Sono trascorsi trentasei
anni, quasi metà della
cosiddetta aspettativa
media di vita. E
sono passati troppo
velocemente. Quand’ero
ragazzino non vedevo l’ora
di diventare “grande” ed il
tempo sembrava non passasse
mai. Eppure, l’ora è sempre
stata, ed è, di 60 minuti ed
il giorno di 24 ore. Deve
essere colpa della
percezione.
Per tutto il mese di luglio
ci hanno detto: “Signori,
domani la massima sarà di 30
gradi ma non illudetevi
perché la percezione
di caldo sarà di 40 gradi a
causa della forte umidità”.
Quindi: “Signori, è vero che
gli anni sono sempre di 365
giorni e, ogni tre, il
quarto è di 366, ma la
percezione del tempo,
alla nostra età, fa sì che
un anno sembri un mesetto e
la causa è la cosiddetta
terza età che è un modo
simpatico per dire
vecchiaia”.
In trentasei anni sono
successe tante cose. Innanzi
tutto familiari ed amici, un
tempo tutti nel raggio di un
paio di chilometri, sono
oggi raggiungibili solo in
treno, in auto di grossa
cilindrata se non
addirittura in aereo.
Praticamente l’unico legame
è il telefono che di anno in
anno squilla sempre meno.
Ho anche imparato a guidare
nella nebbia, ho adottato
alla neve le esperienze
fatte viaggiando sulla
sabbia. Mi sono trovato
nelle bolgie delle arene
condominiali e sono
stato costretto a studiare
Leggi, usi e norme che
regolano la proprietà in
comune per essere in grado
di sedare risse o
provocarle. Ho vissuto nei
cosiddetti “anni di piombo”
chiedendomi se non fossi per
caso passato dalla classica
padella all’altrettanto
classica brace. Ho dovuto
versare al fisco oltre metà
del mio lavoro senza aver
avuto mai alcun ritorno in
decorosi servizi sociali.
Nel 1973, a causa della
crisi petrolifera causata
dalla guerra “ del Kippur ”,
ho iniziato a saltare da
un’auto a targa pari ad una
a targa dispari e, di
recente, stipulare un mutuo
per ogni “pieno” di benzina.
Mi sono abituato ai pesci
d’allevamento, alle mucche
più o meno pazze, alle
bistecche che, messe in
padella lunghe un palmo,
iniziano subito a
rimpicciolirsi
costringendomi a mangiarle
semicrude prima che
scompaiano del tutto e,
mangiando bendato, non sono
più in grado di distinguere
il pollo dal coniglio,
l’agnello dal capretto. Ho
scoperto che le uova non
hanno il guscio bianco
perché costituito da calcio
ma un vago colore di
caffellatte formato da
incerti materiali. So
affrontare gli inverni
rigidi e se il mare non è
inquinato a puntino,
ritengo non valga la pena
fare il bagno. Ho scoperto
com’è difficile fare
amicizie e come sono diversi
i nuovi amici da quelli che
avevo trentasei anni fa. Ho
imparato purtroppo ad essere
poco solidale con il
prossimo e a ricorrere al
nazionalismo e
all’esaltazione della Patria
solo quando undici
connazionali diventano
Campioni del mondo tirando
calci ad un pallone. Mi sono
abituato a portare in tavola
melanzane, peperoni e
pomodori anche a dicembre ed
a sbucciare arance sotto
l’ombrellone. Sapore buono?
Sapore cattivo? E dov’è il
problema se il sapore non
c’è? Certo che per quanto
riguarda il gusto, i sapori
di trentasei anni fa erano
molto diversi.
Ma in questi ultimi
trentasei anni ho anche
potuto, e non è poco,
apprezzare il piacere della
libertà. Libertà di
pensiero, di parola, di
movimento e, acquistando una
casa o avviando un’attività,
ho avuto la certezza che
nessuno avrebbe potuto
portarmele via. Inoltre, in
barba al galoppante
inquinamento, viaggiando da
un paese all’altro, ho visto
verde, verde e verde anziché
terreni brulli e sabbiosi.
