Qualche settimana fa abbiamo
accettato di preparare, ancora
una volta, un pranzo completo di
cucina libica, su sollecitazione
di alcuni nostri vicini di casa.
Impegno e difficoltà sono stati
notevoli. Ma gratificante il
fatto che gli “autoinvitati”
siano riusciti ad arrivare fino
in fondo nonostante le portate
fossero una decina, inclusi i
mukabbalat e i musciahaiat (antipastini),
ma escludendo il finale tè verde
alla menta.
Tirando su l’ultima cucchiaiata
di sciarba ellibiya
(minestra di agnello, ceci,
pomodoro e pasta), uno dei
nostri ospiti mi chiese se io,
nato in Libia da genitori
anch’essi nati in Libia, non
sentissi una grande nostalgia e
conseguente grande desiderio di
ritornare a vivere in Libia.
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Kus-ksi |
Ho'mmos |
Sciarba ellibiya |
“No”, risposi. “Forse sono stato
fortunato, ma in Italia vivo
bene e non andrei in nessun
altro Paese”. Avevamo, nel
frattempo, appena terminato di
servire il “kus-ksì”, quando un
altro forse deluso o forse
perché si aspettava una risposta
meno categorica, essendo a
conoscenza dell’attuale veto di
rientro, anche temporaneo, che
riguarda i cittadini italiani
nella mia stessa condizione cioè
di espulsi, maliziosamente, mi
domandò se per caso non stessi
imitando la volpe che
sdegnosamente classificava
“brutta ed acerba” l’uva che non
poteva raggiungere. Mentre
“sentenziava” aveva già riempito
il cucchiaio di kus-ksì e
cercava, col medesimo, di
catturare qualche cece della
cipollata prima di portarselo
alla bocca.
“Andrei più che volentieri in
Libia, ma da turista, non per
starci a lungo. Da oltre
trentadue anni vivo in Italia,
mi sono acclimatato, ne ho
adottato usi e costumi, ho fatto
nuove amicizie. Sono convinto di
vivere veramente in un bel
Paese”. L’Italia avrà anche i
suoi problemi, non sarà certo la
Valle dell’Eden, ma è proprio
bello viverci. Arte, storia,
bellezze naturali, un’enorme
varietà di attrattive
turistiche, la gastronomia, la
rendono unica. Avevo, ed ho,
molti amici in Libia, ai quali
sono legato da simpatia ed
affetto. Forse perché mi
ricordano la gioventù e la
scuola. Ma non sono più giovane,
per legge naturale, e non più
studente, per mia pigrizia e
negligenza”, risposi.
“Ma non hai nessun rimpianto?”
Mi domandò una signora
trangugiando un bicchierone
d’acqua. (Avevamo esagerato con
l’harisa nonostante
l’occidentalizzazione delle
preparazioni).
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Il deserto |
“Sì ... il deserto. Il mio
rimpianto è l’esserci andato una
sola volta. Se riuscirò in
futuro ad andare in Libia, la
prima cosa che desidererò, sarà
proprio quella di rivedere il
deserto. Ecco, quello in Italia
non c’è e vi posso anche dire
che, secondo quanto scrivono
studiosi e appassionati, il
deserto libico è il più bello e
il più caratteristico del
mondo”.
Poi la conversazione riguardò
altri argomenti intervallati da
complimenti alla bontà delle
portate, ovviamente con il solo
intento di “preparare il
terreno” ad una nuova futura
richiesta, ad un nuovo
autoinvito.
Quando gli ospiti se ne
andarono, rimasi per qualche
tempo a pensare ed i ricordi,
dapprima sfuocati, divennero
sempre più nitidi.
Mio padre che da Nalùt (1946 -
1948) si spostava spesso per
motivi di lavoro, un paio di
volte mi portò con sé: una
volta a Cabào ed un’altra a
Ghadàmes. Ma ero troppo piccolo.
Durante i viaggi, lunghi da
sembrare interminabili, non
prestavo attenzione al paesaggio
e, all’arrivo, non avevo alcuna
autonomia di movimento. Ricordo
la strana sabbia di Cabào per la
sua colorazione rosso mattone.
