La distanza non era eccessiva.
Tuttavia, per percorrere quella
novantina di chilometri, erano
necessarie almeno due ore. A
queste bisognava aggiungere
anche il tempo per la sosta ad
El-Azizìya, ufficialmente ...
per “far raffreddare il motore”.
Se poi Said incontrava il suo
compaesano berbero, allora la
sosta si prolungava oltre l’ora
perché il motore diventava,
improvvisamente, “molto, molto
caldo”. Said guidava, devo dire
abbastanza bene, un autocarro di
fabbricazione inglese che aveva
senz’altro conosciuto tempi
migliori ed era l’autista del
Commissariato. Siccome mio padre
lavorava anch’egli nel medesimo
Commissariato, avevo facoltà di
ottenere “il passaggio” ogni
volta se ne presentasse
l’occasione. A Ghariàn, dove
abitavamo dopo due anni
trascorsi a Nalùt (1946 - 1948),
non c’erano le scuole medie per
cui, per il periodo scolastico,
mi trasferivo a Tripoli, ospite
dei miei zii. Quando Said
riceveva disposizioni di recarsi
a Tripoli, passava da casa e mi
comunicava ora e giorno previsti
per il suo viaggio di ritorno:
se i due giorni successivi
coincidevano con festività
scolastiche o c’erano
interrogazioni da evitare,
approfittavo del passaggio per
andare a trovare i miei
genitori. Circostanza che si
verificò anche nel febbraio del
1951.
Lasciata Tripoli alle spalle
(nel vero senso della parola
perché la direzione era proprio
verso Sud), dopo una quarantina
di chilometri si arrivava ad
El-Azizìya. Quindi la strada
affrontava la Gefàra, anticamera
del deserto, e si biforcava: a
destra per Giado, Tigi e Nalùt;
a sinistra, per Ghariàn.
|
Ghariàn |
Avevo
fatto troppe volte quel percorso
perché il paesaggio potesse
interessarmi, ma quando la
strada iniziava a salire per il
“ciglione” (così chiamavamo la
serie di tornanti che bisognava
affrontare per raggiungere gli
800 metri d’altezza nel Gebèl
Nefùsa), mi affacciavo dal
finestrino. Non per paura del
modo con cui l’amico Said
affrontava le curve ma perché
sentivo l’aria di casa: di lì a
poco avrei rivisto i miei
familiari e tutti gli amici. Il
paesaggio alternava tratti
brulli a piccoli avvallamenti
pieni di ulivi. Ulivi secolari
con tronchi enormi che avevano
grandi buchi. Alcune piante
avevano forme contorte. Di
notte, con un po’ di fantasia,
potevano sembrare degli orchi,
dei giganti. Ricordo che, la
prima volta che mi dissero che
alcuni di essi potevano avere
più di mille anni, pensai che mi
prendessero in giro. Ma quando
vidi crescere di solo mezzo
centimetro in un anno l’ulivo
che avevo piantato nel
giardinetto di casa mia, decisi
che, quegli ulivi, di anni, ne
dovevano avere almeno duemila.
Sapevo già, a quel punto, che i
miei amici mi sarebbero venuti a
cercare con la remota speranza
di ritirare quanto ordinatomi in
occasione dell’ultima partenza
per Tripoli. Ovviamente si
trattava di piccole cose del
valore di pochi M.A.L. Il mal
era la moneta di allora. Credo
che fosse l’abbreviazione di
Military Administration of Libya
o di Military Administration
Lires.
Fac-simile dei
biglietti da 1 e 2 MAL |
Per i Libici, però, lire
italiane o mal erano
comunque sempre “frank”. I
mal rimasero in circolazione
fino all’indipendenza della
Libia (24-12-1951) quando
vennero sostituiti dalla Jinì
Ellibi, (Sterlina Libica) divisa
in 100 ghersh (piastre) e 1000
millìm (millesimi). Ricordo che
anche in quell’occasione l’arrotondamento
fu causa di una catena di
aumenti: un po’ come è accaduto
di recente con l’Euro. L’Historia
sarà anche magistra vitae,
ma, come insegnante, ha sempre
lasciato alquanto a desiderare.
Gli amici
sarebbero quindi venuti e la
loro delusione si sarebbe subito
trasformata in manifestazioni di
scherno: mi avrebbero
ironicamente chiesto se durante
il viaggio di andata c’era stato
… molto vento …
rinfacciandomi che mi ero
comportato come Jihé,
personaggio protagonista di
tante storielle comiche. Un tipo
ritenuto stolto da tutti i suoi
compaesani ma, in realtà, molto
furbo. Sapevo già che,
giustificazioni del tipo: ...