Svago, divertimento,
utilizzo del tempo libero,
qualità della vita sono
nettamente superiori a
quelli della … vita
precedente. Ritengo
inoltre di aver vissuto e di
vivere in un Paese
meraviglioso, il più bello
del mondo. E questo non è
amor patrio ma il semplice
giudizio di milioni e
milioni di visitatori
stranieri. E dove non ha
provveduto Madre Natura, ci
ha pensato il genio a
dotare l’Italia del 60%, se
non di più, delle opere
d’arte mondiali.
È anche successo che la
batuffolina venuta al
mondo nel 1971, mi abbia
elevato al rango di nonno
per due volte mentre il
ragazzino arrivato in Italia
a sei anni, ha portato a tre
le gioie di casa nostra.
Il 15 Ottobre del 1970, era
una giornata splendida ed
io, quella giornata tanto
particolare, l’ho vista
nascere. Mia moglie e i
bambini erano in Italia già
dal mese precedente. Ero
pertanto a casa da solo e la
preoccupazione di non
svegliarmi all’orario
previsto, mi ha fatto
passare praticamente la
notte in bianco. Avevo
appuntamento con Said, un
vecchio amico e collega che
si era offerto di
accompagnarmi all’aeroporto
nonostante la situazione e
le circostanze avrebbero
potuto arrecargli qualche
problema. Tentai di
dissuaderlo ma fu
inflessibile e ironicamente
mi disse: “Non rischio
niente perché ritengo di
fare il mio dovere: sto
cacciando un fascista
come te fuori dalla
Libia!”. Rideva,
probabilmente per mascherare
imbarazzo e commozione.
Eravamo troppo amici.
Aveva posto una sola
condizione: alle 6 in punto
perché, dopo avermi
accompagnato, doveva andare
a lavorare. Pur sapendo che
gli appuntamenti in Libia
generalmente si prendevano
per il solo scopo di non
rispettarli, ero preoccupato
di risultare io, colui che
confermasse tale regola.
Erano da poco passate le 4 e
30 quando, stufo di
svegliarmi per poi
riprendere un breve sonno,
mi alzai, mi preparai ed
uscii. Fu così che vidi
nascere il giorno. Il
tramonto, lo avrei visto a
Roma.
Per strada non c’era alcuno.
All’improvviso comparve il
primo biancore dell’alba e
dopo alcuni minuti il cielo
cominciò a colorarsi di un
arancione intenso. Repentino
il passaggio dall’alba
all’aurora, ma un vero
spettacolo. Avevo visto una
sola volta, nel deserto, una
simile meraviglia. Ma in
città mai. Ho sempre fatto
fatica a tirarmi su dal
letto la mattina ed i miei
ritardi in ufficio erano
proverbiali. Il deserto, che
spettacolo! Pensai che
l’unico rimpianto, se mai ne
avessi avuto uno, sarebbe
stato proprio quello di aver
visto il deserto una sola
volta. Quella grande distesa
dove il silenzio è rotto
soltanto dal rumore del
vento che sposta lentamente
le dune come pedine su una
scacchiera. Ricordo che, per
il mio carattere forse
troppo decisionale, alcuni
mi chiamavano scherzosamente
shekh el gafila
(capo-carovana). Mi venne in
mente che avevamo
incrociato, durante quel
viaggio in deserto, una
carovana di una trentina di
dromedari tutti in perfetta
fila indiana. Visti
dall’alto dovevano sembrare
vertebre di una strana spina
dorsale. I dromedari ci
passarono a pochi metri,
impassibili, e nell’incedere
lento e dinoccolante,
masticavano continuamente.
Neanche avessero avuto in
bocca un chilo di
chewing-gum. I
carovanieri si limitarono ad
alzare i loro bastoni in
cenno di saluto e
proseguirono senza fermarsi.
Scomparvero all’orizzonte
silenziosamente così come
erano improvvisamente
apparsi.
Anche quella mattina c’era
un silenzio tombale e feci
un balzo quando da un vicino
minareto l’altoparlante
lanciò l’invito ai fedeli
per la preghiera del
fager. L’altoparlante,
questo aggeggio anonimo,
aveva da diversi anni,
sostituito i muezzinun.
