Fellini era un genio. Ma
era anche buono. Confidando
in questa sua virtù, mi sono
permesso di usare il titolo
di un suo capolavoro per
rinverdire alcuni ricordi di
gioventù. Ma siccome anche
la decenza ha i suoi limiti,
non ho osato riportare
esattamente il titolo del
suo film. Ne ho cambiato un
po’ la trascrizione.
Tutta colpa di un disco: un
vecchio 45 giri che, nella
sua leggera custodia di
carta, stava in fondo ad un
cartone dove c’era un po’ di
tutto, in perfetto
disordine. È strano come un
motivetto, una canzone,
riescano a farmi tornare,
con la mente, al passato,
più di quanto possano fare
una vecchia fotografia, un
filmino, un incontro con
vecchi amici. E la stranezza
va ricercata nel fatto che
io sia completamente
sprovvisto di “orecchio
musicale”. Una delle
professioni a cui non avrei
mai potuto ambire, è proprio
quella del musicista
seguita, per analogia, da
quella del ballerino.
Ricordo che dopo molti
“corsi” ero riuscito ad
imparare “i passi” e le
“figure”di alcuni balli. Ma,
in sala, per me, il
difficile, era capire se si
trattava di fox-trot, di
valzer, di cha-cha-cha o
altro. Speravo sempre che il
pianista, prima di iniziare
“un pezzo” declamasse: ...
“ed ora un valzer ... una
mazurca ecc. ecc.”. Ed
allora, conoscendo passi e
figure, partivo “in quarta”.
Mantenere il tempo, però,
era un’opzione. L’ultimo mio
insegnante di ballo, al
quale avevo chiesto:
“Maestro, questo che tempo
è?”, fra i denti mi rispose:
“È tempo perso”. Chiunque
avrebbe appeso le scarpe col
tacco tattico al classico
“chiodo“. Ma io sono tenace
e, sopratutto, dotato di
discreta “faccia tosta”.
Negli anni
cinquanta-primissimi anni
sessanta, il Circolo Italia,
con i suoi matinée
(18,00-21,00 tutte le
domeniche), con i veglioni
di carnevale e di capodanno,
deteneva l’esclusiva, per
continuità, degli
intrattenimenti danzanti.
Tavoli e sedie, addossati
alle pareti della grande
sala-teatro, ospitavano
genitori e figlie. I ragazzi
gironzolavano per la sala e,
al primo stacco musicale,
piombavano come avvoltoi ad
invitare le ragazze. Il
cenno favorevole del padre,
dava l’avvio alla danza. Ma
doveva essere “una tantum”
perché il bis destava
sospetti per cui la dama era
costretta a rispondere che
era ... stanca. I giorni
successivi alla domenica
servivano alle dame per
recuperare l’uso del
braccio destro reso
dolorante dall’anchilosi
causata dalla posizione ad
angolo acuto per tenere a
bada il “cavaliere” durante
il ballo. Ai “cavalieri”,
dopo qualche giorno, spariva
il livido che il gomito
della dama causava
all’altezza del cuore.
Andava meglio ai fidanzati,
ma solo se fidanzati
“ufficialmente” quando cioè
il fidanzato era stato
accettato dai genitori della
ragazza e dopo che c’era
stato lo scambio di anello
di fidanzamento: primo
anello di una catena che, a
quei tempi ed in quei
luoghi, molto raramente si
sarebbe poi spezzata. Allora
il “braccio ingessato”
cadeva, le danze erano più
“ravvicinate” ma nulla più.
Ai fidanzati era anche
concessa la passeggiata
domenicale per il Lungomare
ma alle condizioni e regole
ironizzate poi, da Carosone,
che, attento ai costumi,
avrebbe contribuito al
successo della canzone di
Modugno e Pazzaglia: “Io,
mammata e tu”.
Nei periodi estivi, in
alternativa, ma sempre
secondo le regole su citate,
la “Sirenetta”. Un simpatico
locale sullo splendido
lungomare al disotto della
balaustra, dei lampioni e
delle palme, in riva al
mare. Non era certo la
“rotonda sul mare” di Fred
Bongusto, ma c’era sempre
“un’orchestrina che
suonava”. Nella pausa che
l’orchestra si concedeva,
uno spettacolino a base di
quiz a premi, arricchiva la
serata.
