La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

La gita scolastica

(... Leptis Magna ... e ... il cambio d'opinione)

di   Roberto Longo

In Libia, nei primi dieci giorni di settembre, la temperatura già abbastanza “rovente”, si alzava di altri due/tre gradi causando problemi a chi soffriva il caldo. Il fenomeno, puntuale tutti gli anni all’interno, si faceva sentire, qualche volta, anche sulla costa. 

Il mio nemico di sempre è il freddo, ma confesso che quella insolita temperatura, dava fastidio anche a me, freddoloso incallito.

Una volta, un vecchio contadino, sentendomi imprecare, guardandomi in cagnesco e quasi con rimprovero, mi disse: “Ghibli ettamer!”. Letteralmente: il Ghibli dei datteri. In senso lato: quel caldo che mandava il Buon Dio, per far maturare tali frutti. Quindi accettare, non protestare e benedire. Erano pochi coloro che tagliavano il “casco” quando i datteri erano ancora acerbi e gialli e li facevano maturare in locali appositamente attrezzati. La maggioranza, infatti, li lasciava sulla pianta e la differenza si sarebbe poi notata. Nonostante ritenessi questi frutti un vero dono della Natura per la loro bontà, non vedevo l’ora che il famoso “Ghibli ettamer” finisse, che la temperatura rinfrescasse ed anche, sembrerebbe poco credibile, che iniziasse l’autunno e quindi la scuola.

Alla fine dell’estate, infatti, avevo nostalgia della scuola. Avrei rivisto i compagni persi di vista durante le vacanze. Avrei conosciuto quelli che si ... erano affezionati al programma dell’anno scolastico precedente, tanto da volerlo ... ripetere. Qualche nuovo professore.

Ovvio che, per la serie “non si è mai contenti”, dopo soli quindici giorni,  non vedevo l’ora che la scuola finisse.

Ad alleviare le fatiche dello studio, sarebbero arrivate le tanto attese vacanze di Natale, di Pasqua e quelle di un solo giorno, cioè le feste religiose minori e le festività politiche.

Ma c’era un giorno di vacanza molto particolare: quello destinato alla gita scolastica.

Non era data certa, ma se ne iniziava a parlare una quindicina di giorni prima. La disponibilità di una sola giornata, impediva la scelta di destinazioni lontane, per cui i miei timidi suggerimenti a visitare Tiji, Giosh, Nalùt, Cabào, Jefren, le celebri sorgenti di Rumìa (un paradiso fra le palme), ed altre mete, che egoisticamente proponevo onde poter rivedere i luoghi dove avevo passato qualche anno della mia fanciullezza, non erano neanche prese in considerazione. Il vantare la presenza di vecchi castelli berberi, ruderi e rovine Romane, Castelli Turchi, antichi granai (i famosi garfas), le caratteristiche abitazioni sotterranee (magàuir), la sabbia rossa di Cabào, la vista della vallata di Janawan e l’acqua fresca della citata fonte di Rumìa, non facevano “colpo” su chi aveva il potere di stabilire la meta della gita.

Nei tre anni di “medie” e nei cinque di “ragioneria”, la gita annuale mi ha sempre portato a  Sabratha, Leptis Magna ed un paio di volte ad Ain Sharshara, vicino Tarhuna, dove vi era  una piccola cascata. Un salto d’acqua di quattro metri dell’Uadi Ramla.

Normalmente il pullman partiva allo stesso orario in cui la “campanella” invitava ad entrare in aula le classi che non partecipavano alla gita. E questo era già argomento di scherno che avremmo subito a nostra volta quando sarebbe toccato ad altri. Qualcuno, più cattivo, avendo appena visto il film “I Vitelloni”, imitava l’Albertone nazionale sostituendo “lavoratoriiiii” con “studentiiii”, ma lasciando inalterato sberleffo e gesto volgare.

Ricordo in particolare una gita, non per la destinazione, ma per quanto accaduto. Sopratutto “prima” e “dopo”.