Ricordo che per
migliorare la voce, i
muezzinun, si tappavano
con una mano un orecchio ed
usavano l’altra per
trasformare la bocca in
megafono. Normalmente erano
o molto anziani o non
vedenti. Se giovani e dalla
vista acuta, dall’alto dei
minareti, avrebbero potuto
sbirciare nei sottostanti
cortili interni delle case
arabe dove le donne
accedevano liberamente,
convinte di essere al riparo
da sguardi indiscreti.
Avrebbero, così, non solo
violato la privacy
delle donne, ma potuto
essere distolti dal pio
compito di chiamare i fedeli
alla preghiera.
Nella Libia monarchica c’era
un grande rispetto per tutte
le religioni. Le campane
venivano tranquillamente
suonate, nessuno disturbava
l’accesso alle chiese, le
processioni erano permesse,
nelle scuole italiane
c’erano i simboli della
cristianità. Dopo un paio di
decenni, in Italia, non
avrei mai pensato di dover
leggere che in alcuni
Comuni, al parroco, era
vietato suonare le campane
“perché disturbavano la
quiete pubblica” e, di
recente, la rimozione del
crocefisso dalle aule.
La religione era materia di
studio. L’ultimo anno
abbiamo avuto, come
professore, Padre Marini,
valente ed illuminato
oratore. L’ora di
religione era sempre la
prima o l’ultima per
facilitare l’entrata o
l’uscita dei non cattolici.
Un giorno Italo Nemni, di
religione ebraica, si
attardò nel recuperare i
suoi libri dallo scrittoio e
quindi ascoltò,
involontariamente, l’inizio
della lezione. Non mi viene
in mente l’argomento oggetto
della lezione, ma ricordo
che Italo chiese ed ottenne
di rimanere. Alla fine si
intrattenne a parlare con un
compiaciuto Padre Marini.
Mentre davanti ai miei occhi
scorrevano questi ricordi,
il muezzin-elettrico
aveva raggiunto il suo scopo
e la città cominciava ad
animarsi. Smentendomi, Said
arrivò addirittura in
anticipo. Era troppo presto
e dovevo “fare” almeno le
sette perché a quell’ora
avevo appuntamento col mio
padrone di casa per la
consegna delle chiavi e per
il pagamento dei quindici
giorni d’affitto. Said volle
accontentarmi e mi invitò a
salire, valigia al seguito.
Percorremmo tutta la Via
Michelangelo quindi Corso
Sicilia. Il semaforo rosso
al bivio di Sciara Errashid
mi permise di abbracciare
con lo sguardo l’artistico
palazzo noto come “il
Colosseo”. Sotto le sue
arcate c’era uno dei più
noti caffè arabi ed i negozi
dei fratelli Darrat. Avevo
lavorato un paio d’anni
nella loro azienda imparando
un sacco di cose nonostante
i Darrat avessero un modesto
grado di istruzione.
Impossibile non ricordare,
poi, il folcloristico
Mercato Rionale, il Mercato
del pesce (Suk el-hut)
e gli abilissimi sinfaz
(maghi delle burik,
delle sfinez e dei
mah-ruh). Mi sembrò
addirittura sentire l’odore
pungente dell’olio in eterno
sfrigolio. Ho frequentato le
Scuole Medie e i primi due
anni di Ragioneria
all’Istituto Tecnico di
Sciara El Maamun. Era un
vero supplizio passare tutte
le mattine davanti ai
sinfaz quelle volte che
purtroppo dovevo tirare
dritto, perché la paghetta
era finita o ero in ritardo.
Quando potevo fermarmi,
grande doveva essere
l’attenzione per non entrare
in classe oliato per
benino.
Proseguendo e quasi al
termine di Corso Sicilia,
sempre sulla sinistra, il
Palazzo del Governo, nello
stile semplice ma armonioso
dell’architetto Di Fausto
ma, pare, su schizzi
del Maresciallo Balbo.
