Giugno
1958 - Esame di Stato |
Nei giorni scorsi, trasferendo da un
cassetto all’altro alcune carte, mi sono
trovato tra le mani il diploma di
ragioneria, o meglio, come scritto sulla
copertina, di “abilitazione
tecnico-commerciale”, conseguito 43 anni
fa. Avrei fatto bene a metterlo nel
nuovo cassetto senza aprirlo. Avrei così
evitato ricordi senz’altro belli ma che,
purtroppo, generano spesso malinconie e
rimpianti. Tra questi ricordi, però, ce
n’era uno tutt’altro che bello: quello
relativo al temutissimo “Esame di
Stato”.
Tornando a quel “trofeo” conquistato nel
1958, nel rileggere i voti, mi sono
comparsi, davanti agli occhi un po’
umidicci, i volti delle professoresse e
dei professori delle varie materie. Sono
molto grato a loro e rinnovo ancora una
volta la mia riconoscenza e gratitudine
a tutti, tranne ad uno, verso il quale
si è rinnovata, purtroppo, l’antipatia a
suo tempo ben ricambiata, peraltro, dal
diretto interessato. Ricordo invece, con
grande stima e simpatia, il prof.
Martini: dietro una facciata di
“burbero” si nascondeva una persona
squisita, un chiarissimo professore, un
eccellente professionista. Pongo il
prof. Martini, insegnante di ragioneria,
un gradino più su, senza nulla togliere a tutti gli altri. Ripeto che devo molto
a loro: dai loro insegnamenti ho tratto
profitto nell’attività di “ragiunat”
(come dicono a Milano) esercitata, a
diversi livelli, per 38 anni. Non mi
trovo d’accordo, infatti, con coloro che
affermano che la scuola è necessaria
solo per ottenere “il pezzo di carta”
perché è poi la pratica, quella che
serve.
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L'Istituto Tecnico
Commerciale "G.Marconi",
già ospedale civile |
Ricordati i professori, non potevo certo
dimenticarmi del sicilianissimo Preside
Pacca, probabilmente palermitano. Aveva
appena sostituito “una sergente...ssa
di ferro” e, il giorno del suo
insediamento, aveva fatto il giro delle
classi per farsi conoscere. Soltanto
qualche tempo dopo lo incontrai “vis-à-vis”.
Mi aggiravo negli uffici con il diario
contenente una giustificazione di
assenza, quando me lo tolse di mano,
lesse nome e cognome prima, la
giustificazione poi, e chiese:
- Lei, siciliano, è?
- Veramente, Signor Preside, sono nato a
Barce, 100 km da Benghàzi. Anche mia
mamma è nata a Barce, mentre mio padre a
Benghàzi:
- E ... i suoi nonni?
- Da parte di padre, mio nonno era di
Pantelleria, mia nonna maltese mentre i
nonni materni, entrambi viventi, sono
ambedue della provincia di Catania.
Per una teoria solo sua, secondo la
quale tutto viene trasmesso dalla madre
e dalla sua ascendenza, da quel giorno
avevo un nuovo nome e cognome: “U
Catanisi”. E con questo nuovo nome,
forse non casualmente, lo incontravo
spesso per ricevere, purtroppo, bonarie
frecciatine in “rigoroso rispetto” alla
secolare rivalità campanilistica tra
Palermo e Catania.
Mi stimava molto il Preside Pacca.
Perché aveva saputo che la morte di mio
padre mi aveva assegnato il duplice
compito di studente al mattino e
lavoratore pomeriggio e sera. E questo
duplice impegno fu la causa di una
severa “ramanzina”.
Una professoressa mi trovò impreparato.
Rifiutai di essere interrogato motivando
la decisione con il fatto che il giorno
precedente avevo dovuto lavorare fino a
tardi. Mi fece capire che avendo io
scelto di continuare gli studi, ero
obbligato ad onorarne l’impegno.