Quella volta, la partenza venne fissata per le sette e trenta, che per me, era e resta, un orario proibitivo. Non ho mai avuto problemi di sonno: potevo e posso tranquillamente andare a letto ben oltre la mezzanotte, alle ore “piccole”. Ma il risveglio mattiniero è sempre stato, ed è, un problema, indipendentemente dall’orario in cui vado a letto la sera precedente. Quella volta, poiché costretto ad alzarmi in ora per me insolita, non mi ritengo colpevole di quanto accadde, e mi assolvo con formula piena. Mia madre, infatti, mi aveva preparato un sacchetto con quanto necessario per la cosiddetta “colazione al sacco” e nel salutarmi, mi aveva pregato di gettare un altro sacchetto nella spazzatura. Erano diversi come formato e come peso, ma ero ancora assonnato e, barcollando, gettai la “colazione al sacco” nella spazzatura presentandomi al pullman con il sacchetto di rifiuti. Ovviamente quando me ne accorsi, ebbi la prontezza di spirito di dire che intendevo fare uno scherzo a qualcuno, sostituendogli il sacchetto di succulente provviste con il mio di spazzatura, rimandando l’acquisto dei miei panini all’immancabile sosta ad Homs. Di colpo passai da “brocco” a “dritto” perché questa idea creò entusiasmo: “Cambiamo il sacco a Tizio, no, no meglio a Caio ecc. ecc.”. Poco dopo trovarono l’accordo.

Quando mi fu rivelato il nome della vittima designata, ebbi un po’ paura. Si trattava di uno studente dell’altra classe che divideva, con la nostra, il pullman. Si diceva fosse il classico tipo “Signora Maestra è stato lui”... “Signora Maestra io lo so” di “elementari ” memorie, per cui, alla prima occasione, mi liberai, via finestrino, del sacchetto di spazzatura e, a distanza di quasi cinquant’anni, chiedo scusa agli ecologisti, assicurandoli, che non ho più fatto  nulla di simile. 

Ai miei indignati “supporter” dissi  che, se scoperto, avrei rischiato, per un innocente scherzo, una “nota” da parte degli insegnanti accompagnatori, con gravi conseguenze, in quanto, non solo non ero incensurato, ma anche sotto “condizionale”.

La partenza mattiniera era dovuta alla lontananza del luogo da raggiungere: Leptis Magna, circa 120 chilometri.

In tutte le gite, i posti più ambiti, a dispetto della comodità, erano quelli delle file posteriori. I ragazzi “per bene”, quelli che salivano in ritardo, e tutte  le ragazze, occupavano le file centrali e quelle davanti, dove prendevano posto anche gli insegnanti, ai quali era affidato il non facile compito di far rispettare i più elementari canoni di disciplina ed educazione.

I canti e le barzellette che arrivavano da quelle ultime file avrebbero fatto arrossire gli avventori delle osterie dei bassifondi. I professori, poveretti, tentavano, inizialmente, di riportare l’atmosfera nei limiti della decenza proponendo l’immancabile “Mazzolin di fiori”, “Marianna la va in campagna” ed altro. I “coristi” in fondo al pullman, ubbidivano, ma sostituivano le parole dei testi con altrettante di significato ... “leggermente” diverso riuscendo a trovare anche le rime e dando sfoggio di indubbie qualità di cantautori. 

I “prof”, come vengono chiamati adesso, ritengo facessero finta di non sentire. Parlavano tra loro ad alta voce indispettendo l’autista che, invece, si divertiva moltissimo.

La mancanza di “vitto” al seguito, non mi preoccupava affatto. Quasi tutti i miei compagni iniziavano a mangiare, quanto portato, un quarto d’ora dopo la partenza ed erano molto generosi. Per tutti, nessun problema. Le nostre compagne a causa della “linea” o perché soffrivano “il mal di pullman” o perché avevano già l’istinto materno, distribuivano a destra e a manca tutto il loro vettovagliamento. Qualche mamma riempiva le sacche come se le loro figliole dovessero stare fuori due mesi.

