“Naàmlu Scià-hi?”
A questa domanda, o a quella in
dialetto “Ndiru Scià-hi?”
(facciamo, il tè?), in ventisei
anni trascorsi in Libia, non ho
mai sentito rispondere “no”, “no
grazie”. Nel silenzio, tanto
logico quanto inutile era la
domanda, qualcuno abbozzava
soltanto un “Màsci”, “Iàlla”,
“Béhi”, “A-ya”, cioè di
piena, ovvia, approvazione.
Chi aveva lanciato la proposta,
si accovacciava davanti ad un
minuscolo tavolinetto di circa
40 centimetri per 30, alto una
decina, e con un bordino di 5 o
6 centimetri che serviva a
proteggere barrade e
bicchierini dal rovesciamento.
Quindi iniziava ad accendere il
fuoco nel “kanun”: un
fornello di terracotta con in
alto alcuni fori che restavano
al disopra della sabbia di cui
era pieno. Il kanun
terminava, in alto, con
tre/quattro punte che servivano
per appoggiare la pentola in
caso di suo uso in cucina. Per
il tè non servivano, perché la
barrada andava
tassativamente posta sui tizzoni
ed il “Maitre à thé”
l’appoggiava assestandola con
movimenti simili a quelli della
chioccia quando si sistema per
la covata. Non più di due
pezzetti di carbone tenuti
ardenti prima con grande
soffiate, poi con l’uso di un
ventaglio di paglia che
sembrava una piccola bandiera.
L’armamentario era quindi
composto dal tavolinetto, dal
citato kanun, da
una barrada grande
(samovar) ed una più piccola,
ambedue in ferro smaltato: blu
scuro all’esterno, bianco
all’interno. Un pezzo quadrato
di latta con alcuni fori
“artigianali”, alcuni
bicchierini di vetro molto
particolari: alti circa 5
centimetri, cilindrici, ma con
la base più piccola
dell’apertura, sotto la quale,
ben marcati, due giri di
zigrinatura. Un vassoio di
ottone rotondo, una tazza
piuttosto grande, spesso di
alluminio, e le “materie prime”:
tè rosso, zucchero, arachidi che
lì chiamano “cacawùia”,
una gorgoletta piena d’acqua e
null’altro.
Una cosa ritenuta inutile:
l’orologio. Il tempo non contava
niente e ciò giustifica perché
due soli pezzetti di carbone.
Del resto il tè alla libica, o
meglio, alla tripolina è una
specie di rito, è un modo per
conversare, è un’assemblea di
amici. Tutti raccontano tutto di
tutti e gli argomenti passano
dallo sport, al commercio, alla
situazione dei vari mercati, ai
raccolti, agli eventi
atmosferici, a matrimoni e
funerali di parenti e
conoscenti.
Il mondo è troppo grande, ma ho
avuto la fortuna di aver
visitato molti Paesi. Mai, fuori
dalla Tripolitania, ho
partecipato o visto fare lo
scià-hi in questo modo, pur
essendo, il tè, una bevanda
forse più popolare del caffè. In
Marocco, Tunisia, Egitto,
Emirati, Libano, Giordania,
Saudia ecc. ecc., nei bar, nei
caffè, al termine di un pasto,
due minuti dopo essere entrati
nel classico negozio di tappeti,
o nelle più che ospitali case
private, viene presentato
immediatamente un bicchiere di
fumante tè alla menta. Ottimo,
ottima la presentazione,
lodevole il gesto ospitale, ma
niente a che fare con lo
scià-hi alla Tripolina la
cui preparazione cercherò di
spiegare e che qui di seguito
chiamerò semplicemente
scià-hi. Proverbiale il tè
che alle cinque pomeridiane
raduna gli Inglesi nel salotto
buono, o li fa incontrare nelle
sale da tè. Ottimo, fa tanto
British, ma lo scia-hi
è un’altra cosa. Una grande
cerimonia in Cina. In Giappone
ci aggiungono anche le
ghéisce. Ottimo il tè,
brillante l’idea del
cerimoniale, incomparabile la
grazia e lo charme delle vestali
del tè, ma lo scià-hi non
ha paragoni.