“il viaggio non era programmato”
... “sarei dovuto venire per le
vacanze di Pasqua”... ecc. ecc.,
non sarebbero servite a nulla.
Già! mi ero comportato come
Jihé.
Si racconta infatti che, una
volta, essendosi sparsa la voce
che Jihé stava per
recarsi in città, tutti gli
amici andassero a trovarlo a
casa pregandolo di acquistare
loro, oggetti non reperibili in
paese. Jihè ascoltò tutti
con attenzione quindi prese dei
foglietti sui quali, per
ciascuno di essi, scrisse nome
ed oggetto che ogni amico
desiderava. Quindi sul primo
scrisse ... Alì, un
falcetto; su altri foglietti
... Salah, un paio di sandali
... Khalifa, 10 metri di
corda … Husein, un frustino
… Omar invece gli disse: “Jihé
comprami un bel gilet” e, nel
finire la frase, gli mise in
mano dei soldi che, all’epoca,
erano costituiti da monete in
metallo pesante. Quando Jihè
tornò, tutti i suoi amici
andarono a trovarlo per ritirare
quanto ordinato. Jihé
aveva portato soltanto il gilet
ad Omar e niente agli altri.
Tutti si sentirono offesi e
dissero all’unisono: “Hai
portato il gilet ad Omar perché
ti aveva pagato in anticipo ma
credevi forse che noi non
avremmo fatto altrettanto alla
consegna dei nostri articoli?”.
“Perché dovete sempre pensare
male!” rispose loro Jihé.
“Mi sono semplicemente
dimenticato!”.
“Ma che vai dicendo bugiardo ...
hai annotato tutto sui
foglietti!”.
“È vero ma voi non sapete come
sono andati i fatti! A metà
strada, ho deciso di fare una
sosta perché ero stanco. Ho
fatto accovacciare il dromedario
e, non sapendo che cosa fare e
desiderando ricordarmi di voi,
cari amici, ho tirato fuori i
bigliettini mettendoli in
cerchio davanti a me. Alì vuole
un falcetto, Salah, un paio di
sandali, Khalifa una corda,
Husein un frustino ed infine
Omar un gilet. Ovviamente per
ricordarmi chi aveva pagato e
chi no, sul foglietto di Omar ho
messo i suoi soldi. Mentre
guardavo i foglietti davanti a
me e mi venivano in mente i
vostri cari volti, un’improvvisa
folata di vento, portò via tutti
i fogliettini. Tutti, tranne
quello di Omar, trattenuto dalle
monete. Soltanto per questo
motivo, credetemi, che, arrivato
in città, non mi sono più
ricordato di voi ma soltanto di
Omar il cui foglio mi era
rimasto!”.
Il ricordo della storiella mi
faceva sorridere mentre
involontariamente me ne veniva
in mente una simile: Solito
Jihé e solita partenza per
la città. Tutti gli amici
intorno a chiedere tutta una
serie di oggetti. Uno di essi,
però, gli chiese di acquistargli
uno zufolo e, nel finire la
frase, gli diede i soldi.
Jihé li prese e, davanti a
tutti, gli disse “Enta tadker
zammar min tawua” (più o
meno: tu puoi già iniziare a
suonare!).
Certo che avrei dovuto
acquistare quelle piccole cose
ai miei amici! Perché le
famiglie di alcuni di essi,
erano proprietarie di piccole
hawazat (aziende agricole)
con piante di fichi, mandorle e
gelsi. Avevo libero accesso:
potevo mangiare quanti frutti
volessi senza, ovviamente,
danneggiare le piante. I gelsi,
bianchi e neri, non li voleva
nessuno. Quindi, con la sola
compagnia di piccoli uccelli che
chiamavamo beccagelsi,
facevo delle grandi
scorpacciate. I fichi erano
eccezionali. Le mandorle,
invece, le mangiavo quando erano
ancora verdi e pertanto non
necessitavo di schiaccianoci.
Una volta, purtroppo, persi
l’equilibrio su una delle piante
più belle. Per fortuna riuscii
ad agguantare un grosso ramo.
La mossa mi evitò escoriazioni e
forse fratture. Ma il ramo si
ruppe e quindi il libero
accesso fu revocato con
inevitabile reazione a catena.
Acquistando le piccole cose
richieste, forse il divieto
sarebbe stato rimosso.