Inoltre, aggiunse, per rispetto ai miei
compagni, non poteva tollerare simili
atteggiamenti. Se non ero in grado di
portare avanti le due cose, non mi
rimaneva altro che scegliere tra studio
e lavoro. Ne nacque un diverbio tanto
accesso da indurmi a prendere una
drastica decisione: rinunciare a
proseguire gli studi e lavorare a tempo
pieno. Stimavo molto quell’insegnante ma
ritenevo che quella volta avesse torto.
Se poi si aggiunge il mio “caratterino”
e l’incoscienza dovuta all’età, si
ottiene la chiusura del cerchio.
Presi libri e quaderni e li “legai” con
quella fascia elastica, molto usata un
tempo, che aveva alle estremità due
ganci metallici.
Allora, non c’erano gli zainetti firmati
e, almeno a casa mia, di firmato c’erano
solo le cambiali del frigorifero.
Presi quindi i libri, uscii di classe.
La sezione Ragioneria era al primo piano
dell’Istituto Marconi. Usciti nel
corridoio-balconata, bisognava scendere
da una grande scalinata che terminava in
un cortile con una fontana in mezzo. In
fondo, nell’androne, salendo alcuni
scalini, si raggiungeva il portone che
si affacciava sulla Sciara Mizran. Sarà
perché ero infuriato o forse perché
preoccupato, fatto sta che non mi ero
accorto che il Preside stava
controllando la pavimentazione del
cortile; anzi non lo avevo proprio
visto. Avevo già superato la fontana
quando alle spalle:
- Unni va furrianno, Vossia?
“Vossia”, in Sicilia, si usa nei
riguardi di persone importanti e
comunque sempre in segno di rispetto. Si
usa però anche per un feroce “sfottò”.
Credo che nessuno abbia dubbi sulla
scelta tra i due significati che il
Preside fece, rivolgendosi a me. Con una
calma, non certo in linea con il mio
carattere, spiegai l’accaduto e la
decisione che, mio malgrado, avevo
dovuto prendere. Ebbi la sensazione (o
la presunzione?) che approvasse il mio
comportamento ma, subito dopo, entrando
nei panni che il ruolo gli imponeva,
sibilò:
- Ritorni immediatamente in classe! -
e poi tra i denti … -n’atra
fissiria como chista e ti ietto fora per
reci anni.
Fu cosa saggia seguire il “consiglio” e,
nel risalire la scalinata, vidi con la
coda dell’occhio la faccia compiaciuta
di un bidello che nessuno può
dimenticare. Non credo che avesse
capito, ma senz’altro il tono di voce
del Preside nei miei confronti, lo aveva
fatto gioire: una piccola rivincita
contro le mie “prese in giro”. Niente di
grave: mi limitavo a chiamarlo, come
facevano tutti, “Biancaneve” lui che era
nero ... “che più nero non si può”. Ma
lo si poteva canzonare solo per questo,
perché i suoi panini “tonno e harisa”
erano roba da gran gourmet mentre la
variante con olive nere o sott’aceti
(due piastre extra) era da conferimento
di “cordon bleu”. L’indomani, con
sollievo, vidi che nel registro non era
stata apposta alcuna nota. Non ho mai
saputo se per magnanimità della
professoressa o per il bonario
intervento del Preside. Forse senza il
casuale incontro con il Preside e senza
il suo probabile intervento sulla
professoressa, non avrei avuto, nei
giorni scorsi, la possibilità di
rigirare tra le mani il “pezzo di
carta”, ricordare “gioie e dolori”.
Ma non è necessario rileggere il diploma
per ricordare il temuto “Esame di
Stato”. Tutti gli anni, infatti,
televisioni e giornali danno ampio
risalto a questo appuntamento annuale.