Niente di eccezionale ma, alle immancabili uova sode, venivano affiancati sfilatini con affettati. Inutile ricordare le bontà della Salumeria Corbisiero. Per gli sfilatini c’era un’ampia scelta anche se personalmente preferivo, a costo di fare la fila, quelli di un fornaio libico in Sciara Ibn El-As l’ex Via Piemonte, che, nelle buone stagioni, faceva lievitare il pane su lunghi tavoloni posti sul marciapiede. Lo trovavo sempre aperto. Probabilmente lavorava giorno e notte. Dall’Italia era arrivata la carne in scatola di una nota industria con piccola chiavetta in ferro incorporata. In alternativa, polpette di carne, frittate, tranci di pizza casalinga. Grissini e chips dell’Indolibia, l’ineguagliabile  tonno sott’olio di produzione locale (mai più gustato altrove), biscotti “home-made”, arance e mandarini. Questi ultimi li ricordo piuttosto grossi e con la buccia quasi staccata dall’agglomerato dei dolcissimi spicchi. Un’industria locale aveva lanciato le sardine sott’olio in salsa piccante. Questa bontà era racchiusa in scatole che si aprivano srotolando il coperchio per mezzo di una lunga chiavetta che terminava con una grossa asola. Nove volte su dieci si rompeva e questa era l’unica “controindicazione”.

Quella volta, una ragazza portò una teglia di pasta al forno. Non ci fu modo di riscaldarla, ma non ricordo lamentele in proposito. Un’altra degli arancini. Erano “freddi” ma tanto buoni,  che gliene chiesi un altro.

“Mi puoi dare un altro supplì, per favore?”

“Supplì?” rispose con disprezzo. “Questi sono arancini. Vedi? Hanno forma di un’arancia, sono fatti con risotto giallo e ripieni di ragù di carne e piselli. Specialità siciliana. I supplì, invece, sono napoletani, hanno la forma conica, non necessariamente di risotto giallo e vengono farciti di mozzarella e prosciutto cotto”.

Non ricordo come fosse il suo profitto scolastico, ma con simile “know-how”, era da sposare.

Per raggiungere Leptis Magna da Tripoli c’erano due possibilità: una turisticamente molto interessante via Ben Ghashir, Tarhuna, Kussabat, Homs. L’altra, più logica e più breve, via Garabulli sulla litoranea. Avendo scelto quest’ultima, arrivammo ad Homs verso le dieci e mezza. La giornata era splendida. Andando verso la spiaggia, sulla sinistra, c’era una trattoria gestita da due italiane, forse sorelle. Mi sembra si chiamasse “Le Venete”. Ci sarei poi ritornato più volte negli anni successivi. Non c’era bisogno di menù, né carta dei vini, perché due soli erano i piatti. Ma di bontà tale, da ripagare il viaggio: tagliatelle fatte in casa, alla bolognese, pollo allo spiedo con patate al forno. Il vino, un ottimo bianco secco, probabilmente di Tarhuna, credo si chiamasse “Apollo” o “Augustus” o qualcosa del genere.

La richiesta di “lasciar perdere Leptis” e fermarsi ad Homs, in quella spiaggia meravigliosa di sabbia fine ed un mare di un colore stupendo, era solo un “pour parler”. Terminato lo “scalo tecnico”, raggiungemmo in pochi minuti Leptis Magna, meta finale della nostra gita.