Le garfas che sembrano
grandi colombaie mentre in
realtà sono antichi granai,
antichi depositi; le
caratteristiche abitazioni
“sotterranee” (credo si chiamino
magawir).
Veniva scavata una grande fossa
circolare del diametro di una
decina di metri e profonda 7 o
8. La base di tale fossa,
costituiva il cortile, la fonte
di luce. Quindi scavando ai lati
del cortile, si ricavavano le
stanze, il cui accesso, era
protetto da un telo o da porte
costruite con legno di palma.
Una rudimentale scala ricavata
scolpendo e modellando parte
della circonferenza, permetteva
l’accesso al cortile ed alle
stanze. Dicevano che erano
ambienti freschi d’estate e
caldi d’inverno e che erano
strategici perché nascosti alla
vista di potenziali nemici in
quanto, in superficie, non
emergeva nulla essendo privi di
muretti di protezione. In realtà
erano, invece, un malsano riparo
per la povera gente. Ma anche a
Nalùt, dove abitavo c’erano sia
le garfas che le
megawuir quindi, per me, non
erano delle novità.
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Le garfas di
Nalut |
Le mura di
Ghadàmes |
Molto
interessante invece la splendida
oasi di Ghadàmes, nonché il
caratteristico villaggio, le sue
viuzze quasi tutte coperte, le
piazzette, le torrette merlate.
Purtroppo ricordo anche che,
lungo il percorso, dovemmo fare
una deviazione per evitare un
paio di carcasse di automezzi
militari bruciati e qualche
cingolato semisommerso dalla
sabbia, tutti arrugginiti. Mio
padre non rispose alla mia
domanda, ma quasi interrogandosi
disse sottovoce: “Chissà che
fine avranno fatto i soldati
che erano sopra quei mezzi.
Saranno ancora vivi? Chissà da
dove venivano, poveri ragazzi!”.
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Relitto bellico |
Non lo fece apposta, ma mi aveva
rovinato il viaggio.
Quando ero ragazzo, se non
ricordavo qualcosa o dimenticavo
di fare una commissione,
arrivava puntuale la sentenza di
mia madre: “Tu mangi pane
scordato”. Se realmente
esistesse tale alimento ed
avesse le proprietà che mia
madre gli attribuiva, mentre da
giovane ne facevo un uso molto
saltuario, negli ultimi venti
anni deve essere prepotentemente
entrato nella mia dieta
preferita. Infatti, mentre ho
difficoltà a ricordare quanto
fatto il giorno precedente,
episodi e particolari di
cinquant’anni fa sono impressi
nella mia memoria e mi basta
qualche minuto di
concentrazione, per vedermeli
passare sotto gli occhi.
Tornando al deserto, l’unica mia
vera esperienza, nel 1960.
Vincendo resistenza e titubanza
di mia madre, potei accettare
l’invito a passare due giorni e
due notti nel deserto, ospite di
un mio collega (veramente un mio
superiore) “importato” (così
chiamavamo impiegati e tecnici
che venivano dall’Italia con
contratto di lavoro temporaneo)
su di una Land Rover ed in
compagnia dell’utilissima guida
libica nella persona di un certo
Regèb che conosceva il deserto
“come le sue tasche”. Così mi
disse il mio compatriota, con
l‘hobby più per la caccia che
per il deserto.
Con un certo anticipo, nel
descrivermi sommariamente il
viaggio, mi avevano detto che
saremmo stati ospiti, per alcune
ore, di una famiglia di
Tuaregh,
amici di Regèb.
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Famiglia di
Tuaregh |
Per evitare
gaffe, ma anche per curiosità,
decisi di documentarmi un
pochino, consultando qualche
libro (scovato non senza
difficoltà) e soprattutto
interrogando un amico, un certo
Mohammed Scihàb insieme al quale
tenevo la contabilità dai
fratelli Darràt come lavoro
extra. Scihàb era un fezzanese
di Sebha quindi non proveniva
proprio dai territori Tuaregh,
ma di questo popolo sapeva tutto
e ne era tanto entusiasta, da
sembrare un tàrgui egli stesso.
Innanzi tutto mi corresse
dicendomi che non si poteva dire
“un tuaregh” essendo, questo
vocabolo, il plurale di tàrgui
da cui targuìa singolare
femminile. Rise quando gli
chiesi il perché fossero
definiti “uomini blu”.