Quindi Piazza Italia con la
meravigliosa Fontana dei
Cavalli Marini, copia di
quella omonima a Villa
Borghese in Roma e Piazza
Castello con la statua di
Settimio che, quella
mattina, mi sembrò più
“Severo” del solito. Ma
appena voltammo a destra sul
Lungomare, chiesi di
scendere dando appuntamento
al mio accompagnatore alla
Fontana della Gazzella.
Probabilmente Said si era
pentito di essersi offerto
di accompagnarmi
all’aeroporto, ma, con
estrema pazienza e cortesia,
mi disse: Tfaddel.
Camminai lentamente come se
avessi avuto incarico di
contare di quanti passi
fosse il Lungomare. Con lo
sguardo accarezzai ogni
singola palma, ogni singolo
lampione e tutti i bei
palazzi che si affacciavano
su quella strada
meravigliosa compiacendomi
che quanto vedevo era tutta
opera degli italiani. Avevo
abitato in una gran bella
città e me ne rendevo conto
soltanto quella mattina che
la stavo per lasciare, forse
definitivamente. È proprio
vero che artisti, opere e
cose si apprezzano solo
quando non ci sono più.
Avrei rivisto volentieri il
Circolo Italia nel cui
teatro ho potuto praticare a
lungo il mio secondo
hobby essendo sempre
stato, il primo, partita
doppia e bilanci. Ma il
Circolo era stato già
espulso il tardo
pomeriggio del 5 Giugno
1967, il primo “della guerra
dei sei giorni”.
Stavo accarezzando la
gazzella, quando Said suonò
il clacson uscendo poi, dal
finestrino, il braccio a
polso piegato per mostrami
l’orologio.
Il proprietario di casa mia,
era un maltese. Gli dissi
che avevo lasciato dentro i
mobili ma che non erano di
pregio: tutta roba
acquistata di “seconda mano”
sette anni prima, in
occasione del mio
matrimonio. Avrebbe potuto
pertanto affittare
l’appartamento ammobiliato
recuperando i soldi delle
sue continue richieste di
aumento, controbilanciate
dalle mie continue richieste
di diminuzione.
Fece un mezzo sorriso, mi
diede qualche colpetto sulla
spalla e, dopo qualche frase
di saluto ed augurio, non
disse altro. Forse per la
presenza di Said. Ma
l’espressione del suo viso
era molto eloquente.
Dovevamo passare a prendere
mia madre e mio fratello
prima di proseguire per
l’aeroporto. Chiesi a Said
di passare da Piazza
Cattedrale e percorrere il
Corso Vittorio Emanuele. La
notte trascorsa praticamente
in bianco mi stava giocando
brutti scherzi: avevo
allucinazioni. Mi sembrò
vedere Gigi Russo in arte
Girus, girare a fatica
in quel bugigattolo di
Latteria che per noi era
famosa quanto l’Harry’s
Bar di Venezia. Il
marciapiedi di fronte, pieno
di volti arcinoti: amici che
incontravo tutte le sere.
Se non avesse ingranato la
marcia con troppa …
animosità, facendomi capire
che non ne poteva più, avrei
chiesto al mio
accompagnatore di lasciarmi
all’altezza della Galleria
De Bono. L’avrei
attraversata, avrei percorso
a piedi un tratto di Via
Costanzo Ciano, girato nella
via dove c’era il cinema
Metropol per dare uno
sguardo, prima agli uffici
dove avevo lavorato dal 1°
Febbraio 1964 fino al giorno
precedente e poi a quanto
rimaneva della mia pescheria
preferita. Era di un ebreo
ed anch’essa già espulsa
il 5 giugno del 1967.
Sarei arrivato in via Lazio,
uno sguardo a sinistra verso
l’Istituto Tecnico ed uno a
destra al mitico Ristorante
Tureia. Sarei partito più
soddisfatto.
Ma se Said mi avesse chiesto
perché non avessi fatto quel
“giro turistico” qualche
giorno prima, non sarei
stato in grado di
rispondere. E tale domanda
non troverebbe risposta
neanche oggi, dopo trentasei
anni.
