suddetto materiale era stato trasferito al campo di raccolta di Pesaro con regolari documenti di trasporto di cui copia era a disposizione del comando della Brigata Garibaldi, se l’avesse richiesta.

Di nessun giovamento e per di più umiliante fu il suo colloquio con l’ufficiale comandante il campo di concentramento. Che, prima della guerra, passava l’inverno a Firenze dove conservava casa e amici.

Gentilissimo, l’ascoltò attento. Sorrise e gli porse un volumetto ben rilegato.

«Mi spiace è scritto in inglese. Conosce la nostra lingua? Immagino di sì. Tutti i bravi Italiani sanno l’inglese. Non parla inglese? Non si preoccupi, gliene posso dare una copia perché la faccia tradurre. È il regolamento dei campi di concentramento. Le posso assicurare sul mio onore di ufficiale che io esigo sia rispettato alla lettera dai miei subordinati come dagli ufficiali prigionieri responsabili della disciplina dei loro uomini. Escludo quindi, categoricamente,  possa essere accaduto quanto lei denuncia. Buongiorno signore…».

Gli abitanti delle case coloniche vicine gli fornirono un quadro ben diverso: i prigionieri circolavano più o meno liberamente anche di notte. Erano arroganti. Una volta erano scesi dal camion per punire un Italiano che li aveva derisi. Facevano ogni sorta di commercio per procurarsi il vino, corteggiavano le ragazze sia pure senza successo…

Non tutti. Alcuni frequentavano la parrocchia, la domenica, dove, specialmente gli Austriaci, servivano messa con infinita devozione, col loro latino gutturale.

No, gli Inglesi non erano così rigorosi! Spesso complici nei piccoli commerci di pneumatici e benzina sottratti ai magazzini.

In sostanza, poiché la guerra era finita, sarebbe stato giusto spedirli a casa, gli uni e gli altri.

Nella ricorrenza dei defunti dell’anno 1945 quei pochi che furono ammessi nella cappella della famiglia Ferrini, sull’altare di marmo, sotto la foto della decorazione, videro un cuscino di velluto cremisi, bordato d’oro con la Croce di Ferro del Maggiore del Regio Esercito Renato Ferrini.

Nel tentativo di capirci di più, può risultare illuminante quanto ebbe a dire la signora Charlotte a proposito di un incontro a tre fra lei, il comandante del campo di concentramento e il comandante Stedter lì rinchiuso con la funzione di ufficiale responsabile della disciplina dei prigionieri, al quale aveva recato alcuni piccoli doni come collega e amico del suo defunto marito.

Dopo le attestazioni di rito sulla condotta cavalleresca dei due schieramenti  in Africa Settentrionale,  dove la Convenzione di Ginevra era stata sempre rispettata. Reso il dovuto omaggio al genio strategico della Volpe del Deserto, ribadito, per far piacere alla signora, che, come ammetteva  lo stesso Feldmaresciallo, gli Italiani avevano messo in campo qualche buon battaglione, i due ufficiali concordi, molto si rammaricarono, che la decorazione meritata da quel valoroso soldato italiano, fosse finita in mano a «civili» in maniera non proprio limpida, anzi  senz’altro disdicevole, e ora, come affermava la signora, fregiasse la giacchetta di una sorta di clown nei non raffinati festini della plebe locale. Un’ignominia.

«Un affronto» convenivano i due ex nemici «all’onore di tutti i soldati che si erano battuti secondo le regole del codice militare. Codice d’onore». Qualche decennio dopo in uno di quei giorni grigi in cui il passato le si ripresentava come un acquarello sbiadito, solo macchie scolorite senza contorni, mentre la pervadeva la nostalgia dei figli che, cresciuti in Danimarca per sfuggire alla guerra, tornavano raramente nella pittoresca terra dei limoni che aveva stregato “maman”, la signora Olsen Ferrini, rovistando nel cassetto di un imponente comò fregiato di maniglie e serrature di bronzo, pieno di antiche tovaglie di lino finissimo, patrimonio della famiglia da almeno un secolo, percepì un oggetto metallico. Con delicatezza lo liberò dalle frange leggere. Si trovò fra le mani una Croce di Ferro.

Qualcuno, forse la fedele Giannina, che il Signore l’abbia in gloria, nei giorni cupi del fronte l’aveva nascosta per evitare ai padroni conseguenze spiacevoli coi vincitori.

La signora Charlotte Olsen Ferrini sorrise.

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