E'
TUTTA QUESTIONE DI PELLE
Capitolo 9
“Come dimenticare”
di
Gabriella Franceschini
Finalmente mi sono iscritta in palestra,
adesso sono “fuori pericolo”… ma, “Stai
sempre attenta al cavo ascellare, è
delicato”, mi consiglia il tecnico di
turno. E’ simpatica, mi riconosce subito, nonostante
mi abbia visto una volta sola,
all’inizio. Mi accoglie con un gran
sorriso e mi dice:
“Ciao bella, aspettavo proprio te,
daje sbrigate che oggi se n’annamo a
casa presto.Ma che bel fisico che c’hai…
hai solo due anni meno di me e sembro tu
madre!”
Ha un marcato accento romanesco e mi fa
sorridere. Mi ricorda tanto Pedro, un
mio caro e vecchio amico di Ostia.
Ostia, il Lido di Roma, sede della mia
adolescenza, un posto che mi è rimasto
nel cuore, il luogo dove ci siamo
trasferiti dopo la “rimpatriata”
dall’Africa, dopo il Campo profughi,
dopo il Collegio… certi ricordi restano
scolpiti nella memoria.
Come dimenticare
le dignitose lacrime versate da me e mia
sorella, allora di soli nove e sette
anni non ancora compiuti, alla notizia,
per noi incomprensibile, di dover
lasciare tutto, così, improvvisamente,
la scuola, gli amici, la casa, la nostra
cameretta, i nostri giocattoli… “No, i
giocattoli no!” “Prendete solo una
bambola per una” disse mamma, con voce
roca e mesta.
Come dimenticare
il volto della mia sorellina, alla
dogana, quando un militare grande e
grosso si avvicina a lei e, con fare sarcastico,
le sussurra: “Ma che bella bambolina che
hai, posso accarezzarla?” Lei, piccola
ingenua, la stringe forte a sé e gli
urla: “Non ti avvicinare, mamma mi ha
detto di non farla toccare a nessuno!”
Spatatrack!
Le fu strappata di mano la sua cara
bambola, alla quale lei parlava,
pettinava, vestiva come fosse una figlia,
e le fu staccata la testa per
controllare se mai avessimo nascosto
qualcosa, lì dentro. Ad alcune donne
facevano anche sciogliere il “tupè”, una
capigliatura assai in voga negli anni
Settanta, ma questo, è un ricordo
divertente. Io sono stata più furba. Approfittando
della mia agilità e scaltrezza,
stringendo al petto la mia bambolina preferita,
sono passata sotto la sbarra di ferro
che divideva i confini, dopo quella
sbarra… c’era la libertà, ed io, veloce
come un fulmine, ero già dall’altra
parte. Correvo, correvo e il cuore mi
batteva così forte nel petto, ancora mi
emoziona il ricordo. Ma ce l’abbiamo
fatta. Ero così orgogliosa di me.
Come dimenticare
la nave, la sensazione di “strappo” e
l’immagine stampata di me, tra la mano
di mia madre e quella di mia sorella,
mentre guardiamo, con le lacrime agli
occhi, la nostra Terra natia
allontanarsi sempre di più all’orizzonte,
fino a scomparire.
Come dimenticare
il Campo profughi, su ad Alatri, una
piccola frazione dei Castelli Romani,
sembrava un campo di concentramento. Ci
sono tornata poco tempo fa, dopo
trentasette anni, e lo sembra ancora. Mi
ha lasciato tanta pena ed emozione nel
cuore. Vivevamo in una stanza di circa
venti metri quadrati in quattro, fredda,
nonostante fosse fine estate, dentro un enorme
casermone di pietra con i bagni situati
fuori ad una cinquantina di metri di
distanza.
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Il
campo profughi di Alatri |
Ma questi erano, più che altro, i
problemi dei grandi. Per noi piccoli,
cugini e cuginette, quello era un grande
“campo da gioco”, correvamo, ci
sbucciavamo immancabilmente le ginocchia,
ci arrampicavamo, raccoglievamo le more
e tornavamo sempre con le mani e le tasche
piene di “pietre preziose” di una
particolare roccia che brilla nelle
montagne di quella zona. Pietre che, puntualmente,
mia madre lanciava via urlando: “Non c’è
posto nemmeno per noi qui dentro, ci
mancavano le pietre!” Ci siamo rimasti
poco lì, qualche mese, troppi secondo
mamma.