Chiesi a Said di lasciarci
ad un centinaio di metri
dall’aeroporto; era
opportuno anche per lui. Lo
ringraziai, mi chiese se
avevo bisogno di qualche
altra cosa, quindi ci
salutò, dispiaciuto e
commosso. Non l’ho più
sentito, né rivisto.
Nessun problema al controllo
bagagli contrariamente a
quanto mi avevano detto e
quindi, con leggero ritardo
sull’orario previsto,
partimmo per Roma. A decollo
avvenuto, quel grande
applauso che normalmente si
tributa ai piloti
all’atterraggio: qualche
volta per la professionalità
dimostrata, e, sempre, per
tirare il classico sospiro
di sollievo: “finalmente
siamo a terra”. Invece
eravamo in volo.
Per quanto mi riguardava, si
stava attuando un piano
predisposto già da alcuni
anni e fortemente
caldeggiato da mia moglie:
il rimpatrio. Da tempo
avevamo pensato di lasciare
la Libia ma liberamente e
certamente non a seguito di
espulsione e soprattutto non
così in malo modo!
La Libia indipendente aveva
iniziato, a mio avviso
giustamente, la
libicizzazione del
Territorio. Una Legge
vietava ai non libici gli
acquisti di terreni e
fabbricati. Nessuno
scandalo: nella civilissima
Svizzera esiste una Legge
simile. Un’altra Legge
imponeva alle società ed a
tutte le attività
commerciali e industriali,
la presenza di libici per
almeno il 51% del capitale
sociale, ma non obbligava
quelle già esistenti ad
adeguarsi. Tutte le società
e le imprese di una certa
rilevanza dovevano tenere la
contabilità in lingua araba.
Non mi risulta che in
Italia, i conti, vengano
tenuti in lingua turca o in
cirillico. Negli appalti e
nei lavori erano favoriti i
libici. Per gli stranieri
era necessario il benestare
dell’Ufficio Lavoro per
poter essere assunti dalle
Compagnie petrolifere e
pertanto esse erano precluse
a coloro che non potevano
dimostrare qualità tecniche
di un certo livello.
Allora, come adesso, a
distanza di quasi
cinquant’anni dalla loro
promulgazione, non riesco a
trovare alcunché di strano o
scandaloso. Le ritenei e le
ritengo, Leggi e
disposizioni più che logiche
se non addirittura
necessarie. Assurdo invece e
contrario ad ogni elementare
norma di diritto la confisca
dei beni degli Italiani
decisa dal Governo
Rivoluzionario. Ingiusta e
discutibile l’espulsione
decretata perché
stranieri indesiderati in
quanto discendenti
degli invasori.
Forse non ce ne era bisogno.
Le Leggi della progressiva
libicizzazione, gli
incidenti gravi accaduti nel
1945, nel 1948 e nel giugno
del 1967, il timore di
sicuri notevoli cambiamenti
alla morte dell’anziano e
magnanimo Monarca, avevano
convinto e costretto un
numero sempre crescente di
italiani a lasciare la Libia
spontaneamente.
L’esproprio dei beni, in
ogni caso, sarebbe dovuto
avvenire dietro congruo
corrispettivo perché tutti i
beni fino all’ultimo
centesimo, all’ultima
pianticella e all’ultimo
chiodo erano frutto di
lavoro serio, sodo e
soprattutto onestissimo.
L’opera, poi, di tutti
coloro che hanno trasformato
in terra rigogliosa terreni
desertici e sabbiosi, è più
vicina all’abnegazione che
al profitto.
Il nostro Governo non solo
non fu in grado di tutelare
gli interessi dei suoi
cittadini ma non tentò
neanche il ricorso alle Sedi
della Giustizia
Internazionale,
probabilmente per interessi
economici e sicuramente per
quelli relativi all’oro
nero. Una certa stampa,
alcuni cari
connazionali e qualche
pseudo-storico fecero il
resto.
