1970,
profughi italiani di Libia sbarcano a Napoli. ROMA
– I racconti e le memorie di Daniele
Lembo sui profughi italiani in Libia,
documentano un
rapporto con il nord Africa che
negli ultimi cento anni può
considerarsi strettissimo. Prendo spunto proprio da un articolo che ha
pubblicato Lembo sul suo sito web, il saggista e profondo conoscitore
della
storia del Novecento, nel quale rispolvera quelle che sono le vicende
che hanno
interessato quelle famiglie di origine italiana che si erano stabilite
in Libia
dopo la conquista dell’Impero Ottomano da
parte dell’Italia contro
i turchi nel lontano 1911 e successivamente con l’immigrazione colonica
programmata del 1937. Italo
Balbo, designato governatore della Libia da
Mussolini, visita i coloni italiani a Tripoli
Se
è vero che le radici del
passato ci inducono a comprendere meglio quelle che sono le necessità
dalle
quali filtrare le possibili soluzioni per il futuro, allora è
bene che
questi spunti e questi ricordi (anche drammatici per numerosi italiani
dell’epoca) siano nuovamente un motivo di discussione, soprattutto in
un
momento in cui il flusso migratorio indiscriminato dai paesi africani
come la
Libia verso l’Italia riaccende un dibattito particolarmente critico sul
monitoraggio e sulla difesa dei confini nazionali. Il rapporto fra Italia e Libia è stato tanto stretto quanto conflittuale. Ma la rimozione collettiva della verità storica non può essere esente da conseguenze sulla consapevolezza dell’italiano medio, allergico ai libri di storia. La durata del Ventennio fascista, l’era coloniale, con la conquista della Tripolitania e della Cirenaica avvenuta il 4 ottobre 1911, aveva aperto nuovi scenari geopolitici, che hanno condizionato la storia italiana e di quei popoli africani che hanno condiviso una intesa strategica e solidale per lo sviluppo della prosperità e dello sviluppo economico del Paese. La loro terra coltivata dagli italiani, asfaltata dalle ditte italiane, arricchita dal lavoro degli italiani che con il loro ingegno ed i loro sacrifici avevano permesso ad un gruppo di tribù, schiave sotto gli Ottomani, di diventare un popolo e vivere da persone libere. Il
velivolo Farman, impiegato in Libia nel 1911 come
bombardiere
Esiste dunque un legame con la Libia che nel Dopoguerra si interrompe prima con il Trattato di Pace del 1947 (nel quale fu imposto all’Italia di rinunciare alle colonie) e successivamente nel 1969 quando il dittatore Gheddafi operò una politica di “epurazione”, costringendo molti italiani divenuti ufficialmente cittadini libici (dopo che gli stessi avevano costruito strade, ospedali, porti, strutture alberghiere e ricettive, restaurato antichi siti di interesse storico, strappando al deserto la terra necessaria per colture di ogni tipo) a fare le valigie per tornare in Italia come profughi, con la sola concessione al seguito di qualche baule di cartone con dentro vestiti ed effetti personali. Provenivano dalla Sicilia e dal Veneto, oltre che dalla Calabria, la maggior parte dei coloni che riuscirono a rendere produttive le immense distese desertiche africane con dedizione e sacrificio e in condizioni climatiche spaventose. Mu’ammar
Gheddafi, dopo il golp del 1969.
Insoddisfatto del governo guidato dal re Idris I, giudicato da Gheddafi
e da
altri ufficiali troppo servile nei confronti di Stati Uniti e Francia,
il 26
agosto 1969 si pone alla guida del colpo di Stato organizzato contro il
sovrano
Nel
1970, dopo la rivoluzione
libica e la proclamazione della Repubblica
popolare sociale della
Libia, oltre ventimila italiani residenti
in Libia furono espulsi dal
paese africano, e venne loro confiscato ogni bene, in
piena
violazione con il trattato italo-libico del 1965, nato sulla
base della
risoluzione dell’Onu del 1950 che poneva precise condizioni sul
rispetto dei
diritti e degli interessi delle minoranze residenti in Libia. I primi
furono
gli americani, per lo più militari, che a Tripoli vivevano
nella base
aerea di Wheelus Field. Due
immagini della base area americana alla Mellaha,
periferia di Tripoli, chiamata Wheelus Field Almeno
loro, a differenza della
nutrita comunità italiana che fu lasciata isolata, poterono contare su
organizzati ponti aerei, controllati da apposite portaerei americane,
ancorate
appena fuori dalle acque territoriali, per offrire supporto e sicurezza
logistica ai loro connazionali. A differenza di quanto accade oggi, tutti gli italiani che si imbarcarono da Tripoli destinati a fare ritorno in Patria, furono bloccati dalle autorità militari italiane sulla nave «Sicilia» al largo del Golfo di Napoli, le quali, prima di autorizzare lo sbarco, fecero lunghi ed estenuanti controlli sanitari e amministrativi ai nostri connazionali (già umiliati dall’avvenuta espulsione), secondo un “protocollo di accoglienza” molto diverso rispetto a quello che viene eseguito con estrema disinvoltura nei confronti di profughi e clandestini che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste. Il primo abbraccio ai profughi di casa nostra, lo regalò la generosa cittadinanza napoletana, con un caloroso applauso che accompagnò l’attracco della nave in porto. Coltivazioni
dei coloni italiani in Libia, strappate
alla sabbia del deserto Allora
il Governo italiano stimò
in 200 miliardi di lire il solo valore immobiliare, che superava i 400
milioni
di lire se alla prima stima si aggiungeva anche quella relativa ai
depositi
bancari e alle attività imprenditoriali ed artigianali con relativo
avviamento.
