A Tripoli la primavera era la stagione
più bella. Era quella che preferivo
forse a causa della latitudine, forse
perché allora le stagioni da un punto di
vista prettamente meteorologico erano
ancora quattro e forse perché nel 1967,
anno cui si riferisce il presente
articolo, le mie primavere erano 29
anziché gli attuali 63 autunni.
Quando il ghibli non ci incipriava occhi
e naso, le giornate erano splendide.
Iniziavamo a fare i progetti per le
vacanze e ci preparavamo alla lunga
stagione balneare. Inoltre, il tempo
libero era dedicato al picnic, o meglio,
alla zarda, cosa molto diversa.
Il picnic sa di sofisticato, di tovaglie
candide, di grissini, di tartine al paté
de foie. La nostra scampagnata invece
era a base di makaruna mbacbaca, di
chili di costiglie d’agnello: era una
vera zarda.
Quell’anno, però, la primavera, iniziata
male, si stava concludendo peggio: una
primavera diversa dalle precedenti. Non
vi era la solita allegria, anzi
prevaleva un certo senso di disagio,
preoccupazione, timore per l’immediato
futuro e soprattutto sensazione di
impotenza cioè la consapevolezza di non
poter far nulla per impedire quanto di
brutto e triste stesse per accadere.
Una sera le condizioni climatiche
favorevoli e l’aiuto di amplificatori di
segnale
d’antenna, permisero a noi tutti, di
vedere il telegiornale “come uno
specchio” (era questa la frase che si
usava dire quando si captavano molto
bene i programmi della televisione
italiana). Ricordo che il cronista
intervistò, appena sceso dall’aereo, il
Capo della delegazione italiana di
ritorno dal Medio Oriente. Il
diplomatico disse che non solo la sua
delegazione, ma tutti avevano fatto
l’impossibile. Il cronista però voleva
conoscere che impressione ne avesse
riportato, ma il Parlamentare non
rispose infilandosi in una vettura che
lo attendeva. La bravura del cameraman
che riuscì ad inquadrare per pochi
secondi l’espressione preoccupata del
viso dell’intervistato fu sufficiente
per capire che quanto si temeva, stava
diventando, purtroppo, certezza.
Il 5 giugno 1967 era un lunedì. Ero in
ufficio, in Via 24 dicembre, al primo
piano proprio sopra i negozi di Bata e
Neechamal, quando verso le 9,30 - 10,
udimmo provenire dalla strada un grande
frastuono. Ci affacciammo e di lì a
pochi minuti, una folla, che andava
sempre più ingrossandosi, marciava verso
la piazza gridando slogan ed inneggiando
alla guerra. Era scoppiata quella che
poi sarebbe passata alla storia come “la
guerra dei sei giorni”.
Il Presidente della società ci disse di
andare a casa. Avrebbe chiuso lui di lì
a poco. Poi si avvicinò ed in arabo
sottovoce mi disse:
“Forse è meglio che tu vada incontro
a tua moglie e che ritiri dall’asilo tuo
figlio. Per qualche giorno terremo
chiuso, ci penserò io a fare i
versamenti e ad aprire l’ufficio per
qualche ora. Accompagna a casa anche le
due signorine. Ma fai presto”.
Quest’ultime erano le nostre
giovanissime impiegate.
Restammo a casa a seguire gli eventi per
radio e per televisione mentre per le
strade continuavano i tumulti. La
mattina del terzo giorno, vincendo i
tentativi di dissuasione da parte di mia
moglie, decisi di fare un giro per
rendermi conto della situazione. Il
Presidente mi aveva fatto avere quel
lunedì stesso, per il fatto che lavoravo
in un’industria alimentare, uno speciale
“pass” che mi consentiva spostamenti
anche nelle ore di un eventuale
coprifuoco.
Uscendo, avrei fatto anche un “salto” in
ufficio. Presi la macchina e, da Sciara
Michelangelo dove abitavo, svoltai per
Giaddat Omar El Mukhtar percorrendola
tutta fino all’ex Piazza Italia.
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Tripoli - ex Piazza Italia |
Quindi
gironzolai un po’ per la città. Quasi
nessuno per le strade, ma molti i segni
evidenti dei disordini: negozi bruciati,
alcuni anche saccheggiati, auto date
alle fiamme, pietre e calcinacci
dappertutto. Ero intanto arrivato a
Piazza Castello e la vista delle due
colonne che fronteggiavano il mare, in
cima alle quali c’erano una caravella ed
un faris (cavaliere),
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Tripoli - Caravella e Faris |
Tripoli - Il Castello |
mi fecero
dimenticare per qualche minuto quanto di
brutto avevo visto. Di fronte a me
adesso c’era il Lungomare Adrian Pelt.