C’era però un’ultima
possibilità. Conoscevo un certo
Hàsen, una frana come corridore
ciclista ma imbattibile,
purtroppo, con la zarbùta
(un gioco con piccole trottole
di legno: a chi perdeva veniva
praticamente spaccata la
trottola; credo di averne
comprate una ventina).
Il
giocatore che riusciva a buttare
la trottola dell’avversario
oltre una linea tracciata sul
terreno, aveva diritto ad
infliggere una serie di colpi
alla trottola perdente, spesso,
riuscendo a spaccarla. Tale Hàsen mi aveva promesso che, in
occasione del mio ritorno a
Ghariàn, avrebbe chiesto a suo
padre di dimenticare l’episodio
del ramo in cambio dell’uso
della mia bici in occasione
della ormai tradizionale corsa
ritenendo, i suoi insuccessi,
causati dal suo mezzo meccanico.
Mentre pensavo a questa ottima
opportunità, mi accorsi che
stavamo affrontando l’ultima
salitella, che portava al centro
della cittadina di Ghariàn.
Quasi a metà di detta salita,
sulla destra, vi era quella
famosa ex-caserma dove un
militare americano, Clifford
Saber, aveva dipinto
su di un muro la celebre Lady Garian.
Per noi minorenni era il massimo
soprattutto perché l’accesso ci
era vietato. Non tanto per la
famosa “Lady” quanto per altre
due “vignette” dipinte sulle due
pareti a lato. Per noi ragazzini
erano quanto di più peccaminoso
potesse esistere. Oggi le stesse
farebbero ridere anche i più
piccini. L’ingresso era
incustodito, ma erano guai se le
nostre visite clandestine
arrivavano all’orecchio dei
nostri genitori! Altri tempi!.
|
Lady Garian |
Il militare, autore della famosa
“Lady Garian”, aveva visto nel
profilo geografico della Libia,
il sinuoso corpo di una donna e,
l’aver vinto, insieme ai suoi
commilitoni la battaglia, gli
aveva senz’altro dato l’orgoglio
di aver conquistato quella bella
donna, la quale aveva
un’espressione felice nonostante
tutti quei carri armati sul suo
corpo.
Subito dopo la salita, sulla
sinistra, il deposito del
Monopolio Tabacchi. È qui che i
coltivatori di Tigrinna dovevano
obbligatoriamente consegnare le
foglie di tabacco già essiccate.
Ricordo le contadine, sempre
rigorosamente vestite di nero,
che, davanti all’aia,
infilzavano le foglie larghe e
verdi con un ago lungo e piatto
una specie di tagliatellina in
acciaio alla cui cruna c’era uno
spago robusto. Formavano lunghe
strisce che mettevano ad
essiccare al sole. Gli uomini
che le avevano coltivate, le
portavano appunto al Monopolio
ricevendo un compenso che,
secondo quanto dicevano, non
sempre li ripagava delle
fatiche.
La strada quindi attraversava
tutta la cittadina. In fondo,
un’ampia curva a sinistra
portava ad una grande piazza in
leggera pendenza. Alla sommità:
la Chiesa, verso il fondo i
giardini pubblici dove si
fronteggiavano l’albergo ed il
Commissariato. Abitavamo quasi
di fronte alla Chiesa. La strada
quindi riprendeva a salire per
raggiungere Tigrinna e quindi
Rumìa, Jefren nonché Giado e
Nalùt. Su questa strada, sulla
sinistra, a 200 metri da casa
mia, abitavano i Signori
Schifano. Il figlio che aveva un
paio d’anni più di me,
dipingeva. Non so se fosse lo
stesso grande pittore
recentemente scomparso a Roma.
Se lo fosse, sarei felice di
essere stato per quasi 4 anni
compaesano di un così grande
artista.
Per la verità, dietro
la Chiesa abitava una mia
coetanea che già allora aveva
“struttura” e voce da soprano.
Tempo fa ho letto di un soprano
che porta lo stesso nome e
cognome. Ovviamente lungi da me
l’idea di fare apparire Ghariàn
come cittadina di artisti!
Probabilmente sono casi di
omonimia.
Tornando agli amici, come al
solito, non avevo acquistato
nulla di quanto richiestomi e
non perché avevo voluto fare il
furbo come Jihé ma
semplicemente perché, anche se
si trattava di articoli da pochi
mal, non avevo mai avuto
che pochi spiccioli a
disposizione. Tuttavia mi
dispiaceva non aver accontentato
il piccolo Hakìm.
Hakìm era un bambino di
otto/nove anni esile, sempre
triste, schivo, molto timido.