Attualizzati ad una stima fatta nel 2006, l’esproprio ai danni dei
profughi
italiani si aggirava a circa 3 miliardi di euro. Già
in quella occasione lo
Stato italiano si mostrò più una matrigna che una madre affettuosa nei
confronti dei suoi stessi figli ai quali il
colonnello Gheddafi
confiscò tutto quello che avevano, negando loro persino il diritto di
profughi. 1970,
la nave «Sicilia» con i profughi italiani pronti
a sbarcare nel porto di Napoli, mentre la popolazione locale li
festeggia Mai
vi è stato un provvedimento
ad hoc che prevedesse l’adeguato risarcimento per la confisca del 1970.
Inoltre gli aventi diritto hanno beneficiato solo
delle provvidenze previste dalle leggi di indennizzo a favore di tutti
i
cittadini italiani che hanno perso beni all’estero. L’appropriazione
di ogni bene dei
cittadini di origine italiana del 1970 è stata giustificata da Gheddafi
(allora
capo della Libia) come parziale ristoro dei danni derivanti dalla
colonizzazione,
una sorta di acconto sul
preteso saldo che oggi riesce ad ottenere, anche se la distinzione da
parte del
leader libico fra beni confiscati e le responsabilità delle vittime
della
stessa è sempre stata netta. Napoli
1970, i profughi italiani molto provati dopo il
lungo viaggio e le lunghe attese prima dello sbarco nella città
partenopea Tripoli
1991, Stretta di mano fra Andreotti e Gheddafi
dopo la firma su un’intesa sulle armi chimiche Il
Governo italiano da parte sua non ha mai preteso dai libici il rispetto
del Trattato violato ricorrendo
alla prevista
clausola arbitrale (art. 9) né hai mai posto sul tappeto il valore di
quei beni
“restituiti” al popolo libico se non altro per diminuire le pretese del
Colonnello. Nell’accordo Dini-Mountasser del
luglio 1998 che doveva
chiudere tutto il contenzioso non si fa minimamente cenno al valore dei
beni
confiscati agli italiani. 2004,
Gheddafi e Romano Prodi, presidente della
Commissione europea Paradossalmente
risulta dunque assai miope la visione dello Stato italiano
rispetto al suo stesso passato, dal quale sembrerebbe voler prendere le
distanze,
rispetto alle vicende che hanno caratterizzato la politica italiana a
partire
dall’era Giolitti fino al lancio
intimidatorio (contro la base
statunitense del centro Loran) dei
due missili Scud lanciati
nel 1986 dal colonnello Gheddafi sulle coste di Lampedusa. Roma
2009, Berlusconi e Gheddafi. Quella di Roma fu
l’ultima visita in Italia del Colonello libico Una
signora italiana, vissuta per molti anni a Tripoli fino al 21
luglio del 1970, giorno in cui la radio locale
comunicò l’elenco
completo degli italiani che dovevano lasciare la Libia, sostiene che Il
petrolio nascosto sotto le sabbie del Sahara ha portato alle
popolazioni
africane la ricchezza ma non la voglia di civiltà e di progresso. Oggi
molti italiani avvertono la stessa percezione che avevano i nostri
profughi che provenivano dalla Libia e dalla Tunisia, ossia, quella di
una
mancanza di protezione nel loro stesso paese d’origine. Le politiche
antitetiche
rispetto agli interessi della nazione e sempre più convergenti nei
riguardi di
una oligarchia sempre più stringente di politici e affaristi moderni e
dei
banchieri europei e americani, rischia di spezzare il precario
equilibrio
sociale che ancora oggi sopravvive al cospetto delle più grandi
contraddizioni
fra nord e sud del Paese. Gli ultimi governi hanno finito per
accelerare questa
percezione di insicurezza che rischia di compromettere definitivamente
ogni
speranza di rinascita. La
cultura e il genio italiano, che nei secoli ha contribuito a delineare
