Un giorno,
quando dopo l’amore
i nostri corpi
adagiati in un languore
dolcissimo
palpitavano ancora
di gioia,
d’improvviso mi chiedesti:
- Mi ami? -
Tacqui assorto.
Mi agghiacciò un
presentimento,
un presagio.
Il silenzio diventava
man a mano più duro.
Cessai d’accarezzarti,
di parlare,
di pensare.
Tu non chiedesti più,
forse per pudore o per
orgoglio.
Intanto, malgrado
cercassi di reagire,
tutto era fermo
dentro e fuori di me.
- Sarebbe bello offrirsi
ancora, immolarsi
sull’altare dell’amore,
soffrire la schiavitù,
provare pietà per se stessi,
ma il mio cuore non sente
più il morso delle catene
del mondo!-
Dissi così tutto d’un fiato,
con rabbia. Mi guardasti con
tristezza.
- Devi aver sofferto molto!
-
dicesti, e il tuo sguardo
divenne intenso, penetrante.
Ti fui grato.
Poi il vento t’arruffò i
capelli,
una rondine sfrecciò
vicina e dolcissima cantò
l’allodola.
Ci levammo d’improvviso
scattati, propulsi da una
gioia compressa,
e ci avviammo annodati
per mano,
saltando cespugli,
sguazzando acquitrini,
piegando le spighe,
rovinando il trifoglio,
ridendo e correndo senza
saper dove
all’impazzata.