E come dimenticare
il mio incontro con Roma… il Collegio,
“La Casa del Fanciullo” o qualcosa del
genere, una specie di ex Orfanotrofio,
che tanto ex non era. Ci ho fatto la
quarta elementare lì. Dal lunedì al
venerdì, lezione a scuola con le “Signorine”
la mattina, sempre dopo aver rifatto i letti
e pulito i bagni (non posso non
ricordare il faccino sperduto di mia
sorella davanti al letto disfatto, che
piange, e mi dice: “Non lo so fare”… ed
io, che mi sbrigo a fare il mio, per
poter poi fare anche il suo, ogni
mattina).
Ore 12.00: Pausa pranzo.
Tutti alla mensa del Refettorio, con
relativa preghierina che le suore ci
imponevano, ogni volta, prima di sederci.
Tutte rigorosamente in divisa blu con
camicia e calzettoni bianchi.
Pomeriggio: Compiti. Poi, ricreazione.
Un vecchio campetto di basket, doveva
essere stato, una volta, ma noi ci
giocavamo a palla e ci piaceva. Era circondato
da una fitta rete di fil di ferro, per
non farci scappare, c’erano tanti
piccoli orfanelli che, ogni tanto, ci
provavano. Un giorno, uno di loro, me
l’ha anche proposta una fuga insieme a
lui. Mi diceva: “Tanto a me che me frega,
io non ce l’ho i genitori!”…
Ma io sì, per fortuna. E gli fui tanto
grata, poiché in quel momento me ne ha
insegnato il valore, suo malgrado.
Il sabato sera era una festa, ci
permettevano di vedere la televisione. A
quell’epoca, credo ci fosse
Canzonissima, c’era anche Raffaella
Carrà… e noi eravamo felici.
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Raffaela Carrà |
Canzonissima 1970 |
Tranne quando mi punivano per non aver mangiato
o per aver buttato il pane della merenda
e mangiato solo la cioccolata… allora ti
toccava, prima sparecchiare i tavoli (ed
erano tanti), sai come in quei film dove
si vedono quelle tavolate lunghe, piene
di ragazzini, chiusi dentro un
orfanotrofio o, se più fortunati,
convento?
Uguale.
Poi, come se non bastasse: “E stasera
niente televisione, dopo cena subito a
letto!”
Gasp gasp, Sgrunt sgrunt.
La “Santa Domenica”: indovinate?
naturalmente tutti a messa. Poi, però,
tutta vita!
Dopo il pranzo, tutti in fila indiana e
giù a camminare fino al laghetto
dell’Eur dove, nei suoi verdi prati, amavamo
ruzzolarci facendo a gara di capriole.
Che bello che era… una bella sensazione,
sul tuo corpo ancora acerbo, di libertà.
A volte, ci portavano anche al Luna Park
e lì era fantastico.
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Il
Laghetto dell 'EUR |
Il
Luna Park |
Ricordi indelebili.
E pè di fine a sti versetti strani, come
disse l’amico Pedro, come non ricordare
la sua “poesia”, scritta alla fine degli
anni Ottanta e dedicatami:
“A un’Amica”
“Tra tutte l’amicizie che ciò io,
c’è una n’sacco strana, n’sacco bella, è
quella che me lega a Gabriella.
Ho detto strana perché, tra la gente,
non è cosa poi c’accade normalmente che
n’omo cò ‘na donna siano amici, è come
servì er dolce cò l’alici.
Perché noantri semo limitati a c….
f….. e annassene pè prati… mentre ‘e
donne , mbè tutt’artra cosa, pè loro
l’amicizia solitamente, vo dì sentisse
si, ma veramente.
Ner gioco della vita è risaputo, c’è
gente con le dita di velluto che dice:
“L’omo e la donna? Semo pari… ma
basta n’colpo d’occhio e n’po’ de fiuto…
pè faie scoprì ‘e carte, tutti bari.
Gni tanto io ci penso a sta
storiella, sì, insomma, a st’amicizia, a
Gabriella.
E’ na ragazza n’gamba, n’sacco
donna, che porta bene pantaloni e gonna.
Vorrebbi dì, pè famme capì mejo, che
è n’gamba e, spesso, a pari condizioni,
rispetto a n’omo, lei c’ha più cojoni.
In senso metaforico, si intende,
l’omo ce l’ha davero, se li sente ma, se
dovessi tojeie ‘e mutanne e aprije li
cojoni veramente… a tanti dentro
n’troveresti gnente!
E pè dì fine a
sti versetti
strani, scritti
n’fretta qua n’cucina,
vojo conclude cò
na frase a rima…
P’esse amico a ‘na
donna ce vo
poco ma, ar tempo
stesso tanto, si
n’te sona che,
prima d’esse donna è
na persona!”
Gabriella Franceschini
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