Mentre il “Circolo Italia”
garantiva la continuità,
sporadicamente venivano
organizzate serate danzanti
dai club degli scooteristi,
dal Malta House, dai gestori
delle spiagge. Ore
indimenticabili durante le
quali, spesso, veniva eletta
la “Miss” della serata.
Altre serate a tema, oltre
ai vari veglioni, ottenevano
successo e consensi tanto
che se ne riparlava nei
giorni successivi. A
movimentare le danze, anche
“la cartolinata”. Era un
modo di eleggere la “Miss”,
la più bella della serata. È
superfluo ricordarne le
modalità. Comunque i baldi
cavalieri dovevano
acquistare delle cartoline.
Consegnando una di queste
alla dama prescelta,
ottenevano in cambio un
ballo ma, nel corso di detto
ballo, se un altro cavaliere
interveniva con un’altra
cartolina, la dama passava
di mano a meno che, il
precedente, non donava
immediatamente un’altra
cartolina alla sua bella.
Ovvio che, al termine
stabilito, la dama che aveva
ottenuto più cartoline
otteneva premi e titolo di
reginetta. Altre volte, ma
per un numero limitato di
coppie: “il ballo della
scopa”. Anche questo gioco
molto popolare. Tutti
accoppiati i partecipanti,
tranne uno che per dama
aveva una scopa. Iniziavano
le danze, i cavalieri
ballavano con le loro dame,
un jolly con la sua scopa.
Ma immediatamente, il jolly
passava la scopa ad un
cavaliere rilevandone la
dama. Questi, a sua volta,
faceva altrettanto con altro
cavaliere, ma mai con il
jolly, e così via. Di colpo,
però, la musica si fermava
ed il cavaliere che in quel
momento aveva la scopa,
veniva eliminato insieme
alla sua incolpevole dama
iniziale. Si riformavano le
coppie dell’inizio gara, un
jolly prendeva la scopa e la
gara continuava finché non
rimaneva una sola coppia che
si aggiudicava il trofeo in
palio. Altro gioco, di cui
rivendico la paternità: il “Disco-out”.
Le coppie, che desideravano
partecipare, dovevano
acquistare un disco di
cartone con su scritto il
titolo di una canzone. In
un’urna venivano inseriti
tutti i titoli
corrispondenti ai dischi
consegnati. Veniva estratto
dal presentatore un titolo
dall’urna e veniva
consegnato al capo
orchestra, in tutta
segretezza. L’orchestra
eseguiva il “pezzo” che
veniva ballato da tutti i
partecipanti. Ma al termine,
la coppia che aveva il disco
di cartone riportante il
“pezzo” eseguito, veniva
eliminata. Quindi altra
estrazione e così via fino
all’eliminazione di tutti i
concorrenti, tranne uno, che
si aggiudicava la gara.
Eravamo tutti entusiasti
della musica americana o che
comunque arrivava
dall’America via Radio del
Wheelus Field. Sopratutto le
ragazze. C’era una
trasmissione musicale con
dediche. La sigla era
“Dedicado” ed appena
iniziava il programma, molte
ragazze, mento sulle mani
intrecciate, gomiti sul
tavolo, occhi sognanti,
fissavano la radio,
canticchiando il motivo che
veniva trasmesso. Noi,
cercavamo di imitare gli
americani.
Nell’abbigliamento, con
“jeans” attillati prima, a
zampa di elefante poi, e
capelli a spazzola. Poi la
camicia a maniche corte con
i bordi rivoltati all’insù.
Il colletto rialzato sul
retro. In Lambretta, il
piedino sinistro, appena sul
bordo della predella, con la
punta rivolta verso il
basso.