Vengono intervistati alcuni diplomandi e
noto con piacere che, pur essendo
tecnologicamente più evoluti di quanto
lo fossimo noi ed anche molto più
spigliati, manifestano le stesse paure e
le stesse preoccupazioni che avevamo noi
alla vigilia degli esami. Eduardo
diceva sempre che “gli esami non
finiscono mai” ed è senz’altro vero ma è
anche vero che questo esame, l’esame di
Stato, è forse il più importante: chiude
una fase della vita e ne apre un’altra.
Sono lontani gli anni dell’infanzia durante i quali tutto il mondo si
racchiude nella famiglia, dove i
genitori sono molto indulgenti,
perdonano tutto, poche le regole ed i
nonni coccolano.
Poi, al compimento dei fatidici cinque o
sei anni, arriva l’età della scuola.
Si inizia ad obbedire a terzi, ad essere
soggetti ad orari, a tenere un contegno,
a vivere in contatto con altri con le
relative conseguenze positive e
negative. Poi iniziano gli studi più
impegnativi e si arriva al dunque:
all’esame più importante. Passarlo vuol
dire entrare nella società: da passivo
ad elemento attivo. L’emozione del primo
stipendio, l’indipendenza economica e
l’addio alla paghetta che ... non
bastava mai.
Qualche giorno prima della fine della
“quinta” ci fu la tradizionale cena con
i professori (il nostro era l’ultimo
anno del vecchio ciclo di 5 anni e, con
noi, c’era già la prima “quarta” del
nuovo ciclo che si presentava anch’essa
agli esami. Un solo anno d’età ci
separava da loro ma li ritenevamo
“ragazzini”). Ricordo le manovre per
assicurarsi un posto a tavola vicino
alle compagne più carine o ai compagni
“più casciaristi” e poi soprattutto, gli
inviti alla calma dei professori. -
Cercate di ripassare per bene
tutto prima degli esami - ci
dicevano e poi continuavano
rassicurandoci che i temuti Commissari
che sarebbero venuti dall’Italia non
erano certo degli orchi, che la
Commissione avrebbe tenuto conto
dell’andamento complessivo degli ultimi
anni, e che, d’accordo, sarebbe
intervenuta la Commissione cosiddetta
esterna ma, in fase di giudizio finale,
ci sarebbero stati anche loro. -E
soprattutto ragazzi ricordatevi
che dopo aver ben ripassato ... la notte
prima ... cercate di fare una bella
dormita” ...
Parole sagge! Nulla di meglio del sonno
ristoratore ma raccomandazione inutile
... impossibile dormire!
Avevo studiato, ero preparato
abbastanza. Ciononostante avevo una
“fifa blu”. Altro che dormire! Tutte le
notti avevo gli incubi: sognavo di
arrivare in ritardo, di sbagliare
giorno, di fare scena muta o di
rispondere alle domande con strane
risposte. Purtroppo questi incubi sono
durati per anni ed anni, ma
dopo svegliandomi di soprassalto, potevo
dire a me stesso: - Ma io mi sono
diplomato tanti anni fa! - e riprendere
sonno.
Quello che anche mi preoccupava era
l’imponderabile, l’imprevisto ed il
pizzico di fortuna sempre necessario.
Pensavo a quel calciatore che
contribuisce con merito a far raggiungere la
finalissima alla sua squadra e che il
giorno appunto della finalissima, un
banale stiramento nella fase di
riscaldamento, gli impedisce di scendere
in campo e quindi dare l'addio ai sogni di
gloria. Subentra, così, il famoso
pizzico di fortuna che favorisce il suo
“secondo” altrimenti destinato alla
panchina.
Siccome piove sempre sul bagnato, ci era
stato annunciato, a suo tempo, che
materia di esame, giustamente in
rispetto al Paese ospitante, sarebbe
stata anche la Lingua Araba con prova di
scritto e orale. Soltanto un mese prima
ci dissero che la versione sarebbe stata
dall’arabo e non viceversa. Chi ha avuto
a che fare con traduzioni di greco,
latino o qualsiasi altra lingua, anche
moderna, comprende la sostanziale
differenza tra il tradurre dall’italiano
alla lingua straniera, o da quest’ultima
nella lingua madre. Ogni lingua ha la
sua costruzione, i suoi modi di dire per
cui capirne il significato e
trascriverlo nella propria lingua, è
senz’altro più facile.
