Soltanto alla fine dell’estate del 1952,
la mia famiglia diventò Tripolina (io lo
ero già da qualche tempo, ma da
“pendolare“). Dopo due anni e qualche
mese di Cirenaica, dove sono nato, dopo
il peregrinare dal gennaio del 1941 come
profugo (o come “sfollato” come venivamo
chiamati) per tutta la Penisola
iniziando da Catania, finalmente, nel
novembre 1946, sbarco a Tripoli dalla
nave “Giuseppe Miraglia”
La nave
appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia |
e ricongiungimento con
mio padre, unico nostro congiunto
rimasto in Libia durante la guerra.
Qui ci furono due punti di vista: per
noi tutti, ritorno alla terra d’origine
e, come detto, ricongiungimento
familiare. Per le Autorità Britanniche,
sbarco di clandestini indesiderati e, di
conseguenza, breve sosta al Campo di
Concentramento di Porta Benito. Non
ricordo come e perché il tutto si
risolse, fortunatamente, in pochi
giorni. Mio padre mi disse che dovevamo
riconoscenza al Vescovo, ritengo fosse
Monsignor Facchinetti. Quindi a Nalùt,
dove mio padre lavorava, (1946-1948),
poi il trasferimento a Ghariàn fino
all’estate del 1952. Avevo fatto il
“pendolare” tra Ghariàn e Tripoli per un
paio d’anni per motivi scolastici. (A
Ghariàn c’erano solo le elementari).
Quando anche mio fratello iniziò le
medie, il trasferimento definitivo a
Tripoli, con residenza fino al 15
ottobre 1970, cambiando, ben sette
volte, abitazione. Le ultime due, da
sposato. Tralasciando i disagi relativi
agli involontari traslochi, lo ricordo
con una certa soddisfazione e non perché
a Tripoli fosse difficile trovare case
in affitto ma perché era semplicemente
impossibile. (Ovviamente mi riferisco
alle abitazioni alla portata delle
nostre risorse finanziarie). La
richiesta superava di gran lunga
l’offerta perché, subito dopo la guerra,
molti italiani già residenti in
Cirenaica, si trasferirono a Tripoli e
molti altri, dalle campagne, fecero
altrettanto. Anche molti libici presero
casa in città, trasferendosi dai paesi
vicini. Forse con dispiacere perché
costretti a lasciare abitazioni più
adeguate alle loro famiglie numerose, al
loro stile di vita ed alle loro
abitudini.
La nostra prima abitazione fu in via
Donizetti. Provvisoria, ospiti dei
coniugi Frassinelli da noi conosciuti
durante la permanenza a Nalùt. Via
Donizetti era la penultima via a
sinistra imboccando via Raffaello
provenendo da Giaddat Omar El Mukhtar.
Oltre, c’era il cimitero musulmano e la
via a destra conduceva al mitico Cinema
Gaby nonché al famoso quartiere “delle
case operaie”. Risale a quell’anno
l’incontro con Gianni Manuli e Guido Di
Gloria abitanti nella stessa via e
compagni
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Gianni Manuli, ultimo a
destra |
Gianni Manuli, primo a
sinistra |
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Guido Di Gloria, ieri |
Guido Di Gloria, oggi |
insieme ad altri nella squadra
di calcio “Ambrosiana”. Nome che tradiva
la mia simpatia per l’Inter. I
pantaloncini erano quelli neri usati per
la ginnastica e le magliette delle
semplici “T-shirt” bianche sulle quali
la pazienza di mia madre aveva cucito
alcuni “automatici” che servivano per
attaccarci uno stendardino rosso con la
“A” di “Ambrosiana“, opera di mia zia,
valente ricamatrice. Per la cronaca
l’Ambrosiana si sciolse per un motivo
banale: … mancanza di vittorie e
mancanza di pareggi. Alcuni suoi
giocatori, però, fecero “carriera” in
squadre importanti: il citato Manuli,
D’Amico ed altri di cui non ricordo i
nomi.