Non lo avevo mai visto deserto. Non
c’era alcuno. Potevo così ammirare la
splendida balaustra sovrastata dai
meravigliosi lampioni in ghisa, i filari
di palme che ne delimitavano i lati, la
bella scultura al centro della Fontana
della Gazzella.
Tripoli - Il Lungomare Adrian
Pelt e la Fontana della
Gazzella |
Ho ancora qualche foto e
qualche filmato. Ma non ho bisogno di
rivederli perché ricordo perfettamente
la bellezza di quel lungomare che, per
me, non é nemmeno paragonabile ad altri.
Percorrendolo in auto ma a passo d’uomo,
accarezzando con lo sguardo lampione per
lampione, palma per palma, avevo
parcheggiato la macchina quasi
inconsciamente davanti al Circolo
Italia. Con grande stupore notai che la
porta era danneggiata e spalancata,
tracce di fumo un po’ dappertutto. Era
evidente che c’era stato un tentativo di
incendiare l’intero edificio. Avevo
fatto parte del Consiglio
d’Amministrazione del Circolo dal 1960 e
dal marzo del 1967 ero stato nominato
membro del Collegio dei revisori.
Forse riconoscendomi in questa mia
carica, il custode mi venne incontro.
Era un uomo magro, piccolo, dai
lineamenti piuttosto pronunciati.
Federico Fellini gli avrebbe fatto un
contratto a vita ed il tal modo, avrebbe
finalmente dato un po’ di benessere a
questo brav’uomo che dalla sorte aveva
avuto niente. Dopo una vita passata a
strappare frutti alla terra (o alla
sabbia?), costretto a svendere il suo
piccolo podere, adesso si trovava con un
pugno di mosche in mano e, dal suo
linguaggio difficile da comprendere, era
evidente che, per le circostanze della
vita e non per sua scelta, quelle mani
piene di calli, avevano troppo presto
abbandonato la penna, per la zappa.
Comprensibilmente molto spaventato, mi
diceva che aveva fatto tutto il
possibile ... che erano arrivati in
tanti ... che aveva avuto molta paura
... no ... a lui ed alla sua famiglia
non avevano torto un capello, ma avevano
appiccato il fuoco in più punti. Lui era
riuscito a spegnerlo ma non ad evitare
tutti quei danni. Cercavo di confortarlo
e continuavo a ripetergli che capivo
benissimo la situazione nella quale si
era venuto a trovare. Ma lui era agitato
e si sentiva colpevole: lui custode, non
era riuscito a custodire.
Il Circolo Italia fu l’unica proprietà
non ebraica che fu danneggiata. Ammetto
che rimasi sorpreso e dispiaciuto.
Attraversai l’atrio ed imboccai a destra
il corridoio e quindi entrai nella sala
del teatro. Il sipario rosso era tutto
bruciato ed anche le quinte. Su di una,
si intravedevano tracce della
scenografia dell’ultima puntata del
Venerdì Quiz che aveva avuto luogo
il 17 marzo di quel 1967.
I danni potevano essere riparati, anche
con poca spesa e per l’autunno forse
poteva andare in scena il programmato e
più volte rinviato musical “Follie
d’autunno” tutto scritto da noi e
addirittura con testi musicali inediti.
Dopo averlo rincuorato, salutai il
custode, ripresi la macchina e mi avviai
verso gli uffici delle Industrie
Libiche. Anche la Sciara 24 Dicembre era
deserta,
Tripoli - Sciara 24
Dicembre all'altezza
della Scuola Arti e
Mestieri |
ma parcheggiai al solito posto:
vicino al Metropol. Subito dopo il
negozio di Bata, vi era una strada di
cui non ricordo il nome che sbucava in
Sciara Mizran. Sul lato destro c’era il
cinema Metropol e quasi di fronte
un’altra via, parallela alla Sciara 24
dicembre. Proprio sull’angolo smussato
di detta via, c’era una pescheria. Il
proprietario, forse anche pescatore, era
un ebreo di cui non ricordo il nome.
Aveva trasformato quel bugigattolo in
una bella pescheria. Ad occupare quasi
tutta l’apertura, aveva sistemato un
bancone a gradini. Faceva un letto di
ghiaccio, sistemava i suoi pesci
freschissimi e, infilando un pomodoro in
bocca ad una cernia, uno spicchio di
limone ad un dentice, qua e là peperoni
verdi, rossi e gialli, ciuffetti di
prezzemolo dappertutto, trasformava il
suo banco vendita in un quadro d’autore.
