Saranno pochi i Tripolini d.o.c. che,
leggendo il titolo, imiteranno Don
Abbondio chiedendosi: “Tureia? Chi
era costui!”. Perché Tureia,
usando la terminologia dei giovani
d’oggi, era “un mito”. Insieme alla
Gelateria Bascetta, alla Pasticceria
Campi, alla Pizzeria del Mago Rosario,
alla Latteria Triestina e alla Salumeria
Corbisiero, era responsabile nel farci
commettere troppo spesso,
il quinto
peccato capitale. Non erano i soli,
ovviamente. La latteria Girus per
esempio! Inevitabile entrarci prima di
iniziare le passeggiate sul Corso o le
interminabili discussioni sportive sul
marciapiede dirimpetto.
Una menzione a parte merita quella
piccola rosticceria che faceva angolo
con la via di accesso al Cinema “Corso”.
In un piccolo locale, una coppia di
siciliani preparava ottimi arancini,
zeppole salate, pizzette, focacce ed
alcuni tipi di “scacci”: insuperabili
quelli alla cipolla. Gli “scacci” sono
praticamente delle pizze, moderatamente
sottili, coperte da un altra sfoglia di
pasta da pane. E chi non ricorda “Dido”?
Da lui, oltre ad altre specialità della
cucina ebraica, Haraimi (Pesce in
sugo piccante), Kraen bilfasulia
(Zampetti di vitello con fagioli), e
quindi, per concludere la cena in
bellezza, una inevitabile buona dose di
“Alka-Seltzer” per dessert!
C’erano poi i sinfaz. Per un
certo periodo ho frequentato le scuole
di Via Marconi, quelle vicino alla
Manifattura Tabacchi e, per arrivarci,
dovevo passare davanti alle botteghe di
questi benefattori del palato.
L’olio friggeva in una grande ciotola di
coccio murata in un grande cubo.
Il
sinfaz stava accovacciato sopra
questa caratteristica struttura. Il
sinfaz è colui che fa le sfinez.
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Sfinez |
Niente di eccezionale: solo farina,
acqua, lievito e sale. Impasto molto
morbido, molto lievitato. Ne prendeva un
pugnetto, lo modellava velocemente con
la punta delle dita ottenendone un disco
di un certo spessore all’esterno ma
sottile al centro e, facendolo roteare,
lo tuffava nell’olio bollente. Quindi,
con una specie di uncino, lo estraeva e,
prima di farlo scivolare su un piano
inclinato, con un cenno del capo
interrogava: Melah ulla sukkar
(Sale o zucchero?). Una squisitezza! La
ricetta è semplicissima ma che nessuno
ci provi: impossibile sfiorare un buon
risultato ed alquanto difficile
ottenerne uno mediocre. Per gustare le
eccellenti burik (brik in
Tunisia)
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Burik |
bisognava aspettare il mese di Ramadan
ed il colpo di cannone che annunciava
l’interruzione del digiuno.
Il sinfaz a partire da qualche
ora dopo e fino all’alba, prendeva un
disco di sfoglia sottilissima, lo
riempiva con un impasto di patate lesse
e passate, prezzemolo, aglio, sale e
pepe nero e, dopo averlo chiuso a
triangolo, l’adagiava nell’olio bollente
solo per qualche secondo. Deliziose!
Alcuni le farcivano con tonno, altri con
carne macinata o uova, ma il “top”era
con le patate. Ma sto uscendo fuori
tema.
Tureia
era un ristorante arabo in Sciara Mizran
(sulla sinistra di chi, da questa via,
accedeva alla ex Piazza Italia).
Non vorrei sbagliarmi, ma credo fosse
l’unico o comunque uno dei pochi, per
ovvie ragioni: in Libia il dovere
dell’ospitalità è sacro. Nessuno
porterebbe al ristorante un parente o un
amico giunto da altra città in visita,
come nessuno si sognerebbe di invitare
amici o congiunti al ristorante. Sarebbe
un’offesa abbastanza grave perché
l’ospite va portato a casa: Wageb
Eddiàfa (Dovere dell’ospitalità).
Quindi i clienti libici di Tureia
erano quei pochi che, arrivando a
Tripoli, non avevano né un lontano
parente né un conoscente. I giovani
preferivano le pizze al trancio del Mago
Rosario.