“Scuri di carnagione, alti e
longilinei, piuttosto taciturni,
avevano in realtà dei riflessi
azzurrognoli ma la circostanza
era dovuta al velo che, tinto
nell’indaco, scolorendo, dava
alla pelle una vaga colorazione
blu”, mi rispose. Continuò
dicendomi che nonostante
balbettassi abbastanza
l’arabo, non avrei capito
neanche una parola perché i
Tuaregh parlavano una lingua
tutta loro: il Tamascek.
Conoscevano anche la lingua
araba, ovviamente, ma la
parlavano con un accento
particolare che me l’avrebbe
resa incomprensibile. Una volta
erano temuti e rispettati. Il
possesso di mehari, dromedari
dal manto chiaro, un po’ più
piccoli ma senz’altro più veloci
degli altri della stessa specie,
l’armamento costituito da
lancia, spada, pugnale e scudo
nonché la lunga sciarpa bianca o
blu che avvolgeva tutto il capo
lasciando scoperti soltanto gli
occhi, destavano sensi di paura
e di panico ai carovanieri che,
improvvisamente, se li vedevano
piombare addosso da dietro le
dune, o, apparire minacciosi
all’orizzonte. “Certo,” gli
dissi, “forse una certa
letteratura ed alcuni film hanno
creato un alone di fascino
intorno ai Tuaregh, mentre in
realtà erano dei ladroni, dei
razziatori!”. Questo
accostamento alla pirateria,
aveva irritato il mio amico
Scihàb. “Le carovane
attraversavano i loro territori,
bevevano l’acqua dei loro pozzi,
utilizzavano quel poco di
pascolo che c’era. Più che
giusto, che le carovane
pagassero il pedaggio!” Mi disse
molto contrariato. Ce l’aveva
con i francesi e con il
colonialismo in generale che,
avendo creato dei confini
intervenendo “con una matita
sulla carta geografica”, avevano
diviso l’etnia fra Algeria,
Tunisia, Libia, Niger
trasformando un popolo fiero e
di grandi tradizioni in una
semplice attrazione turistica.
Dimenticava, però, l’amico
Scihàb che quegli stessi
francesi avevano anche abolito
la schiavitù che i Tuaregh
avevano praticato fino a quel
tempo. Avevo anche letto che,
contrariamente alle altre donne
musulmane, la targuìa non si
copriva il viso. Teneva molto al
proprio aspetto curando i
capelli, truccandosi gli occhi e
decorandosi le mani con la
henna. Non possedeva oggetti
in oro, metallo ritenuto causa
di tanti guai ma, in compenso,
si adornava con monili d’argento
al collo, nelle braccia, nelle
caviglie. Inoltre, la donna
aveva uno spazio importante
presso i Tuaregh e la nascita di
una bambina, anziché
dell’agognato maschio, non
creava delusione come in altri
popoli musulmani, ma grande
gioia. Infatti, solo alle
figlie la targuìa tramandava le
tradizioni, le leggende, la
cultura di cui era l’unica
depositaria. Nel chiedere
all’amico Scihàb conferma di
tutte queste nozioni che avevo
appreso, aggiunsi di aver anche
letto, cosa inaudita per il
mondo Islamico e non, (correndo
ancora l’anno 1960), che la
targuìa era una donna molto
libera al punto da poter avere
esperienze sessuali prima del
matrimonio e che dopo, comunque,
diventava sposa fedelissima.
Notai che Scihàb ebbe un momento
di imbarazzo senza tuttavia
confermare nulla. Al che mi
scappò una battuta ... “Sì, deve
essere proprio così: dopo il
matrimonio sono spose
fedelissime … ed è per questo
che se le sposano quando hanno
novant’anni!”. La battutaccia,
in realtà infelice, lo fece
arrabbiare sul serio. Imprecò
per un quarto d’ora, per mia
fortuna nel suo dialetto, e non
mi rivolse la parola per un bel
pezzo nonostante mi fossi
scusato più volte ricordandogli
che, come ben sapeva, scherzavo
spesso e che non avevo creduto
affatto a quell’assurdità, o
meglio, l’avevo alquanto messa
in dubbio.