La casa di via Donizetti era la tipica
costruzione arabo-popolare: solo piano
terra, finestre protette da
musharrabie (sono quelle grate che
proteggono le donne di famiglia da
sguardi indiscreti), cortile interno
dove si “affacciavano” tutte le stanze e
dal quale proveniva la luce solare. Una
scala interna collegava il cortile con
il terrazzo che serviva soltanto per
stendere la biancheria.
Un giorno, mia madre mi mandò in
terrazzo a ritirare la biancheria
asciutta. Proteste vivaci per quello che
ritenevo un lavoro “da femmine”, ma
giorno fortunatissimo. Il terrazzo non
era piastrellato ma aveva uno strato di
catrame che avrebbe dovuto renderlo
impermeabile. E forse anni prima lo era,
in quanto, all’epoca dei fatti, era
pieno di spaccature: sembrava la crosta
di una grande pagnotta. Ma il problema
non si proponeva perché, purtroppo,
pioveva molto poco.
Mentre raccoglievo le lenzuola
borbottando, guardando verso il terrazzo
della casa di fronte, vidi una ragazza
libica, a volto scoperto, che faceva
anch’ella il mio lavoro. La distanza era
di circa sei, sette metri quindi la
potevo vedere bene. Stava per andarsene,
neanche avesse visto il diavolo, quando,
inciampando maldestramente sul lenzuolo
che non riuscivo a piegare, complice uno
dei “crateri” dello strato di catrame,
feci un ruzzolone, probabilmente molto
goffamente, che la fece ridere di gusto.
Benedetta caduta! Ero rimasto subito
affascinato da quella ragazza e lei
doveva averlo capito. Appena mi fui
ripreso da caduta fisica e “sbandata”
morale, stavo per dirle qualcosa ma me
lo impedì portando l’indice sulle labbra
invitandomi al silenzio. Evidentemente
aveva timore che qualcuno di casa sua
sentisse. Da quel giorno e per tanti
giorni che seguirono, avevamo un
appuntamento fisso. Dire che era
bellissima, almeno agli occhi miei,
sarebbe riduttivo. Aveva i capelli
nerissimi molto lunghi, che preferivo
quando li raccoglieva in un’unica
treccia, una carnagione leggermente
olivastra, denti bianchissimi, ma
l’ottava meraviglia erano gli occhi.
Passavamo così ogni giorno, purtroppo
non oltre una decina di minuti, mimando
domande e risposte. Facevo finta di
capire “fischi per fiaschi” per farla
ridere ed ammirare la sua espressione
divertita. Avevo avuto in precedenza
alcune simpatie verso vicine di casa o
compagne di scuola, ma quella era una
brutta cotta soprattutto perché, dopo
una quindicina di giorni, la “tresca”
fu scoperta. All’improvviso salì una
donna, forse la madre. Non feci in tempo
a nascondermi accovacciandomi sotto il
muretto di protezione della terrazza.
Non la vidi più. Dalla sua casa uscivano
talvolta due, tre donne insieme e,
secondo costume, erano tutte coperte
dalla testa ai piedi. In Libia non si
usava il burka, ovviamente, ma il
rdé (barracano da
donna). Fasciava tutto il corpo e due
lembi superiori, opportunamente
trattenuti dalle mani, lasciavano spazio
ad un solo occhio. Lei non usciva mai.
Ne sono sicuro perché avrei riconosciuto
quell’occhio su un milione.
Per quei castelli in aria che si fanno a
14 anni, non tenendo conto delle enormi
difficoltà e dell’insormontabile
problema della diversa religione, decisi
di rivederla ad ogni costo. Ed erano
proprio “castelli in aria”! Le donne
libiche si sposavano giovanissime. Era
il padre che aveva l’ultima parola nella
scelta dello sposo che normalmente era
un parente, spesso un cugino. Doveva
essere libico, tassativamente musulmano.
