In Libia, nei primi dieci
giorni di settembre, la
temperatura già abbastanza
“rovente”, si alzava di
altri due/tre gradi causando
problemi a chi soffriva il
caldo. Il fenomeno, puntuale
tutti gli anni all’interno,
si faceva sentire, qualche
volta, anche sulla costa.
Il mio nemico di sempre è il
freddo, ma confesso che
quella insolita temperatura,
dava fastidio anche a me,
freddoloso incallito.
Una volta, un vecchio
contadino, sentendomi
imprecare, guardandomi in
cagnesco e quasi con
rimprovero, mi disse:
“Ghibli ettamer!”.
Letteralmente: il Ghibli dei
datteri. In senso lato: quel
caldo che mandava il Buon
Dio, per far maturare tali
frutti. Quindi accettare,
non protestare e benedire.
Erano pochi coloro che
tagliavano il “casco” quando
i datteri erano ancora
acerbi e gialli e li
facevano maturare in locali
appositamente attrezzati. La
maggioranza, infatti, li
lasciava sulla pianta e la
differenza si sarebbe poi
notata. Nonostante ritenessi
questi frutti un vero dono
della Natura per la loro
bontà, non vedevo l’ora che
il famoso “Ghibli ettamer”
finisse, che la temperatura
rinfrescasse ed anche,
sembrerebbe poco credibile,
che iniziasse l’autunno e
quindi la scuola.
Alla fine dell’estate,
infatti, avevo nostalgia
della scuola. Avrei rivisto
i compagni persi di vista
durante le vacanze. Avrei
conosciuto quelli che si ...
erano affezionati al
programma dell’anno
scolastico precedente, tanto
da volerlo ... ripetere.
Qualche nuovo professore.
Ovvio che, per la serie “non
si è mai contenti”, dopo
soli quindici giorni, non
vedevo l’ora che la scuola
finisse.
Ad alleviare le fatiche
dello studio, sarebbero
arrivate le tanto attese
vacanze di Natale, di Pasqua
e quelle di un solo giorno,
cioè le feste religiose
minori e le festività
politiche.
Ma c’era un giorno di
vacanza molto particolare:
quello destinato alla gita
scolastica.
Non era data certa, ma se ne
iniziava a parlare una
quindicina di giorni prima.
La disponibilità di una sola
giornata, impediva la scelta
di destinazioni lontane, per
cui i miei timidi
suggerimenti a visitare
Tiji, Giosh, Nalùt, Cabào,
Jefren, le celebri sorgenti
di Rumìa (un paradiso fra le
palme), ed altre mete, che
egoisticamente proponevo
onde poter rivedere i luoghi
dove avevo passato qualche
anno della mia fanciullezza,
non erano neanche prese in
considerazione. Il vantare
la presenza di vecchi
castelli berberi, ruderi e
rovine Romane, Castelli
Turchi, antichi granai (i
famosi garfas), le
caratteristiche abitazioni
sotterranee (magàuir), la
sabbia rossa di Cabào, la
vista della vallata di
Janawan e l’acqua fresca
della citata fonte di Rumìa,
non facevano “colpo” su chi
aveva il potere di stabilire
la meta della gita.
Nei tre anni di “medie” e
nei cinque di “ragioneria”,
la gita annuale mi ha sempre
portato a Sabratha, Leptis
Magna ed un paio di volte ad
Ain Sharshara, vicino
Tarhuna, dove vi era una
piccola cascata. Un salto
d’acqua di quattro metri
dell’Uadi Ramla.
Normalmente il pullman
partiva allo stesso orario
in cui la “campanella”
invitava ad entrare in aula
le classi che non
partecipavano alla gita. E
questo era già argomento di
scherno che avremmo subito a
nostra volta quando sarebbe
toccato ad altri. Qualcuno,
più cattivo, avendo appena
visto il film “I Vitelloni”,
imitava l’Albertone
nazionale sostituendo
“lavoratoriiiii” con
“studentiiii”, ma lasciando
inalterato sberleffo e gesto
volgare.
Ricordo in particolare una
gita, non per la
destinazione, ma per quanto
accaduto. Sopratutto “prima”
e “dopo”.