Non disponendo più di un
interlocutore capace di
confermare o smentire le nozioni
che apprendevo dai libri, mi ero
riproposto di cercare conferme o
smentite durante la visita alla
famiglia di Tuaregh, usando
ovviamente molta prudenza per
non diventare ospite sgradito.
Avvalendomi, certo,
dell’indispensabile traduzione
di Regèb.
Avevo letto che l’utilizzo delle
vie marittime, dei potenti
autocarri, aveva sostituito
l’uso delle carovane nei
commerci. Il sale aveva perso
l’importanza di un tempo. I
nuovi confini politici
limitavano i movimenti dei
padroni del deserto. A tutte
queste concause si doveva la
decadenza dei Tuaregh. Si dice
che fossero divisi in classi
sociali, non con le ferree
regole delle caste indiane, ma
comunque con struttura
piramidale: in alto i nobili,
poi i pastori guerrieri, quindi
i religiosi, i fabbri e gli
artigiani, i contadini ed
infine gli schiavi. Questi
ultimi si dividevano in
harratin e abid. I
primi erano gli schiavi
affrancati che, non possedendo
nulla, dipendevano in tutto e
per tutto dai precedenti padroni
e quindi erano praticamente
schiavi aventi una libertà che
non erano in condizione di
godere.
Siamo partiti nel primo
pomeriggio. Alla fine di
novembre, credo.
La Land Rover portava ai due
lati due lastroni di lamiera
zincata di un certo spessore ed
aventi fori del diametro di
circa 10 cm. Insieme ad una pala
tozza con impugnatura
orizzontale, mi dissero essere
necessari in caso di
insabbiamento. Ipotesi che non
prendevano in considerazione,
vantando, Regèb, esperienze di
guida ventennali su quelle
piste. Su una specie di
portabagagli, sul tetto, un
groviglio di teli e paletti in
ferro: la nostra tenda e le
nostre coperte. All’interno,
dovevo dividere lo spazio con un
certo numero di taniche di
benzina, di taniche di acqua ed
un cartone con pane, un po’ di
formaggio, verdure, datteri,
tonno, altri cibi in scatola e
pentolame vario. Mi meravigliai
per quell’abbondanza di benzina
il cui odore stordiva. Del resto
ci si poteva fornire strada
facendo, protestai! Regèb mi
rispose che gli avevano detto
che, in quei giorni, tutti i
“numerosi” distributori di
benzina che avremmo incontrato
nel deserto li avremmo trovati
chiusi “per turno”. Le risate
che conclusero
quell’affermazione, mi fecero
capire che di distributori sulla
nostra strada non ne avremmo
proprio incontrati. Mi ripromisi
di avviare prima il cervello poi
la lingua e di trovare il
momento per la giusta vendetta.
E la vendetta arrivò. Era quasi
sera quando la Land Rover, dopo
aver lasciato la strada ed aver
sobbalzato sul serir (il
deserto sassoso) aveva iniziato
uno dei numerosi “fuori pista”
che avrebbero caratterizzato il
nostro viaggio nel deserto di
dune di sabbia finissima: l’erg.
Quando nonostante le millantate
qualità di abilissimo guidatore,
la Land Rover dell’amico Regèb
si insabbiò per la terza volta,
potei dare sfogo a tutte le mie
qualità di umorista. Solo la
minaccia che mi avrebbero
lasciato “a piedi” mi costrinse
a tacere e ad aiutare a spalare
e spingere. La sosta forzata fu
premiata dalla vista di un
tramonto meraviglioso.
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La luce del
tramonto sul deserto |
Il sole
che abbastanza velocemente si
abbassò sulle dune sembrava
molto più grande di quello visto
più volte in città ed era di una
forte colorazione arancione:
quasi rossa. Regèb si era
accorto della mia espressione
imbambolata ed entusiasta.