Complice determinante, la
scoperta e l’inizio
dell’estrazione del
petrolio, gli anni sessanta
furono “favolosi” anche per
noi. L’apertura di nuovi
locali, di nuovi ristoranti,
di alcuni night club, e
sopratutto la nuova gestione
dell’Uaddan, resero più
“dolce la vita“ (ed anche in
questo caso approfitto della
bontà di Fellini).
|
Tripoli
anni '60 -
Casino
Municipale
Uaddan |
Il gruppo Ngà, aveva
trasformato un locale ormai
“in discesa libera” in un
complesso comprendente un
albergo di lusso, un ottimo
ristorante, dove spesso la
cena era allietata da
spettacoli con vedettes
internazionali, una sala da
gioco, che offriva tutte le
attività proprie di un
casinò di prim’ordine, un
cine-teatro, una piscina.
Anche in Italia, non credo
esista un locale come
l’Uaddan ovviamente inteso
non come solo albergo, ma
nel suo complesso.
È in quegli anni, che
abbiamo iniziato ad
apprezzare i cantanti
italiani sopratutto perché,
i nuovi, avevano abbandonato
il genere melenso per quello
brioso, brillante, “urlato”.
Senza nulla togliere agli
altri locali, dell’Uaddan
conservo un bel ricordo ed
un grande rimpianto. Tranne
per la sala da gioco,
“visitata” soltanto quattro
volte, perché dopo, mentre
lavoravo, mentre mangiavo,
mentre cercavo di dormire,
mi sembrava di vedere
continuamente la “pallina”
che girava sui numeri rossi
neri. (Capii che dovevo
pensare ad altro). Nel
cine-teatro, su comode
poltrone, abbiamo visto
anche film di prima
visione nonché l’esibizione
di alcune Compagnie di
teatro italiane tra le quali
quella dialettale di Nino
Taranto. Nel ristorante,
completamente rinnovato,
grandi tavolate con
familiari ed amici. Quasi un
appuntamento fisso, per
supplire alla rinuncia al
casinò, la partecipazione al
bingo che metteva in palio
premi interessanti.
Purtroppo ho sempre
applaudito altri. Spesso la
Direzione presentava la
serata con cena-spettacolo.
Vennero i “Brutos”,
l’incomparabile Mina,
Peppino di Capri, Rita
Pavone, il grande Modugno e
tanti altri. Piacevolissimi
anche i veglioni.
Indimenticabile quel Martedì
Grasso quando, a scegliere
la maschera più bella ed
originale, fu chiamata una
giuria di eccezione
presieduta da John Wayne
con la partecipazione di
tutto il cast del film “Timbuctu”.
Già, perché in quegli anni,
se ricordo bene, furono
girati in Libia tre film.
Quello ricordato, poi la
“Tenda rossa” e “Birra
ghiacciata ad Alessandria”.
Quest’ultimo con finale in
Piazza Cattedrale sotto le
arcate del Palazzo INPS. Il
protagonista (era un film di
guerra), si godeva
finalmente la tanto
desiderata birra ghiacciata
(nello stesso bar dove
spesso con i miei amici
gustavo “la spina” con le
“chips” prodotte dall’Indolibia).
Venne anche Claudio Villa,
ma al Teatro Miramare.
Nonostante il suo genere
musicale fosse, a torto, non
apprezzato da noi giovani,
ebbe un grandissimo
successo. Ci furono sfilate
di alta moda. Al
cinema-teatro Alhambra,
venne anche la Rai
presentando il Festival di
Primavera, uno spettacolo
completo, con la
partecipazione dei “grandi”
del momento. Un nome su
tutti: Mike Bongiorno.
Compagnie di prosa con
Boselli, Quattrini ed altre
attrici ed attori famosi, si
esibirono anche sul
palcoscenico del citato
Circolo Italia. Sempre
grande successo di pubblico.