Su questo anfiteatro pendeva, al di
fuori della serranda, un filo elettrico
bipolare. Quello in uso allora, cioè
avvolto in filo di cotone bianco. Alla
fine del filo, un portalampade di
ottone, una ghiera di ceramica ed una
lampadina abbastanza potente che l’amico
pescatore teneva perennemente accesa,
anche in pieno giorno. Non ho mai capito
se servisse da spot-light alla sua
esposizione o era messa lì a mo’ di
stella cometa per indirizzare gli
acquirenti alla sua bottega. Il
pavimento era perennemente bagnato ed
era attraversato da un tubo di plastica
collegato ad un rubinetto. Lui,
pantaloni arrotolati fin quasi al
ginocchio, camicia con le maniche tirate
su fino ai gomiti, era sempre scalzo.
Era chiaro di carnagione ed aveva i
capelli biondi ma sul rossiccio.
Mi si perdoni l’irriverenza, ma sembrava
un gamberone. Apriva soltanto tre
pomeriggi la settimana ma io ero suo
cliente solo il giovedì. L’approccio non
fu dei più felici perché, la prima
volta, chiesi un pesce da fare alla
griglia, additandogli un bel sarago. Per
mia sfortuna nella stessa direzione
c’era anche una cernia: da qui
l’equivoco e l’inevitabile sua sentenza:
“lei non conosce il pesce!”. Le
precisazioni da parte mia, risultarono
inutili.
Da quel giorno il cerimoniale era molto
semplice:
- Ciao....(non ricordo il nome).
- Come va?
- Bene, grazie, domani vorrei fare un
haraimi ... un pesce al forno ... una
grigliata di pesce ...
- Quanti siete?
- In quattro.
A questo punto partiva, afferrava il
pesce che lui riteneva idoneo, lo
pesava, non tralasciando di dare il
colpetto furbo alla bilancia e poi: a
lui le sterline a me il pesce incartato.
Lo salutavo e mi avviavo alla macchina,
ma lui non aveva tempo per rispondere al
saluto perché la sua lampadina, sempre
illuminata, la sua cometa, aveva già
fatto un’altra vittima: un altro
cliente.
Quella tarda mattina, la serranda che
non era del tipo chiuso a listoni, ma a
griglie larghe, era sfondata verso
l’interno, il bancone che ospitava il
suo capolavoro di esposizione era
rovesciato. Pochi danni, facilmente
riparabili. Pensai che, nel giro di
poche settimane, il tutto poteva essere
riparato ma ero anche sicuro che non
poteva tornare tutto come prima.
Qualche cosa si era guastato, i tempi
erano cambiati. Forse si poteva sperare
in un certo ritorno alla normalità, ma
era impossibile che tutto sarebbe
ritornato come prima.
Voci, davano il pescatore ebreo tra le
vittime degli scontri e questo mi
rattristava anche se la notizia non fu
mai confermata.
Si era fatto tardi. A casa, visto i
momenti particolari, dovevano essere
senz’altro preoccupati, era saggio
rientrare.
Nell’aprire la portiera, fui costretto a
dare un ultimo sguardo al negozio. Fu
allora che notai che, dal soffitto,
all’esterno della serranda, penzolava il
famoso filo bipolare, rivestito di
cotone bianco, con portalampada in
ottone e ghiera in ceramica.
La lampadina era spenta.
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista “L’Oasi” n*
1/2002 Gennaio - Aprile 2002)
************************************* Caro
Longo,
complimenti
per il tuo bellissimo articolo, che mi ha riportato cinquanta anni indietro ed
anche più. La dovizia dei particolari da te descrìttami hanno fatto ritornare
in mente i vari sapori ed odori dei cibi, abbastanza speziati e tanto buoni.
Ricordo benissimo quanto da te descritto, persino il nome del titolare della
rosticcerìa all'angolo opposto al Cinema Corso: il benemerito
"Nello". Ricordo quei piccoli negozi in Città Vecchia gestiti da
Israeliti con i loro innumerevoli colorati dolci alle mandorle, pistacchi, noci
e miele e la ineguagliabile "bocca di dama". Che dire delle belle
passeggiate al ritorno dal Lido, sgranocchiando una "sbula"
(pannocchia) arrostita e fermarsi, giunti nei pressi del marciapiedi del Banco
di Roma a degustare una bella e dissetante fetta di cocomero!
Grazie
per averci fatto rivivere la nostra gioventù, felici e contenti di quel poco
che avevamo.
Marcello Carabot
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