Da qualche anno la mia memoria è
andata in pensione. L’unica cosa
che fa, anche se svogliatamente,
è quella di ricordare, per mia
fortuna, fatti e avvenimenti che
riguardano la mia persona.
Purtroppo quando chiedo di farmi
rivedere mentalmente vie,
piazze, villaggi e città,
rifiuta energicamente di
compiere quello che dovrebbe
essere il suo dovere.
Ai miei ordini inizialmente
perentori ma che diventano
semplici insistenze per finire
in umili suppliche, risponde con
un secco staliniano“niet”!
E quando le chiedo di fare
qualche piccolo sforzo e non
certamente gli straordinari,
minaccia il ricorso ai sindacati
e mi costringe a desistere.
Desiderando “buttare giù”
qualcosa sulla Galleria dove
c’era il Ristorante Romagna,
oggetto del presente articolo,
ho fatto ricorso alla citata
memoria in pensione che
stranamente mi ha dato molte
indicazioni. Non mi sono fidato
di tanta bontà e ho chiesto
conferma nonché ulteriori
informazioni ad amici la cui
memoria, evidentemente, anziché
andare in pensione ha chiesto
all’Inps il famoso “bonus” che
permette la prosecuzione al
lavoro oltre l’età
“pensionabile”. Comunque ho
avuto solo conferme, qualche
precisazione e nessuna smentita
per cui ho sbagliato a dubitare
della mia cara “pensionata”.
Devo ammettere però che,
all’iniziale domanda: “ti
ricordi della Galleria De Bono”?
Tutti hanno risposto: “Eccome
no!”, meravigliati dalla mia
domanda (cioè nel senso ma
come fai a dubitarne). Ma
alla successiva richiesta di
descriverla nonché di menzionare
negozi, uffici e bar che si
affacciavano sul famoso
ottagono, la maggioranza ha
risposto: … Beh … sì … ma …
veramente … mi sembra che …
Non mi sono meravigliato. Ho
sempre pensato che la Galleria
sebbene imponente e bella, non
fosse apprezzata molto dai
tripolini e forse in un certo
senso anche snobbata.
Ha tante stranezze la Galleria
De Bono di Tripoli. Innanzi
tutto non è una galleria essendo
a cielo aperto, nell’ottagono
centrale. Mi è stato detto,
però, che in passato,
un’intelaiatura in acciaio
supportava una serie di
cristalli che la coprivano
dandogli la forma di una
“bomboniera” nomignolo che poi
le sarebbe rimasto. Sembrerebbe
che tali cristalli creassero un
effetto specchio che, nelle ore
di sole, metteva in pericolo gli
ammaraggi dell’idrovolante di
Italo Balbo. Altri dicono che
nelle ore di sole la
“bomboniera” si trasformava in
forno, altri che la struttura
era molto delicata e rischiava
di crollare al minimo movimento
tellurico, altri che la pulizia
di detti vetri era praticamente
impossibile. Probabilmente la
causa del suo smantellamento è
la prima supposizione e che le
altre siano state addotte, a suo
tempo, per giustificare l’ordine
di Italo Balbo, mettendo così a
tacere tutti i mugugni. Altra
stranezza: non ha mai cambiato
nome. Le strade principali che
collega sono passate
rispettivamente: da Via Costanzo
Ciano a Via 24 Dicembre per
diventare 1° Settembre e da
Corso Vittorio Emanuele a Sciara
Istiklal per l’attuale Sciara El
Mgherief.
Altra constatazione: non è mai
stata considerata il “salotto
buono di Tripoli” né punto
d’incontro, mancando il
classico. Bar Caffè “di grido e
alla moda” capace di essere un
punto di riferimento. Nessuno
dava appuntamenti “in galleria”
come si è soliti fare nelle
città che possono fregiarsi di
una simile bellezza. Il
rendez-vous degli uomini
d’affari e dei “tarabish”
(1) era nell’elegante Caffè
Commercio mentre gli sfaccendati
come me preferivano la Latteria
Girus sul Corso Vittorio
Emanuele.
In Galleria De Bono si entrava
per accedere ai negozi, agli
uffici, agli appartamenti dei
fortunati che vi abitavano o
semplicemente per passare da una
via all’altra. Fra i negozi
ricordo l’armeria De Gennis, due
bar, l’ottico Bileci e negli
anni sessanta la società Cifla.
A forma ottagonale, la nostra
Galleria, ha due ingressi
imponenti: uno dall’attuale
Sciara 1° Settembre e l’altro
dalla rinominata Sciara El
Mgherief. Gli altri due, quelli
che collegano le vie secondarie
sono meno importanti. Tutti e
quattro formano altrettante
piccole vere gallerie ornate da
colonne e capitelli di pregio.
Attraversate queste piccole
quattro gallerie, si accede allo
slargo, purtroppo a cielo
aperto, come su spiegato, ma ci
si trova su di una bella
pavimentazione in marmo bianco
con venature grigie. Le facciate
degli edifici prospicienti
sull’ottagono centrale sono
ornate da nicchie a forma di
conchiglia, teste di leone ed
altre decorazioni di pregio. Nel
complesso è una bella
“galleria”. A me personalmente
piaceva molto.