Le gite scolastiche mi hanno sempre entusiasmato e credo che tutti gli studenti le ricordino volentieri anche se, tale piacevole ritorno al passato ha, nella nostalgia, il brutto risvolto della medaglia. Mi sono chiesto spesso quale fosse la ragione di tanto entusiasmo. Raramente si familiarizzava con l’altra classe, nostra associata solo per il pullman. Stavamo insieme a quelle stesse compagne e compagni che incontravamo tutti i giorni a scuola  per quasi nove mesi e per tanti anni scolastici. Eppure era una giornata particolare, bellissima. Sembravamo reclute in libera uscita. Una brigata allegra e spensierata che rideva e scherzava per tutto il tempo. Tempo che avremmo ricordato a lungo. Durante le gite, probabilmente, guardavamo le nostre compagne con un’ottica differente. A scuola bisognava seguire le lezioni e si era tenuti a seguire un certo comportamento. Non bisogna dimenticare che allora non c’erano le libertà dei tempi moderni e non c’erano tante occasioni per incontri, al di fuori delle severe mura scolastiche. Nelle gite era tutto diverso. Probabilmente vedevamo in loro, ragazze, donne, non compagne di scuola ed ovviamente, a loro volta, vedevano in noi uomini, beh! diciamo “ometti” e non compagni di classe! Erano più allegre, radiose. Noi più spiritosi. Molti amori, sono nati durante le gite scolastiche. Alcuni hanno avuto un lieto fine, altri lo spazio di una stagione. La nascita di un flirt, era confermata al ritorno. Sul pullman, infatti, gli “ultras” delle ultime file, sonnecchiavano stanchi e completamente senza voce. Nelle file centrali, invece, gruppetti di ragazze parlavano tra di loro fitto fitto e sottovoce. Sicuramente degli amori sbocciati. Avrei voluto essere una mosca per potere ascoltare. Pericoloso avvicinarsi, se non si voleva fare la fine di questo fastidioso insetto.

L’indomani, in classe e durante la ricreazione, tutto ritornava nella normalità: ragazze da una parte, ragazzi dall’altra.

Tutti a gustare i panini tonno e harisa confezionati dal mitico bidello nero scherzosamente da noi chiamato “Biancaneve”. L’incanto era finito. Ritornavano le interrogazioni a “bruciapelo”, le preoccupazioni per i voti, i compiti da svolgere.

Quella volta le nostre “guardie” erano: il Professore di educazione fisica e la Professoressa di lettere, un’ insegnante molto brava, che stimavo molto. Aveva deciso che quella gita dovesse avere anche un risvolto culturale per cui si mise subito a  parlare di Leptis e ad illustrarne i monumenti. Quando però si accorse che si trovava sola soletta nel foro dei Severi e stava parlando soltanto ... con la testa della Gòrgona e con pochissimi “fedeli”, minacciosamente disse: “Il compito in classe di domani sarà su Leptis Magna”. In effetti, l’indomani, era proprio previsto il secondo ed ultimo compito in classe di italiano del trimestre.

Mi trovavo nel Teatro insieme ad un gruppetto, quando mi giunse la brutta notizia. Le brutte notizie, è noto, hanno sempre una corsia preferenziale. Mi precipitai sul luogo dell’ultimatum sperando di trovare una scusa plausibile, ma ormai era troppo tardi: le spiegazioni erano quasi finite. L’unica frase che riuscii a captare era purtroppo la conclusione: “Se adesso possiamo ammirare questa splendida città Romana, lo dobbiamo alla sabbia che seppellendola, l’ha preservata dalle intemperie e dai saccheggi anche se qualcosa è stata comunque asportata. Ben quarantotto colonne si trovano, ad esempio, nella Moschea  di  Murad Aghà, a Tagiura. Altre, addirittura, fuori dalla Libia”.

Era la terza volta che visitavo Leptis, ma sempre senza una guida che spiegasse quelle magnificenze. Avevo pertanto acquistato  un libricino con molte illustrazioni. Era il momento di “riesumarlo”.