Tuttavia, mi viene in mente
un aneddoto. Eravamo
abituati a show dove, oltre
alle esibizioni di cantanti,
venivano presentati sketch,
brani musicali, spettacoli
di varietà ecc. Una volta,
invece, si esibì, sempre al
teatro Alhambra, un solo
cantante accompagnato da una
mini-orchestra. Un
“concerto” come quelli che,
attualmente, riempiono
addirittura gli stadi. Ma
allora i gusti erano
diversi. La fama del
cantante aveva fatto
riempire la grande sala del
teatro. La mancanza però di
“numeri” alternativi, aveva
fatto scivolare la
“performance” in monotonia
tanto che, dopo le prime
canzoni, un terzo degli
spettatori aveva abbandonato
alla chetichella la sala. E,
ad ogni altra canzone, il
pubblico, deluso dalla
mancanza di sketch o altri
“numeri”, si assottigliava
sempre più. Io resistetti
per una mezz’ora, poi,
annaspando al buio tra le
pesanti e voluminose tende
rosse che coprivano le
porte, fortunatamente “uscii
a riveder le stelle”. Pare
… che l’ultimo spettatore,
d’accordo con il gestore del
teatro, si fosse avvicinato
al proscenio ed avesse
sussurrato al cantante:
“Guardi, noi ce ne andiamo,
qui ci sono le chiavi del
teatro ... Lei vada pure
avanti ... quando finisce
... chiuda per bene e metta
la chiave sotto lo
zerbino!!!
Non mancavano gli
avvenimenti sportivi,
talvolta con partecipazione
di squadre europee. Calcio,
(venne il Catania, il
Palermo, il Kapfenberg),
pallacanestro, pugilato,
nuoto, atletica, tiro al
piattello, nonché la
scherma, per pochi cultori.
“Speed-way” sulla carbonella
del Molo Sottoflutto e gare
di regolarità degli
scooteristi, negli anni
cinquanta. Da non
dimenticare il ciclismo. Si
svolgevano regolari
campionati sia su pista che
su strada nonché il “Giro
della Tripolitania”.
Volutamente, per timore di
dimenticarne qualcuno, non
ho citato gli atleti ed i
tecnici più famosi. Ma
parlando di ciclismo non
posso non citare Guido Costa
il Tripolino che si fece
tanto onore diventando C.T.
dell’Italia. Caccia, pesca
d’altura e pesca subacquea
erano attività (non ritengo
possano chiamarsi sport) che
vantavano molti proseliti.
Per tutti, poi, gli
stabilimenti balneari: Lido
nuovo, Lido vecchio, Bagni
sulfurei, Beach club,
Underwater club,
Giorgimpopoli, Gargaresh.
Per i più esigenti: il
settimo, il quattordicesimo,
il ventunesimo. Tutti
riferimenti al chilometro
stradale dove si trovavano
spiagge esclusive. Ma ce
n’erano per tutti: la Libia
dispone di duemila
chilometri di spiagge.
Vicino Tagiura, una
spiaggetta con palme alle
spalle: sembrava essere alle
Hawaii. E poi, c’era
l’appuntamento annuale con
la Fiera e con la nave da
crociera jugoslava: la “Jedinsvo”.
Nelle due/tre sere che
rimaneva a banchina, si
poteva cenare nella sala
ristorante dei croceristi,
assistere ad alcune
performance dell’equipaggio
e ballare con musica dal
vivo. La cena? Molto meglio
al “Cigno”, alle “Lanterne”,
al “Romagna”, ma era bella,
la novità.
Tornando agli anni
cinquanta, noi ragazzi non
“sognavamo California” come
i “Dik Dik” ma due erano i
“pallini”: La Lambretta o
Vespa e la ragazza. Lo
scooter nuovo o di seconda
mano era abbastanza
raggiungibile. Qualche
leggera difficoltà in più
per l’altro desiderio.
C’erano, ovviamente ed in
perfetta clandestinità, i
“filarini” soprattutto fra
studenti. La scuola era
forse il solo luogo, insieme
alla spiaggia, che
facilitava gli incontri. Ma
le ragazze aspiravano ai
“grandi” delle ultime classi
e noi sedicenni non potevamo
certo “abbordare” le
ragazzine delle elementari!
Quando poi durante le
festività, tornavano
dall’Italia gli
“universitari”, non c’era
più concorrenza, ma regime
di stretto monopolio.
Si diceva: “Vedi quella
la?”. “Ha il “pollo”. Non ho
mai capito se l’epiteto
offensivo nascondesse pura
invidia verso “il pollo” o
fosse una citazione pietosa,
tenendo conto che, prima o
poi, detti pennuti sarebbero
finiti in padella.
Qualche anno dopo, una
grande ondata di modernità.