Ed ecco che intervenne il citato
“pizzico di fortuna” sempre necessario,
nella vita. Il testo della versione
dall’arabo era una storiella che io
conoscevo già ...
“Una famiglia di nomadi non era riuscita
a spostarsi insieme ad altri e li
avrebbe raggiunti qualche giorno dopo.
D’un tratto, mentre la moglie era già
indaffarata alle faccende di casa da un
paio d’ore, il marito Alì fu svegliato
da un gran fracasso che veniva
dall’esterno della tenda.
- Che sta succedendo! Che cos’è questo
chiasso?
- Torna a dormire, la cabila Taldeitali
e la cabila Taldeiquali, per la solita
storia del territorio, sono venute alle
armi .. ci sono feriti dappertutto,
scimitarre, frecce ... un vero inferno!
- Veramente? Mi alzo e vado subito a
vedere!
- Ma sei pazzo? È pericoloso, tu non
sai cosa sta succedendo fuori! Solo uno
stolto uscirebbe da qui!
- Donna, io non ho mai visto una guerra
e non voglio perdere questa occasione.
Togliti di là e fammi uscire.
- Ma è una cosa che a noi non riguarda e
poi è pericoloso: potrebbero scambiarti
per un nemico!
Alì però non sentì ragione ed uscì. Era
appena uscito dalla tenda che una
freccia lo centrò in piena fronte ed Alì
cadde privo di sensi.
La povera moglie, disperata, si mise a
gridare e dopo alcuni minuti, attirato
dalle sue invocazioni e grida, giunse un
medico.
- Dottore! - disse la moglie - avevo
raccomandato a mio marito di non uscire
... invece ... ed adesso … per carità lo
salvi!
Il dottore esaminò con attenzione la
freccia quindi rivolto alla donna disse:
- Donna, sarà quello che Dio vorrà, ma
tu devi farti coraggio! Ora io estraggo
la freccia dalla fronte di tuo marito:
se uscirà solo sangue, vuol dire che la
ferita è superficiale e tuo marito in
pochi giorni guarirà ed in futuro sarà
più prudente. Se, invece, beh, sulla
freccia ci saranno tracce di cervello
vuol dire che la freccia ha raggiunto
quest’organo vitale ed allora … credo
che morirà o, nella migliore delle
ipotesi, vivrà, ma sarà menomato per
tutta la vita.
Mentre ambedue lo guardavano con
preoccupazione, Alì, che aveva sentito
tutto, di colpo si alzò e disse:
- Donna, non ti preoccupare, io vivrò,
dottore tolga la freccia e stia
tranquillo: uscirà solo sangue.
- E ... tu come lo sai? - chiese il
dottore, - Sei tu il dottore? O sei
quello scemo che non ha ascoltato la sua
saggia moglie! -.
Sono sicuro - rispose Alì - Non ci
possono essere tracce di cervello
sulla freccia, perché se in questa
mia testaccia ci fosse stato anche
un piccolissimo cervello ... avrei
ascoltato i consigli di mia moglie e
non sarei uscito!
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L'Istituto Tecnico
Commerciale
"G.Marconi"
in una foto degli
anni '50 |
****************
Nel 1963, mi sono sposato e da
allora, molte volte, per non aver
seguito i consigli di Rosetta, ho
mentalmente ricordato le parole del
buon Alì … dottore tolga la
freccia e stia tranquillo …
Quante volte l’avrò ripetuto?
Prendo la calcolatrice?
No ci vuole il computer!
Roberto Longo
(Pubblicato sulla rivista “l’oasi”
n° 2/2001 maggio - agosto 2001)
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