Se poi la famiglia era berbera, essere
libico e musulmano non bastava: anche lo
sposo doveva essere berbero. Il padre a
cui spettava l’insindacabile decisione,
da quel momento, non si interessava
quasi più. Non sarebbe andato alla
cerimonia nuziale ed avrebbe rivisto la
figlia non prima di un anno dalle nozze.
Almeno in quegli anni. Adesso, mi
dicono, usanze e costumi sono
radicalmente cambiati. Nonostante
conoscessi benissimo le “regole” su
menzionate, avevo “solennemente” deciso:
o lei o nessuna!
Trasformai quindi una semplice
conoscenza in amicizia con un ragazzo
che poteva avere la mia stessa età e che
entrava ed usciva da quella casa.
Probabilmente un fratello, pensai. Lo
avevo conosciuto qualche tempo prima.
Un paio di volte alla settimana,
annunciato da un chiassoso scampanellio,
passava, nella nostra via, un pastore
con una decina di capre con manto color
nocciola, con barbetta e pelo lungo.
Vendeva il latte a domicilio: dal
produttore al consumatore. Un giorno non
fidandomi dell’igiene del suo secchio,
pretesi che la mungitura avvenisse
direttamente nella mia bottiglia.
Borbottò per un quarto d’ora ma poi mi
accontentò. Si era già allontanato
quando questo ragazzo mi fece notare,
ridendo, che nella mia bottiglia c’era
più schiuma che latte e che ero stato
imbrogliato. Come una furia raggiunsi il
pastore, ma nella corsa, altro latte si
versò e le tracce del prezioso liquido
sulla strada, furono il pretesto, per il
pastore, non solo di non accontentarmi
per la seconda volta, ma di cacciarmi in
malo modo. Allora fui io a borbottare
fra le risate sia del pastore sia di
quello che, allora, non immaginavo
certo, potesse, un giorno, diventarmi
utile. Ma fu semplice illusione.
È norma, secondo l’etica, non chiedere
mai notizie sui componenti femminili
della famiglia. Però speravo che una
volta tanto ricambiasse gli inviti che
gli facevo, ospitandolo, spesso, a casa
mia. Niente da fare. Ma l’amicizia
continuò ed, un bel giorno, non ricordo
per quale motivo, la conversazione ebbe
come argomento le bevande. Allora non
erano arrivate le varie “cola”. Né le
più famose Coca-Cola, Pepsi-Cola né le
meno celebri Kitty Cola, Doctor Cola, e
nemmeno i vari Verygud, Sinalco, Fanta,
Mirinda, ecc.
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Coca Cola |
Kitti Kola |
Sinalco |
Fanta |
Mirinda |
per
cui mi promise che mi avrebbe fatto
assaggiare un’ottima bevanda: il
làghbi. Senza dirmi che cosa fosse
esattamente.
Una sera mi disse che era giunto il
momento: la mattina dopo al fajer
(alba) dovevo essere già fuori della
porta con la bicicletta.
L’indomani, attraversammo tutta la città
e pedalammo di buona lena per circa
un’ora e mezza fino a raggiungere un bel
palmeto. Ci saranno state una
cinquantina di palme e, in centro, un
pozzo. Il classico pozzo libico: due
muri alti costruiti “a scala” che
terminavano a triangolo attraversati da
un’asse con al centro una puleggia.
Sulla puleggia scorreva la corda alla
cui estremità, un secchio, che aveva
sostituito la più classica kirba
(otre di capra).