“Bello eh! Hai visto che
tranquillità? Da noi si dice che
Allah per creare un luogo di
assoluta pace è stato costretto
ad eliminare ogni forma di vita
umana ed animale. Ed ha creato
il deserto”, mi disse. Quindi,
liberata l’auto dalla sabbia,
prima piantammo la tenda, poi
gustammo il “cenone”: pane,
tonno sott’olio e formaggio. Le
mie ironie, che avevano messo in
dubbio che l’acqua contenuta
nella piccola giara bagnata
appesa fuori dallo sportello e,
quindi a 40° almeno, sarebbe
diventata fredda o almeno fresca
come dicevano loro, mi
costrinsero a bere acqua forse
non proprio calda ma più che
tiepida dalla tanica, mentre gli
altri due si dissetarono con
l’acqua della giara. Me ne
diedero poco più di una goccia
e, onestamente, devo
riconoscere che era abbastanza
fresca.
Attraversando un tratto di
serir, avevamo visto diversi
arbusti rinsecchiti con rami
anche abbastanza grossi nonché
molti piccoli cespugli verdi ma
spinosi e tanta halfa
cioè sparto. Una specie di erba
filiforme e robusta. Ricchissima
di cellulosa. La Libia, negli
anni cinquanta, esportava
discrete quantità di sparto,
molto richiesto dalle cartiere
europee. Se avessimo raccolto un
po’ di rametti ed arbusti, la
cena sarebbe stata, forse,
migliore: avremmo potuto cuocere
qualcosa, invece di cenare a
scatolette. Questa particolare
vegetazione che solo il miracolo
della Natura può permettere in
una zona così arida, era
appannaggio di un numero
considerevole di dromedari che,
continuando a ruminare, ci
avevano guardato con disarmante
indifferenza.
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Un meritato riposo
per l'infaticabile
ed insostituibile
tuttofare del
deserto |
Incuriosito avevo
chiesto a Regèb il perché
fossero senza guida, perché non
ci fossero i pastori, i
cammellieri. “Al tramonto“, mi
rispose, “seguiranno tutti il
capo branco e ritorneranno
all’accampamento da soli dove i
proprietari li aspetteranno. Se
dovessero arrivare prima del
tramonto, la circostanza
preoccuperebbe molto i loro
proprietari, i Ruhhàl
(nomadi). I dromedari, infatti,
sono il loro osservatorio
meteorologico: essi “sentono”
l’arrivo di una tempesta di
sabbia e si affrettano a
rientrare. I nomadi, allora,
avranno il tempo necessario per
abbassare al minimo le loro
tende, creare un recinto intorno
al quale legare i dromedari ed
al cui interno mettere al riparo
gli ovini portando i più
piccolini dentro le loro tende e
poi sperare che la tempesta duri
solo qualche giorno, che non si
tratti del Khamsin che di
giorni ne dura parecchi!”.
Poiché i dromedari rispettarono
gli orari di rientro, non ebbi
preoccupazioni per la successiva
dormita. Dopo le rassicurazioni
di Regèb: “Vipere e scorpioni
vivono soltanto in ambienti
pietrosi” (e la tenda era su
sabbia finissima), la pesante
coperta, diede ragione a chi
aveva detto, a me incredulo, che
di notte, il deserto, da forno,
si trasformava in ghiacciaia!
L’indomani sveglia prestissimo e
mentre Regèb si preparava alla
preghiera, ebbi occasione di
vedere sorgere il sole.
Spettacolo indimenticabile anche
se il tramonto era stato molto
più bello. Nel girare lo
sguardo, una sensazione che non
dimenticherò mai. Girando su me
stesso a 360°, tranne noi, la
Land Rover e la tenda, non
vedevo altro che dune più o meno
alte sotto un cielo che
diventava sempre più azzurro. Le
dune presentavano un lato,
quello sopravento, con
increspature che sembravano
piccole onde marine mentre
l’altro lato era liscio e
perfetto. In tempi molto più
recenti, mi è capitato di
trovarmi, durante una crociera,
in alto mare dove, oltre la nave
che mi trasportava, non c’era
altro che mare e cielo. Blu
intenso in basso, celeste in
alto. In un’altra occasione, su
un ghiacciaio, in basso tutto
bianco ed in alto un
bell’azzurro. Ma la visione di
questa immensità di sabbia
finissima color tabacco chiaro
sotto un cielo che non avevo mai
visto così, prima di quel
viaggio, era e rimarrà
memorabile. Regèb, nel frattempo
aveva finito la sua preghiera e,
ottenendo la nostra
collaborazione, aveva smontato
la tenda e caricato il tutto in
fretta: “bisogna far presto
perché le gazzelle non ci
aspetteranno a lungo“. Era
necessario ritornare nel deserto
sassoso e nelle zone dove
cresceva la handel
un’erba particolare, tossica per
l’uomo, ma di cui la gazzella è
ghiotta
anche perché i cespugli
di handel soddisfano le
necessità di acqua di questo
grazioso animale. Inoltre,
bisognava mettersi controvento
per impedire alle gazzelle di
“fiutare” la nostra presenza. La
Land Rover aveva appena iniziato
a sobbalzare sui ciottoli
quando, praticamente dal nulla,
erano comparsi alcuni ragazzini
che seguivano alcune caprette.