Entrando da Sciara 24 Dicembre,
sulla destra, c’era il
Ristorante Romagna di Arnaldo
Gabrini, romagnolo doc.
Mio padre lo aveva conosciuto a
Ghariàn quale gestore del locale
hotel, una succursale del Grand
Hotel di Tripoli. Quando ebbe
bisogno di un cassiere che
curasse anche un po’ la
contabilità, Gabrini, si ricordò
di mio padre. Era l’estate del
1954 e mio padre, impiegato
amministrativo del “Corriere di
Tripoli”, era disponibile
soltanto dalle ore 15.00 in poi.
Mi chiese di rinunciare
parzialmente alle vacanze estive
onde sostituirlo nelle ore
durante le quali era appunto
impegnato. Fu il mio primo
impiego: ero cassiere dalle ore
12.00 alle 15.00 e pagai il
“noviziato” con una serie di
errori. Il Sig. Gabrini mi
squadrò poco fiducioso ma alla
fine accettò invitandomi a
presentarmi alle 11.20 per poter
pranzare con i camerieri e
prendere quindi servizio dalle
12.00 da quando cioè iniziavano
a passare davanti alla cassa
piatti fumanti ed invitanti che
mi avrebbero distratto se non
fossi stato ben satollo. Per non
presentarmi proprio all’ora di
pranzo, andavo al “Romagna” sin
dalle 10.00 e, nell’ora e mezza
a disposizione, ho sempre
cercato di rendermi utile.
All’inizio, aiutando i camerieri
nella preparazione dei tavoli
ma, al terzo bicchiere rotto,
fui allontano da qualsiasi cosa
fragile esistesse nel raggio di
dieci metri.
Ho sempre avuto una grande
passione per la cucina ma non
potendo neanche entrare nel
“regno” dell’irascibile cuoco,
mi accontentavo di preparare le
insalate miste. Addossato ad una
parete c’era un grande bancone
dove venivano appoggiati grandi
vassoi ed insalatiere con le
varie verdure già tagliate. Non
esisteva allora il
self-service ed era il
cameriere che esaudiva la
richiesta del cliente mischiando
le varie insalate ed ortaggi. La
prima volta Gabrini mi disse:
“Che cosa fai con quel
coltello?”. - “Taglio i peperoni
dolci, poi affetterò i
ravanelli, i finocchi e tutto il
resto”. “Stai attento e taglia
tutto molto sottilmente”. “Ma
certo Sig. Gabrini”, risposi
facendogli capire che me ne
intendevo, “più sono sottili più
sono buone”. “No, no. Se le
tagli finemente ne vengono di
più”. - fu la secca replica.
Ricordo che i clienti erano in
maggioranza “abbonati”. Alcuni
pagavano a fine mese e con 25
piastre avevano diritto ad un
primo, un secondo con contorno.
Un piccolo extra per un quartino
“della casa”. Se sceglievano la
specialità del giorno, venivano
loro addebitate altre 4 piastre.
Molto di più se desideravano
altro tipo di vino. Ma il
quartino “di serie” era
dell’ottimo Ruber Afer. Fra i
numerosi “abbonati” molti erano
“importati”: i famosi tecnici,
insegnanti, operai specializzati
che venivano dall’Italia con
contratto temporaneo di lavoro
ma che finivano per rimanere
anche diversi anni. Costoro
elogiavano in maniera perfino
imbarazzante la bontà delle
verdure e degli ortaggi di
produzione locale. Ne ero molto
contento come se quelle verdure
ed ortaggi li avessi seminati
io, innaffiati, curati e quindi
portati dall’orto direttamente
al “Romagna” mentre mi limitavo
semplicemente a tagliarli
cercando di tirare in tempo
indietro le dita della mano
sinistra.
Poi iniziai anche a “battere” a
macchina il menù cercando di
interpretare l’orribile
calligrafia dell’irascibile
cuoco. Ne servivano sei copie.
La prima volta misi la carta
carbone all’incontrario e senza
accorgermene infilai i singoli
menù nelle relative custodie in
pelle. Dovetti poi rifare, in
tutta fretta, il tutto a mano
perché la mia scienza
dattilografica si limitava al
solo indice destro e avrei
impiegato mezz’ora a ribattere
il menù. Di recente, in un
ristorante di “grido” mi hanno
presentato un menù scritto a
mano: faceva molto “chic” ma
fece molto “choc” quando,
allora, Gabrini si accorse del
menù scritto alla rovescia. Me
ne disse tante ma tante. Ma in
romagnolo, e posso dire che non
è poi una grave mancanza non
capire i dialetti.
Altro pasticcio qualche
settimana dopo. Il menù, tra i
vari contorni, prevedeva
“fagiolini all’agro” e subito al
rigo successivo “piccole bietole
saltate in olio ed aglio”. Per
errore invertii i due modi di
condimento: “fagiolini saltati
in olio ed aglio” e le “piccole
bietole” divennero “all’agro”.