Non che, di Tureia, fossi un gran
cliente, ma ci andavo spesso e mi
tornava comodo quando, d’estate, mi
“rifornivo” prima da lui e poi andavo al
mare con la mia bella gasa-a
piena di kus-ksì. La gasa-a
è una zuppiera, una grande ciotola
normalmente di terracotta con un
coperchio di paglia intrecciata che
ricorda il copricapo dei cinesi. È
necessaria per tale pietanza, perché,
essendo poco profonda, permette ai
condimenti di raggiungere tutta la
semola. Cosa impossibile se si usasse
una pentola: la parte di semola a
contatto con il fondo non potrebbe
essere raggiunta dalla tabikha
(condimento, sugo).
Entrando nel ristorante si notava
subito, su una grande tavola, la semola
precotta sistemata a piramide, o meglio,
a cono rovesciato. Sul banco che
seguiva, tutte le varie teglie con i
vari condimenti: bamia in umido,
sugo di agnellone, carne e zucchine, le
prelibate patate ripiene di carne (mafrum
o mbattan), sugo di carne e verdure
varie ed infine la teglia con la
teklìa (cipollata). Quest’ultima è
fatta stufando cipolle affettate e ceci
ed arricchendo il tutto con sugo di
agnello e verdure.
Della cucina libica o, meglio, di tutte
quelle Nord-africane, il “piatto” più
conosciuto è il kus-ksì. Ma,
identificare la gastronomia di quei
Paesi, soltanto con questa famosa e
squisita preparazione, sarebbe come
giudicare la cucina italiana basandosi,
solo, sull’altrettanto famosa pizza.
Non si sa con esattezza quando ed a chi
il kus-ksì debba le sue origini,
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Kus-ksì |
ma
pare che, i nomadi, nei loro continui
spostamenti, avessero trovato nel
semolone bagnato con acqua, “lavorato”
con il palmo delle mani, precotto e
successivamente essiccato al sole, la
soluzione alle loro necessità
alimentari. Avevano infatti un prodotto
pronto ad essere ricotto a vapore e
condito con carne con o senza verdure,
solo con verdure o solo con il semen
(burro ottenuto da latte di pecora). Il
kus-ksì infatti può essere
paragonato alla nostra pasta che, cotta
in acqua salata, è già pronta a ricevere
dal più modesto condimento a base di
aglio, olio e peperoncino al più
elaborato dei ragù. Pertanto non è
considerato, come qui da noi, “piatto
unico”, ma piatto forte a cui far
seguire un secondo piatto, frutta e
l’immancabile tè.
Non vorrei essere di parte, ma considero
il kus-ksì della cucina libica, e
più precisamente di quella Tripolitana,
il migliore. Esso si distingue dagli
altri per l’uso rigoroso della carne di
agnellone, della “cipollata” su spiegata
ed anche per il mezzo uovo sodo con il
tuorlo arrossato con un po’ di harisa.
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Harissa |
Tureia
prendeva la mia gasa-a la
riempiva di semola e, dopo averne
livellato la superficie, con un piccolo
mestolo, iniziava a condirla con grande
maestria. Faceva scorrere il mestolo a
pelo sulle varie teglie prelevando
l’olio che galleggiava in superficie,
quindi affondava il mestolo nei vari
condimenti liquidi ed inumidiva la
semola senza mai girarla. Ma compiva
questi movimenti con gesti rituali, con
grande concentrazione, senza dar retta a
chi osava parlargli durante questo rito
gastronomico. Metteva poi, sul tutto, la
cipollata e quindi carni e verdure
prendendole dalle varie teglie.
Una volta, avendo dimenticato a casa la
gasa-a, gli chiesi se ne avesse
una da prestarmi. Mi rispose
affermativamente, purché, disse, non le
facevo fare la fine della tanjerat
Jihé! (pentola di Giufà).
Jihé o Jò-ha
(in Sicilia Giufà) è lo stolto del
villaggio ma anche il finto tonto, il
giullare furbastro. Conoscevo diverse
storielle su Jihé ma questa della
pentola non la ricordavo, per cui,
chiesi spiegazioni.
“Un giorno”,
mi raccontò Tureia, “Jihé
si recò dal vicino per chiedergli in
prestito una pentola. Aspettava ospiti e
non aveva abbastanza pentole. Il
vicino conoscendo la stoltezza di Jihé
non avrebbe voluto dargliela ma si
trattava pur sempre di un vicino di
casa, nonché amico e dovette esaudire la
sua richiesta. Quando Jihé se ne andò,
la moglie iniziò a rimproverare il
marito dicendogli che, conoscendo
l’elemento, non era proprio stato un
lampo di genio l’avergli prestato quella
pentola che, seppur vecchia ed
ammaccata, era ancora adatta all’uso.
I giorni passavano ma la pentola
non ritornava al legittimo proprietario.