Quella volta, la partenza
venne fissata per le sette e
trenta, che per me, era e
resta, un orario proibitivo.
Non ho mai avuto problemi di
sonno: potevo e posso
tranquillamente andare a
letto ben oltre la
mezzanotte, alle ore
“piccole”. Ma il risveglio
mattiniero è sempre stato,
ed è, un problema,
indipendentemente
dall’orario in cui vado a
letto la sera precedente.
Quella volta, poiché
costretto ad alzarmi in ora
per me insolita, non mi
ritengo colpevole di quanto
accadde, e mi assolvo con
formula piena. Mia madre,
infatti, mi aveva preparato
un sacchetto con quanto
necessario per la cosiddetta
“colazione al sacco” e nel
salutarmi, mi aveva pregato
di gettare un altro
sacchetto nella spazzatura.
Erano diversi come formato e
come peso, ma ero ancora
assonnato e, barcollando,
gettai la “colazione al
sacco” nella spazzatura
presentandomi al pullman con
il sacchetto di rifiuti.
Ovviamente quando me ne
accorsi, ebbi la prontezza
di spirito di dire che
intendevo fare uno scherzo a
qualcuno, sostituendogli il
sacchetto di succulente
provviste con il mio di
spazzatura, rimandando
l’acquisto dei miei panini
all’immancabile sosta ad
Homs. Di colpo passai da
“brocco” a “dritto” perché
questa idea creò entusiasmo:
“Cambiamo il sacco a Tizio,
no, no meglio a Caio ecc.
ecc.”. Poco dopo trovarono
l’accordo.
Quando mi fu rivelato il
nome della vittima
designata, ebbi un po’
paura. Si trattava di uno
studente dell’altra classe
che divideva, con la nostra,
il pullman. Si diceva fosse
il classico tipo “Signora
Maestra è stato lui”...
“Signora Maestra io lo so”
di “elementari ” memorie,
per cui, alla prima
occasione, mi liberai, via
finestrino, del sacchetto di
spazzatura e, a distanza di
quasi cinquant’anni, chiedo
scusa agli ecologisti,
assicurandoli, che non ho
più fatto nulla di simile.
Ai miei indignati
“supporter” dissi che, se
scoperto, avrei rischiato,
per un innocente scherzo,
una “nota” da parte degli
insegnanti accompagnatori,
con gravi conseguenze, in
quanto, non solo non ero
incensurato, ma anche sotto
“condizionale”.
La partenza mattiniera era
dovuta alla lontananza del
luogo da raggiungere: Leptis
Magna, circa 120 chilometri.
In tutte le gite, i posti
più ambiti, a dispetto della
comodità, erano quelli delle
file posteriori. I ragazzi
“per bene”, quelli che
salivano in ritardo, e
tutte le ragazze,
occupavano le file centrali
e quelle davanti, dove
prendevano posto anche gli
insegnanti, ai quali era
affidato il non facile
compito di far rispettare i
più elementari canoni di
disciplina ed educazione.
I canti e le barzellette che
arrivavano da quelle ultime
file avrebbero fatto
arrossire gli avventori
delle osterie dei
bassifondi. I professori,
poveretti, tentavano,
inizialmente, di riportare
l’atmosfera nei limiti della
decenza proponendo
l’immancabile “Mazzolin di
fiori”, “Marianna la va in
campagna” ed altro. I
“coristi” in fondo al
pullman, ubbidivano, ma
sostituivano le parole dei
testi con altrettante di
significato ...
“leggermente” diverso
riuscendo a trovare anche le
rime e dando sfoggio di
indubbie qualità di
cantautori.
I “prof”, come vengono
chiamati adesso, ritengo
facessero finta di non
sentire. Parlavano tra loro
ad alta voce indispettendo
l’autista che, invece, si
divertiva moltissimo.
La mancanza di “vitto” al
seguito, non mi preoccupava
affatto. Quasi tutti i miei
compagni iniziavano a
mangiare, quanto portato, un
quarto d’ora dopo la
partenza ed erano molto
generosi. Per tutti, nessun
problema. Le nostre compagne
a causa della “linea” o
perché soffrivano “il mal di
pullman” o perché avevano
già l’istinto materno,
distribuivano a destra e a
manca tutto il loro
vettovagliamento. Qualche
mamma riempiva le sacche
come se le loro figliole
dovessero stare fuori due
mesi.