Forse con la complicità del
benessere petrolifero, tutto
cambiò repentinamente. Molte
più libertà erano permesse
dai nuovi costumi. Alcune
feste da ballo venivano
organizzate in case private,
benevolmente concesse da
mamme progressiste, ma non
tanto. L’iniziativa era di
pochi volenterosi: uno era
un certo Gaspare (niente
cognome per il rispetto
della privacy). Erano
destinate al “giro”
studentesco. La pila di
libri accatastata in un
angolo, era la prova delle
bugie: stranamente quel
pomeriggio a tutte le
studentesse presenti, era
venuta la voglia di fare i
compiti a casa di Maria, di
Giulia, di Marisa ecc. ecc.
Con dieci piastre, Gaspare
metteva a disposizione un
panino con la mortadella ed
una bibita. Spesso saltava
fuori anche qualche
bottiglia di whisky. Ognuno
portava qualche disco per
arricchire la collezione
dell’ospitante. Ma c’era
poca varietà ed a me non
serviva indovinare “il
tempo”: erano tutti super
lenti. Ognuno si sceglieva
la mattonella privata e ci
ballava su per tutto il
pomeriggio, col rischio di
logorarla. Per evitare
sovraccarichi e rischi di
black-out, qualcuno pensava
di ... risparmiare energia
elettrica, ma la
“progressista” interveniva
con un perentorio: “Diego
... ’aa ... luci!!...”
Per la precisione, tutto
quanto su citato riguardava
il ceto medio-basso al quale
appartenevo ed appartengo.
Io non frequentavo l’High
Society. Ritengo facessero
di meglio perché le uniche
due manifestazioni cui ho
partecipato, in veste di
spettatore, mi avevano
entusiasmato. La prima, un
defilè di moda sul
Lungomare. Sfavillanti
automobili salivano su una
larga pedana in legno
sopraelevata. Una graziosa
“valletta”, apriva lo
sportello lato passeggero.
Una ragazza tanto bella
quanto elegante faceva il
giro intorno all’auto,
quindi risaliva tra gli
applausi. L’auto ripartiva
per cedere il posto a quella
che seguiva. Una bella
manifestazione. La seconda,
una kermesse organizzata nel
salone del Circolo Italia,
dove il “bel mondo”si
alternava alle bancarelle
vendendo, a scopo benefico,
degli oggettini di una certa
raffinatezza.
A proposito di moda, ricordo
che quella di allora,
prevedeva, per le ragazze,
gonne a campana tanto ampie
che, la confezione,
richiedeva un’intera
“pezza”. A gettare sul
lastrico i negozianti di
tessuti, ci pensò Mary
Quant: con un metro, altezza
120, se ne facevano tre.
Un rebus, mai risolto era
quello delle domeniche
mattina. La mia Chiesa era
la Madonna della Guardia in
Corso Sicilia, ma la
domenica preferivo la
Cattedrale nella piazza
omonima. Alla fine della
Messa, la maggioranza degli
uomini di media età, tutti
rigorosamente in abito scuro
e cravatta, provvedevano
all’acquisto di due cose:
una guantiera di paste ed il
giornale. Per quanto
riguarda le paste, il loro
acquisto non doveva
ritenersi un’offesa fatta
alle rispettive
pasticcere-consorti, ma una
cortesia perché non
faticassero anche la
domenica. E la cosa era
comprensibile. Ma il motivo
dell’acquisto del “Corriere
di Tripoli” solo la domenica
era, per me, un rebus. Il
“Corriere” era un quotidiano
e non riportava, la
domenica, il riassunto delle
“puntate precedenti”.