Regèb domandò loro qualcosa ed i
bimbetti risposero indicando un
punto all’orizzonte. Non so se
la domanda riguardasse
l’eventuale presenza di gazzelle
nella zona o se il buon Regèb si
era perso. Fatto sta che si
diresse a gran velocità verso il
punto indicato dai ragazzini e
quello che sembrava un saràb
(miraggio) era invece un
branco di gazzelle. Regèb iniziò
ad inseguirne una compiendo le
stesse evoluzioni ed il
repentino zig-zag dell’esile
animale. Fu soltanto allora che
mi resi conto dell’assenza di
fucili da caccia a bordo. La
gazzella correva e noi dietro
con la Land Rover finché non
iniziò a girare in cerchio e la
Land Rover sempre a ridosso.
Crollò esausta. Regèb scese
immediatamente e girandole la
testa in direzione della Mecca,
la sgozzò. Dopo qualche ora la
scena si ripeté, in tutti i suoi
particolari, con un’altra
gazzella.
|
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Gazzella |
Land Rover nel
deserto |
Quando sarò chiamato a rendere
conto delle mie malefatte,
risponderò che l’auto non era
mia, non ero io a guidare e che
ero ospite di terzi e che, pur
non essendo un animalista, non
avevo mai maltratto alcun
animale.
Ma alla successiva domanda se
avessi fatto qualcosa per
impedire quanto successo, in
quel luogo ed in quella
occasione dove dire una bugia
non solo è inutile ma
addirittura controproducente,
sarò costretto a dire che
purtroppo non avevo fatto nulla,
preoccupato com’ero per la mia
incolumità in quanto la Land
Rover, ad ogni virata, sembrava
dovesse ribaltarsi.
L’assenza di fucili voleva dire
o che i miei amici non avevano
il porto d’armi o che la caccia
era chiusa o che la caccia alle
gazzelle era vietata. Anche la
presenza delle taniche di
benzina si spiegava. Con le
gazzelle a bordo, probabile
corpo del reato, bisognava
girare al largo, evitare le
strade note e percorrere solo
piste poco battute con
percorrenza di più chilometri.
Le due gazzelle erano state
avvolte in un grande telo ed
occultate all’interno dell’auto.
Come se quanto accaduto fosse
del tutto normale, Regèb si
ricordò, improvvisamente, che mi
aveva promesso di farmi
raccogliere tutte le rose del
deserto che desideravo e, se
fortunato, anche punte di frecce
antiche. Niente frecce ma in
compenso mi portò in una
spianata dove di “rose”ce n’era
una gran quantità e di tutte le
grandezze. Vedere le rose del
deserto nello stesso luogo dove
forse si erano formate invece
che sulle bancarelle dei
negozianti è una cosa che auguro
a tutti coloro che avranno
occasione di andare nel deserto.
La rosa del deserto ha
dell’incredibile.
Consultando
un’enciclopedia, si ottiene una
definizione semplicistica ...
“aggregato di cristalli di
gesso ... uniti a frammenti di
quarzo ...”. Vedere quelle opere
d’arte giù sulla sabbia e che
sembrano veramente delle rose di
pietra, mi impedì di coglierle.
Mi sembrò di togliere una
statuina ad un Presepio, una
tessera ad un mosaico. È
impossibile che il vento riesca
a modellarle in quel modo e così
in basso. È più comprensibile
che il vento modelli un costone
di montagna. È molto
comprensibile il perché si
formino le stalagmiti, ma la
rosa del deserto deve essere
opera di misteriosi fantastici
eventi naturali.