Oltre che occasione d’incontro,
l’usanza dello scià-hi,
trova un riscontro quasi
sindacale nei luoghi dove c’è un
certo numero di operai o
impiegati sopratutto nei lavori
all’aperto o nelle grandi
fabbriche e industrie. Un po’
come l’italiana “pausa caffè”.
Ricordo che quando era in
costruzione un importante
edificio, il rappresentante a
Tripoli di una grande società
italiana che aveva vinto la gara
d’appalto, chiese i miei buoni
uffici affinché intercedessi
presso il proprietario che era
anche il mio Presidente nonché
grandissimo amico. Voleva un
aumento dell’importo pattuito
perché aveva sbagliato nel
valutare capacità e dinamismo
della manovalanza locale.“Ma
lo sa”, disse come se mi
svelasse qualcosa che io non
avrei mai potuto immaginare, “ma
lo sa, che ho dovuto assumerne
uno, solo per fare il tè?”.
Il Maitre à thé dopo aver
acceso il fuoco, versa nella
barrada grande, una quantità
d’acqua che il “suo occhio”
ritiene sufficiente per gli
astanti e per qualche eventuale
nuovo ospite.
Contemporaneamente, alcuni
cucchiaini di tè rosso (cioè di
preziose foglioline di tè che,
da verdi, diventano quasi nere
in seguito ad essiccazione e
tostatura negli stabilimenti di
trasformazione). Fa bollire il
tutto fino ad ottenere un primo
tè molto forte, molto scuro. Lo
versa quindi nella barrada
piccola dove ha messo poco
zucchero. Per sciogliere il
quale e per creare la
caratteristica schiuma, inizia a
travasare più volte la bevanda
dalla barrada alla tazza
di alluminio distribuendo la
schiuma ottenuta nei vari
bicchierini. Quindi ultima
scaldata e distribuzione del
“primo tè”. I bicchierini non
sono mai sufficienti perché
normalmente la dotazione è di
tre/quattro esemplari quando non
è addirittura di uno soltanto.
Egli si presenta davanti
ciascuno degli ospiti, mette il
bicchierino sul vassoio, punta
il “becco” della barrada
sul bicchierino quindi inizia a
riempirlo alzando
progressivamente la barrada
fino a circa 60 centimetri.
Oltre a mano ferma, è necessaria
una grande abilità perché il
Maitre non ne perde nemmeno
una goccia e questa “cascata”
con inizio dal basso crea la
schiuma desiderata. Per il
“secondo”, versa nuova acqua
nella barrada grande
senza aggiungere altre
foglioline di tè ma utilizzando
quelle della prima tornata. Il
“secondo” sarà quindi molto meno
scuro del primo e leggermente
più dolce. La distribuzione
uguale alla prima. Prima di
iniziare la preparazione del
terzo ed ultimo tè, il
Maitre, usando la latta
forata, provvede ad abbrustolire
la “cacawùia”. Senza
aggiunta di nuove foglie di tè
ma utilizzando quelle del primo
e secondo e con dosi maggiori di
zucchero, ottiene un tè color
miele molto dolce che serve
sempre col solito sistema
aggiungendo un cucchiaino di “cacawùia”
abbrustolita. Ma nel frattempo,
i presenti hanno già discusso di
molti argomenti e qualche volta
anche stipulato affari. Un’altra
particolarità non certo
secondaria è il modo con cui lo
scià-hi va bevuto. Non
con piccoli delicati sorsetti ma
dovrebbe essere letteralmente
aspirato causando quel “rumore”
classico del mangiare minestre o
brodi con il cucchiaio senza
badare troppo al galateo. Debbo
dire che bere lo scià-hi
con questo sistema
dell’”aspirazione” ne moltiplica
il gusto. Chi vuole provare per
credere, girerà verso il muro
l’eventuale ritratto di Giovanni
Della Casa, metterà fuori della
porta il cartello “Non ci sono,
torno presto” e potrà così
gustarsi il suo scià-hi
con rumorose aspirazioni lontano
da occhi ed orecchie indiscrete.
Noterà la grande differenza nel
gusto.
Agli inizi degli anni sessanta,
in Sciara Errashid vi era una
piccola botteguccia dove
venivano serviti, in
continuazione, i tre giri
classici dello scià-hi. I
clienti dei vari grossisti della
zona, fatti gli acquisti, prima
di ritornare ai propri villaggi,
si accovacciavano in cerchio e
via alle chiacchiere
intervallate dai bicchierini.