Però era un bel bambino con
degli occhioni neri tipici della
razza mediterranea. Noi ci
riunivamo, giocavamo a pallone o
con la zarbùta ed Hakìm
sempre in disparte con gli occhi
bassi. Ogni volta che gli
rivolgevo la parola, non
rispondeva ed abbassava lo
sguardo. Allora mi giravo verso
gli altri e sentivo sempre la
solita frase “Marid miskin,
Hakìm marid” (È ammalato,
poverino, Hakìm è ammalato”).
L’ultima volta che lo avevo
visto e tutti, come al solito,
mi avevano chiesto di comprare
in città una svariata gamma di
oggetti, mi ero rivolto a lui:
“Hakìm, tu non vuoi niente?”.
Solito chinare della testolina e
solito coro alle mie spalle:
“Marid, meskìn, marid”. (è
ammalato, poverino, è ammalato)
Ricordo che avevo fatto non più
di una decina di passi
verso casa, quando mi sentii
tirare i pantaloni ed una
vocina alle spalle: “Rumi ...
rumi” (Rumi sta per romano. Era
un termine vagamente e
blandamente canzonatorio per
chiamare gli italiani. Io non me
la “prendevo” affatto anche
perché a mia volta … ) “Rumi”, Hakìm mi chiamava così. Ma gli
altri storpiavano o il nome o il
cognome: Lunco, Lungo, ’Mbertu,
Rubertu, ecc- ecc.)
“Oh, Hakìm! Che c’é, che cosa
vuoi?”.
“Voglio un fischietto, un
fischietto come quello di
ammi Abdalla”.
Avevo capito. Quello che Hakìm
chiamava ammi Abdalla era
un poliziotto. Durante i giorni
di mercato o quando c’erano
assembramenti, fischiava come un
forsennato gesticolando con
altrettanta veemenza. Riusciva,
però, a stabilire l’ordine ed a
farsi ubbidire. Il fischietto
era trattenuto da un cordoncino
che proveniva da sotto una
spallina.
“Va bene Hakìm, la prossima
volta che vengo te lo porto”.
Era la prima volta che lo vedevo
felice anche se la sua
tunichetta, troppo larga per lui
ed un po’ troppo logora, non
possedeva spalline ed il
fischietto non avrebbe potuto
portarlo come il famoso “ammi
Abdalla”
Adesso che ero ritornato, dovevo
evitare di incontrarlo, non
volevo dargli una delusione
perché ovviamente, il fischietto
non lo avevo acquistato.
Purtroppo il giorno dopo,
incontrai il solito gruppo di
amici e, sempre in disparte,
sempre triste ed ammutolito
Hakìm. Appena mi vide e
sopratutto quando vide le mie
mani vuote, sorprendendo tutti,
mi chiese:
“Rumi mi hai portato il
fischietto?”.
“Hakìm, mi dispiace ma ... sai,
quando Said venne con la
macchina, nel salutare i miei
zii, devo aver appoggiato sul
tavolo il tuo fischietto e,
nella fretta, lo devo aver
dimenticato”. Si era
rasserenato e mi chiese:
“Di che colore é?”.
“Verde, é bellissimo! é verde,
non ti piace?”.
“Sì ma ti avevo detto come
quello di ammi Abdalla …
rosso!”.
“Meno male che l’ho dimenticato.
È ancora incartato così come me
lo ha dato il negoziante: non mi
potrà dire che l’ho usato e sarà
facile cambiarlo con uno rosso”.
“E … suona forte?”.
“Suona forte? Prima che lo
incartasse, l’ho provato. Bene:
se ci “darai dentro” ti
sentiranno fino a Tigrinna!
Purtroppo tornerò fra quattro
mesi ... quando finisce la
scuola”.
Aveva assunto per la prima volta
un’espressione soddisfatta. Si
vedeva già con il fischietto e
cordoncino addosso. Per lui,
così timido e docile forse era
un riscatto. Si sentiva già
importante come ammi
Abdalla, ritenendo fosse il
fischietto a dare autorità e
potere.
Era troppo felice, faceva
tenerezza, non avrei potuto
deluderlo. Decisi che, ad ogni
costo, la volta successiva gli
avrei portato il fischietto. La
prima domenica tripolina,
pensai, niente matinée al Cinema
Alhambra. Niente “film di
banditi” (come chiamavamo i
films Western la cui fine ci
dava la soddisfazione di udire
gli squilli del trombettiere che
annunciavano l’arrivo della
cavalleria e quindi a mettere in fuga
“gli Indiani cattivi” oppure
dove le pistolettate o
cazzottate finali davano al
“Giusto” “al Buono” il trionfo
sul/sui “cattivi” ed a tutti
noi, l’illusione che sarebbe
stato così anche nella realtà di
tutti i giorni). Avrei comprato
subito il fischietto e lo avrei
messo immediatamente in valigia.