Nel 1964 nacque Maurizio, il
nostro primo figlio, e, da
quel momento, mia moglie
iniziò a dirmi, prima con
cadenza mensile, poi con
petulanza giornaliera: “Noi
potremmo anche continuare a
vivere in Libia dove ci
troviamo molto bene ma, per
l’avvenire dei figli,
dobbiamo necessariamente
rientrare in Italia. Il
futuro dei nostri figli non
è qui”.
Le sue insistenze e le
motivazioni addotte, mi
avevano convinto, per cui,
con la prospettiva del
rimpatrio volontario,
conducemmo una vita senza
eccessi, senza acquisti
impegnativi, senza investire
i nostri risparmi in
attività produttive
nonostante le allettanti
tentazioni sollecitate dal
boom petrolifero. Fu così
che, per pura fortuna e non
certo per doti di
preveggenza, quando arrivò
il decreto di confisca, gli
unici beni che avevo in
Libia erano la mia famiglia
e tanti amici: italiani e
libici. Anche la
liquidazione di “fine
rapporto”, anch’essa
sequestrabile e quindi
confiscata, mi fu rimborsata
qualche anno dopo, per cui
non ho più dato seguito
all’iniziale istanza
presentata alle Sedi
preposte.
A coloro meno fortunati va
la mia sincera solidarietà e
comprensione perché,
nonostante la storia avesse
offerto suggerimenti per
quanto successo in Egitto,
Tunisia, Marocco e Algeria,
nessuno poteva prevedere
quanto purtroppo accaduto e
nessuno aveva creduto a
Silvio Peluffo, da me già
soprannominato “novella
Cassandra” in un numero
precedente de l’oasi.
*****
Oggi è il 15 Ottobre 2006,
sono trascorsi trentasei
anni … sono passati molto
velocemente ma sono pur
sempre trentasei anni! Un
sacco di tempo! Ed il
tempo è un potente farmaco:
lenisce afflizioni,
favorisce l’oblio, attenua i
risentimenti e piano piano
annulla la nostalgia.
Speravo che il tempo
risparmiasse la dignità.
Invece, purtroppo, per essa,
ha usato quasi subito la
spugna.
P.S. Inviai a Lino Boccia
questo mio articolo
pregandolo di inserire nel
testo una sua poesia.
“Ce le hai già nel libro di
poesie che ti ho mandato.
Prendi Addio Terra mia e
Bogliasco” – mi disse. Così
ho fatto.
Roberto Longo
****
ADDIO, TERRA MIA
Scrissi una volta:
“Terra mia,
vorrei tornar da te
solo una volta ancora
così, come la rondine,
ritorna al proprio nido”.
Quanto l’ho sperato,
quanto ho desiderato
rivedere la mia Terra.
Quante volte ho sognato
d’essere disteso
su una duna,
gli occhi rivolti
a un cielo di cobalto
mentre la sabbia,
calda e silenziosa,
scorreva
tra le dita delle mani,
o, quando,
disteso sulla spiaggia,
gli occhi si perdevano
in un oceano
di tremule stelle,
mentre la risacca
portava il profumo del mare.
Qualcuno, ha
chiuso la porta
della mia Terra.
Addio, Terra mia,
ormai canuto e stanco
ho perso ogni speranza.
Continuerò ad amarti,
continuerò a sognarti …
fino al lumicino.
Addio, Terra mia,
Libia dei miei sogni!
Lino Boccia
|
BOGLIASCO
Bogliasco,
graziosa, tranquilla
cittadina,
da sempre sposa
della grande Genova,
tu mi accogliesti, profugo,
tanti anni fa,
quando lasciai la Terra
dove sono nato,
dove ho lasciato
gran parte del mio cuore.
Grazie Bogliasco,
il tuo mare
mi ricorda il mio
e, a sera,
le tue strade silenziose
mi riportano alla mente
la Sciara di casa mia.
Bogliasco,
ancora grazie,
ché tu sei stata, e sei,
l’altra metà della mia vita.
Solo una cosa mi addolora:
il non avere accanto
la mia Mamma,
rimasta in quella Terra
che mai potrò scordare.
Lino Boccia.
|
Pubblicato sul
notiziario “l’Oasi”nel Numero 3/2006 –
Settembre - Dicembre 2006