Una volta, trovandomi a passare
per caso, alcuni amici mi
invitarono a partecipare allo
scià-hi che si apprestavano
a fare. Ammirato dall’abilità
con cui il Maitre
riusciva a centrare il
bicchierino senza perdere una
sola goccia nonostante versasse
lo
scià-hi da una distanza di oltre 60
centimetri, chiesi di provare.
Ebbi l’accortezza di stare ad
una certa distanza e questo mi
evitò di pagare la lavanderia a
tutti i presenti. Neanche una
goccia nel bicchierino, ma
scià-hi dappertutto. Uno di
loro mi disse che come mestiere
non potevo fare il Maitre à
thé, ma il comico sì, e
continuò:
“Tu che mestiere fai?”
“Ana Muhasib, (sono ragioniere)”
“Allora sai fare i conti, sei
forte in matematica!” -
Spiegazioni che la ragioneria
era una cosa, la matematica
un’altra non servirono a nulla.
Dovevo risolvere un problema per
dimostrare che meritavo il
titolo. Quindi iniziò:
“Un giorno un padre sentendosi
prossimo alla morte riunì i
suoi tre figli e disse che
voleva lasciare loro, in
eredità, tutto quello che
possedeva cioè diciassette
dromedari. Al maggiore ne
lasciava 1/2 (un mezzo), al
secondo 1/3 (un terzo) ed al più
piccolo 1/9 (un nono).
Il vecchio non era soddisfatto
dei suoi figli, li riteneva
inetti e svogliati. Voleva che
risolvessero il problema
rendendosi meritevoli del
lascito.
“Ricordate che nessun dromedario
dovrà essere macellato per
rendere possibile la divisione
dell’eredità. Se non riuscirete
a risolvere il problema entro
dieci giorni dalla mia morte,
tutti i dromedari dovranno
essere consegnati in beneficenza
ai “Beni Auqaf” ed a voi non
andrà nulla”.
“Ma padre! Com’è possibile
ripartire i dromedari secondo le
tue volontà senza macellarne
alcuno!”.
“Non è necessario ... il
dromedario va ... a chi è più
... vicino ... a ...”
Non aveva finito la frase che
spirò. I figli non riuscirono a
risolvere il problema, volevano
assolutamente rispettare la
volontà del loro padre ma si
rendevano conto che, in caso di
mancata soluzione, rimanevano
privi dell’unico mezzo che
avrebbe permesso loro di
lavorare. L’ultimo giorno utile,
decisero di andare dal saggio
del villaggio di buon mattino.
Il padre li aveva
invitati a risolvere il problema
ma non aveva vietato loro che
chiedessero consiglio ad altri.
Il saggio ascoltò con
attenzione, si fece ripetere più
volte le ultime parole
pronunciate dal padre morente
quindi disse loro:
“Andate a prendere i diciassette
dromedari e portateli qui da me
prima che scada il termine
stabilito da vostro padre perché
ho trovato la soluzione”.
A questo punto venivo chiamato a
darla, questa soluzione. Ma ho
dovuto “arrendermi” lasciando
intendere che il diploma, forse,
mi era stato rilasciato con una
certa ... leggerezza! Quindi il
mio interlocutore gongolante
disse:
Quando i tre fratelli
ritornarono con i loro
diciassette dromedari,
trovarono, nella piazzola
antistante la tenda del saggio,
un dromedario con un nastro al
collo. Alla loro domanda, il
saggio rispose:
“Quel dromedario è mio. Per
distinguerlo, gli ho messo un
nastro al collo. Ora i dromedari
sono diciotto e la divisione
sarà possibile”.
“Signore, noi ti ringraziamo, ma
non possiamo accettare un tuo
dromedario, né abbiamo denari
per acquistarlo”.
“Non dovete preoccuparvi, io non
vi regalo né voglio vendervi il
mio dromedario. Piuttosto
sbrigatevi a dividervi i
dromedari perché il tempo
stabilito da vostro padre sta
giungendo al termine. Tu che sei
il più grande ed hai ereditato
un mezzo: diciotto diviso due,
nove. Prendi i tuoi nove
dromedari e vai. Tu invece che
hai ereditato il terzo: diciotto
diviso tre, sei. Prendi i tuoi
sei dromedari e vai. Tu invece
che sei il minore ed hai
ereditato solo un nono: diciotto
diviso nove, due. Prendi i tuoi
due dromedari e vai. Come potete
vedere è rimasto il mio
dromedario che mi riprendo con
gioia. Infatti nove più sei, più
due fa appunto diciassette, il
numero dei dromedari di vostro
padre”.