Niente di eccezionale ma,
alle immancabili uova sode,
venivano affiancati
sfilatini con affettati.
Inutile ricordare le bontà
della Salumeria Corbisiero.
Per gli sfilatini c’era
un’ampia scelta anche se
personalmente preferivo, a
costo di fare la fila,
quelli di un fornaio libico
in Sciara Ibn El-As l’ex Via
Piemonte, che, nelle buone
stagioni, faceva lievitare
il pane su lunghi tavoloni
posti sul marciapiede. Lo
trovavo sempre aperto.
Probabilmente lavorava
giorno e notte. Dall’Italia
era arrivata la carne in
scatola di una nota
industria con piccola
chiavetta in ferro
incorporata. In alternativa,
polpette di carne, frittate,
tranci di pizza casalinga.
Grissini e chips
dell’Indolibia,
l’ineguagliabile tonno
sott’olio di produzione
locale (mai più gustato
altrove), biscotti
“home-made”, arance e
mandarini. Questi ultimi li
ricordo piuttosto grossi e
con la buccia quasi staccata
dall’agglomerato dei
dolcissimi spicchi.
Un’industria locale aveva
lanciato le sardine
sott’olio in salsa piccante.
Questa bontà era racchiusa
in scatole che si aprivano
srotolando il coperchio per
mezzo di una lunga chiavetta
che terminava con una grossa
asola. Nove volte su dieci
si rompeva e questa era
l’unica “controindicazione”.
Quella volta, una ragazza
portò una teglia di pasta al
forno. Non ci fu modo di
riscaldarla, ma non ricordo
lamentele in proposito.
Un’altra degli arancini.
Erano “freddi” ma tanto
buoni, che gliene chiesi un
altro.
“Mi puoi dare un altro
supplì, per favore?”
“Supplì?” rispose con
disprezzo. “Questi sono
arancini. Vedi? Hanno forma
di un’arancia, sono fatti
con risotto giallo e ripieni
di ragù di carne e piselli.
Specialità siciliana. I
supplì, invece, sono
napoletani, hanno la forma
conica, non necessariamente
di risotto giallo e vengono
farciti di mozzarella e
prosciutto cotto”.
Non ricordo come fosse il
suo profitto scolastico, ma
con simile “know-how”, era
da sposare.
Per raggiungere Leptis Magna
da Tripoli c’erano due
possibilità: una
turisticamente molto
interessante via Ben
Ghashir, Tarhuna, Kussabat,
Homs. L’altra, più logica e
più breve, via Garabulli
sulla litoranea. Avendo
scelto quest’ultima,
arrivammo ad Homs verso le
dieci e mezza. La giornata
era splendida. Andando verso
la spiaggia, sulla sinistra,
c’era una trattoria gestita
da due italiane, forse
sorelle. Mi sembra si
chiamasse “Le Venete”. Ci
sarei poi ritornato più
volte negli anni successivi.
Non c’era bisogno di menù,
né carta dei vini, perché
due soli erano i piatti. Ma
di bontà tale, da ripagare
il viaggio: tagliatelle
fatte in casa, alla
bolognese, pollo allo spiedo
con patate al forno. Il
vino, un ottimo bianco
secco, probabilmente di
Tarhuna, credo si chiamasse
“Apollo” o “Augustus” o
qualcosa del genere.
La richiesta di “lasciar
perdere Leptis” e fermarsi
ad Homs, in quella spiaggia
meravigliosa di sabbia fine
ed un mare di un colore
stupendo, era solo un “pour
parler”. Terminato lo “scalo
tecnico”, raggiungemmo in
pochi minuti Leptis Magna,
meta finale della nostra
gita.
Le gite scolastiche mi hanno
sempre entusiasmato e credo
che tutti gli studenti le
ricordino volentieri anche
se, tale piacevole ritorno
al passato ha, nella
nostalgia, il brutto
risvolto della medaglia. Mi
sono chiesto spesso quale
fosse la ragione di tanto
entusiasmo. Raramente si
familiarizzava con l’altra
classe, nostra associata
solo per il pullman. Stavamo
insieme a quelle stesse
compagne e compagni che
incontravamo tutti i giorni
a scuola per quasi nove
mesi e per tanti anni
scolastici. Eppure era una
giornata particolare,
bellissima. Sembravamo
reclute in libera uscita.