Fu così che, appena ritornato a casa, iniziai a studiare per il componimento del giorno successivo. Innanzi tutto perché Magna? Magna per distinguerla da Leptis Minor che si trovava in Tunisia. Poi, per dimostrare il mio spirito di osservazione, avrei parlato della grandiosità e magnificenza del Teatro con acustica perfetta. Per provare la quale, quella volta, ero salito fino in cima alla scalinata, lasciando declamare versi ad alcuni miei compagni. Involontariamente mi ero appoggiato ad una statua di donna in marmo bianco. Notai che dall’alto, ella dominava tutto il Teatro ed era l’unica statua lassù. Tuttavia sembrava che quello sfarzo non la riguardasse, perché il suo sguardo era rivolto verso il mare, forse verso Roma.  Mi sembra, infatti, rappresentasse la consorte di un Imperatore Romano.

Ma dopo un po’ mi lanciai nei pronostici. Noi eravamo iscritti al corso di Ragioneria, non a quello di storia dell’arte per cui il tema non poteva far riferimento al Cardo maximus, al Decumanus maximus, ai vari archi di Tiberio, Traiano, alle Terme, al Mercato ed a quel bellissimo Teatro, dominato dalla citata irriverente statua che si permetteva di guardare altrove. Semmai, poteva riguardare l’importanza commerciale del grande Porto costruito alla foce del torrente Lebda, di cui i Romani, ingegnosamente, avevano deviato il corso per impedire che, la sabbia trasportata, alzasse i fondali. Oppure poteva essere a sfondo storico. Ed allora, sotto con i libri che descrivevano le gesta di Settimio Severo, imperatore romano nativo di Leptis, che ampliò e rese molto più bella la città che gli aveva dato i natali. Quindi via libricini turistici e sotto con la storia.

L’indomani, strada facendo, un brivido: ma il primo insediamento fu creato dai Fenici o dai Greci? Pensai che se fosse stato necessario, avrei  dribblato l’argomento.

Seconda ora, entra l’insegnante ed inizia a dettare il tema da svolgere. Grande suspense:

“Come il serpente cambia la pelle, anche l’uomo deve cambiare opinione qualora ... ecc. ecc.”.

“Scusi ... ma non doveva essere su ...”.

“Sì, ma ho ritenuto più di attualità quest’altro tema”.

Non ricordo quale avvenimento importante avesse convinto la Professoressa a non mettere in atto la sua “vendetta” e ripiegare sul “cambio di pelle e cambio di opinione”.

Forse per la disillusione, forse per l’arroganza giovanile, forse per assurda presunzione, forse per le ore passate a studiare argomenti che non mi sarebbero poi serviti, svolsi il tema compilando tre pagine fitte fitte.

L’uomo, scrissi, non deve mai cambiare opinione. Il serpente faccia pure quello che vuole della sua pellaccia, ma l’uomo deve essere tutto d’un pezzo. A Napoli si dice: l’Ommo è ommo”. Totò si interrogava “Siamo uomini o caporali?” e via dicendo, portando esempi e citando situazioni nelle quali ero stato coinvolto.

La settimana dopo: Gli argomenti sono bene esposti, non ci sono gravi errori di grammatica, discreta la sintassi. Ma completamente fuori tema: CINQUE MENO-MENO.

“Professoressa perché cinque. Il tema lasciava liberi di accettare o meno ...”.

“Stia zitto, che meritava quattro. Ma siccome il primo tema aveva preso sette, per darle la sufficienza in pagella, le ho dato cinque”. 

 

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E circa il cambio di opinione?  Quel giorno, contravvenendo a quanto scritto nel tema, cambiai subito opinione sulla professoressa, ma in negativo.

Poi, maturando, sbolliti gli ardori giovanili, ho dato ragione alla Professoressa, cambiando ancora opinione ma in positivo. Da allora l’ho cambiata tutte le volte che circostanze e situazioni lo rendevano logico e necessario. E sarebbe stato stupido, molto stupido il non farlo.

E adesso?

A sessantasei anni suonati, il problema non sussiste: non ho più opinioni.

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “l’oasi” nel Numero 2/2005 – Maggio - Agosto 2005)