I tre fratelli se ne andarono
esterrefatti ritenendo il saggio
un mago. Ma il saggio facendosi
ripetere più volte le ultime
parole del vecchio, capì che ...
il dromedario va ... a chi è più
... vicino...
all’unità cioè “per
arrotondamento”. Ma aveva anche
capito che era inutile spiegarlo
a quei giovani, per cui escogitò
quell’espediente.
“Mentre tu che mestiere fai?”.
Chiesi a mia volta a chi mi
aveva messo in difficoltà.
“Io sono un guardiano, un
guardiano notturno presso una
Ditta di trasporti”.
“Bene, allora tocca a te
risolvere questo indovinello:
Un ricco commerciante, aveva
alle sue dipendenze un guardiano
notturno verso cui nutriva stima
e grande fiducia. Una
sera il commerciante attese
che il guardiano arrivasse per
potergli consegnare le chiavi
degli uffici interni: l’indomani
doveva infatti prendere
l’aereo per recarsi all’Estero
per affari e lo incaricava di
aprire gli uffici agli impiegati
prima di lasciare il suo posto
al guardiano di giorno.
L’indomani, il ricco
commerciante stava per uscire di
casa quando il guardiano
arrivò trafelato pregandolo,
scongiurandolo di non partire.
Infastidito, il commerciante
chiese spiegazioni.“Ho
sognato stanotte che l’aereo
cadeva e non c’erano
sopravvissuti! La prego non
parta, i miei sogni si avverano
quasi sempre!”.
Il commerciante lo cacciò in
malo modo ma, rimasto solo, ebbe
meno baldanza anche perché, un
certo timore nel
prendere gli aerei, l’aveva.
Decise di posticipare il viaggio
alla settimana successiva. Ma la
sorpresa doveva giungere
poche ore dopo quando la radio
annunciò che l’aereo che avrebbe
dovuto prendere, si era
inabissato con tutto il suo
carico di vite umane. Lieto
di essere praticamente nato una
seconda volta, il commerciante
prelevò dalla sua banca una
grossa somma e si recò a casa
del suo guardiano.
“Ti ringrazio, tu mi hai salvato
la vita! Ti prego di accettare
questa mia offerta di denaro in
segno della mia gratitudine ...
però ... vedi ... sono costretto
a licenziarti ... mi dispiace
molto ... ma ...”
“Dimmi tu, adesso. Risolvi
l’indovinello: perché pur
avendogli salvato la vita fu
costretto a licenziarlo?”.
Salah, l’amico dell’indovinello
dei dromedari, ci pensò qualche
minuto e rispose: “Perché era
un menagramo, un porta sfortuna!
E tutti i presenti
annuirono.
“No” dissi, “è stato licenziato
perché non faceva il suo dovere!
Era un guardiano notturno e i
guardiani notturni devono essere
più che svegli! … altro che fare
sogni!”.
Ci fu una pausa di riflessione,
poi uno degli astanti mi disse:
“Vedi, Salah non avrebbe mai
potuto indovinare ... fa il
guardiano notturno, come ti ha
detto, ma dorme tranquillamente
anche lui ... non gli poteva
venire in mente ... che il
guardiano potesse essere
licenziato per questo!
Offeso Salah, tutti gli altri a
ridere.
P.S.
Seppi, in un secondo tempo, che
Salah, avendo imparato la
lezione, si affrettò a dare le
dimissioni da guardiano
notturno. Gli amici lo ritennero
un gesto di grande onestà, non
potendo egli svolgere bene il
suo lavoro, essendo il sonno più
forte di lui. I maligni, invece,
pensarono che avesse preso
quella decisione per non far la
fine del guardiano
dell’indovinello. Tutti però lo
videro dietro al tavolinetto, al
kanun e alle barrade, in una
grande industria. Era diventato
un Maitre à thé.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista
“l’oasi” nel Numero1/2005 -
Gennaio – Aprile 2005)