Il menu variava ogni giorno ma
si ripeteva ogni settimana per
cui i camerieri avevano un loro
linguaggio nel passare le
ordinazioni alla cucina per cui
“una Milano” corrispondeva nel
menù alla cotoletta alla
milanese, “una inglese
macchiata” era il riso
all’inglese con al centro poco
sugo di pomodoro, “una Bologna”
erano le tagliatelle alla
bolognese e così via. Ogni
singola portata del menù aveva
un nomignolo usato da camerieri
e cuoco ed i piatti venivano
ordinati “alle grida”. Si
trovarono, così, spiazzati, non
avendo ancora creato il
nomignolo adatto ed,
inizialmente, passavano
l’ordinazione così com’era sul
menù. I clienti, a loro volta,
quasi tutti abituali avevano
ritenuto una novità i “fagiolini
saltati” e quindi era il
contorno più gettonato. Ma alla
terza ordinazione ed alla
scoperta dell’autore
dell’errore, l’irascibile cuoco
si fece sentire non solo da me
ma da tutti gli abitanti della
Galleria. Altro invito a stare
più attento da parte di Gabrini
sempre ringhiando ma sempre in
romagnolo, dialetto a me
incomprensibile. Mi stavo
dimenticando del primo giorno da
“cassiere”. Nel piattino che mi
fu presentato dal cameriere
c’era il conto e una sterlina
libica. Il conto si aggirava
sulle 48 – 49 piastre. Nel dare
il resto non usai spiccioli più
una mezza sterlina di carta,
così com’era logico, ma tutti
spicci: 52 o 51 piastre tutte in
monete. Gabrini credendo fosse
una esplicita richiesta del
cameriere onde ottenere più
mancia, se la prese con il
cameriere. Alcuni minuti e tutti
e due se la presero con me. Ci
fu così una miscela di dialetti.
Ma fu l’ultima “ramanzina”.
Involontariamente (si fa per
dire) avevo sentito un discorso
tra Gabrini e un’altra persona.
C’era un piccolo problema che
poteva essere risolto facilmente
da un altro signore che,
menzionato, risultò essere il
padre di un mio grande amico. Di
mia iniziativa, parlai del
problemino con il mio amico che
ne parlò a suo padre e tutto si
risolse nel migliore dei modi.
Gabrini lo seppe ma non mi
ringraziò mai ma da quel momento
potei iniziare a capire il
romagnolo perché gli erroracci
venivano quasi sempre perdonati.
Un giorno tra i clienti, ci fu
un quartetto di “senza fondo”.
Avevano mangiato una quantità
incredibile di cibo. Ne era nata
una discussione che sfociò in
una scommessa: i quattro
“mangioni” decisero di sfidarsi
in una gara … “all’ultimo
piatto”. Il vincente sarebbe
stato, nel pagamento del conto,
ospite dei tre perdenti. La
sfida era fissata per la sera
successiva a chiusura locale:
ore 22.00 circa. Volevo essere
presente e Gabrini me lo
concesse. Non me ne vogliano gli
interessati o i parenti se
menziono i nomi. Non credo ci
sia alcunché di sconveniente.
Puntualmente, alle 22.00, si
accomodarono i Signori: Ascione,
Bardi, Baroni e Sbolgi.
All’allibito cameriere in attesa
dell’ordinazione, dissero di non
preoccuparsi e di portare tutte
le portate previste sul menù.
Per la cronaca, 4 antipasti, 4
primi, 4 secondi, 4 contorni,
frutta di stagione, zuppa
inglese, caffè. Quando il
cameriere servì i rigatoni al
ragù, si accese una grande
discussione perché secondo
Baroni le quantità non erano
uguali come avrebbero dovuto
essere secondo gli accordi della
gara. Intervenne Gabrini
ricordando al cameriere che si
trattava di una gara nella quale
vincitore sarebbe stato chi
avrebbe mangiato più “portate” e
quindi le quantità dovevano
essere uguali per non favorire
uno a scapito degli altri.
Gabrini allibì quando si rese
conto che Baroni non protestava
perché nel suo piatto c’era più
“pasta” che nei piatti dei suoi
“avversari” ma, al contrario, si
lamentava perché nel piatto di
Bardi c’erano 4 rigatoni in più
del suo e lo riteneva
un’ingiustizia!
Stava portando la frutta il
cameriere, quando Bardi lo fermò
con un cenno della mano dicendo:
“Scusa, ma non potrei avere una
frittatina di dodici uova?”.
Gabrini non poté trattenersi e
cominciò ad inveire in
romagnolo. Quella volta ho
capito tutto ma non posso
trascriverlo!
(1) Tarabish, in arabo, è il
plurale di tarbush il classico
copricapo alla turca chiamato
altrimenti fez. Alle riunioni
ufficiali, le persone importanti
si presentavano tutti in doppio
petto con il tarbush in testa.
Il popolino ha così coniato il
termine “i tarabish” per
indicare il nostro “i pezzi
grossi”.
Roberto Longo
Pubblicato sul
notiziario “l’Oasi” nel Numero 2/2006 –
Maggio - Agosto 2006