Evidentemente, costoro,
ritenevano che durante la
settimana non succedeva
niente e che soltanto il
sabato si scatenavano gli
avvenimenti. Felici,
tornavano a casa. Nella mano
sinistra il fiocchetto che
teneva sospesa la confezione
delle paste, il giornale
sottobraccio destro. Agli
inizi dei “cinquanta”, un
altro appuntamento fisso
era, per me, il film-matiné,
al Cinema Alhambra, la
domenica. Anche in questo
caso, preferivo i film
americani. Non essendo
critico d’arte, ma solo
sprovveduto spettatore, ero
stufo di vedere film di
produzione italiana dove la
miseria era sempre
protagonista insieme al
solito bambino sul vasetto
nonché la solita “sedotta e
abbandonata” oppure la
moglie ritenuta fedigrafa a
torto e quindi, riabilitata
tra le lacrime, per il lieto
fine. Tuttavia qualche
volta, insieme ad un
gruppetto poco
raccomandabile, andavo di
proposito ad assistere a
tali film. Prendevamo posto
nell’ultima fila, pronti a
repentina fuga, e
sacrificando l’intera
paghetta settimanale: la
sera il biglietto era molto
più caro. Quando i
fazzoletti cominciavano ad
inumidirsi, quando sentivamo
i nasi che “tiravano su”,
quando le vecchiette
indirizzavano tra i denti
ingiurie al cattivo ...
“disgraziato ... maledetto”
oppure suggerimenti “guarda
che non è vero ... lei è
innocente!” e dolci parole
alla “ingiustamente ritenuta
fedigrafa”: ... “poverina,
coraggio ... ma diglielo che
non è vero!”. Quando la
storia era al culmine del
pathos ed il silenzio in
sala era rotto da disperati
singhiozzi, da quell’ultima
fila partiva una
irriguardosa, fragorosa
risata. Ci divertivamo con
poco. Del resto, tornando
con la mente all’immediato
dopoguerra, i nostri
giocattoli erano di una
modestia estrema. Un vecchio
cerchione di bicicletta
privo di raggi ed un pezzo
di legno per governarlo,
erano sufficienti per
appassionanti gare. Poi si
giocava a … baseball:
un pezzo di legno di
dieci/dodici centimetri
veniva appuntito alle due
estremità e veniva collocato
a terra sul “campo di gara”.
Con un altro legno si
colpiva una prima volta una
delle due parti appuntite e
quando il legnetto balzava
in alto, con lo stesso legno
lo si colpiva una seconda
volta con veemenza. Una
specie di “baseball”. Poi
c’era lo scambio di
figurine. Siccome passavano
di mano in mano con
velocità, e siccome le
manine non erano proprio
candide, le “contrattazioni”
venivano presto sospese
perché dopo molti passaggi,
le figurine, sembravano
tutte uguali.
La guerra aveva lasciato
tante carcasse e da queste,
mani esperte, avevano
estratto cuscinetti a sfere
di diverse dimensioni. Essi
erano il materiale
indispensabile per la
costruzione di carretti in
legno, per gare di alta
velocità. Una tavoletta di
circa cm. 40x60, un asse in
legno inchiodato sotto, nel
retro, alle cui estremità
venivano montati due
cuscinetti a sfere. Il
manubrio sempre in legno,
sotto, nella parte anteriore
e, al cui centro, veniva
montato, con un piccolo
lavoro di ingegnosa
falegnameria, un unico
cuscinetto tassativamente
più grande dei due montati
sul retro. Con più o meno la
stessa tecnica, il
monopattino, per i più
fortunati, perché la
costruzione richiedeva
anche supporti e staffe in
ferro non facilmente
reperibili. Come gioco
“sedentario” c’erano le
boccette. Erano in
terracotta rossastra e le
chiamavamo “picce”. Uno di
noi era specialista in
costruzione di piste. Quindi
gare a non finire fin quando
non arrivava l’ordine di
rientrare per “fare i
compiti”. Qualsiasi terreno,
poteva trasformarsi in pochi
minuti in campo di calcio.
Giubbotti e scarpe
(giocavamo scalzi) servivano
per delineare “i pali”
mentre per la “traversa” in
caso di “palloni” alti, il
tutto era lasciato ad accese
discussioni. Un ciclista
riusciva a fabbricare delle
palle incollando, col
mastice, quattro spicchi di
gomma ricavati da camere
d’aria di camion. Non so
come facesse ad immettervi
l’aria, ma so che duravano a
male pena una partita. Dal
buco creato dai calcioni,
inserivamo degli stracci a
pezzetti. Si otteneva una
palla molto dura da calciare
al punto che se, per errore,
si prendeva una pietra, non
si notava tanto la
differenza. E si giocava
scalzi perché le scarpe
erano uniche, per tutte le
stagioni e, risuolate,
sarebbero passate ai
fratelli più piccoli. Poi
c’era il “gioco d’azzardo“.