Una brigata allegra e
spensierata che rideva e
scherzava per tutto il
tempo. Tempo che avremmo
ricordato a lungo. Durante
le gite, probabilmente,
guardavamo le nostre
compagne con un’ottica
differente. A scuola
bisognava seguire le lezioni
e si era tenuti a seguire un
certo comportamento. Non
bisogna dimenticare che
allora non c’erano le
libertà dei tempi moderni e
non c’erano tante occasioni
per incontri, al di fuori
delle severe mura
scolastiche. Nelle gite era
tutto diverso. Probabilmente
vedevamo in loro, ragazze,
donne, non compagne di
scuola ed ovviamente, a loro
volta, vedevano in noi
uomini, beh! diciamo
“ometti” e non compagni di
classe! Erano più allegre,
radiose. Noi più spiritosi.
Molti amori, sono nati
durante le gite scolastiche.
Alcuni hanno avuto un lieto
fine, altri lo spazio di una
stagione. La nascita di un
flirt, era confermata al
ritorno. Sul pullman,
infatti, gli “ultras” delle
ultime file, sonnecchiavano
stanchi e completamente
senza voce. Nelle file
centrali, invece, gruppetti
di ragazze parlavano tra di
loro fitto fitto e
sottovoce. Sicuramente degli
amori sbocciati. Avrei
voluto essere una mosca per
potere ascoltare. Pericoloso
avvicinarsi, se non si
voleva fare la fine di
questo fastidioso insetto.
L’indomani, in classe e
durante la ricreazione,
tutto ritornava nella
normalità: ragazze da una
parte, ragazzi dall’altra.
Tutti a gustare i panini
tonno e harisa confezionati
dal mitico bidello nero
scherzosamente da noi
chiamato “Biancaneve”.
L’incanto era finito.
Ritornavano le
interrogazioni a
“bruciapelo”, le
preoccupazioni per i voti, i
compiti da svolgere.
Quella volta le nostre
“guardie” erano: il
Professore di educazione
fisica e la Professoressa di
lettere, un’ insegnante
molto brava, che stimavo
molto. Aveva deciso che
quella gita dovesse avere
anche un risvolto culturale
per cui si mise subito a
parlare di Leptis e ad
illustrarne i monumenti.
Quando però si accorse che
si trovava sola soletta nel
foro dei Severi e stava
parlando soltanto ... con la
testa della Gòrgona e con
pochissimi “fedeli”,
minacciosamente disse: “Il
compito in classe di domani
sarà su Leptis Magna”. In
effetti, l’indomani, era
proprio previsto il secondo
ed ultimo compito in classe
di italiano del trimestre.
Mi trovavo nel Teatro
insieme ad un gruppetto,
quando mi giunse la brutta
notizia. Le brutte notizie,
è noto, hanno sempre una
corsia preferenziale. Mi
precipitai sul luogo
dell’ultimatum sperando di
trovare una scusa
plausibile, ma ormai era
troppo tardi: le spiegazioni
erano quasi finite. L’unica
frase che riuscii a captare
era purtroppo la
conclusione: “Se adesso
possiamo ammirare questa
splendida città Romana, lo
dobbiamo alla sabbia che
seppellendola, l’ha
preservata dalle intemperie
e dai saccheggi anche se
qualcosa è stata comunque
asportata. Ben quarantotto
colonne si trovano, ad
esempio, nella Moschea di
Murad Aghà, a Tagiura.
Altre, addirittura, fuori
dalla Libia”.
Era la terza volta che
visitavo Leptis, ma sempre
senza una guida che
spiegasse quelle
magnificenze. Avevo pertanto
acquistato un libricino con
molte illustrazioni. Era il
momento di “riesumarlo”.
Fu così che, appena
ritornato a casa, iniziai a
studiare per il componimento
del giorno successivo.
Innanzi tutto perché Magna?