gli scenari del mondo moderno, è come se avessero perso le loro difese
immunitarie, trasformando l’immagine di un paese che un tempo incarnava
la
bellezza e la salute, in un volto dai tratti appesantiti, ormai spento
e
stanco. Tre
personaggi famosi nati tutti a Tripoli, e figli di
emigrati in Libia, prima dell’obbligo di rimpatrio di Gheddafi nel
1970. Da
sinistra l’attrice Rossana Podestà, Franco Califano e il calciatore
Claudio
Gentile, campione del mondo 1982
La
Libia ai tempi del colonialismo Dati
sulla popolazione – Il
censimento del 21 aprile 1936 aveva dato per la Libia 839.524 ab. (di
cui
772.999 tra Musulmani e Israeliti, 66.525 regnicoli e stranieri). Al 30
giugno
1939 si avevano circa 918.000 ab. (di cui 770.000 Musulmani, 30.000
Israeliti e
118.000 regnicoli e stranieri). Vi era stato un forte aumento di
Italiani per
l’immigrazione soprattutto agricola nei comprensorî di colonizzazione;
ma anche
la popolazione libica aveva avuto un notevole incremento per le
migliorate
condizioni generali e sanitarie del periodo di pace. L’avvaloramento
agrario –
Dal 1937 ha inizio, nella politica italiana di avvaloramento agrario
della
Libia, la fase della colonizzazione contadina ufficiale dell’Ente della
colonizzazione per la Libia per conto dello stato (il cosiddetto piano
dei
ventimila, dal numero dei coloni che dovevano essere annualmente
avviati in
Libia): ma il piano era appena all’inizio dell’esecuzione quando fu
interrotto
dalla guerra. In un censimento effettuato nel 1938 nelle
quattro provincie libiche risultavano in funzione 840
aziende agricole su
una superficie coltivata di 187.749 ettari. L’opera
di avvaloramento continuò
negli anni 1939-40, superando, tra imprese private e colonizzazione
ufficiale,
i 200.000 ettari. Nella Cirenaica erano sorti dieci villaggi, oltre
varie
concessioni e aziende private, con 2755 famiglie (oltre 10.000
componenti).
Sette villaggi costruiti in Tripolitania dall’Ente di colonizzazione
della
Tripolitania presso Misurata, Azizia e Tarhuna e altri nove costruiti
per opera
dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, senza contare le
concessioni
private e quelle dell’Azienda tabacchi italiana al Garian accoglievano
3960
famiglie con 23.919 componenti. Le
provvidenze stabilite per i
metropolitani furono estese nel 1937 anche ai libici. Negli anni
1939-40 furono
inaugurati in Cirenaica i villaggi musulmani di Zahra (Fiorita),
el-Fager
(L’Alba), Chadra (verde), Nahida (Risorta), Gedida (Nuova), Mansura
(Vittoriosa); in Tripolitania furono inaugurati i villaggi di: Maamura
e Naima. La
produzione del grano nei
soli villaggi dell’Ente
della colonizzazione in Cirenaica toccò
nel 1937-38 un massimo
di 94 mila quintali su 10 mila ettari di seminato. Alla stessa epoca in
Cirenaica risultavano messi a dimora 197 mila olivi, 209 mila mandorli,
3.278.000 viti; 177 mila piante fruttifere varie e 97 mila piante
forestali. In Tripolitania fino
al 1940 erano stati piantati quasi 2 milioni di olivi, 1 milione e
mezzo di
mandorli, oltre mezzo milione di piante da frutto varie e trenta
milioni di
viti, considerate come coltura transitoria di primo rendimento.
L’entità di
queste cifre, che rappresentano lo sforzo di avvaloramento agrario del
1929-40,
deve esser valutata considerando il fatto che esse
corrispondono a
quattro-cinque volte il numero degli olivi e alberi da frutta posseduti
dalla
Libia nel 1911. Una fitta rete stradale alberata, boschi,
piante
frangivento avevano trasformato vaste contrade già abbandonate alla
saltuaria
coltura dei nomadi. Massimo
Manfregola |