Si lanciava una moneta
contro un muro con lo scopo
di farla “atterrare” sulla
moneta dell’avversario. In
caso di successo la moneta
avversaria era appannaggio
del lanciatore. In caso
contrario, era l’avversario
che la lanciava e così via.
Poiché le monete erano molto
scarse nelle nostre tasche,
per vincere un Mal
(la lira aveva lasciato il
posto a questa moneta)
bisognava conseguire almeno
dieci lanci utili.
Infine c’era la mitica
“zarbuta”. Un trottolino di
legno colorato sul quale
veniva avvolto uno spago. Si
prendeva l’estremità dello
spago e si lanciava la
zarbuta con violenza.
Quindi, mentre roteava,
bisognava prenderla sul
palmo della mano e, prima
che esaurisse la sua
roteazione, bisognava
colpire quella avversaria
fino a farle oltrepassare
una riga tracciata sul
terreno. Alla zarbuta
perdente venivano inferti,
con il chiodo-perno, su cui
essa roteava, tanti colpi,
quanti se ne erano
stabiliti. Con più
sconfitte, la zarbuta veniva
spaccata in due. Al
“chiuso”, giocavamo ad una
specie di calcio da tavolo.
Gli undici giocatori erano
altrettanti tappi a corona.
La palla veniva “passata” a
colpi di dito medio e le
regole erano quelle del vero
gioco. Il mio undici era
formato da tappi di Kitty
Cola. Le ragazze (le femmine
secondo noi), saltavano su
una corda fatta roteare da
altre due, intonando
cantilene. Altre, rigavano
il terreno con un sasso
appuntito ricavando una
grossa croce divisa in
quadrati. Poi lanciavano su
questi una pietra e
saltellavano … brontolando
qualcosa. Dicevano di
giocare a “carrè”. La
maggioranza, però, giocava
“alle signore”. Alcune
avevano bambole che dovevano
sembrare bambini. Altre,
avevano degli stracci che
dovevano sembrare bambole
che dovevano sembrare
bambini. Appena ci
avvicinavamo smettevano di
parlare, ma qualche volta,
furtivamente, ho captato
qualcosa. Erano sempre le
stesse frasi. Innanzi tutto
si atteggiavano a mamme
tutte compite, tutte serie
poi “Signora, anche la sua è
cattiva?” “Signora, non me
ne parli! La mia è
capricciosa, certe volte
insopportabile, guardi ha
già iniziato a piangere!”
Poi passavano a “Signora,
lo prende un tè?” Il tutto
poi, siccome non c’erano né
tè, né tazzine, veniva
mimato con estrema cura.
Alla fine degli anni
cinquanta, arrivarono i
calcio balilla ed i flipper.
Credo che l’unica utilità di
quest’ultimi sia stato il
coniare il termine “tilt”
che nel linguaggio comune
significa perdere
momentaneamente coscienza in
seguito a scombussolamenti.
Arrivarono i jukebox ed
arrivò il 27 dicembre del
1959 che, per me, era il
conseguimento dei famosi
ventuno anni tanto attesi.
Era la maggiore età, allora.
Sembrava non arrivassero
mai. Chissà che cosa pensavo
di fare! Invece non ho fatto
niente di eccezionale e da
allora il tempo è passato
troppo velocemente lasciando
il rimpianto per le cose che
avrei potuto fare e che non
ho fatto. Negli anni
dell’immediato dopoguerra ed
i “cinquanta”, avevamo molto
poco, quasi niente. Ma
eravamo contenti lo stesso.
Perché avevamo quel bene che
si può godere una sola volta
cioè la gioventù o perché,
forse, il mondo, a guerra e
dittature finite, era
migliore. O tutte e due le
cose.
Ripensando a quei tempi
andati, continuavo a girare
e rigirare, tra le mani, il
vecchio 45 giri. Poi ho
avviato l’altrettanto
vecchio giradischi.
Era “Cherry Pink and Apple
Blossom White” il “Ciliegi
rosa” di Perez Prado, il re
del Mambo.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla
rivista “l’oasi” nel
Numero1/2005 - Gennaio –
Aprile 2005)