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Pozzo libico |
Fermo sul ciglio della
strada un signore, sulla cinquantina,
vestito con i costumi nazionali. Mi
venne incontro ed iniziò con il
“cerimoniale”. Come stai?… come sta tuo
padre ... come stanno i tuoi fratelli
... come stanno “a casa” (intendeva mia
madre). Ricordo che, secondo l’usanza,
non si potevano mai menzionare in modo
diretto i componenti femminili della
famiglia ad eccezione di persone anziane
ed allora: Scinu hala el-azuza?
el-Haggia? Poi terminato “il giro
del parentado” si ricominciava daccapo:
E … allora come stai? E tuo padre ... e
a casa ... a casa come stanno. Alla fine
… del terzo giro mi disse:
“Mio figlio ti ha promesso di farti bere
il làghbi ed io voglio che
mantenga la sua parola. È bene, però,
che tu sappia che è una bevanda
proibita. È proibito estrarre e bere il
làghbi.
|
Raccolta del Làghbi |
“Mi dispiace ... io non sapevo ... si
parlava di bevande ed allora ... ma
guardi lasci stare ... noi torniamo
indietro ...”
“Abadan” (giammai). Fece un cenno
col capo al figlio che, si tolse le
shebsheb (sandali) prese una corda
e, con una grande agilità iniziò a
salire sul tronco. Fu allora che,
alzando lo sguardo, vidi un’anfora
legata al tronco alla sommità della
palma. Veramente le anfore (in arabo
giarra) le chiamavamo “gorgolette”
termine cacofonico perché l’acqua,
uscendo, gorgogliava. (P.S. Che
strano! Scrivendo, in questo momento, mi
sembra di sentire il gorgoglio
dell’acqua che usciva incredibilmente
fresca da queste anfore anche quando la
temperatura esterna era di 30°)!
Mentre lo vedevo salire gli gridai
perché non si fosse portato i sandali
come Jihé. Personaggio ormai noto
a chi ha letto le precedenti storielle.
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Palme da datteri |
Si racconta infatti che Jihé ogni
volta che saliva su una palma,
legasse i
suoi sandali e se li mettesse a
tracolla. Un tizio una volta gli chiese
perché non faceva come gli altri che
lasciavano sotto la palma i
sandali, peso inutile che avrebbe
intralciato
l’ascesa. “Balek min gadi - gadi
nemshi” , rispose Jihé (può
darsi che di là e là me ne vada). Ed
ovvio che tutti risero ma è anche vero
che Jihé non perse mai le sue
scarpe mentre qualcuno, scendendo dalla
palma, non le trovò più.
Jihé
mi fu d’aiuto a stemperare un po’ il
clima creato da quell’affermazione,
pronunciata con severità, circa la
proibizione di quella bevanda.
Giunto in cima alla palma, il ragazzo
fece passare la corda tra i manici
dell’anfora, la slegò dal tronco e la
fece dolcemente scendere a terra dove
suo padre la raccolse. Quindi ridiscese
a terra. Il vecchio tirò fuori da una
sporta (in arabo goffa) alcuni
bicchieri, e versò il
làghbi. Era
un liquido vagamente lattiginoso,
abbastanza fresco. Con curiosità, ne
bevvi subito una grande sorsata. Una
bevanda eccezionale! Fresca, dolcissima,
un sapore delicato ... un vero nettare
degli Dei! A quel bicchiere ne seguirono
almeno altri due. Chi non ha avuto
occasione di assaggiarlo, ha senz’altro
perso molto. Senza complimenti, ma con
sincerità dissi:
“Ma è buonissimo ... perché é una
bevanda proibita?”.
“Il làghbi è la linfa della
palma. Questa palma avrà 40 anni e ne ha
impiegati 30 prima di dare i primi
frutti. Guardala perché non farà più
datteri, morirà”.
Rimasi “di stucco”. Mi sembrava essere
diventato un “assassino”. Per colpa mia quella
palma sarebbe morta! Mi avvicinai alla
palma ed alzando lo sguardo vidi che il
sole, già alto, faceva “capolino”
attraverso le foglie. Uno spettacolo!