Quando ormai si erano rassegnati, i
vicini sentirono una bella mattina bussare alla porta. Con loro grande
sorpresa videro Jihé con la pentola in
mano e con un piccolo pentolino nuovo e
lucente. Stupiti e perplessi restarono
sulla soglia ammutoliti finché Jihé non
disse loro:
“Vi restituisco con ringraziamenti la
vostra pentola ed anche questo piccolo
pentolino che la pentola ha partorito
mentre era da me: ovvio che essendo
vostra la pentola, vostro è anche il
pentolino.”
I vicini fecero grande fatica a
trattenere le risa e quando Jihé se ne
andò risero a crepapelle avendo conferma
ancora una volta della stoltezza di
Jihé. Non passò una settimana che Jihé
ritornò chiedendo un’altra pentola
“possibilmente più grande della
precedente” disse, “perché gli ospiti,
quella volta, erano davvero tanti”. Il
vicino prese una pentola che aveva
appena acquistato bella e grande e
gliela diede di buon grado. Anzi
aggiunse anche il coperchio, dando
occhiate d’intesa alla moglie ben felice
anch’ella di prestare pentole a Jihé. Il
vicino raccomandò: “Jihé, trattala con
delicatezza perché anche questa è
...
incinta!”.
Passarono settimane e mesi senza notizie
di Jihé. Un giorno il vicino spazientito
andò a bussare a casa di Jihé e gli
chiese la restituzione della pentola.
“Oh! quanto mi dispiace ... sai, la tua
pentola è morta ... è morta di parto!”
“Ma che vai dicendo scemo! Le pentole
non muoiono! Sono delle cose, non sono
certo esseri viventi!”.
“Ma quando la prima pentola aveva
partorito non mi avevi detto questo!
L’altra ha partorito, questa è morta!”
Il vicino se ne andò frenando la rabbia
e Jihé dimostrò di essere più furbo che
stolto.
Ovvio che dopo aver ascoltato la
storiella, la gasa-a che ebbi in
prestito, ritornò al proprietario quella
sera stessa!
Anche in Sicilia il kus-ksì fa
parte della gastronomia locale.
Sopratutto nel Trapanese e nelle isole a
sud: cioè Lampedusa e Pantelleria.
Soltanto che, in questi luoghi, viene
condito principalmente con sugo di
pesce. Raramente accompagnato da
verdure. Confesso che a me non piace.
Una volta, tuttavia, passando per il
porto di Lampedusa, dove eravamo in
vacanza, un cartello, fuori da un
ristorante, attirò più la nostra
curiosità che l’attenzione: “Giovedì
cuscus anche da asporto”. Così il
giovedì a mezzogiorno ci recammo con la
nostra ciotolona per farci dare due
porzioni di cuscus. Io rimasi in
macchina, scese mia moglie e dopo una
decina di minuti ritornò, ridendo, con
il cuscus condito con il sugo di pesce e
senza verdure come spiegato sopra. Mi
raccontò che la signora che l’aveva
servita le aveva detto:
“Signora, qui noi lo facciamo col
pesce, ma io, lo scorso anno, ne ho
mangiato uno buonissimo! Era fatto con
il sugo d’agnello e molte verdure: era
una bontà! Perché vede, lo scorso anno
io e mio marito siamo stati per sei mesi
a Tripoli per lavoro”:
“Sì”,
le rispose Rosetta, “lo so che lo
fanno con l’agnello ed anche che è molto
buono”.
“Ah sì, e come mai?… anche lei è stata
in Libia?”.
“Veramente ci sono nata e ci ho vissuto
per 30 anni!”.
A quel punto la signora del ristorante
avrebbe voluto indietro il suo modesto
cuscus sostituendolo, e forse faceva
bene, con una ugual dose di spaghetti al
pesto siciliano o penne con la bottarga
o alla Norma o con le sarde o, al
limite, ca-a muddìca!
Spesso, per la nostra famiglia o per gli
amici che abbiamo “iniziato” al culto
del kus-ksì, prepariamo questo
particolare piatto e, qualche volta,
anche con prodotti originali. Alcuni
amici libici, in visita, ci portano
semola lavorata in casa e spesso anche
il famoso Kharuf watni (Agnello
nostrano, libico). Ma devo ammettere
che, vuoi per la varietà dei condimenti
che solo un ristorante può avere a
disposizione così numerosi, vuoi per il
“mestiere”, il kus-ksì di Tureia
era forse più buono!
E parafrasando un vecchio “spot”
pubblicitario …:
“Buono? Ottimo direi ... è kus-ksì di
Tureiiii!”.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista “L’oasi” n°
2/2002 - Maggio - Agosto 2002)
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