Magna per distinguerla da
Leptis Minor che si trovava
in Tunisia. Poi, per
dimostrare il mio spirito di
osservazione, avrei parlato
della grandiosità e
magnificenza del Teatro con
acustica perfetta. Per
provare la quale, quella
volta, ero salito fino in
cima alla scalinata,
lasciando declamare versi ad
alcuni miei compagni.
Involontariamente mi ero
appoggiato ad una statua di
donna in marmo bianco. Notai
che dall’alto, ella dominava
tutto il Teatro ed era
l’unica statua lassù.
Tuttavia sembrava che quello
sfarzo non la riguardasse,
perché il suo sguardo era
rivolto verso il mare, forse
verso Roma. Mi sembra,
infatti, rappresentasse la
consorte di un Imperatore
Romano.
Ma dopo un po’ mi lanciai
nei pronostici. Noi eravamo
iscritti al corso di
Ragioneria, non a quello di
storia dell’arte per cui il
tema non poteva far
riferimento al Cardo maximus,
al Decumanus maximus, ai
vari archi di Tiberio,
Traiano, alle Terme, al
Mercato ed a quel bellissimo
Teatro, dominato dalla
citata irriverente statua
che si permetteva di
guardare altrove. Semmai,
poteva riguardare
l’importanza commerciale del
grande Porto costruito alla
foce del torrente Lebda, di
cui i Romani,
ingegnosamente, avevano
deviato il corso per
impedire che, la sabbia
trasportata, alzasse i
fondali. Oppure poteva
essere a sfondo storico. Ed
allora, sotto con i libri
che descrivevano le gesta di
Settimio Severo, imperatore
romano nativo di Leptis, che
ampliò e rese molto più
bella la città che gli aveva
dato i natali. Quindi via
libricini turistici e sotto
con la storia.
L’indomani, strada facendo,
un brivido: ma il primo
insediamento fu creato dai
Fenici o dai Greci? Pensai
che se fosse stato
necessario, avrei dribblato
l’argomento.
Seconda ora, entra
l’insegnante ed inizia a
dettare il tema da svolgere.
Grande suspense:
“Come il serpente cambia la
pelle, anche l’uomo deve
cambiare opinione qualora
... ecc. ecc.”.
“Scusi ... ma non doveva
essere su ...”.
“Sì, ma ho ritenuto più di
attualità quest’altro tema”.
Non ricordo quale
avvenimento importante
avesse convinto la
Professoressa a non mettere
in atto la sua “vendetta” e
ripiegare sul “cambio di
pelle e cambio di opinione”.
Forse per la disillusione,
forse per l’arroganza
giovanile, forse per assurda
presunzione, forse per le
ore passate a studiare
argomenti che non mi
sarebbero poi serviti,
svolsi il tema compilando
tre pagine fitte fitte.
L’uomo, scrissi, non deve
mai cambiare opinione. Il
serpente faccia pure quello
che vuole della sua
pellaccia, ma l’uomo deve
essere tutto d’un pezzo. A
Napoli si dice: l’Ommo è
ommo”. Totò si interrogava
“Siamo uomini o caporali?” e
via dicendo, portando esempi
e citando situazioni nelle
quali ero stato coinvolto.
La settimana dopo: Gli
argomenti sono bene esposti,
non ci sono gravi errori di
grammatica, discreta la
sintassi. Ma completamente
fuori tema: CINQUE MENO-MENO.
“Professoressa perché
cinque. Il tema lasciava
liberi di accettare o meno
...”.
“Stia zitto, che meritava
quattro. Ma siccome il primo
tema aveva preso sette, per
darle la sufficienza in
pagella, le ho dato
cinque”.
***************
E circa il cambio di
opinione? Quel giorno,
contravvenendo a quanto
scritto nel tema, cambiai
subito opinione sulla
professoressa, ma in
negativo.
Poi, maturando, sbolliti gli
ardori giovanili, ho dato
ragione alla Professoressa,
cambiando ancora opinione ma
in positivo. Da allora l’ho
cambiata tutte le volte che
circostanze e situazioni lo
rendevano logico e
necessario. E sarebbe stato
stupido, molto stupido il
non farlo.
E adesso?
A sessantasei anni suonati,
il problema non sussiste:
non ho più opinioni.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista
“l’oasi” nel Numero 2/2005 –
Maggio - Agosto 2005)