Avevo visto centinaia di palme ma forse
per la prima volta ne osservavo bene
una. Tutte le piante sono belle. Gli
eucalipti con la loro imponenza, i
mandorli nel periodo della fioritura, i
cipressi austeri e solenni, gli ulivi
con i loro tronchi tutti contorti, ma
nulla è più bello di una palma. Questo
fusto diritto che “regge” una chioma di
foglie a caschetto. Sembra di vedere una
esplosione di fuochi d’artificio. Sì
proprio il “gran finale“ quando da terra
partono i razzi creando dapprima una
scia luminosa e subito dopo un rosone di
luci multicolori proprio a forma di
“chioma” di palma.
|
Datteri |
Del resto, nei moderni depliant che
pubblicizzano favolose spiagge esotiche,
per esaltarne la bellezza, c’è sempre
una palma: sarà di cocco, ma la
struttura è uguale.
Non sapevo che cosa dire né avevo la
forza di smettere di bere. Giusto per
sdrammatizzare chiesi:
“È una pianta da tabuni?”.
“No, da bronzi”.
“Ah! Quelli che si usano per i
magrud! (dolci fatti con semolino e
ripieni proprio con questa varietà di
datteri).
Doveva aver capito il mio dispiacere e
disappunto.
“Non ti preoccupare, dovrò abbattere
questa palma perché mi serve il tronco
per un lavoro. Comunque estrarre il
làghbi non solo è proibito perché si
nuoce alla pianta ma anche perché, in
pochi giorni, fermenta e diventa una
bevanda alcolica e la nostra religione
proibisce l’uso dell’alcool: è un grande
peccato”.
“Sì, lo so, ma perché è un grave peccato
... in fondo bere alcolici fa male ...
ma ritenerlo un peccato grave … forse la
vostra religione è un po’ severa”.
Prima di rispondermi, disse a suo figlio
di fare un giro per il palmeto per
controllare che tutto fosse a posto. Era
un pretesto per allontanarlo. Secondo le
usanze (almeno a quei tempi e nelle
famiglie che frequentavo), i figli anche
se maggiorenni, non fumavano in presenza
del padre. Normalmente tenevano gli
occhi bassi e raramente iniziavano a
parlare se non interrogati. Il padre
pranzava e cenava da solo mentre i figli
mangiavano separatamente con la madre.
L’intenzione di sposarsi era manifestata
alla madre se non era il padre a
prendere l’iniziativa. Frasi che anche
blandamente e velatamente sfioravano
argomenti o storielle a sfondo sessuale
erano tassativamente proibiti anzi
impossibili. Forse quest’ultimo tabù,
presente anche nelle nostre famiglie,
allora!
Appena il figlio si allontanò, il padre,
con una certa severità disse:
“L’alcool è una brutta cosa. Devi sapere
che tanti, tantissimi anni fa, in un
villaggio viveva un uomo virtuoso,
timoroso di Dio, molto religioso e
probo. Tutti lo ammiravano e, quando
avevano problemi si rivolgevano a lui.
Egli dirimeva le liti, era molto saggio,
onesto e rispettoso. Si chiamava Alì,
Scekh Alì.
Un giorno decise di andare a trovare un
suo caro amico. Bussò alla porta ed una
voce femminile chiese: “Scun?”
(Chi é?).
“Sono Scekh Alì, è in casa El-haj?
Devo parlare con lui”.
“Un momento” rispose la donna ed aprì
lasciando l’uscio socchiuso. Scekh Alì
attese qualche minuto per dare tempo
alla donna di ritirarsi all’interno
della casa, secondo l’usanza, quindi
entrò dicendo:
“Ja haj, come stai?”.
Era entrato da qualche minuto, quando
improvvisamente la donna, che si era
nascosta dietro una colonna chiuse
l’uscio e disse:
“Scekh Alì! Mio marito è partito questa
mattina e ritornerà domani sera. Adesso
tu sei in mio potere, sei in trappola!
Non uscirai se prima non avrai commesso
uno di questi peccati che ti elencherò:
Mio figlio ha sette anni, dovrai
bastonarlo a sangue. Oppure dovrai
giacere con me. Se non sceglierai alcuna
di queste due proposte, dovrai bere
quella bevanda alcolica di cui è piena
quella ciotola”.