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Rosa del deserto |
Lago salato di
Gabr-on |
Riprendemmo la marcia e quasi
verso mezzogiorno giungemmo alla
tenda del nostro amico tàrgui.
In realtà era un piccolo
accampamento. Le tende erano di
pelli di capra e di dromedario
ed erano piantate a pochissima
distanza da una waha
(oasi).
Se per miraggio si
intende qualcosa di
inverosimile, di impossibile, di
soprannaturale, l’oasi è il vero
miraggio. È incredibile come
all’improvviso in mezzo ad una
distesa di sabbia ci si imbatta
in una piccola isola
verdeggiante di palme altissime
la cui ombra permette anche la
coltura di ortaggi e verdure.
Queste, poi, erano irrigate da
un sistema molto ingegnoso di
canali. Il nostro tàrgui ci
attendeva all’esterno della
tenda. Evidentemente il gran
polverone che la Land Rover
aveva fatto soprattutto per la
velocità a cui era lanciata,
aveva annunciato il nostro
arrivo. Ci venne incontro e come
d’abitudine iniziò il
cerimoniale dei saluti, dei
benvenuto, dei “come stai”
ripetuto più volte. Notai che le
selle dei mehari terminavano,
sul davanti, con una croce in
legno. Questa poteva essere un’
impugnatura. Ma anche sul
mantello del nostro tàrgui c’era
una specie di croce e stesso
simbolo mi sembrava esserci sul
uno scudo di pelle. Poteva
essere una delle mie curiosità
da soddisfare, ma rinunciai a
fare domande perché ebbi la
sensazione che Regèb traducesse
a modo suo. Mi venne in mente il
film in cui Totò, dopo aver
fatto un numero di telefono,
continuava a dire: ...
Sììììììììì, Sì, Sì,
Sììììììììììììì, Sì! Quindi,
riposta la cornetta,
rivolgendosi all’inseparabile
“spalla” Peppino De Filippo
disse: “Ha detto no!”. Ebbi la
sensazione che il nostro ospite
comprendesse quanto dicessi in
italiano a Regèb, forse perché
aiutato dalla sua probabile
conoscenza del francese.
Infatti, quando Regèb raccontò
in italiano, alcuni episodi del
passato del nostro amico tàrgui,
quest’ultimo annuiva
compiaciuto. Segno evidente che
capiva. Il nostro ospite, ci
disse Regèb, insieme ad altri
tuaregh ma dei quali ne era il
capo, aveva con successo e più
volte, fornito armi alla
resistenza algerina nel ’55 e
nel ’56. Col ricavato,
acquistava zucchero in zollette
e zucchero “a campana” che
contrabbandava poi in Libia.
Questo zucchero, che conoscevo
bene, era solido ed aveva una
forma conica della lunghezza di
circa 60 cm., era compatto e
molto duro. Per usarlo bisognava
romperlo con un martello. Lo
chiamavamo appunto “zucchero a
campana” ed avendo questo
particolare formato era più
facile da trasportare e da
occultare alle Guardie di
frontiera. Il capo tàrgui si
scherniva e faceva dei segni a
Regèb come per dire “lascia
perdere, è cosa da poco”. In
realtà era contentissimo che se
ne parlasse anche perché a lui
importava senz’altro il fine
patriottico della vicenda. Che
poi di mezzo ci fosse stato il
meno nobile intento del guadagno
e del contrabbando, era una
gradita conseguenza ma non lo
scopo principale.
Fuori della tenda un nugolo di
bambini spingevano un vecchio
cerchione di bicicletta facendo
un baccano del diavolo. Per
farli smettere, bastò un cenno
del padrone di casa e la
minaccia che di lì a poco
sarebbero arrivato un Jin,
a farli stare zitti. I Jin
sono degli spiritelli ed
equivalgono, come minaccia ai
bambini, ai nostri “orchi o lupi
neri”. Ci sono Jin buoni
e Jin cattivi. Forse lo
spiritello della lampada di
Alà-eddin si chiama “Genio”,
probabilmente prendendo origine
dal vocabolo arabo Jin.