Con questi propositi, salutai
tutti e ritornai a casa. Dopo
circa un’ora, un bussare
delicatamente alla porta. Fu un
caso che udimmo quei tocchi.
Andai ad aprire e subito Hakìm
mi mise in mano un cartoccio.
Incuriosito l’aprii e vidi che
c’era una manciatina di datteri
ma-agiun.
“Sono per te e tante grazie”.
“Hakìm, ma guarda che il
fischietto è un regalo per te!”.
“Anche questi tamar ma-agiun
sono un regalo ... non ti
piacciono?”.
“I datteri pressati sono i miei
preferiti”. Bugia colossale! Se
le bugie avessero il naso lungo
io sarei diventato un super
Pinocchio. I datteri raccolti
poco prima della completa
maturazione venivano pressati in
grandi ceste del diametro di
circa 80 cm. essiccati un po’ al
sole. Stranamente non
inacidivano, duravano a lungo,
mantenevano tutte le proprietà
del frutto ma purtroppo erano
pieni di sabbia: praticamente
immangiabili). Non bisognava
essere degli indovini per capire
che quella manciata costituiva
la cena del piccolo Hakìm. Ma se
li avessi rifiutati con
qualsiasi pretesto, lo avrei
ferito moralmente e gli avrei
fatto senz’altro più danno del
lasciarlo a digiuno.
“E ... dimmi Rumi ... il
cordoncino, com’é il
cordoncino?”.
“Senti Hakìm, prima c’erano
tutti gli altri e non ho potuto
dirti tutto! Tu dovrai usare il
tuo fischietto quando non c’é
ammi Abdalla perché in caso
contrario si vergognerà di
averne uno inferiore al tuo!”.
Hakìm si sarebbe intrattenuto
tutta la notte a parlare del
fischietto ma l’indomani dovevo
rientrare a Tripoli di buon’ora
e quindi gli dissi:
“Adesso vai a casa che forse ti
stanno cercando e ... ti
raccomando ... allenati! Ti
devono sentire tutti ...”.
“Fino a Tigrinna?”.
“Fino a Mizda Hakìm ... fino a
Mizda”.
Se ne andò felicissimo.
* * * * * * * * * * * *
*
Arrivò la fine dell’anno
scolastico e dell’ultimo viaggio
“pendolare” per Ghariàn. L’anno
successivo anche mio fratello
avrebbe iniziato le Medie e dai
miei zii non c’era posto per
due. Ci saremmo trasferiti
definitivamente a Tripoli. Avevo
con me il famoso fischietto
rosso con cordoncino.
Forse non
possedeva tutte le virtù che
avrebbero estasiato il piccolo Hakìm ma era un bel fischietto.
Lo tenevo in tasca per osservare
la sua espressione nel vedermi le mani vuote e
quella successiva
quando dalla mia tasca sarebbe
uscito il
“suo sogno”. Di corsa andai
nella piazzetta dove alla solita
ora si radunava la comitiva. Ma
stranamente Hakìm non c’era.
“E Hakìm dov’é? ... Dov’é Hakìm?”.
“Come non l’hai saputo? Hakìm
era malato .... molto malato ...
é morto ... miskin ... circa
quindici giorni fa ... Sai Rumi
.... ogni giorno chiedeva:
“Rumi, é arrivato? Quando arriva
Rumi?”. “
"Ma è vero che
adesso vai a Tripoli e non torni
più?”.
Non risposi. Non voglio
atteggiarmi a “duro” anche se
devo confessare che non mi
commuovo tanto facilmente, ma
quella volta ... mah! forse era
il rimorso ... il rimorso di
aver ritardato ... forse con
pochi mal ... su quella
tunichetta larga, sdrucita ...
il fischietto rosso ...
* * * * * * * * * * * * * *
Non ebbi più occasione di
tornare a Ghariàn. Quanto al
fischietto rosso, l’ultima volta
che “è ricomparso” è stato in
occasione dell’ultimo trasloco
(settembre 1980). Era
arrugginito, il cordoncino era
macchiato. Deve essere da
qualche parte. Appena avrò un
po’ di tempo, lo cercherò.
No, forse no.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista
“L’Oasi” n° 3/2002 - Settembre
-Dicembre 2002)