“Tu sei pazza, fammi uscire!
Dimenticherò questa storia e spero che
Allah ti perdoni!”.
“Scekh Alì non hai scampo, uno dei tre
peccati che ti ho elencato. Caso
contrario adesso uscirò e griderò che tu
Scekh Alì da tutti ritenuto il più
rispettabile, sei entrato in casa mia
con l’inganno ed hai commesso adulterio
con me”.
Il pover’uomo non sapeva che cosa fare
anche perché la donna era molto
determinata.
“Va bene, dammi un po’ di tempo … devo
meditare”.
Scekh Alì rimase solo e pensoso per
circa mezz’ora. La cosa migliore era
uscire da quella casa, ma la donna
avrebbe gridato quelle calunnie, la
gente le avrebbe creduto, per lui
sarebbe stata la fine e la donna sarebbe
stata lapidata. Se avesse accettato di
bastonare il bambino, avrebbe, non solo
peccato, ma causato dolore ad un piccolo
innocente. Se avesse posseduto donna
d’altri avrebbe commesso un grande
peccato e la donna se scoperta, sarebbe
stata lapidata. C’era l’ultima scelta:
bere la bevanda alcolica. È vero che il
Libro lo vietava e avrebbe commesso
peccato ma almeno non avrebbe coinvolto,
nella sofferenza, altri. Pensò che fra i
tre peccati quello di bere l’alcool era
il più lieve. Non avrebbe dovuto
bastonare il bambino né, ed il solo
pensiero lo inorridiva, commettere
adulterio. Compiaciuto della sua
ponderata decisione, chiamò la donna e
le disse:
“Ho scelto il minore dei mali: berrò la
bevanda alcolica e che Allah mi perdoni
e che abbia misericordia di te!”.
La donna portò la ciotola, Scekh Alì
alzò gli occhi al cielo e bevve la
bevanda. Successe che si ubriacò, perse
il lume della ragione, vide il bambino e
lo bastonò a sangue quindi prese la
donna e la violentò!
“Adesso sai perché l’alcol è proibito
dalla nostra religione. Sei ancora dello
stesso parere e considerare il bere
alcolici un peccato di poco conto? Per
questo il làghbi è proibito.
Bisogna impedire che la gente lo faccia
diventare bevanda alcolica”.
Mi aveva un po’ rovinato il piacere di
quella bevanda ma era arrivato il
momento di ritornare. Avevo fatto
qualche pedalata quando mi gridò:
“Berto ricordati che è un
segreto, non dovrai mai dire a nessuno
che ti ho offerto il làghbi! È
proibito, ricordalo!”.
“Stai sicuro, te lo prometto”
* * * * * * * * *
Credo di aver mantenuto la promessa.
Oggi, il vecchio, se ancora vivo,
sarebbe ultracentenario. Volutamente non
ho precisato il luogo.
Tuttavia, da quella volta, prestando
maggior attenzione, notai che in alcune
mèscite, oltre a bicchierini di bukha,
veniva tranquillamente servito làghbi
fermentato. Almeno fino alla fine degli
anni cinquanta.
Per quanto riguarda la “morte” della
palma, mi sono tranquillizzato. Durante
un viaggio in Thailandia, in visita ad
una piantagione di alberi della gomma,
vedendo incidere il fusto da parte di un
dimostratore, appena iniziò ad uscire il
“lattice” dissi alla guida, col fare del
“saputello“: “La pianta però … morirà”.
Mi guardò stupito e mi disse: “No,
perché?”.
Per quanto riguarda l’alcol, è vero che
è bevanda proibita dalla religione
musulmana ma è anche vero che molti …lo
dimenticavano spesso.
Penso che la proibizione fosse sì legata
all’alcool, ma forse solo per motivi di
Guardia di Finanza, di imposte.
Roberto Longo
(Pubblicato
sulla rivista “l’oasi” n° 1/2003 -
Gennaio - Aprile 2003)
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