Fra una cosa e l’altra riuscii a
chiedere, sempre tramite Regèb
se il nostro ospite avesse mai
visto qualche uaddan, grosso
antilope che mi avevano detto
essere in via di estinzione. “No
rispose, mai visto uno”.
In prossimità di un’altra tenda
vicino alla nostra, due donne
erano indaffarate a preparare
qualche fatira. Si tratta
di una specie di piadina, ma
molto più semplice. Si impasta
acqua e farina e con le mani si
modellano delle piadine, delle
pizze, che poi vengono stese su
una lamiera quasi rovente. Cotto
un lato, la si rivolta per
cuocere l’altro. Non sono
prelibatezze ma, oltre che come
“pane” sono utili perché servono
da cucchiaio e da piatto. La
cottura su parete di coccio
calda fa prendere loro il nome
di tannur. Molto più
buone sono invece le kìs-ra
che sono più piccole, più spesse
e forse con impasto arricchito
con olio. Le due donne non erano
belle, ma avevano un viso
simpatico. Le guardavo e
continuavano a ridere mentre non
smettevano né di cuocere quelle
specie di piadine né di
rimestare un pentolone tutto
coperto, esternamente, di
nerofumo. Altre preparavano
dell’insalata ed arrostivano
carne d’agnello. Fu
difficilissimo accovacciarsi sui
tappeti all’interno della tenda.
Molto più difficile mettersi in
cerchio di fronte alla grande
gasa-a (grande ciotola
profonda) nella quale, dopo
qualche ora, le due cuoche,
avevano svuotato il pentolone.
Era uno stufato di capra con
patate, rape ed altre verdure.
Le donne avevano spezzettato in
quarti le “piadine” con le quali
prendemmo carne e verdure,
utilizzandole, come cucchiai e
piatti. Il nostro amico tàrgui
(singolare di tuaregh) e
gli altri tuaregh che furono
invitati al pranzo, non si
tolsero la grande sciarpa che
copriva loro il viso lasciando
scoperti soltanto gli occhi.
Portavano il loro trancio di
fatira farcito con
l’intingolo alla bocca spostando
in avanti la parte di velo che
la copriva. Regèb mi spiegò dopo
che “humma anduhum aeb”:
per loro era sconveniente
mostrare la bocca. Mangiai di
gusto, anche se c’era più pepe
rosso che pomodoro. Dopo,
insalata, carne arrostita,
datteri e tè alla menta di
commiato. Il nostro ospite ci
voleva trattenere, ma la strada
per il ritorno era lunga. Verso
le 18.00 eravamo di nuovo in
cammino. Lo stratega Regèb aveva
previsto una sosta per un
sonnellino tra le 22.00 e l’una.
A quell’ora partenza no-stop per
il rientro a casa. Piantata la
tenda, mi addormentai subito
onde sfruttare al massimo il
tempo concesso. Ma dopo una
mezz’ora, un ululato piuttosto
lugubre, mi svegliò. Chieste
spiegazioni al contrariato
Regèb, questi mi disse di non
aver paura che probabilmente
erano sciacalli che avevano
sentito l’odore delle gazzelle.
E senza ascoltare le mie
preoccupazioni si intabarrò nel
suo barracano tornando a
russare. Per quel gran coraggio
che nasce soltanto da una gran
fifa, mi alzai con l’intento di
rinforzare l’approssimata
chiusura della tenda. La fifa
non mi impedì di vedere il più
bel cielo stellato della mia
vita. Forse nelle città ci sono
troppe luci, forse è una
questione di latitudine, fatto
sta che quel cielo è il più bel
ricordo di quel viaggio.
Sembrava un panno blu scuro
intenso su cui erano adagiati
milioni di diamanti. Rinforzai i
legacci chiudendo molto meglio
la tenda e riuscii, nonostante
la paura, a dormire.
Verso le sette e mezza entravo a
casa. Mi ero appena fatto doccia
e barba, quando mia madre mi
chiese come fosse andata.
“Mamma” dissi “ho visto un cielo
stellato meraviglioso”.
“E per vedere quattro stelle
c’era bisogno d’andare nel
deserto?”.
Non risposi. Troppo entusiasta
per controbattere, troppo stanco
per iniziare una lite.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista l’Oasi
n° 2/2003 - Maggio - Agosto
2003)